le parti soppresse nella versione pubblicata da Le Monde sono state evidenziate in rosso
Un mondo che muore in
un mondo che cambia
e viceversa
Da Hong Kong alla Francia, dal Brasile agli Stati Uniti, dal
Rojava al Chiapas, l’umano e il disumano si manifestano sempre più diversi,
sempre più opposti, sempre più inconciliabili. L’Italia mi sembra invece sedata
da una commedia politica secolare che non ha più niente dell’arte. Disfatta l’Italia
si finiscono di disfare gli italiani, definitivamente “ignari di Mazzini e Garibaldi” (vecchio detto genovese).
Nell’attesa che il popolo del pesto sfugga alla peste cercando
un’uscita dall'’avanspettacolo di una politica ormai demenziale, popolata da
maschere di una volgarità e di un’idiozia sconcertante, vi ho tradotto dal vivo
questa intervista uscita su Le Monde
che mi sembra interessante per tutti i sopravvissuti.
Sergio Ghirardi
Intervista a Raoul
Vaneigem
realizzata a opera di
Nicolas Truong e pubblicata su Le Monde
del 31 agosto 2019
Qual è la natura della
mutazione – o del crollo – in corso? In che senso la fine di un mondo non è la
fine del mondo, ma l’inizio di uno nuovo? Qual è questa civiltà che Lei vede
timidamente spuntare tra le rovine della vecchia?
Per quanto abbia
fallito nel mettere in atto il progetto di un’autogestione della vita
quotidiana, il Movimento delle occupazioni, che fu la tendenza più radicale del
maggio 1968, ha potuto comunque rivendicare una riuscita di considerevole
importanza. Aveva suscitato una presa di coscienza che ha segnato un punto di
non ritorno nella storia dell’umanità. La denuncia compatta del Welfare State [Lo Stato provvidenza] – lo stato del benessere consumistico,
della felicità venduta a rate – aveva
inferto un colpo mortale a virtù e a comportamenti imposti da millenni che
erano considerati delle verità incontrovertibili: il potere gerarchico, il
rispetto dell’autorità, il patriarcato, la paura e il disprezzo della donna e
della natura, la venerazione dell’esercito, l’obbedienza religiosa e
ideologica, la concorrenza, la competizione, la predazione, il sacrificio, la
necessità del lavoro.
È emersa allora l’idea che la vita
vera non poteva essere confusa con una sopravvivenza che riduce la sorte della
donna e dell’uomo a quella di una bestia da soma e da preda. Si è creduto che questa
radicalità fosse scomparsa, spazzata via dalle rivalità interne, dalle lotte di
potere, dal settarismo contestatore; la si è vista soffocata dal governo e dal
Partito Comunista il cui atteggiamento reazionario durante il maggio 68 fu la
sua ultima vittoria di Pirro. In effetti, quella radicalità fu soprattutto
divorata dalla formidabile ondata di un consumismo trionfante, lo stesso che è oggi
rinsecchito, lentamente ma certamente, dall’impoverimento crescente.
Eppure, nonostante il recupero e il lungo soffocamento di questo
movimento di emancipazione, qualcosa stava accadendo?
Ci si era dimenticati
che l’incitamento forsennato a consumare portava in sé la dissacrazione dei
valori antichi. La liberazione fittizia incoraggiata dall’edonismo da
supermercato, propagava un’abbondanza e una varietà di scelta che avevano un
solo inconveniente: quello di dover essere pagate all’uscita. Ne è scaturito un
modello di democrazia in cui le ideologie sfumavano a vantaggio di candidati la
cui campagna promozionale era condotta secondo le tecniche pubblicitarie più
efficaci. Il clientelismo e il fascino morboso del potere hanno portato a
termine la rovina di un pensiero di cui l’ultimo governo francese in ordine di data
non teme di esibire l’incredibile degrado (per non parlare di quello italiano – NdT).
Cinque decenni hanno fatto dimenticare che sotto la coscienza
proletaria, polverizzata dal consumismo, si manifestava una coscienza umana il
cui lungo assopimento non ne ha impedito l’improvviso risorgere. La civiltà
mercantile non è ormai che il ticchettio di una macchina che fa a pezzi il
mondo per sminuzzarlo in profitti borsistici. Tutto s’inceppa dall'’alto. Quel
che nasce dal basso e prende la sua sostanza nel corpo sociale, è un senso
dell’umanità, una priorità dell’essere. Orbene, l’essere non ha il suo posto
nella bolla dell’avere, tra i meccanismi della mondializzazione affarista. Che
la vita dell’essere umano e lo sviluppo della sua coscienza affermino ormai la
loro priorità nell’insurrezione in corso, è quanto mi autorizza a evocare lo
sbocciare di una civiltà in cui per la prima volta la facoltà creatrice
inerente alla nostra specie andrà liberandosi della tutela oppressiva degli Dei
e dei signori.
Dal 1967 Lei non cessa
di descrivere l’agonia della civiltà mercantile. Eppure essa perdura e si
sviluppa ogni giorno di più all’epoca del capitalismo finanziario e digitale.
Non si trova prigioniero di una visione progressista (o teleologica) della
storia che Lei condivide con il neoliberalismo pur combattendolo?
Non so che farmene
delle etichette, delle categorie e altri cassetti di stoccaggio dello
spettacolo. L’inconveniente di un sistema che s’inceppa è che il suo cattivo
funzionamento può durare a lungo. Parecchi economisti urlano come aquile
nell’attesa di un crac finanziario ineluttabile. Catastrofismo o no,
l’implosione della bolla monetaria è nell’ordine delle cose.
L’effetto auspicabile
di un capitalismo che continua a gonfiarsi fino a scoppiare è che, come un
governo che in nome della Francia, reprime, condanna, mutila, acceca e
impoverisce il popolo francese, incita quelli che stanno in basso a difendere, innanzitutto,
la loro vita quotidiana. Stimola la solidarietà locale, incoraggia a rispondere
con la disobbedienza civile e con l’autorganizzazione a chi rende redditizia la
miseria; invita a riprendere in mano la res
publica, la cosa pubblica rovinata ogni giorno di più dalla truffa delle
potenze finanziarie. Che gli intellettuali dibattano sui concetti di moda nelle
tristi arene dell’egotismo, è un loro diritto.
Mi si permetterà di interessarmi
piuttosto alla creatività che sta reinventando nei villaggi, nei quartieri,
nelle città, nelle regioni, l’insegnamento rovinato dalla chiusura delle scuole
e dall’educazione concentrazionaria; all’inventiva che si sta preoccupando del
restauro dei trasporti pubblici; di scoprire nuove sorgenti di energia
gratuita; di propagare la permacultura rivitalizzando le terre avvelenate dall’industria
agroalimentare; di promuovere l’orticultura e un cibo sano; di festeggiare
l’aiuto reciproco e la gioia solidale. La democrazia è nelle piazze non nelle
urne.
Parlare di
“totalitarismo democratico” o di “cupidigia concentrazionaria” a proposito del
nostro mondo è una maniera adeguata di descrivere la realtà oppure è una inclinazione
rivoluzionaria esagerata?
Denunciare gli
oppressori e i manipolatori non mi pare più necessario, tanto la menzogna è
diventata evidente. Il primo venuto dispone di quella che potremmo chiamare la
“scala di Trump” per misurare il livello di deficienza mentale dei
falsificatori, senza ricorrere al giudizio morale. Tuttavia non è questo
l’importante. Ci sono voluti anni di spappolamento cerebrale perché Goebbels
potesse stimare che “più una menzogna è grossa, meglio è creduta”. Chi ha oggi
sotto gli occhi lo stato del settore ospedaliero e nelle orecchie le promesse
di miglioramenti ministeriali non ha alcuna difficoltà a capire che trattare il
popolo come una massa d’imbecilli non fa che sottolineare il guasto
psicopatologico della gente di potere.
Non ho altra possibilità
che scommettere sulla vita. Voglio credere che esista sotto il ruolo e la
funzione di poliziotto, di giudice, di procuratore, di giornalista, di
politico, di manipolatore, di tribuno, di esperto in sovversione, un essere
umano che sopporta sempre meno l’assenza di autenticità vissuta alla quale
condanna l’alienazione della menzogna lucrativa.
La preoccupazione di spingere alla rivoluzione, la ricerca di
un plus-valore, non mi riguardano. Non sono né capo, né gestore di un gruppo,
né guru, né maître à penser. Semino le mie idee senza
preoccuparmi del suolo fertile o sterile in cui capiteranno. Nel caso specifico
ho semplicemente modo di compiacermi dell’apparizione di un movimento che non è
populista – come vorrebbero i fautori di un caos propizio agli intrighi – ed è invece
un movimento popolare che fin dall'’inizio ha decretato il rifiuto dei capi e
dei rappresentanti autoproclamati. Ecco quel che mi rassicura e mi conforta
nella convinzione che la mia felicità personale è inseparabile da quella di
tutte e di tutti.
Perché si è instaurato
un faccia a faccia tra “gauchismo paramilitare” e “orde poliziesche”, in particolare
dopo le manifestazioni contro la legge sul lavoro (La Loi travail dell’otto
agosto 2016 – NdT)? E come uscirne?
I tecnocrati si ostinano con un tale cinismo a tormentare il
popolo come una bestia presa in trappola dalla loro arrogante impotenza, che
c’è da stupirsi della moderazione di cui fa prova la collera popolare. Il Black
Bloc è l’espressione di una collera che la repressione poliziesca ha il compito
d’istigare. È una collera cieca della quale i meccanismi del profitto mondiale
hanno facilmente ragione. Fare a pezzi dei simboli non vuol dire fare a pezzi
il sistema. Peggio che una stupidaggine è uno sfogo frettoloso,
insoddisfacente, frustrante, è la deviazione di un’energia che sarebbe più
utile nell’indispensabile costruzione di Comuni autogestite. Non sono solidale
con alcun movimento paramilitare e auspico che il movimento dei Gilet gialli in
particolare e della sovversione popolare in generale non si faccia prendere da
una collera cieca nella quale s’insabbierebbero la generosità del vivente e la
sua coscienza umana. Punto sull’espansione del diritto alla felicità, su un
“pacifismo insurrezionale” che farebbe della vita un’arma assoluta, un’arma che
non uccide.
Il movimento dei Gilet gialli
è un movimento rivoluzionario o reazionario?
Il movimento dei Gilet gialli è soltanto l’epifenomeno di uno
sconvolgimento sociale che ratifica la rovina della civiltà mercantile. È solo
l’inizio e avviene ancora sotto lo sguardo inebetito degli intellettuali,
questi resti di una cultura sclerotizzata che hanno tenuto tanto a lungo il
ruolo di guide del popolo e non riescono a capacitarsi di essere messi da parte
di punto in bianco. Ebbene il popolo ha deciso di non avere altra guida che se
stesso. Brancolerà, balbetterà, sbaglierà, cadrà, si rialzerà ma ha in lui
quella luce del passato, quell’aspirazione a una vita vera e a un mondo
migliore che i movimenti di emancipazione, un tempo repressi, saccheggiati,
schiacciati hanno affidato, nel loro slancio spezzato, al nostro presente per
riprenderli alla fonte e completarne il corso.
La sua concezione
dell’insurrezione è contemporaneamente radicale (rifiuto di dialogare con lo
Stato, giustificazione del sabotaggio, ecc.) e misurata (rifiuto della lotta
armata, della collera ridotta alla distruzione, ecc.). Quali sono i limiti
della collera insurrezionale? Qual è la sua etica dell’insurrezione?
Dopo la fiammata del maggio 68, non vedo altre insurrezioni
se non l’apparizione del movimento zapatista in Chiapas, l’emergenza di una
società comunalista nel Rojava, ma anche, in un contesto molto diverso, la
nascita e la moltiplicazione di ZAD, zone da difendere in cui la resistenza di
una regione all’instaurarsi di nocività ha creato una solidarietà del “vivere
insieme”. Ignoro che cosa significhi un’etica dell’insurrezione. Ci troviamo di fronte semplicemente ad esperienze piene
di gioie e di furori, di sviluppi e di regressioni. Tra gli
interrogativi che emergono, due mi sembrano indispensabili. Come impedire
l’imperversare di paramilitari statalisti che devastano i luoghi di vita in cui
la gratuità non ha accordi possibili con il principio di profitto? Come evitare
che una società che sostiene l’autonomia individuale e collettiva permetta il
ricostituirsi nel suo seno della vecchia opposizione tra la gente di potere e
una base troppo poco fiduciosa nelle sue potenzialità creatrici?
Né patriarcato né
matriarcato, Lei dice. Perché bisogna andare oltre il virilismo e il
femminismo? E che cosa intende per l’instaurazione della “preminenza acratica
della donna”?
La trappola del dualismo è che impedisce il superamento. Non
ho lottato contro il patriarcato affinché gli succeda un matriarcato che è la
stessa cosa a rovescio. C’è del maschile nella donna e del femminile nell’uomo,
ecco una gamma abbastanza vasta perché la libertà del desiderio amoroso inventi
le sue varietà a piacere. Quel che mi appassiona nella donna e nell’uomo è
l’essere umano. Non mi si farà ammettere che l’emancipazione della donna
consiste nell’accedere a quel che ha reso il maschio tanto spesso
disprezzabile: il potere, l’autorità, la crudeltà guerriera e predatrice. Una
donna ministro, capo di Stato, poliziotto, affarista non è meglio del maschio
che l’ha considerata meno di niente. Per contro, sarebbe ora di rendersi conto
che esiste una relazione tra l’oppressione della donna e quella della natura.
Entrambe appaiono al momento del passaggio dalle civiltà preagrarie alla
civiltà agro mercantile delle Città-Stato. Mi è parso che la società che si abbozza
adesso debba, in virtù di una nuova alleanza con la natura, marcare la fine
dell’antiphysis (dell’antinatura) e
conseguentemente riconoscere alla donna la preminenza acratica – cioè priva di
potere – di cui essa godeva prima dell’instaurazione del patriarcato. Ho preso
il termine dalla corrente libertaria spagnola degli acrates.
(In
questa intervista scritta che Raoul Vaneigem ha concesso al giornale Le Monde
(pubblicata il 31/8/2019) la questione seguente è stata eliminata così come
l’integralità della risposta senza informarne l’autore.)
Perché Lei
considera che l’intellettuale sia “un poeta che si rinnega” e giudica vane le
controversie intellettuali (dal post strutturalismo al femminismo, dal
survivalismo all’animalismo)?
La poesia è la vita. L’intellettuale si glorifica
di una funzione altrettanto alienante della funzione manuale – entrambe
derivate dal lavoro e dalla sua divisione. Alle prese con il corpo di cui doma
le pulsioni anziché affinarle, è uno spirito le cui idee, per quanto
interessanti possano essere, sono separate dal vivente e da quell’intelligenza
sensibile che emana dalle nostre pulsioni vitali. Le idee “escogitate dalla
testa” nutrono un’intelligenza astratta che non si stacca mai dal potere che
intende esercitare sul corpo e sul corpo sociale.
Lei scrive che “la Comune
revoca il comunitarismo”. Che cosa le permette di pensare che una volta
arrivata l’epoca dell’autogestione della vita, i problemi sociali (rapporto di
dominio di ogni tipo, misoginia, ideologia identitaria, ecc.) saranno risolti?
In che cosa l’emergere di un nuovo stile di vita metterebbe al riparo dall'’egoismo,
dal potere e dai pregiudizi?
Niente è mai acquisito, ma la coscienza umana è un possente
motore di cambiamento. Durante una conversazione con il “sottocomandante
insorto” Moises, nella base zapatista della Realidad, in Chiapas, egli spiegava
che “i Maya sono sempre stati misogini. La donna era un essere inferiore. Per
cambiare questo abbiamo dovuto insistere affinché le donne accettassero di
esercitare un mandato nella giunta di
buon governo in cui sono discusse le decisioni delle assemblee. Oggi la loro
presenza è molto importante, le donne lo sanno, e a nessun uomo verrebbe più
l’idea di trattarle dall'’alto”. Si è sempre identificato il progresso con il
progresso tecnico che da Gilgamesh ai giorni nostri è gigantesco. Tuttavia a
giudicare dal divario tra la popolazione delle prime Città-Stato e i popoli
odierni sottomessi alle leggi del profitto, il progresso della sorte riservata
all’umano è altrettanto incontestabilmente infimo. Forse il tempo è venuto di
esplorare le immense potenzialità della vita per favorire infine il progresso
dell’essere e non dell’avere.
In che cosa lo
zapatismo è uno dei tentativi più riusciti dell’autogestione della vita
quotidiana?
Come dicono gli zapatisti: “Noi non siamo un modello, siamo
un’esperienza”. Il movimento zapatista è nato da una collettività contadina
maya. Non è esportabile ma è possibile trarre lezioni dalla nuova società di
cui tenta di gettare le basi. La democrazia diretta postula l’offerta di mandatari
che appassionati da un dominio particolare propongono di mettere il loro sapere
a disposizione della comunità. Sono delegati, per un tempo limitato, alla giunta di buon governo, dove rendono
conto nelle assemblee dei risultati del loro operato. La messa in comune delle
terre ha avuto ragione dei conflitti, spesso sanguinosi, che coinvolgevano i proprietari di parcelle. Il
divieto della droga dissuade l’intrusione dei narcotrafficanti, le cui atrocità
infieriscono su una gran parte del Messico. Le donne hanno ottenuto il divieto
dell’alcol che rischiava di ravvivare le violenze machiste di cui sono state a
lungo le vittime. L’Università della terra di S. Cristobal dispensa un
insegnamento gratuito dei mestieri più diversi. Nessun diploma è rilasciato. Le
sole esigenze sono il desiderio di apprendere e la voglia di propagare ovunque
il proprio sapere. C’è in questo una semplicità capace di sradicare la
complessità burocratica e la retorica astratta che ci strappano a noi stessi durante
tutta l’esistenza. La coscienza umana è un’esperienza in corso.
(In
questa intervista scritta che Raoul Vaneigem ha concesso al giornale Le Monde
(pubblicata il 31/8/2019) la questione seguente è stata eliminata così come
l’integralità della risposta senza informarne l’autore.)
È possibile
uscire dalla spirale della violenza?
Bisogna
porre la questione al governo ricordandogli il proposito di Blanqui:” Sì
signori, è la guerra tra ricchi e poveri, i ricchi hanno voluto così e sono
loro, in effetti, gli aggressori. Solamente considerano un’azione nefasta che i
poveri oppongano una resistenza. Direbbero volentieri, parlando del popolo:
questo animale è così feroce che si difende quando è attaccato”. Il progetto di
Blanqui, che sostiene la lotta armata contro gli sfruttatori, merita di essere
esaminato alla luce dell’evoluzione congiunta del capitalismo e del movimento
operaio che lottava per annientarlo.
La coscienza proletaria che aspirava a fondare una
società senza classi è stata una forma transitoria con cui la storia ha
rivestito la coscienza umana in un’epoca in cui il settore della produzione non
aveva ancora ceduto il posto alla colonizzazione consumistica. È questa
coscienza umana che risorge oggi nell’insurrezione di cui i Gilet gialli non
sono che un segno precursore. Assistiamo all’emergenza di un pacifismo
insurrezionale che con la sola arma di un’irreprimibile volontà di vivere, si oppone
alla violenza distruttrice del governo. Perché lo Stato non può e non vuole
intendere le rivendicazioni di un popolo cui è stato gradualmente strappato
quel che costituiva il suo bene pubblico, la sua res publica.
In tutta
evidenza, la dignità umana e la determinazione testarda degli insorti
risparmiano precisamente agli impostori della repubblica un’ondata di violenza
che li colpirebbe fisicamente fin nei loro ghetti di denaro sporco. Per colmo
dell’assurdo, essi non trovano niente di meglio da fare che prendere di mira un
movimento che evita loro un giusto ritorno al mittente delle loro violenze.
Eccitano i loro cani da guardia mediatici e polizieschi. Accecano,
imprigionano, assassinano impunemente. Moltiplicano le provocazioni esibendo
agli occhi dei più poveri i loro segni esteriori e risibili di ricchezza. La
loro preoccupazione di recuperare, se non d’incoraggiare in modo oculato, i
devastatori di spazzatura e di vetrine non è forse la prova che hanno bisogno
non di una vera guerra civile ma del suo spettacolo, della sua messa in scena?
Come ognuno sa, il caos è propizio agli affari.
I dirigenti
non hanno altro sostegno che il profitto la cui disumanità li logora. Hanno come
sola intelligenza il denaro che ne ha occupato il posto. Sono la barbarie di
cui gli insorti non smetteranno di annullare la legittimità usurpata.
Privilegiare l’essere umano, organizzarsi senza
capi né delegati autoproclamati, assicurare la preminenza dell’individuo
cosciente sull’individualista belante del gregge populista, ecco, per
l’insurrezione in corso e per le popolazioni del globo, le migliori garanzie
del crollo del sistema oppressivo e della sua violenza distruttrice.
Il clima si surriscalda,
la biodiversità si erode e l’Amazzonia brucia. La lotta contro la devastazione
della natura che mobilita una larga parte della popolazione mondiale e della
sua gioventù può essere una delle leve di quella “insurrezione pacifista” che
Lei sostiene?
L’incendio della
foresta amazzonica fa parte del vasto programma di desertificazione che la
rapacità capitalista impone agli Stati del mondo intero. È per lo meno ridicolo
indirizzare delle lamentele agli Stati che non esitano a devastare i loro
territori nazionali in nome della priorità accordata al profitto. In ogni dove
i governi deforestano, soffocano gli oceani riempiendoli di plastica,
avvelenano deliberatamente il cibo. Gas di scisto, estrazioni petrolifere e
aurifere, interramento di scorie nucleari sono solo un dettaglio a riguardo del
degrado climatico accelerato quotidianamente dalla produzione di nocività da
parte d’imprese vicine a noi, a portata di mano del popolo che ne è vittima.
I governi obbediscono
alle leggi di Monsanto e accusano d’illegalità un sindaco che vieta i pesticidi
sul suo territorio comunale. Lo si accusa di proteggere la salute degli
abitanti. Ecco dove si situa la lotta, alla base della società, là dove la
volontà di una vita migliore scaturisce dalla precarietà delle esistenze.
In questa lotta il
pacifismo non ha spazio. Voglio eliminare ogni ambiguità. Il pacifismo rischia
di essere soltanto una pacificazione, un umanesimo che spinge al ritorno alla
cuccia dei rassegnati. Del resto niente è meno pacifico di un’insurrezione, ma
niente è più odioso delle guerre condotte dal gauchismo paramilitare i cui capi
si dedicano a imporre il potere su un popolo che si vantano di liberare.
Pacifismo sacrificale
e intervento armato sono i due poli di una contraddizione da superare. La
coscienza umana avrà progredito in maniera sensibile quando i sostenitori del
pacifismo belante avranno capito di concedere allo Stato il diritto di manganellare
e di mentire ogni volta che si prestano al rituale delle elezioni scegliendo,
secondo le libertà della democrazia totalitaria, dei rappresentanti che non
rappresentano che se stessi, ogni volta che avallano per plebiscito degli
interessi pubblici che diventeranno degli interessi privati.
Quanto ai sostenitori
di una collera vendicativa, possiamo sperare che stanchi dei giochi di ruoli
messi in scena dai mass media, imparino e s’impegnino a portare la stoccata
laddove i colpi toccano veramente il sistema: il profitto, la redditività, il
portafoglio. Propagare la gratuità è l’aspirazione più naturale della vita e
della coscienza umana di cui essa ci ha accordato il privilegio. L’aiuto
reciproco e la solidarietà festiva di cui fa mostra l’insurrezione della vita
quotidiana sono un’arma di cui nessun’arma letale verrà a capo.
Non distruggere mai un
essere umano e non smettere mai di distruggere quel che lo disumanizza.
Annientare quel che pretende di farci pagare
il diritto imprescrittibile alla felicità.
Utopia? Girate la
questione come vi pare. Non abbiamo altra possibilità se non osare
l’impossibile o strisciare come larve sotto il tallone di ferro che ci
schiaccia.
Biarritz G7 |