Affascinante Rio Napo,
uno dei tanti affluenti del fiume maestoso che dà il nome alla regione
amazzonica prima di sfociare a Belém dopo aver attraversato tutto il Brasile. Mi
trovavo all’inizio della foresta i cui fiumi attraversano l’America latina da
ovest a est, dal Rio Napo fino al Rio delle Amazzoni, laddove la storica resistenza
delle comunità Shuar[1] ci ricorda che una rivolta
di fronte al sopruso è pur sempre possibile. Quella notte, a El Coca[2], mentre io dormivo
incosciente e tranquillo tra le braccia di Stella, la mia compagna di viaggio, le
frecce degli Aucas[3]
scagliate nella notte contro le pareti delle case in legno dei civilizzatori (che
stavano appunto eliminando gli Aucas in quanto “selvaggi”) risaltavano come un
urlo di rabbia impotente di fronte al sopruso assoluto. Inutile dire che come
nel Far-west mi sono sentito assolutamente dalla parte degli indiani.
Le frecce di quelle ultime
decine di “selvaggi” la cui biosfera di sopravvivenza era distrutta dal “progresso”
– rappresentato dai distruttori di foreste, prezzolati per abbattere gli alberi
e trovare il petrolio abbondante nella zona – mi erano già sembrate, in quei
tempi ormai lontani, delle freccette innocue sul bersaglio affisso in un pub di
Londra dove la birra scorre a fiumi. Almeno così le ho vissute con dolorosa
tristezza quando ho attraversato in piroga l’Oriente ecuadoriano che da Puerto Misahuallí porta a S. Francisco de Orellana.
In quell’ormai lontano
1978, quei dardi primitivi, inconsistenti quanto rispettabili, non erano in
realtà diversi dagli attuali belati ecologisti nell’infausto ventennio iniziale
del ventunesimo secolo, ciclo che sta finendo tra i sorrisi idioti e le smorfie
mostruose dei nuovi gerarchi del vecchio fascismo di ritorno.
Perché i Bolsonaro e i
Trump, come il più ridicolmente provincialotto Salvini, sono solo dei mostri
programmati per lasciare lavorare tranquilli i burocrati, i banchieri e i loro
maggiordomi servili di cui Macron è un simbolo disinfettato e lucidato. Sono
questi ultimi che realizzeranno gli obiettivi inconfessabili, ma sempre più
evidenti, del capitalismo in fase terminale. Il loro lavoro consiste infatti
nel far finta di porre un limite, se non di opporsi, all’idiozia letale dei
mostri di regime prodotti da una democrazia corrotta, fondata
sull’analfabetismo politico delle masse, come ogni fascismo strutturale – al di
là delle apparenze, cioè dello spettacolo.
Scegliete dunque, cittadini
addomesticati, tra i mostri vomitanti e i servitori educati al galateo
democraticista che criticano le urla becere per farne passare in sordina, con
le buone maniere (ma mica sempre), gli effetti indesiderabili. Dittatura esplicita
o democrazia rappresentativa sono le due facce di una stessa medaglia
produttivista che altera definitivamente la natura e la vita che la anima,
distruggendo gli equilibri biologici necessari alle forme di vita di cui
l’umano fa parte.
Con l’antropocene il
mondo della natura umana è stato forse separato definitivamente dalla natura
globale, dal suo funzionamento orgastico e dalle possibilità di umanizzazione della
natura all’interno del processo vitale complessivo. Nella fase terminale del capitalismo,
il lavoro morto, ormai al parossismo della valorizzazione economica, non sopporta
assolutamente più quello vivo perché ormai la vita e il lavoro dei morti
viventi sono incompatibili: l’una è attività gioiosa e sensuale, spesso
faticosa ma che non conosce la noia, l’altro è schiavitù umiliante e assassina
che impone lo sfruttamento e l’alienazione e non conosce altro piacere che il
consumo degli esseri e delle cose.
Rispetto alla vita vera poco
importa se, come un tempo, il signore dispotico del tuo corpo di schiavo può
ucciderti con un colpo di spada o di fucile, per capriccio, per esempio o
opportunità, oppure se, come ora, il sistema produttivista padrone del tuo
tempo di vita, trattandoti da concittadino che vota ed è libero di scegliere la
merce preferita, ti fa morire lentamente fin dalla nascita, producendo, tra
inquinamento e catastrofi climatiche e sociali, un avvizzimento mortifero del
piacere di vivere ridotto a sopravvivenza precaria. Altro che aumento della
speranza di vita!
Svegliandomi nel povero
hotel di El Coca, una quarantina di anni fa, ho sentito già allora, prepotente,
l’angoscia di una specie in pericolo, mentre gli ultimi indios di un genocidio
plurisecolare si aggiungevano agli innumerevoli “selvaggi”– barbari senza
culottes né gilet – finiti nella fossa comune in cui giacciono le vittime di
una civiltà criminale ormai planetaria.
Sergio Ghirardi
(il Sauvageon), 20 settembre 2019
[1] Chiamati a torto Jivaros, parola che nella lingua di quei
fieri tagliatori di teste (le ben note tsantsas)
significa “nemici, selvaggi”.
[3] Il cui nome è piuttosto Huaonoris perché, non a caso, anche Aucas significa “selvaggi” (in quechua).