venerdì 20 settembre 2019

Ricordi attuali di un vecchio viaggio nell’America del sud






Affascinante Rio Napo, uno dei tanti affluenti del fiume maestoso che dà il nome alla regione amazzonica prima di sfociare a Belém dopo aver attraversato tutto il Brasile. Mi trovavo all’inizio della foresta i cui fiumi attraversano l’America latina da ovest a est, dal Rio Napo fino al Rio delle Amazzoni, laddove la storica resistenza delle comunità Shuar[1] ci ricorda che una rivolta di fronte al sopruso è pur sempre possibile. Quella notte, a El Coca[2], mentre io dormivo incosciente e tranquillo tra le braccia di Stella, la mia compagna di viaggio, le frecce degli Aucas[3] scagliate nella notte contro le pareti delle case in legno dei civilizzatori (che stavano appunto eliminando gli Aucas in quanto “selvaggi”) risaltavano come un urlo di rabbia impotente di fronte al sopruso assoluto. Inutile dire che come nel Far-west mi sono sentito assolutamente dalla parte degli indiani.
Le frecce di quelle ultime decine di “selvaggi” la cui biosfera di sopravvivenza era distrutta dal “progresso” – rappresentato dai distruttori di foreste, prezzolati per abbattere gli alberi e trovare il petrolio abbondante nella zona – mi erano già sembrate, in quei tempi ormai lontani, delle freccette innocue sul bersaglio affisso in un pub di Londra dove la birra scorre a fiumi. Almeno così le ho vissute con dolorosa tristezza quando ho attraversato in piroga l’Oriente ecuadoriano che da Puerto Misahuallí  porta a S. Francisco de Orellana.
In quell’ormai lontano 1978, quei dardi primitivi, inconsistenti quanto rispettabili, non erano in realtà diversi dagli attuali belati ecologisti nell’infausto ventennio iniziale del ventunesimo secolo, ciclo che sta finendo tra i sorrisi idioti e le smorfie mostruose dei nuovi gerarchi del vecchio fascismo di ritorno.
Perché i Bolsonaro e i Trump, come il più ridicolmente provincialotto Salvini, sono solo dei mostri programmati per lasciare lavorare tranquilli i burocrati, i banchieri e i loro maggiordomi servili di cui Macron è un simbolo disinfettato e lucidato. Sono questi ultimi che realizzeranno gli obiettivi inconfessabili, ma sempre più evidenti, del capitalismo in fase terminale. Il loro lavoro consiste infatti nel far finta di porre un limite, se non di opporsi, all’idiozia letale dei mostri di regime prodotti da una democrazia corrotta, fondata sull’analfabetismo politico delle masse, come ogni fascismo strutturale – al di là delle apparenze, cioè dello spettacolo.


Scegliete dunque, cittadini addomesticati, tra i mostri vomitanti e i servitori educati al galateo democraticista che criticano le urla becere per farne passare in sordina, con le buone maniere (ma mica sempre), gli effetti indesiderabili. Dittatura esplicita o democrazia rappresentativa sono le due facce di una stessa medaglia produttivista che altera definitivamente la natura e la vita che la anima, distruggendo gli equilibri biologici necessari alle forme di vita di cui l’umano fa parte.
Con l’antropocene il mondo della natura umana è stato forse separato definitivamente dalla natura globale, dal suo funzionamento orgastico e dalle possibilità di umanizzazione della natura all’interno del processo vitale complessivo. Nella fase terminale del capitalismo, il lavoro morto, ormai al parossismo della valorizzazione economica, non sopporta assolutamente più quello vivo perché ormai la vita e il lavoro dei morti viventi sono incompatibili: l’una è attività gioiosa e sensuale, spesso faticosa ma che non conosce la noia, l’altro è schiavitù umiliante e assassina che impone lo sfruttamento e l’alienazione e non conosce altro piacere che il consumo degli esseri e delle cose.
Rispetto alla vita vera poco importa se, come un tempo, il signore dispotico del tuo corpo di schiavo può ucciderti con un colpo di spada o di fucile, per capriccio, per esempio o opportunità, oppure se, come ora, il sistema produttivista padrone del tuo tempo di vita, trattandoti da concittadino che vota ed è libero di scegliere la merce preferita, ti fa morire lentamente fin dalla nascita, producendo, tra inquinamento e catastrofi climatiche e sociali, un avvizzimento mortifero del piacere di vivere ridotto a sopravvivenza precaria. Altro che aumento della speranza di vita!
Svegliandomi nel povero hotel di El Coca, una quarantina di anni fa, ho sentito già allora, prepotente, l’angoscia di una specie in pericolo, mentre gli ultimi indios di un genocidio plurisecolare si aggiungevano agli innumerevoli “selvaggi”– barbari senza culottes né gilet – finiti nella fossa comune in cui giacciono le vittime di una civiltà criminale ormai planetaria.

Sergio Ghirardi (il Sauvageon), 20 settembre 2019


[1] Chiamati a torto Jivaros, parola che nella lingua di quei fieri tagliatori di teste (le ben note tsantsas) significa “nemici, selvaggi”.
[2] Così è abitualmente chiamata la città di S. Francisco de Orellana.
[3] Il cui nome è piuttosto Huaonoris perché, non a caso, anche Aucas significa “selvaggi” (in quechua).