venerdì 26 giugno 2020

Il mostro si sbatte da solo in prima pagina



 
"Questo bisogno incomprimibile di superarsi, sulla punta dei piedi, per sembrare più grande di quanto si è, a dispetto della nostra piccolezza che non si può nascondere, ecco come un’immagine svela di più su un personaggio costruito dal nulla che un libro intero"


In questi tempi di complotti immaginari che alle menzogne di Stato onnipresenti oppongono un misticismo idiota incapace di guardare la realtà in faccia, qualcuno potrebbe pensare (sbagliando, mentre qualcun altro avrebbe interesse a dire) che ho fatto di Bernard-Henri Lévy il mio capro espiatorio preferito, il mio feticcio vudù di una rabbia irrisolta, la mia testa di turco da prendere a torte in faccia a ripetizione.
Una mania, dunque, irrazionale e morbosa, come amano additare al pubblico ludibrio quelli che, sprovvisti di “divine” manie gaudenti di qualunque sorta, ripiegano sulla denuncia poliziesca di ogni critica radicale, in nome di un lapalissiano buon senso demo parlamentare ormai condito con le salse più putride e poi servito alle masse affamate di servitori volontari.
La fama coltivata e sempre rinnovata, è il fondo di magazzino e il godimento preferito degli eroi spettacolari che i nostri tempi producono a caterve, investendoli di quindici minuti virtuali di notorietà mediaticamente riprodotta in serie, come gli episodi di un feuilleton interminabile. Alcune di queste celebrità autoproclamate sono ormai dei prodotti industriali non sottomessi all’obsolescenza programmata; passano, dunque, il loro tempo a rinnovare gli spot pubblicitari della loro fama fondata sulla nullità fantasmagorica del loro pensiero critico che scommette sul vuoto di chi li sta a sentire.
Sarebbe dunque saggio ignorarle sempre, come mi consiglia spesso un mio grande e buon amico la cui saggezza non è da provare e che ha il merito di aver deturnato dal suo nome ogni notorietà spettacolare, al punto che eviterò di farne il nome. Sono d’accordo con lui, ma faccio qui un’eccezione perché, oltre la popolarità di un preteso filosofo autoproclamato di cui nulla mi fotte, si mette in moto, ancora una volta, la macchina della desertificazione dell’intelligenza sensibile.
Penso, infatti, che sia salutare per chi non è ancora ottenebrato dai media di ogni tipo e dall’alienazione ben reale di un mondo virtuale che si allarga a macchia d’olio, far luce su ogni elucubrazione ideologica che si venda come umanistica e radicale, quando promuove, in realtà, i valori più putridi del vecchio mondo. Oscillando tra i parametri della stupidità e dell’opportunismo predatorio, non saprei attribuire il suo posto a Bernard-Henri Lévi, ma è certo che è un prototipo intergenerazionale dell’odioso contesto spettacolare mercantile.
In effetti, fin da giovane ho avuto occasione e volontà di denunciare l’emergenza spettacolare dei nouveaux philosophes (di cui Besciamelle[1], l’ex maoista di un mattino, era allora un giovane-vergine-ideologico-sgomento), avanguardia confusionista e nel peggiore dei casi coscientemente reazionaria che ha cavalcato volgarmente, subito dopo la fine del maggio 68, la causa in crescita dell’anticomunismo.
Dei miei scritti giovanili fa parte un pamphlet che un editore anarchico ha deciso di pubblicare[2]. Quella mia storia psicogeografica ha dunque visto la luce alla metà degli anni settanta, poi una seconda volta negli anni ottanta e una terza di recente (come ho scoperto su Internet), accompagnata da una doccia scozzese di critiche feroci e concessioni gentili. Poco importa. In appendice a questo mio Viaggio nell’arcipelago occidentale[3], avevo aggiunto una nota finale critica nei confronti dei nouveaux philosophes, denunciando una nuova miseria della filosofia.
Nonostante le sue ambigue e perverse concessioni al democraticismo dell’Occidente liberale, Solgenitsin era ai miei occhi giustamente antisovietico. Ne condividevo, dunque, la denuncia vissuta e sofferta – libertaria aldilà della sua volontà – di un comunismo autoritario il cui spettacolo concentrato si è dimostrato, per quasi un secolo, la miglior propaganda per il capitalismo occidentale e per il suo spettacolo diffuso.
Anche e forse soprattutto per la mia percezione situazionistizzata, sensibile alla critica dello spettacolo sociale globale che preparava la mondializzazione in corso, non potevo che esecrare la moda anticomunista volgare di un gruppo di nuovi filosofi autoproclamati [4] che il giorno prima erano ancora seguaci del fascismo rosso maoista.
Il loro show è cominciato facendo di Yves Montand l’icona pentita del Gulag pseudo sovietico. Il loro capitale ideologico aveva in JP Sartre il filosofo salottiero passato dalla filosofia accademica alla letteratura, poi al maoismo e infine ai boat people come si cambia camicia dimenticando di rinnovare la biancheria intima. Questa banda francofona di statalisti pestilenziali – coerentemente nemici della rivolta radicale libertaria in corso, prima, durante e dopo il maggio 68 – ha barattato il collo di Mao con la cravatta liberale. Ha così potuto coltivare intatto il ruolo odioso dell’intellettuale storicamente analfabeta e filosoficamente adialettico.
Dall’alto della loro falsa coscienza di classe intellettualmente dominante sul volgo bue e comunista, i nouveaux philosophes non hanno mai smesso di dare lezioni di umanesimo ipocrita difendendo, in realtà, la società disumana di una democrazia inesistente, i suoi privilegiati e la loro libertà di sfruttare le masse, idiotizzandole. Il tutto condito con un aiuto ai disperati più visibili che il loro universo sociale ha sempre prodotto.
Ogni azione di solidarietà nei confronti dei più deboli è evidentemente di per sé nobile e decisamente benvenuta ma diventa un alibi ambiguo quando in fondo si sostiene l’essenziale della società dominante. Perché i poveri sono il prodotto finale della ricchezza capitalista, liberale o di Stato e ormai le due insieme ; sono i dannati della terra, i disperati, gli esclusi, i ghettizzati, i Gilet gialli, gli zapatisti del mondo intero che alzano la testa e che brulicano sul pianeta, mentre i missionari della solidarietà ideologica, interessata e calcolata, promuovono i valori del mondo che di questa povertà oscena è responsabile.
Tutto questo era già percepibile alla metà degli anni settanta. E oggi, mezzo secolo dopo?
Morti Montand, Sartre e Gluksman, BHL è rimasto l’ultimo erede di un anticomunismo degno di Denikin proprio quando una sensibilità libertaria poeticamente machnovista circola di nuovo nel respiro del mondo, dal Chiapas al Rojava.
Lascio agli specialisti in complotti stabilire se BHL è pagato dalla CIA o dal Mossad, finanziato dalla moglie o dalle multinazionali delle armi e dell’editoria. Può darsi sia semplicemente spinto da un narcisismo mescolato al calcolo redditizio, può darsi persino che ci rimetta dei soldi, ma mi stupirebbe. Il mio obiettivo non è quello di processare un individuo, ma di denunciarne le idee pestifere come un virus di vecchia data eppur sempre attuale.
E a proposito di virus, il BHL aristocratico ma nazionalpopolare, approfitta per l’ennesima volta di una tragedia sociale come quella che si manifesta nell’isola di Lesbo, diventata un campo di concentramento per rifugiati senza rifugio – un campo tra i tanti, ieri come oggi, ma con il coronavirus in più, che se non imperversa a Lesbo provoca un caos mortale nelle favelas dell’America del sud e di altrove.
BHL, questo colonialista parigino, è recidivo nell’appropriazione privativa delle tragedie sociali in corso. Questo guerrafondaio che dà lezioni di pace, questo suprematista che dà lezioni di antirazzismo, aggiunge ora le sue elucubrazioni irresponsabili sul Covid 19.
Questo rivoluzionario permanente contro tutte le rivoluzioni in corso, era maoista nel 68, anticomunista viscerale quando si sarebbe potuto e dovuto far luce sulla tragedia dei veri rivoluzionari demoliti e distrutti dal bolscevismo. Continua a difendere l’imperialismo d’Israele come la patria cristallina di ebrei immacolati; si erge a Zorro giustiziere in nome dell’umanesimo planetario sopravvissuto alla terribile tragedia dei campi di concentramento nazisti, come se Gaza o le colonie giordane non fossero anche l’evoluzione della stessa struttura caratteriale suprematista che usa il tabù del fascismo passato per imporre il proprio al presente.
Oggi, anziché denunciare la totalità di un mondo di cui BHL è un privilegiato consenziente qualunque, questo militante autoproclamato di tutte le tragedie altrui è arrivato a farsi pubblicità scaricando il suo disprezzo da intellettuale separato su chi ha sopportato il confinamento dovuto al pericolo sanitario e all’imperizia colpevole della società capitalista. Una società di cui BHL è figliol prodigo, una società che manca crudelmente e criminalmente di maschere di protezione (soccorso molto relativo ma reale per i poveri cristi obbligati a lavorare negli ospedali, nei supermercati o altrove) ma non delle camicie alla moda di BHL.
Qualche giorno fa, questo spiacevole individuo è passato (guarda caso per parlare del suo ultimo capolavoro a proposito del coronavirus) sul servizio pubblico della televisione francese, da quel maggiordomo del sistema che è Laurent Ruquier – piccola formica mediatica che ha fatto della sua presunta insonnia uno spettacolo redditizio. Da guitto consumato, BHL è venuto con l’aria di un Che Guevara da salotto, ravveduto, più democratico e filosofo che mai (ma pur sempre fautore dell’ossimoro delle guerre umanitarie), per spiegare al volgo che il mondo è impazzito di fronte al virus.
A ognuno la sua follia. Senza dilungarmi troppo, io, ancora una volta, ho trovato delirante, dunque folle, il discorso di BHL che prima ha lodato l’azione coraggiosa del personale curante poi ha dato ostentatamente la mano a tutti i presenti, negando per provocazione la realtà di una pandemia su cui aveva a lungo blaterato. Come un ragazzino capriccioso e incoerente che ha bisogno di negare la realtà per occupare il palcoscenico, ha ridicolizzato i gesti barriera precauzionali che hanno salvato qualche vita di fronte alle centinaia di migliaia di morti causati tanto dal virus che dall’economia politica e dai suoi banalizzatori di governo e di spettacolo.
Ecco che, intrinsecamente reazionario da sempre, BHL ha finito per giocare anche lui al negazionismo del piccolo virus sinecura, non so se ignaro o cinicamente cosciente, ma certamente per riflesso auto valorizzatore. Interessante ma insostenibile lapsus del pensiero quello che porta a negare la realtà evidente per promuovere un’ideologia delirante e perversa. Corsi e ricorsi della storia. Miseria delle paranoie mistiche copiose che la logica binaria del Web moltiplica all’infinito.
Più che un filosofo BHL è un credente leggermente eretico, quanto basta per stupire la platea più di bocca buona; è un millenarista da salotto che difende il suo spettacolo contro quello altrui: merce contro merce. Ha il coraggio dei rischi ben calcolati, lui che non vive in una favela, ma osa passarvi i minuti necessari per una foto, una rapida ripresa per dare l’impressione di condividere i rischi delle sue cavie. Sono i rischi del business ideologico di uno che ama la notorietà a qualunque costo e in qualunque forma: economica e narcisistica. Sono i rischi connessi alla pubblicità del suo Io spettacolare su cui si è costruito un business e un’identità redditizia socialmente e psicologicamente.
Non mi stupirebbe che di fronte a queste critiche che vengono dal profondo del mio cuore, BHL – nell’aria del tempo e di un antifascismo utilizzato come uno dei peggiori prodotti del fascismo – mi dichiarasse antisemita, estremista, terrorista o qualche altra ingiuria abituale dell’inquisizione spettacolare di cui è ricco il democratismo parlamentare al servizio del totalitarismo mercantile.
Ne denuncio dunque l’incompatibilità con disgusto ma senza odio (con l’età ne ho esaurito lo stock, non riesco più a odiare profondamente nessuno mentre, per contro, posso frequentare soltanto chi amo), augurandomi il crollo del Leviatano produttivista di cui BHL è un miserabile ma ostinato sostenitore.
Ha sbattuto il suo mostro in prima pagina in ogni epoca che ha attraversato. Che riposi in pace, il mondo non avrà difficoltà a dimenticarlo quando lo spettacolo sarà finito per il bene di un’umanità ritrovata o a causa della definitiva scomparsa degli esseri umani.


Sergio Ghirardi 24 giugno 2020



[1] BHL, acronimo della star Bernard-Henri Lévy, ha ereditato in Francia questo soprannome che corrisponde assai bene alla potenza del suo pensiero. Quando Besciamelle si diceva maoista il suo filosofo di riferimento era Sartre. Poi come sempre nello spettacolo, mentre Sartre ha aderito al delirio maoista, fornendo finalmente prova della consistenza autentica del suo pensiero, Besciamelle ha deciso di essere un filosofo, dimostrando così la consistenza autentica del suo confusionismo politico.
[2] In realtà ho liberamente sempre scritto a ogni età, senza mai pormi la questione se io fossi uno scrittore (buono o cattivo); l’ho sempre fatto per quella voglia e necessità di comunicare che mi muove da quando ho imparato che respirando, godendo e pensando, ero vivo. Con l’editore in questione, del resto, non ci siamo mai conosciuti poiché avevo dato il mio primo e unico consenso alla pubblicazione per interposta persona.
[3] Il titolo di questo testo rimasto, in realtà, una bozza incompiuta che non rinnego né decanto, aveva l’intenzione di ricordare l’esistenza specifica del Gulag occidentale che io denunciavo appunto ai tempi in cui imperversava la figura di un Solgenitsin in lotta contro la barbarie pseudo sovietica del capitalismo di Stato sedicente comunista. Lotta sacrosanta (cioè né sacra né santa, ma assolutamente necessaria), recuperata, però, allo spettacolo dominante dalla propaganda di un parlamentarismo mercantile in offerta speciale su tutto il pianeta.
[4] I filosofi sono sempre autoproclamati, soprattutto quando passano attraverso la pubblicità dei loro seguaci che non esistono mai in quanto soggetti, ma solo come discepoli di una verticalità del sapere che rinvia ineluttabilmente alle radici della civiltà produttivista e alle sue gerarchie gerontofile, di classe e di genere.



Le monstre se projette tout seul en première page





Pendant ces temps de complots imaginaires qui opposent le mysticisme idiot d’un déni de réalité aux mensonges d’Etat omniprésents, certains pourraient penser (en se trompant, alors que d’autres auraient un intérêt à le dire) que j’ai fait de Bernard-Henri Lévi mon bouc emissaire préféré, mon fétiche vaudou d’une rage insatisfaite, ma tète de turc à entarter encore et encore.
Une manie, quoi, irrationnelle et morbide, comme aiment l’exposer aux yeux de la foule ceux qui, dépourvus de la moindre « divine » manie jouissive, se replient sur la dénonciation policière de toute critique radicale, au nom de la lapalissade d’un bon sens démo parlementaire désormais assaisonné avec les sauces les plus pourries, puis servi aux masses affamées des serviteurs volontaires.
La célébrité entretenue et toujours renouvelée est le fond de commerce et la jouissance préférée par les héros spectaculaires que nos temps produisent à foison en les dotant de quinze minutes virtuels de notoriété médiatiquement reproduite en série, comme les épisodes d’un feuilleton interminable. Certaines de ces célébrités autoproclamées sont désormais del produits industriels non soumis à l’obsolescence programmée ; ils passent, donc, leur temps à renouveler les spots publicitaires de leur renommée fondée sur la nullité fantasmagorique de leur pensée critique pariant sur le vide de ceux qui les écoutent.
Il serait donc sage les ignorer toujours, comme me conseille souvent un grand et bon ami dont la sagesse n’est pas à prouver et qui a le mérite d’avoir détourné de son nom toute notoriété spectaculaire, au point que je vais éviter de le citer. Je suis d’accord avec lui, mais je fais ici une exception car, au-delà de la popularité d’un prétendu philosophe autoproclamé dont je n’ai rien à foutre, la machine de la désertification de l’intelligence sensible se met en branle une fois de plus.
Je pense, en effet, qu’il est salutaire pour ceux qui ne sont pas encore obnubilés par les médias en tout genre e par l’aliénation bien réelle d’un monde virtuel qui se répand comme une traînée de poudre, faire de la lumière sur toute élucubration idéologique qui se vend comme humaniste et radicale, alors qu’elle soutient, en fait, les valeurs les plus pourries du vieux monde. Balançant entre les paramètres de la stupidité et de l’opportunisme prédateur, je ne saurais attribuer sa place à Bernard-Henri Lévi, mais c’est certain qu’il est un prototype intergénérationnel de l’odieux contexte spectaculaire marchand.
En effet, depuis ma jeunesse j’ai eu l’occasion et la volonté de dénoncer l’émergence spectaculaire des nouveaux philosophes (dont Besciamelle[1], l’ex maoïste d’un matin, était alors un jeune-vierge-idéologique-effarouché), avant-garde confusionniste et, dans le pire des cas, consciemment réactionnaire qui a chevauché vulgairement, toute suite après la fin de mai 68, la cause croissante de l’anticommunisme.
Parmi mes écrits juvéniles il y a un pamphlet qu’un éditeur anarchiste a décidé alors de publier[2]. Ce récit psychogeographique a donc vu le jour à la moitié des années soixante-dix, puis une deuxième fois dans les années quatre-vingt et une troisième récemment (comme j’ai découvert sur Internet), accompagné d’une douche écossaise de critiques féroces et de concessions aimables. Peu importe. En appendice de ce Voyage dans l’archipel occidental[3], j’avais ajouté une note finale critique des nouveaux philosophes, dénonçant une nouvelle misère de la philosophie.
Malgré ses ambigües et perverses concessions au démocratisme de l’Occident libéral, Soljenitsyne était, à mes yeux, légitimement antisoviétique : J’en partageais, donc, la dénonciation vécue et soufferte – libertaire au-delà de sa volonté – d’un communisme autoritaire dont le spectacle concentré s’est montré, pendant presque un siècle, la meilleure propagande pour le capitalisme occidental et pour son spectacle diffus.
Aussi et peut-être surtout à cause de ma perception situationnistisée, sensible à la critique du spectacle social global qui préparait la mondialisation en cours, je ne pouvais qu’exécrer la mode anticommuniste vulgaire d’un groupe de nouveaux philosophes autoproclamés[4], encore adeptes du fascisme rouge maoïste le jour d’avant.
Leur show a commencé en faisant d’Yves Montand l’icône repentie du Goulag pseudo soviétique. Leur capital idéologique avait en JP Sartre le philosophe de salon passé de la philosophie académique à la littérature, puis au maoïsme et enfin aux boat peoples comme on change de chemise en oubliant de renouveler les sous-vêtements. Cette bande francophone d’étatistes pestifères – ennemis cohérents de la révolte radicale libertaire en cours, avant, pendant et après mai 68 – a troqué le col de Mao avec la cravate libérale. Ainsi elle a pu entretenir intacte le rôle odieux de l’intellectuel historiquement analphabète et philosophiquement adialectique.
 
Du haut de leur fausse conscience de classe, intellectuellement dominante sur les gens ordinaires, bœufs et communistes, les nouveaux philosophes n’ont jamais arrêté de donner des leçons d’humanisme hypocrite en soutenant, en fait, la société inhumaine d’une démocratie inexistante, ses privilégiés et leur liberté d’exploiter les masses, en les idiotisant. Le tout assaisonné avec une aide aux désespérés les plus visibles que leur univers social a toujours produit.
Toute action de solidarité envers les plus faibles est évidemment en soi noble et combien bienvenue, mais elle devient un alibi ambigu quand on soutient, finalement, l’essentiel de la société dominante. Car les pauvres sont le produit final de la richesse capitaliste, libérale ou d’Etat et désormais les deux ensemble ; ils sont les damnés de la terre, les désespères, les exclus, les ghettoïsés, les Gilets jaunes, les zapatistes du monde entier qui lèvent la tète et qui pullulent sur la planète, alors que les missionnaires de la solidarité idéologique, intéressée et calculée, promeuvent les valeurs du monde responsable de cette obscène pauvreté.
Tout cela était déjà perceptible à la moitié des années soixante-dix. Et aujourd’hui, un demi-siècle après ?
Montand, Sartre et Gluksman sont morts, BHL est resté le dernier héritier d’un anticommunisme digne de Denikine alors qu’une sensibilité libertaire poétiquement makhnoviste circule de nouveau dans la respiration du monde, du Chiapas au Rojava.
Je laisse aux spécialistes en complots d’échafauder si BHL est payé par la CIA ou par le Mossad, financé par sa femme ou par les multinationales des armes ou de l’edition. Peut-être qu’il est simplement poussé par un narcissisme mélangé au calcul rentable, peut-être même qu’il y perd de l’argent, mais cela m’étonnerait. Mon objectif ce n’est pas d’entamer un procès à un individu, mais d’en dénoncer les idées pestifères comme un virus ancien et toujours actuel.
Et à propos de virus, Le BHL aristocratique mais national populaire, profite, une fois de plus, d’une tragédie sociale comme celle qui se passe dans l’ile de Lesbos, devenue un camp de concentration pour des refugiés sans refuge – un camp entre autres, hier comme aujourd’hui, mais avec le coronavirus en plus qui s’il ne sévit pas à Lesbos, il fait des ravages mortels dans les favelas de l’Amérique du sud et d’ailleurs.
BHL, ce colonialiste parisien, est récidiviste dans l’appropriation privative des tragédies sociales en cours. Ce belliciste qui donne des cours sur la paix, ce suprématiste qui donne des leçons d’antiracisme, ajoute maintenant ses élucubrations irresponsables sur le Covid-19.
Ce révolutionnaire permanent contre toutes les révolutions en cours, était maoïste en 1968, anticommuniste viscéral quand on pouvait et on devait faire la lumière sur la tragédie des vrais révolutionnaires démolis et détruits par le bolchevisme. Il continue à défendre l’impérialisme d’Israël comme la patrie cristalline de juifs immaculés ; il se lève en Zorro justicier au nom de l’humanitarisme planétaire survécu à la terrible tragédie des camps de concentration nazis, comme si Gaza ou les colonies de Jordanie ne seraient pas aussi l’évolution de la même structure caractérielle suprématiste qui utilise le tabou du fascisme passé pour imposer le sien au présent.
Aujourd’hui, plutôt que dénoncer la totalité d’un monde dont BHL est un privilégié consentant quelconque, ce militant autoproclamé de toutes les tragédies d’autrui arrive à se faire de la publicité en déchargeant son mépris d’intellectuel séparé sur ceux qui ont supporté le confinement du autant au danger sanitaire qu’à l’impéritie coupable de la société capitaliste. Une société dont BHL est le fils prodigue, une société qui manque cruellement et criminellement de masques de protection (protection très relative mais bien réelle pour les pauvres bougres obligés à travailler dans les hôpitaux, les supermarchés ou ailleurs) et de respirateurs, mais jamais des chemises à la mode de BHL.
Il y a quelques jours, cet individu déplaisant est passé (comme par hasard pour parler de son dernier chef d’œuvre concernant le coronavirus) sur le service public télévisuel chez ce majordome du système qui est Laurent Ruquier – petite fourmi médiatique qui a fait de son insomnie supposée un spectacle rentable. En clown accompli, BHL est arrivé avec l’allure d’un Che Guevara de salon, assagi, plus démocratique et philosophe que jamais (et pourtant toujours supporter de l’oxymore des guerres humanitaires), afin d’expliquer aux gens ordinaires que le monde est devenu fou face au virus.
A chacun sa folie. Sans trop m’y attarder, encore une fois j’ai trouvé délirant, donc fou, le discours de BHL qui d’abord a loué l’action courageuse du personnel soignant puis a donné la main à tous les présents de façon ostentatoire, niant, par provocation, la réalité d’une pandémie sur laquelle il avait longuement babillé. Comme un gosse capricieux et incohérent qui a besoin de nier la réalité pour occuper la scène, il a ridiculisé les gestes barrière de précaution qui ont sauvé quelques vies face aux centaines de milliers de morts dus autant au coronavirus qu’à l’économie politique et à ses banalisateurs de gouvernement et de spectacle.
Voilà, intrinsèquement réactionnaire depuis toujours, BHL a fini par jouer lui aussi au négationnisme du petit virus sinécure, je ne sais pas si ignare ou cyniquement conscient, mais certainement par reflexe d’auto valorisation. Intéressant mais insoutenable lapsus de la pensée celui qui porte à nier une réalité évidente afin de promouvoir une idéologie délirante et perverse. Cours et recours de l’histoire. Misère des paranoïas mystiques foisonnantes que la logique binaire du Web multiplie à l’infini.
Plus qu’un philosophe, BHL est un croyant légèrement hérétique, ce qu’il faut pour épater la galerie la plus facile à satisfaire ; il est un millénariste de salon qui protège son spectacle contre celui d’autrui : marchandise contre marchandise. Il a le courage des risques bien calculés, lui qui ne vit pas dans une favela, mais qui ose y passer les minutes nécessaires à une photo, à une prise de vue pour donner l’impression de partager les risques de ses cobayes. Ce sont les risques du business idéologique d’un mec qui aime la renommée à tout prix et en toutes ses formes : économique et narcissique. Ce sont les risques liés à la publicité de son ego spectaculaire sur lequel il a bâti un business et une identité rentable socialement et psychologiquement.
Je ne serais pas étonné si face à ces critiques qui viennent du profond de mon cœur, BHL – dans l’air du temps et d’un antifascisme utilisé comme un des pires produits du fascisme – m’accable comme antisémite, extrémiste, terroriste ou une autre injure habituelle de l’inquisition spectaculaire dont est riche le démocratisme parlementaire au service du totalitarisme marchand.
J’en dénonce, donc, l’incompatibilité avec dégout mais sans haine (avec l’âge j’ai épuisé le stock, je n’arrive plus à haïr profondément personne alors qu’en revanche, je peux fréquenter uniquement ceux que j’aime), en m’augurant l’effondrement du Léviathan productiviste dont BHL est un misérable mais obstiné soutien.
Il a projeté son monstre en première page à chaque époque qu’il a traversé. Qu’il repose en paix, le monde n’aura pas de difficulté à l’oublier quand le spectacle sera fini pour le bien d’une humanité retrouvée ou à cause de la définitive disparition des humains.

Sergio Ghirardi 24 juin 2020



[1] BHL, acronyme de la star Bernard-Henri Lévi, a hérité en France de ce surnom qui corresponde assez bien à la puissance de sa pensée. Quand Besciamelle se disait maoïste son philosophe de reference était JP Sartre. Puis, comme toujours dans le spectacle, alors que Sartre a adhéré au délire maoïste, donnant finalement preuve de l’authentique consistance de sa pensée, Besciamelle a décidé d’être un philosophe, montrant ainsi la consistance authentique de son confusionnisme politique.
[2] En fait, j’ai toujours librement écrit à tout âge, sans jamais me demander si j’étais un écrivain (bon ou mauvais). Je l’ai toujours fait pour cette envie et nécessité de communiquer qui m’agit depuis que j’ai appris qu’en respirant, en jouissant et en pensant j’étais vivant. Avec l’éditeur en question, d’ailleurs, on ne s’est jamais connus car j’avais donné mon premier et unique consentement à la publication par personne interposée.
[3] Le titre de ce texte resté, en fait, à l’état d’ébauche que je ne renie pas ni j’encense, avait le but de rappeler l’existence spécifique du Goulag occidental que je dénonçait justement quand sévissait la figure d’un Soljenitsyne en lutte contre la barbarie pseudo soviétique du capitalisme d’Etat soi-disant communiste. Lutte sacrosainte (c'est-à-dire ni sacrée ni sainte, mais absolument nécessaire), récupérée, toutefois, au spectacle dominant par la propagande d’un parlementarisme marchand en offre spéciale sur toute la planète.
[4] Les philosophes sont toujours autoproclamés, surtout quand ils passent par la publicité de leurs adeptes qui n’existent jamais en tant que sujets, mais uniquement comme disciples d’une verticalité du savoir renvoyant inéluctablement aux racines de la civilisation productiviste et à ses hiérarchies gérontophiles, de classe et de genre.

Il capitale intellettuale sfida i bilanci e la termodinamica ...

venerdì 19 giugno 2020

L’affascinante democrazia del Rojava








Si parla molto del Rojava, ma che cosa se ne sa davvero oltre i cliché guerrieri? Nel 2017 le edizioni Noir et Rouge hanno pubblicato Un autre futur pour le Kurdistan?, scritto da Pier Bance. In ottobre uscirà, frutto di questo stesso autore, La Fascinante Democratie du Rojava, a proposito del contratto sociale della Federazione della Siria del Nord. Mentre il primo libro tentava di spiegare il municipalismo libertario e il confederalismo democratico cercandone l’applicazione in Turchia e nel Kurdistan siriano, questo nuovo volume si rivolge all’opera della rivoluzione nel Rojava e in particolare ai suoi aspetti ideologici, giuridici e istituzionali. Curiose di saperne di più le Cronache libertarie hanno intervistato l’autore.
Chroniques noir et rouge, Revue de critique bibliographique du mouvement libertaire n° 2.

Perché questo interesse per il Rojava? Non si è già detto tutto?
È in seguito alla battaglia di Kobané, vinta dai Curdi contro lo Stato islamico nel gennaio 2015, che la rivoluzione del Rojava suscita un vero interesse nella società francese. Da allora ha avuto inizio la pubblicazione di testimonianze di autorità politiche o di attori sul terreno, di racconti di viaggio di militanti o no, di reportage giornalistici più o meno ben informati e di lavori di ricerca di politologi o di strateghi di geopolitica. In tutto questo, il diritto delle istituzioni e l’ideologia che lo ispira sono rimasti poco esplorati. Questi scritti, quando non lo ignorano, si accontentano di citare il Contratto sociale della Federazione democratica della Siria del Nord del 29 dicembre 2016. Si tratta, tuttavia di un testo costituente che proclama i diritti e le libertà dei cittadini e stabilisce gli organi politici che devono condurre al confederalismo democratico. Un progetto politico di società senza Stato, teorizzato da Abdullah Öcalan, leader curdo imprigionato in Turchia dal 1999, ispiratosi a Murray Bookchin (1921-2006), teorico dell’ecologia sociale e del municipalismo libertario: così gli uni lodarono un piccolo popolo coraggioso in lotta contro i fanatici dello Stato islamico mentre altri denigravano i seguaci del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Alcuni idealizzarono una rivoluzione presentata come socialista, femminista ed ecologista, mentre altri mostravano il loro scetticismo. Nessuno si è preoccupato troppo di sapere “come funziona” e ciascuno esprimeva la propria opinione, tanto più tranciante che malamente istruita.
Lo scopo del tuo libro è dunque “istruire” le lettrici e i lettori sulla realtà amministrativa e politica del Rojava?
L’obiettivo di questo libro è di restituire informazioni e analisi che permettano di capire il funzionamento delle istituzioni della Siria del Nord e di farsi un’opinione argomentata e precisa. Il metodo seguito è altrettanto lontano dal romanticismo rivoluzionario che dalla condanna dogmatica. Vuole capire una rivoluzione: da un lato comparando l’idea del federalismo democratico rivendicato con l’esposizione dei diritti e delle istituzioni così come figurano nel Contratto sociale; dall’altro comparando, con la distanza necessaria, questa idea nuova e questo testo costituente alla “prassi”, al movimento reale di un’amministrazione della Siria del Nord, di un proto-Stato alle prese con le peggiori difficoltà politiche, economiche, diplomatiche e militari. Si scoprirà che il Contratto sociale della Siria del Nord è una riserva d’idee, ma anche che mette in funzione una democrazia complessa suscettibile d’interessare tanto i democratici che i rivoluzionari.
Allo stesso titolo?
No! I democratici non sono disposti a instaurare il confederalismo democratico che è la negazione della democrazia parlamentare e dello Stato. D'altro canto, troveranno nel Contratto sociale delle piste per rinnovare un sistema di rappresentazione logoro e screditato. Un esempio: la costituzione di un’assemblea federale (nazionale) unica, composta del 60% di eletti con suffragio diretto e di un 40% di delegati designati dalla società civile.
Per i rivoluzionari, è interessante la questione dello Stato. L’esperienza della Federazione della Siria del Nord illustra a grandezza reale le difficoltà incontrate per fare a meno dello Stato o almeno ridurlo a compiti funzionali come la diplomazia. Essa conduce ad abbandonare ogni posizione dogmatica per riflettere su tutti gli aspetti della società futura (diritti civili e libertà fondamentali, lavoro e impiego, salute e protezione sociale, sicurezza pubblica e difesa, imposte e bilancio, economia e consumo, ecc.). Quest’approccio è senz’altro il miglior modo di trovare le procedure che condurranno all’eliminazione dello Stato e a un’auto amministrazione della società emancipata in grado di prevenire ogni rinascita dello Stato. Così come l’ha fatto, del resto, Bookchin con la sua strategia di marginalizzazione dello Stato e di elaborazione di Carte municipali che negli anni settanta, hanno sconcertato un buon numero di anarchici.
Allora, con quale disposizione di spirito tu affronti il tema della democrazia del Rojava?
Non ho il compito di fare la propaganda del Partito dell’unione democratica (PYD), partito motore della rivoluzione del Rojava, né del PKK che ne sarebbe la casa madre, altri se ne occupano. Il dossier non è istruito né a carico né a difesa, dando per scontato che non nascondo la mia simpatia per l’esperienza. M’iscrivo, dunque, in quel che si chiama la critica costruttiva e, più precisamente, in una critica anarchica costruttiva.
Anarchica perché prende l’anarchismo come una griglia di lettura particolarmente operante sulla questione dello Stato, con il teorema secondo il quale più si tergiversa nel distruggere lo Stato, più presto esso si ricostituisce. Il che autorizza a porsi due questioni collegate: perché dopo sette anni, l’Amministrazione autonoma non è ancora venuta a capo dello Stato e per quali ragioni sussiste un proto-Stato incarnato da esecutivi che si rinforzano, allorché dovrebbero deperire?
Costruttiva perché supera la rigidità dell’ortodossia teorica per interessarsi alla dinamica del movimento, per apprezzarlo nella sua complessità, anche se alla lettura del libro alcuni troveranno la critica severa. In effetti, lo è, ma si tratta di tutto il contrario di un’impresa di demolizione. Attraverso una lettura applicata del Contratto sociale[1], un’osservazione minuziosa della sua messa in atto, uno sguardo attento al rispetto dello spirito del confederalismo democratico, questo contributo s’iscrive nel processo rivoluzionario. Esso non perde mai di vista gli sforzi e i sacrifici consentiti dalle popolazioni della Federazione Rispetta la determinazione di quanti, investiti da un mandato comunale o federale, conducono la lotta con abnegazione e mettono in gioco la loro responsabilità di fronte alla storia.

Il Contratto sociale è una costituzione?
Il Contratto sociale della Federazione democratica della Siria del Nord enuncia i diritti e le libertà dei cittadini riferendosi alle carte internazionali sui diritti dell’uomo come la maggior parte delle costituzioni. Mette in funzione delle istituzioni politiche di rappresentanza attraverso assemblee e di governo attraverso dei consigli esecutivi, come tutte le costituzioni. Eppure il Contratto sociale non è esattamente una costituzione. Sul terreno del diritto internazionale, una costituzione si applica in uno Stato e le tre regioni curde riunite alle quattro regioni arabe liberate non pretendono di costituire uno Stato e neppure lo vogliono. Desiderano restare una federazione di regioni autonome in una Siria democratica, essa stessa dotata di una costituzione repubblicana, laica e federale. Sul piano politico, il Contratto sociale si distingue dalle costituzioni conosciute mettendo in atto, più in osmosi che in parallelo o in competizione, una democrazia diretta fondata sulla comune e una federazione di tipo parlamentare con assemblee elette ed esecutivi con poteri regolamentari estesi. Da qui la sua complessità.
È per questo che la democrazia del Rojava è affascinante?
In effetti, per molti e in particolare per le lettrici e i lettori di questa rivista, il Contratto sociale sembrerà, a prima vista, congiungere due sistemi politici incompatibili. Il municipalismo, inseparabile dalla democrazia diretta, cioè dal governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo, è l’opposto del parlamentarismo e del suo crogiolo, il capitalismo che governa tramite la rappresentazione e il denaro. Parlamentarismo e capitalismo non possono accomodarsi né col municipalismo né con la democrazia diretta che li privano dei loro poteri politici ed economici, se non ammettendoli edulcorati e a dosi omeopatiche per calmare la rivendicazione dei cittadini. Il libro spiega come la democrazia del Rojava associandoli inventa una “meraviglia politica” in cui, alla fine, la democrazia diretta avrà partita vinta sulla democrazia rappresentativa, il federalismo sullo Stato.
In effetti è affascinante, ma la democrazia del Rojava lo è solo per questo?
No! Lo è anche perché questo cammino verso la democrazia diretta si fa sotto la direzione di un partito, il PYD. Un’avanguardia che non vuole essere dominatrice ma educatrice e che contribuisce così alla propria fine. Una condotta altrettanto difficile da ammettere per dei libertari che non ci credono che per dei marxisti che non la vogliono. Affascinante anche perché la si sperimenta nel cuore di un Medio Oriente pieno di dittature politiche, di democrazie autoritarie o caotiche, di Stati con mire egemoniche o espansionistiche, di guerre civili e di terrorismo. Sempre affascinante perché mette su un piano uguale le donne e gli uomini all’opposto dei costumi ancestrali patriarcali e delle pratiche religiose conservatrici. Affascinante, infine, per la riunione in un’amministrazione comunalista, solidale e federale, con uguaglianza di diritti e di doveri, del popolo curdo, arabo, assiro, caldeo, turkmeno, armeno, ceceno, caucasico... di diverse religioni musulmane, cristiane o yézidie, laddove regnava la legge del più forte. Altre sorprese a proposito di quest’oasi di libertà e di democrazia attendono le lettrici e i lettori. Conviene ancora rilevare, anche se non è “affascinante”, l’importanza dell’ecologia nel progetto del confederalismo democratico eredità di Bookchin. Nel Contratto sociale, l’ecologia è definita come “il diritto dei cittadini di vivere in una società ecologica sana”. L’Amministrazione autonoma e la comune fanno sforzi in questo senso, ma non è difficile capire che la situazione militare ed economica complica le iniziative nel settore agricolo quanto in quelli industriale o ambientale.
Si è davvero in presenza di una democrazia?
L’esecutivo della Federazione della Siria del Nord trae la sua legittimità da un consenso tra i diversi segmenti della società e non da un’elezione legislativa o da una procedura di designazione da parte di assemblee generali. Se questo “governo” non è democratico nel senso della scienza politica e neppure a riguardo delle procedure di designazione del Contratto sociale, non è, tuttavia, una dittatura. Il miglior esempio è certamente il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle autorità locali e federali che non ha nulla da invidiare alle democrazie occidentali, con gli stessi incidenti puntuali. Si potrebbe anche parlare della giustizia fondata sul consenso, la conciliazione piuttosto che la repressione, oltre che della particolarità di una giustizia autonoma delle donne. Dell’educazione in cerca di pedagogie antiautoritarie, dell’autogestione delle università e degli insegnamenti nelle lingue madri (arabo, curdo o siriano). E di molti altri soggetti come quel diritto civile o quel diritto penale che smontano il diritto consuetudinario. Se la Siria del Nord non è una democrazia corrispondente all’immagine delle democrazie occidentali, cosa che non vuole del resto essere, non bisogna mai dimenticare che la situazione militare impedisce di mettere in atto le istituzioni parlamentari democratiche con tutta la loro pesantezza e di far funzionare la democrazia diretta con tutta la sua lentezza. Del resto le cosiddette democrazie, in una tale situazione, decreterebbero lo stato d’assedio o lo stato d’urgenza per sospendere certe libertà costituzionali o modificare il normale funzionamento dei poteri pubblici.
In questo contesto di guerra, l’esercito interviene nel gioco politico?
In una democrazia parlamentare, l’esercito è sottomesso al potere civile, in una democrazia diretta alle assemblee comunali e federali. La Federazione democratica della Siria del Nord è in guerra, l’esercito vi occupa dunque un ruolo importante. La militarizzazione delle milizie, il militarismo e il martirologio sono questioni etiche sviluppate nel libro. Per quel che riguarda l’interventismo nella politica non è l’esercito in quanto tale che pone problema, è il suo comandante in capo Mazloum Abdî che interferisce negli affari interni ed esteri come se fosse membro dell’esecutivo federale o come se fosse stato dichiarato lo stato d’assedio, cosa non avvenuta. Quali siano le sue buone intenzioni, le sue dichiarazioni e iniziative intempestive costituiscono una reale violazione del gioco democratico e soprattutto della democrazia diretta. Il fatto non è sfuggito a certi dirigenti storici di questa rivoluzione ma i loro richiami all’ordine  però non hanno avuto effetto.
Abbiamo dimenticato di parlare del capitalismo. Che sorte gli è riservata?
Nella teoria del confederalismo democratico di Öcalan come nel municipalismo libertario di Bookchin, il capitalismo è la fonte di tutti i mali ancora più dello Stato che ne è il servitore. Nel Contratto sociale, “il diritto alla proprietà privata è garantito”. La questione del capitalismo non è apparentemente all’ordine del giorno. Ho cercato di comprendere le ragioni di questa sopravvivenza. Nell’immediato, si tratta tanto di preservare la piccola proprietà agricola o artigianale quanto di risolvere dei problemi di sfruttamento industriale come, per esempio, l’estrazione petrolifera che necessita la partecipazione di multinazionali straniere. La soppressione del capitalismo non è tuttavia sepolta. L’idea è che sarà progressivamente sostituito dall’economia sociale, così come lo Stato lo sarà dall’amministrazione delle comuni federate.
E domani?
L’avvenire della Federazione democratica della Siria del Nord è molto incerta. Domani potrà essere invasa dai Turchi o da Assad, dopo un ultimo tradimento dei Russi e degli Americani. Se, per disgrazia, dovesse essere il caso, non diversamente dalla Comune di Parigi, la Comune del Rojava vivrà nel cuore delle donne e degli uomini amanti della libertà e dell’uguaglianza. La sua opera costruttiva resterà e ispirerà altre comuni. Auspico, però, che viva per riuscire nella sua missione emancipatrice, per realizzare la sua ambizione libertaria, provarci che il cammino intrapreso verso un altro futuro è quello giusto. Che essa viva per aprire delle nuove prospettive rivoluzionarie.

Pierre Bance, La Fascinante Démocratie du Rojava. Le Contrat social de la Fédération de la Syrie du Nord, Paris, Éditions Noir et Rouge, 2020, 500 pages, 25 euros. Précommande par courrier aux Éditions Noir et Rouge - 75, avenue de Flandre, 75019 Paris (frais de port gratuit pour une réservation avant parution).


La geopolitica del Rojava

Il Rojava è una regione popolata per la maggior parte da curdi, grande come il Belgio e situata al nord della Siria. I territori a predominanza araba liberati dall’impresa dello Stato islamico occupano una superficie equivalente. La loro associazione con il Rojava nella Federazione democratica della Siria del Nord e dell’Est copre un territorio equivalente al Benelux, corrispondente a un terzo della superficie totale della Siria. La popolazione del Rojava è di circa tre milioni e mezzo di abitanti. Quella della Federazione è di circa cinque milioni di abitanti o forse più, visto che il censimento è carente. La Federazione confina al nord con la bellicosa Turchia che ha invaso tre volte il Rojava nel 2016, 2018, 2019. Ancora al nord e all’ovest, confina con territori occupati dai Turchi e dai loro mercenari che non smettono di molestare le popolazioni limitrofe curde, siriane o arabe. All’ovest e al sud c’è il regime di Bachar al-Assad che sogna di riconquistare tutti i territori della Federazione. All’est c’è la regione autonoma del Kurdistan d’Iraq, poco cooperante, e l’Iraq alle prese con i suoi numerosi problemi e in particolare l’attivismo dello Stato islamico. Chi non capisce che, in queste condizioni, far funzionare una democrazia, senza neppure parlare di confederalismo democratico, non è un’impresa facile?



[1] La sola nota stonata, a mio avviso, è la formula del giuramento costituzionale da parte dei membri dell’Assemblea Legislativa che manca crudelmente di laicità (Articolo 86): “Giuro su Dio Onnipotente di rispettare la Carta e le leggi delle regioni Autonome, di difendere la libertà e il benessere del popolo, di salvaguardare la sicurezza delle Regioni Autonome, di proteggere il diritto alla legittima difesa e di adoperarmi per la giustizia sociale, in accordo con i principi democratici qui racchiusi” [Nota del traduttore in italiano].



La Fascinante Démocratie du Rojava

On parle beaucoup du Rojava, mais qu’en sait-on vraiment au-delà des clichés guerriers ? En 2017, les Éditions Noir et Rouge publiaient Un autre futur pour le Kurdistan ? Municipalisme libertaire et confédéralisme démocratique écrit par Pierre Bance. En octobre sortira, de ce même auteur, La Fascinante Démocratie du Rojava. Le Contrat social de la Fédération de la Syrie du Nord. Alors que le premier livre s’attachait à expliquer le municipalisme libertaire et le confédéralisme démocratique, puis en recherchait la mise en application en Turquie et au Kurdistan de Syrie, ce nouveau volume se penche sur l’œuvre de la révolution du Rojava, et plus spécialement sur ses aspects idéologiques, juridiques et institutionnels. Curieuses d’en savoir un peu plus, les Chroniques se sont entretenues avec l’auteur.
Chroniques noir et rouge, Revue de critique bibliographique du mouvement libertaire n° 2.

Pourquoi s’intéresser au Rojava, tout n’a-t-il pas été dit ?
C’est après la bataille de Kobané, gagnée en janvier 2015 par les Kurdes contre l’État islamique, que la révolution du Rojava suscita un véritable intérêt dans la société française. Commença alors la publication de témoignages d’autorités politiques ou d’acteurs de terrain, de récits de voyageurs, certains militants d’autres non, de reportages de journalistes plus ou moins bien informés et d’études de politologues ou de stratèges en géopolitique. Dans tout cela, le droit des institutions et l’idéologie qui l’inspire restèrent peu explorés. Ces écrits, quand ils ne l’ignorent pas, se contentent de citer le Contrat social de la Fédération démocratique de la Syrie du Nord du 29 décembre 2016. Il s’agit pourtant d’un texte constituant qui proclame les droits et libertés des citoyens, met en place les organes politiques devant conduire au confédéralisme démocratique. Un projet politique de société sans État, théorisé par Abdullah Öcalan, leader kurde emprisonné en Turquie depuis 1999, lui-même inspiré par Murray Bookchin (1921-2006), penseur de l’écologie sociale et du municipalisme libertaire. Ainsi les uns louèrent un petit peuple courageux luttant contre les fanatiques de l’État islamique alors que d’autres dénigraient les suppôts du Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK). Certains idéalisèrent une révolution présentée comme socialiste, féministe et écologique, pendant que d’autres faisaient part de leur scepticisme. Personne ne s’inquiétant trop de savoir« comment ça marche » et chacun y allant de son opinion, d’autant plus tranchée que mal instruite.
L’objet de ton livre est donc« d’instruire » ses lectrices et lecteurs sur la réalité administrative et politique du Rojava ?
L’objet de ce livre est de donner des informations et des analyses qui permettent de saisir le fonctionnement des institutions de la Syrie du Nord et de se forger un point de vue argumenté et nuancé. La démarche suivie est aussi éloignée du romantisme révolutionnaire que de la condamnation dogmatique. Elle veut comprendre une révolution :– d’une part, en comparant l’idée du confédéralisme démocratique revendiqué à l’exposé des droits et des institutions tels qu’ils figurent dans le Contrat social ; – d’autre part, en comparant, avec la distance nécessaire, cette idée nouvelle et ce texte constituant à la « praxis », au mouvement réel d’une administration de la Syrie du Nord, d’un proto-État aux prises avec les pires difficultés politiques, économiques, diplomatiques et militaires. On découvrira que le Contrat social de la Syrie du Nord est un réservoir d’idées. Aussi qu’il met en place une démocratie complexe susceptible d’intéresser aussi bien les démocrates que les révolutionnaires.

Au même titre ?
Non ! Les démocrates ne sont pas disposés à instaurer le confédéralisme démocratique, qui est la négation de la démocratie parlementaire et de l’État. En revanche, ils trouveront dans le Contrat social des pistes pour rénover un système de représentation usé et déconsidéré. Un exemple : la constitution d’une assemblée fédérale (nationale) unique, composée de 60 % d’élus au suffrage direct et de 40 % de délégués désignés par la société civile.
Pour les révolutionnaires, son intérêt tient à la question de l’État. L’expérience de la Fédération de la Syrie du Nord illustre en grandeur réelle les difficultés rencontrées pour se passer de l’État, ou tout au moins le réduire à des tâches fonctionnelles telles que la diplomatie. Elle conduit à abandonner toute position dogmatique pour réfléchir à tous les aspects de la société future (droits civils et libertés fondamentales, travail et emploi, santé et protection sociale, sécurité publique et défense, impôts et budget, économie et consommation, etc.). Cette démarche est sans doute la meilleure façon de trouver les procédures qui conduiront à l’élimination de l’État et à une auto-administration de la société émancipée prévenant toute résurgence étatique. Comme le fit d’ailleurs Bookchin avec sa stratégie de marginalisation de l’État et d’élaboration de chartes municipales qui, dans les années soixante-dix, déconcertèrent bien des anarchistes.
Alors, dans quelle disposition d’esprit abordes-tu le sujet de la démocratie du Rojava ?
Je ne suis pas mandaté pour assurer la propagande du Parti de l’union démocratique (PYD), parti moteur de la révolution du Rojava, ou du PKK, qui en serait la maison mère, d’autres s’en acquittent. Le dossier n’est instruit ni à charge ni en défense, étant entendu que je ne cache pas ma sympathie pour l’expérience. Je m’inscris donc dans ce qu’on appelle la critique constructive et, plus précisément, dans une critique anarchiste constructive. Anarchiste, car elle prend l’anarchisme comme grille de lecture, laquelle est particulièrement opérante sur la question de l’État, avec ce théorème selon lequel plus on attend pour détruire l’État, plus vite il se reconstitue. Ce qui autorise à poser deux questions liées : pourquoi l’Administration autonome, depuis sept ans, n’est-elle pas venue à bout de l’État, pour quelles raisons subsiste un proto-État incarné par des exécutifs qui se renforcent, alors qu’ils devraient dépérir ?
Constructive, parce qu’elle dépasse la rigidité de l’orthodoxie théorique pour s’intéresser à la dynamique du mouvement, l’apprécier dans sa complexité, même si à la lecture du livre certains trouveront la critique sévère. Elle l’est. Mais c’est tout le contraire d’une entreprise de démolition. Par une lecture appliquée du Contrat social[1], une observation minutieuse de sa mise en œuvre, un regard attentif au respect de l’esprit du confédéralisme démocratique, cette contribution s’inscrit dans le processus révolutionnaire. Elle ne perd jamais de vue les efforts et les sacrifices consentis par les populations de la Fédération. Elle respecte la détermination de ceux qui, investis d’un mandat communal ou fédéral, conduisent la lutte avec abnégation et engagent leur responsabilité devant l’histoire.

Le Contrat social est-il une constitution ?
Le Contrat social de la Fédération démocratique de la Syrie du Nord énonce les droits et libertés des citoyens en se référant aux chartes internationales sur les droits de l’homme, comme la plupart des constitutions. Il met en place des institutions politiques de représentation par des assemblées et de gouvernement par des conseils exécutifs, comme toutes les constitutions. Pourtant le Contrat social n’est pas exactement une constitution. Sur le terrain du droit international, une constitution s’applique dans un État et les trois régions kurdes réunies aux quatre régions arabes libérées ne prétendent pas constituer un État et ne veulent pas en être un. Elles souhaitent rester une fédération de régions autonomes dans une Syrie démocratique, elle-même dotée d’une constitution républicaine, laïque et fédérale. Sur le plan politique, le Contrat social se distingue des constitutions connues en mettant en place, plus en osmose qu’en parallèle ou compétition, une démocratie directe fondée sur la commune et une fédération de type parlementaire avec des assemblées élues et des exécutifs aux pouvoirs réglementaires étendus. D’où sa complexité.

C’est en cela que la démocratie du Rojava est fascinante ?
En effet, pour beaucoup, et notamment les lectrices et lecteurs de cette revue, le Contrat social paraîtra, au premier abord, allier deux systèmes politiques incompatibles. Le communalisme, inséparable de la démocratie directe, c’est-à-dire du gouvernement du peuple, par le peuple et pour le peuple, est le contraire du parlementarisme et de son creuset, le capitalisme, gouvernement par la représentation et l’argent. Parlementarisme et capitalisme ne peuvent s’accommoder ni du municipalisme ni de la démocratie directe qui les privent de leurs pouvoirs politiques et économiques, sauf à les admettre, édulcorés et à doses homéopathiques, pour calmer la revendication citoyenne. Le livre explique comment la démocratie du Rojava en les associant invente un « merveilleux-politique » où, à terme, la démocratie directe l’emportera sur la démocratie représentative, le fédéralisme sur l’État.

C’est en effet fascinant, mais la démocratie du Rojava ne l’est-elle que pour cela ?
Non ! Fascinante elle l’est aussi, car c’est sous la direction d’un parti, le PYD, que se fait ce chemin vers la démocratie directe. Une avant-garde qui ne se veut pas dominatrice mais éducatrice et concourt ainsi à sa propre fin. Une démarche tout aussi difficile à admettre pour des libertaires qui n’y croient pas que pour les marxistes qui n’en veulent pas. Fascinante, elle l’est encore parce qu’elle est expérimentée au cœur d’un Proche-Orient pétri de dictatures politiques, de démocraties autoritaires ou chaotiques, d’États aux visées hégémoniques ou expansionnistes, de guerres civiles et de terrorisme. Fascinante, elle l’est toujours parce qu’elle met sur un pied d’égalité les femmes et les hommes à rebours des coutumes ancestrales patriarcales et des pratiques religieuses conservatrices. Fascinante, elle l’est enfin par la réunion dans une administration communaliste, solidaire et fédérale, à égalité de droits et de devoirs, des peuples kurde, arabe, assyrien, chaldéen, turkmène, arménien, tchéchène, tcherkesse... de diverses religions musulmanes, chrétiennes ou yézidie, là où régnait la loi du plus fort. D’autres étonnements sur cette oasis de liberté et de démocratie attendent les lectrices et lecteurs. Il convient encore de souligner, même si ce n’est pas « fascinant », l’importance de l’écologie dans le projet du confédéralisme démocratique, héritage de Bookchin. Dans le Contrat social, l’écologie est définie comme « le droit des citoyens de vivre dans une société écologique saine ». L’Administration autonome et les communes déploient des efforts en ce sens, mais il n’est pas difficile de comprendre que la situation militaire et économique complique les initiatives tant dans les domaines agricole, qu’industriel ou environnemental.

Est-on vraiment en présence d’une démocratie ?
L’exécutif de la Fédération de la Syrie du Nord tire sa légitimité d’un consensus entre les différents segments de la société, et non d’une élection législative ou d’une procédure de désignation par des assemblées générales. Si ce « gouvernement » n’est pas démocratique au sens de la science politique, s’il ne l’est pas davantage au regard des procédures de désignation du Contrat social, il n’est pas pour autant une dictature. Le meilleur exemple est certainement le respect des droits humains et des libertés fondamentales par les autorités locales et fédérales qui n’a rien à envier aux démocraties occidentales, avec les mêmes accidents ponctuels. On pourrait aussi parler de la justice fondée sur le consensus, la conciliation plutôt que la répression, et de cette particularité, une justice autonome des femmes. De l’éducation en recherche de pédagogies antiautoritaires, de l’autogestion des universités et des enseignements dans les langues maternelles (arabe, kurde ou syriaque). Et de bien d’autres sujets, comme ce droit civil ou ce droit pénal déconstruisant le droit coutumier. Si la Syrie du Nord n’est pas une démocratie à l’image des démocraties occidentales, ce qu’elle ne souhaite d’ailleurs pas être, il ne faut jamais oublier que la situation militaire l’empêche de mettre en place les institutions parlementaires démocratiques dans toute leur lourdeur et de faire fonctionner la démocratie directe dans toute sa lenteur. D’ailleurs lesdites démocraties, en pareille situation, décréteraient l’état de siège ou l’état d’urgence pour suspendre certaines libertés constitutionnelles ou modifier le fonctionnement normal des pouvoirs publics.

Dans ce contexte de guerre, l’armée intervient-elle dans le jeu politique ?
Dans une démocratie parlementaire, l’armée est soumise au pouvoir civil, dans une démocratie directe aux assemblées communales et fédérales. La Fédération démocratique de la Syrie du Nord est en guerre, l’armée y occupe donc une place importante. La militarisation des milices, le militarisme et la martyrologie sont des questions éthiques développées dans le livre. Pour ce qui est de l’interventionnisme dans la politique, ce n’est pas l’armée comme telle qui pose problème, c’est son commandant en chef, Mazloum Abdî, qui interfère dans les affaires intérieures et extérieures comme s’il était membre de l’exécutif fédéral ou que l’état de siège ait été décrété, ce qui n’est pas le cas. Quelles que soient ses bonnes intentions, ses déclarations et initiatives intempestives constituent une réelle entorse au jeu démocratique et plus encore à la démocratie directe. La chose n’a pas échappée à certains dirigeants historiques de cette révolution. Leurs rappels à l’ordre n’ont toutefois pas été suivis d’effet.

On a oublié de parler du capitalisme. Quel sort lui est-il réservé ?
Dans la théorie du confédéralisme démocratique d’Öcalan comme dans le municipalisme libertaire de Bookchin, le capitalisme est la source de tous les malheurs de la société plus encore que l’État qui n’en est que le servant. Dans le Contrat social,« le droit à la propriété privée est garanti ». La question du capitalisme n’est pas, apparemment, à l’ordre du jour. J’ai essayé de comprendre les raisons de cette survivance. Dans l’immédiat, il s’agit autant de préserver la petite propriété agricole ou artisanale que de résoudre des problèmes d’exploitation industrielle comme, par exemple, l’extraction pétrolière qui nécessite la participation de multinationales étrangères. La suppression du capitalisme n’est cependant pas enterrée. L’idée est qu’il sera progressivement remplacé par l’économie sociale comme l’État le sera par l’auto-administration des communes fédérées.

Et demain ?
L’avenir de la Fédération démocratique de la Syrie du Nord est des plus incertains. Demain, elle peut être envahie par les Turcs ou par Assad, après une ultime trahison des Russes et des Américains. Si, par malheur, ce devait être le cas, pas plus que la Commune de Paris, la Commune du Rojava ne mourra dans le cœur des femmes et des hommes épris de liberté et d’égalité. Son œuvre constructive restera et inspirera d’autres communes. Mais je souhaite qu’elle vive pour mener à bien sa mission émancipatrice, pour réaliser son ambition libertaire, nous prouver que la marche suivie vers un autre futur était la bonne. Pour qu’elle ouvre de nouvelles perspectives révolutionnaires.

Pierre Bance, La Fascinante Démocratie du Rojava. Le Contrat social de la Fédération de la Syrie du Nord, Paris, Éditions Noir et Rouge,2020, 500 pages, 25 euros. Précommande par courrier aux Éditions Noir et Rouge - 75,avenue de Flandre, 75019 Paris (frais de port gratuit pour une réservation avant parution).


La géopolitique du Rojava
Le Rojava est une région peuplée majoritairement de Kurdes, grande comme la Belgique et située au nord de la Syrie. Les territoires à dominante arabe libérés de l’emprise de l’État islamique ont une surface équivalente. Leur association avec le Rojava dans la Fédération démocratique de la Syrie du Nord et de l’Est couvre un territoire comparable au Benelux, ce qui représente un tiers de la surface totale de la Syrie. La population du Rojava est d’environ 3,5millions d’habitants. Celle de la Fédération de quelque 5 millions d’habitants, peut-être plus, car les chiffres sont sujet à caution faute de recensement. La Fédération est bordée au nord par la Turquie, belliqueuse, qui a envahi trois fois le Rojava en 2016, 2018, 2019. Au nord encore et à l’ouest, par des territoires occupés par les Turcs et leurs mercenaires qui ne cessent d’harceler les populations kurdes, assyriennes ou arabes vivant en bordure. À l’ouest et au sud, par le régime de Bachar al-Assad qui rêve de reconquérir tous les territoires de la Fédération. À l’est, par la région autonome du Kurdistan d’Irak, peu coopérative, et l’Irak, aux prises avec ses nombreux problèmes notamment l’activisme de l’État islamique. Qui ne comprend que, dans ces conditions, mettre en place une démocratie, sans même parler de confédéralisme démocratique, n’est pas une tâche facile ?



[1]La seule fausse note, à mon avis, est la formule du Serment des membres de l’Assemblée Législative (Article 6) qui manque cruellement de laïcité: « Au nom de Dieu tout puissant et du sang des Martyrs, je jure de respecter le Contrat social et ses articles, de préserver les droits démocratiques des peuples et les valeurs des Martyrs, de protéger la liberté, la sécurité et la paix des régions de la Fédération Démocratique de la Syrie du Nord, de préserver l’unité de la Syrie, et de travailler à atteindre la justice dans la société en accord avec les principes de la nation démocratique ». [Dans une précédente version en français de la Charte, ce serment, légèrement different (voir la traduction en italien), figurait à l’article 86 Note du traducteur en italien].