L’analisi del processo di produzione del
capitale da parte di Marx è universalmente riconosciuta, capitalisti compresi. È
logico. Manca, però, un elemento che all’epoca del potente pensatore di Treviri
non era ancora chiaramente definibile né immaginabile nelle proporzioni poi avvenute:
l’aumento vertiginoso della popolazione mondiale[1],
fenomeno parallelo alla spinta reificatrice di un produttivismo approdato al
consumismo.
L’importanza relativamente recente
dell’incrociarsi di questi due dati ha introdotto una sostanza nuova nello schema
interpretativo dell’economia politica: la finitezza del mondo sfruttabile e
quindi l’impossibilità, non solo per il capitalismo, ma anche per suo padre –
il produttivismo –, di realizzare indefinitamente la loro comune natura immutabile
di accumulazione senza fine di un plusvalore in continua crescita.
Questo limite non è dell’ordine della
teologia economicista né unicamente della critica marxista dell’economia
politica, ma fisiologico, empirico, animale, organico. Stabilendo un punto
oltre il quale il dominio non può andare, esso traduce in realtà l’intuizione
teorica del Sesto capitolo inedito del
Capitale che le ricerche di Jacques Camatte ci hanno restituito, dopo un
lungo oblio, mezzo secolo fa: il passaggio dal dominio formale al dominio reale
del Capitale sul lavoro umano (produzione e consumo ormai inestricabili).
Se la demografia è la misura di un
fatto, la reificazione[2]
è un fattore che insieme all’alienazione caratterizza il capitalismo nel suo
divenire. L’alienazione è stata abbondantemente e chiaramente denunciata da
Marx come un fattore centrale del processo di produzione del capitale. Fin
dalle primissime pagine della sua opera massima (Das Kapital), Marx l’ha messa chiaramente sotto i riflettori
dell’intelligenza storica e politica a partire dalla felice intuizione
prepsicanalitica del feticismo della
merce[3],
meccanismo d’illusione economica di cui la pubblicità è il linguaggio mistico.
L’analisi potente di Marx ha usato puntualmente
in tedesco i concetti di Verdinglichung
e di Versachlichung
per indicare la riduzione degli esseri a cose nel processo alienante di feticizzazione
delle merci; tuttavia sarà Lukács a porre l’accento sull’importanza del
processo di reificazione mettendolo prepotentemente in luce in Storia e coscienza di classe, nel 1921. Dopo
Lukács, sarà la scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e infine Marcuse) a
sviluppare profondamente questo tema. Sarà poi ripreso da Debord, Vaneigem e
altri situazionisti nella loro critica radicale della società spettacolare
mercantile. In seguito, tutta la critica sociale attuale si è nutrita bene o
male, a volte peggio, di questo concetto.
Non è casuale che la reificazione – gli
elementi necessari per denunciarla appaiono nell’analisi marxiana fin dai Manoscritti economico filosofici del 1844[4] – non emerga come un
elemento centrale nell’apparato critico del marxismo originario e acquisti
invece importanza ai primi segni di crisi di quel bolscevismo che è stato la
culla e la bara dell’ideologia comunista.
Il capitalismo e la sua critica
produttivista (perché il marxismo è iscritto nel produttivismo)[5]
non si confrontano solo con gli sfruttati che il comunismo pretende difendere
facendoli lavorare quanto il suo nemico dichiarato (se non di più, vedi la
maschera sociale di Stachanov). Si scontrano anche sempre con il loro nemico comune,
storico, primitivo ed eterno: la società umana organica – cioè una società in
rapporto simbiotico inalienabile con
la natura di cui è parte.
Se si aggiunge a queste annotazioni
quella dell’inesistenza, fino a dopo la fine della seconda guerra mondiale,
della parte più ampiamente argomentata e aperta della riflessione marxiana che
sono i Grundrisse[6], il produttivismo
marxista appare in tutta la sua tragicità, non come un semplice ritardo, ma come
una falsificazione “religiosa”, necessaria alla rifondazione incessante dell’ideologia
comunista.
Come i primi vangeli cristiani pervenutici
risalgono ai tempi dell’imperatore Costantino, nel terzo secolo dopo
l’ipotetico Cristo – scritti in greco e non in aramaico come sarebbe logico attendersi
se fossero davvero contemporanei dei fatti narrati –, così la Bibbia marxista
ignora una buona parte dell’opera marxiana e, guarda caso, la parte del dubbio,
degli appunti critici, della libera riflessione di base che nutre una ricerca scevra
da quel dogma produttivista che segna intimamente Il Capitale.
Il marxismo ha affrontato la critica
del rapporto tra capitalismo e natura come una contraddizione problematica
della civiltà produttivista, ma non ha sottolineato abbastanza radicalmente la
dimensione organica di questo conflitto[7].
Il Capitale, infatti, non mette in
discussione il produttivismo e i marxisti (più dell’ultimo Marx che amava
ripetere di non essere marxista) non smettono di chiamare barbari e selvaggi
gli uomini che precedono la civiltà produttivista. La critica marxista del
capitalismo è da un lato di ordine morale (lo sfruttamento) e d’altro canto di
ordine meccanico-economicista (i problemi dell’industrializzazione e le crisi
economiche strutturali del moderno modo di produzione capitalista, la caduta
tendenziale del saggio di profitto). In questo senso il marxismo si prepara già
in teoria, senza volerlo, a diventare quel che sarà praticamente nella Russia
cosiddetta sovietica e nei suoi cloni diversi e variati per orrore totalitario:
l’ideologia di un capitalismo di Stato.
La decrescita che oggi si propone come
una nuova ideologia in seguito al fallimento storico dell’ideologia comunista, è
nata dalla constatazione che manca al marxismo il concetto di società organica,
barbara o selvaggia che la si dica[8].
“In un mondo finito, una crescita
infinita è una follia demente”. Ecco, in sintesi, la versione dell’alienazione
capitalista data dai teorici della decrescita, pensatori troppo spesso
prigionieri, purtroppo, di una logica binaria che riduce la decrescita a
un’ennesima ideologia incapace di cogliere dialetticamente tutta la ricchezza
della proposizione che implica.
Come sempre, nel movimento organico del
vivente, si cresce e si decresce armonicamente o si muore. Di fronte al
crescere spasmodico e monomaniaco del produttivismo e della sua fase terminale
– il capitalismo – decrescere economicamente è una dieta necessaria per curarsi
della bulimia consumistica. La decrescita economica è la conditio sine qua non della crescita qualitativa della felicità di
vivere cui aspira l’umanità: il suo funzionamento orgastico che mescola in un epicureo
cocktail vitale, sobrietà ed eccessi controllati, né autolesionisti né tossici.
Alla larga, dunque, dai cibi insipidi, dalla
frustrazione del piacere, dalla confusione tra sobrietà gaudente e rinuncia
sacrificale, dalla scelta moralistica e antiorgastica di una sopravvivenza
noiosa e asensuale in cui ogni
eccesso è vissuto come un peccato. Sono certo che molti sostenitori della
decrescita desiderano una felicità senza limiti imposti, senza confonderla con un’overdose
né con una morale anoressica. Perché è un fatto che la produzione non organica
produce soprattutto spazzatura, cioè dei cadaveri reificati del vivente.
Il motore della società organica è la ricerca
della qualità della vita e la sua spiritualità manifesta un omaggio egualitario,
tenero e sensuale alla centralità femminile. Rispetto affettuoso testimoniato
dalle mille statuette di sedicenti Dee che l’archeologia ha riportato alla luce
dal fondo della preistoria[9],
interpretando, a torto, queste opere d’arte acratiche della gioia di vivere come
simboli di una credenza religiosa coniugata al femminile.
È nella società produttivista, il cui fulcro è il cadavere redditizio (la cosa) e la spazzatura il suo totem ormai onnipresente in terra come negli oceani, che si converte sistematicamente la spiritualità in religione, umiliazione gerarchica che rende tabù il libero arbitrio sottomettendo l’essere umano alla superstizione.
Il materialismo di Marx ha saputo
denunciare magistralmente un feticismo della merce diventato poi sempre più
invadente, ma nella sua analisi scientificamente fondata del processo di
produzione del capitale, non dà l’importanza dovuta ai quattro millenni di
resistenza antiproduttivista che separano i primi segni archeologici della
comparsa dell’agricoltura dall’apparizione delle prime città Stato produttiviste
della Mesopotamia.
Fu quello l’inizio cruciale di una
lunga storia dalle mille sembianze che ha riguardato culture e civiltà molto
diverse tra loro. L’impero produttivista egizio, per esempio, le cui leggendarie
piramidi sono un monumento particolare di culto della morte – alienazione
religiosa pagata dal lavoro prodigioso ed esiziale di masse di schiavi al
servizio dei sogni angosciati di un faraone rincoglionito dalla paura morbosa della
morte[10].
Più vicina a noi, è stato poi il turno della
polis greca che ha dato vita a vari imperi
produttivisti bellicosi, dispotici o democratici, ma sempre fortemente
gerarchici e schiavistici. Tutta la storia della Grecia classica è stata accompagnata
e guidata da una mitologia incaricata di trasformare la società organica
matricentrica in una società patriarcale dove Zeus concepisce Minerva – la dea
maschilista per antonomasia – partorendola dalla coscia per cancellare così l’acratica
centralità materna della comunità organica di origine. Così, con la creazione
delle Città-Stato destinate a diventare imperi (soprattutto quello di Roma,
città eterna) e a partorire, molto più tardi, il moderno mostro produttivista dello
Stato-nazione (prima feudale, poi capitalista), è nata la nostra tragedia!
Marx non si accorge, o non abbastanza,
della resistenza al produttivismo che le comunità agricole dei popoli
raccoglitori dell’antica Europa (e di altrove) hanno praticato per parecchi millenni[11],
sedentarizzandosi progressivamente senza perdere il piacere della passeggiata, del
far niente, del viaggio e della scoperta, del dono senza contropartita e del
contro dono per piacere reciproco. Nonostante i pericoli che attorniavano le
società organiche antiche, questi esseri profondamente umani erano accompagnati
nella loro scelta di civiltà dal desiderio di non lavorare mai più di tanto, piacevolmente
accarezzati dalla dolce vita di una centralità femminile che ha permesso ai
mammiferi umani di sviluppare la loro umanità prima di perderla tra predazione
e suprematismo patriarcale.
In effetti, sulla lotta di genere, il
marxismo teorico (perché nella pratica il machismo ha trionfato come dovunque e
il nuovo diritto delle donne-compagne è stato soprattutto quello di lavorare
quanto i maschi in aggiunta ai compiti casalinghi) è stato più lungimirante che
sui rapporti organici tra l’Uomo e la
natura nella lotta di classe, ma non ha saputo cogliere la dimensione acratica
della centralità femminile. Ha dato una lettura ideologica della questione
femminile, parlando di matriarcato (la cui logica gerarchica rischia
d’inquinare il femminismo con la stessa peste emozionale ideologica che ha segnato l’imbarazzante dittatura del proletariato
di un tempo) e di un comunismo
primitivo mai esistito in quanto tale perché, senza il trionfo del
produttivismo, le società organiche, la cui centralità femminile era una risorsa
naturale, avrebbero avuto la possibilità di produrre delle società
qualitativamente felici, la cui comunità non produttivista vissuta non avrebbe
avuto bisogno di ideologismi per affermarsi come una vittoria di tutte e di
tutti.
In effetti, il passaggio dalle società
organiche alla civiltà produttivista è visto dal marxismo come un continuum, come un progresso dalla
barbarie alla civiltà e, in questo senso, il marxismo è un evoluzionismo (del
resto fortemente ma confusamente influenzato dalle ancora recenti teorie di
Darwin) che fa del produttivismo l’apice umanistico che avrà nella rivoluzione comunista
la sua apoteosi.
Nella pratica socialista sovietica che
si pretendeva l’antipasto del comunismo a venire, l’indigestione autoritaria era
assicurata e garantita dalla giustificazione teologica di un paradiso a venire.
Nella rottura tra Marx e Bakunin nella Prima
Internazionale era già presente il conflitto tra due religioni in rottura
ideologica con il transfert mistico abituale: quello dell’aldilà. Sia l’anarchismo, con la sua logica sacrificale, che il
marxismo, con il suo produttivismo formalmente egualitario, propongono un aldiquà che ha sempre come leitmotiv la
morte: facendo dono della vita per la rivoluzione gli uni, lavorando fino alla
morte per il socialismo gli altri. Una morte falsamente laicizzata che il
fascismo rosso di Stalin tradurrà cinicamente in un’attività industriale,
seguito da diversi epigoni degni di lui, da Mao a Pol Pot.
Molti libertari – da Bresci alla Banda
Bonnot, ma gli esempi sono tanti, ieri come oggi, di una disperata rivolta
poetica e del sacrificio autodistruttivo e tragico di molti sovversivi
suicidatisi o eliminati con una violenza sadica da parte del potere – hanno
spesso preferito la morte piuttosto che la non vita, lasciando la questione
della rivoluzione sociale irrisolta.
In questo senso, il marxismo presta
invece il fianco, e altre parti del corpo viepiù delicate e sensibili, al
Leviatano che dice di combattere. Per questo il marxismo non è mai riuscito a liberarsi
dello Stato che pretende di veder deperire un giorno come per magia. In realtà,
lo usa fino al totalitarismo nel suo passaggio a una pratica che si pretende
sovietica mentre nasconde sempre l’autoritarismo perverso di un Comitato Centrale
autoproclamato.
Ancora oggi, i marxisti burocratici, ma
anche i più aperti e ideologicamente libertari, non riescono a immaginare una
società senza Stato, una comunità auto organizzata per un’autogestione
generalizzata della vita quotidiana egualitaria e fraterna. Eppure, sta
diventando sempre più chiaro, di fronte alla natura che riafferma i suoi
diritti, che la Comune non è morta, tutt’altro.
Essa è concreta e possibile a partire
da ogni situazione locale, da ogni gruppo di affinità auto costituito – oltre i
sogni anarchici in cui l’ha confinata finora la barbarie selvaggia della
civiltà produttivista. Qualche esempio concreto? Il Chiapas, il Rojava, le
assemblee di Gilet jaunes e di altri movimenti autogestiti di occupazione della
vita per l’emancipazione dal totalitarismo statale e mercantile, il rapporto
spontaneo di solidarietà creatosi tra personale curante e malati durante il
contagio del Coronavirus che gli Stati hanno manipolato vergognosamente per
accentuare l’addomesticamento.
Una federazione di Comuni è necessaria
oltre che possibile, ma soltanto ricostituendo la società organica che il
produttivismo ha distrutto. Solo l’uguaglianza fraterna, solidale e acratica
reinventata dalla rinascita di un’umanità complice con la natura, potrà mettere
fine ai privilegi miserabili e omicidi di un’oligarchia che ha costruito sull’alienazione
sociale e la reificazione il suo trono di carta moneta ormai solo virtuale.
Sergio Ghirardi, la notte del 4 agosto
2020
[1]
Si era a un miliardo e trecentomila esseri umani nel 1830, quando Fourier
sognava ancora un aumento demografico planetario fino a due miliardi di
individui per realizzare pienamente il nuovo mondo amoroso del suo ideale
falansteriano. Oggi, siamo ormai oltre i sette miliardi di umanoidi che
gioiscono orgasticamente sempre di meno, ma godono virtualmente sempre di più. Confrontati
dolorosamente e tristemente con i feticci mercantili di ogni desiderio, gli
individui si riproducono sempre troppo per la dimensione organica del pianeta
anche se la curva demografica è in crisi.
[2]
La reificazione è la riduzione del soggetto a cosa, dell’essere
in avere, poi in apparenza di un oggetto monetizzato e scambiabile come una
merce qualunque. La sua diffusione ha prodotto il mondo virtuale e robotizzato
congeniale al produttivismo finanziarizzato nell’era del capitalismo in e off
shore.
[3]
Karl Marx, Il capitale, Libro primo,
Prima sezione, capitolo primo, quarto paragrafo, pag. 103: Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano, Editori
Riuniti, sesta edizione, Roma 1967.
[4] “L’esistenza dell’operaio è quindi ridotta all’esistenza di ogni altra
merce”. Karl Marx, Manoscritti
economico-filosofici del 1844, pag. 12, Einaudi, Torino 1968.
[5]
“Come
una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre”.
Karl Marx, op. cit., pag. 621. Non
sentendo il bisogno di precisare la distinzione tra il produrre organico e la
produzione economica, Marx lascia aperta la strada all’ideologia della produzione
preesistente al capitalismo, nemica giurata delle società organiche. In marcia
da qualche millennio, il Leviatano statale-mercantile la percorrerà distruggendo
progressivamente ogni rapporto organico fino alla distruzione programmata della
biosfera, oggi in via di realizzazione. Liberale o di Stato, il capitalismo è
l’ultimogenito prediletto del produttivismo.
[6]
Karl Marx, Lineamenti fondamentali di
critica dell’economia politica (“Grundrisse”)
voll. 1 e 2, Einaudi Torino 1976. Questa parte fondamentale dell’opera di Marx
che include gli appunti critici propedeutici alla stesura de Il Capitale, è arrivata a conoscenza
degli stessi marxisti soltanto nei primi anni cinquanta del secolo scorso, prima
in tedesco poi in francese e italiano, grazie all’opera preziosa e testarda
della minoranza bordighista, eresia intelligente della chiesa bolscevica
sovietica.
[7] Il capitale può sfruttare l’uomo con
l’unico limite della sua sopravvivenza, mentre non può sfruttare la natura
senza subire dei limiti che diventano sempre più evidenti; così come non ha mai
potuto sfruttare in senso economicista le macchine perché soltanto dall’essere
umano vivo – produttore e/o consumatore sfruttabile a piacimento – si può
estrarre plusvalore.
[8] Tengo a ricordare, qui, che Murray
Bookchin ha restituito da molto tempo, nei suoi scritti, l’importanza dovuta al
concetto sottovalutato di società
organica. Un tipo di società umana che non fu mai barbara e/o selvaggia
quanto la civiltà produttivista che ha umiliato la poesia vitale delle comunità
antiche sconvolte e distrutte durante i millenni del suo imperialismo.
[9]
Marija Gimbutas ha contribuito enormemente a queste e altre scoperte che aprono
la porta all’ipotesi di una antica società gilanica – una società organica in
cui la donna era libera.
[10]
Dovunque sul pianeta si sono ripetute le esperienze di un crollo subitaneo di
un dominio precedentemente intoccabile e fiorente: dalla caduta dell’Impero
romano alla fine dell’Ancien Régime, dalla società Maya nello Yucatan alla
desertificazione dell’isola di Pasqua, la natura e la storia non concedono
sconti a chi le ha tradite.
[11] I primi segni di un’attività agricola organica risalgono già al nono millennio prima della nostra era mentre le prime società produttiviste e patriarcali cominciano verso la fine del quinto millennio AC la coltivazione estesa dei cereali da cui nasce l’economia produttivista.
Notes brèves sur LE CAPITAL prés de deux
siècles plus tard
L’analyse de Marx du
processus de production du capital est universellement reconnue, capitalistes
inclus. C’est logique. Manque, toutefois, un élément qu’aux temps du puissant
penseur de Trèves n’état pas encore clairement définissable ni imaginable dans
les proportions qui devinrent ensuite les siennes : l’augmentation
vertigineuse de la population mondiale[1],
phénomène parallèle à la poussée réificatrice d’un productivisme qui a abouti
au consumérisme.
L’importance
relativement récente du croisement de ces deux données a introduit une substance
nouvelle dans le schéma interprétatif de l’économie politique : la
finitude du monde exploitable, donc l’impossibilité, pas uniquement pour le
capitalisme, mais pour son père aussi – le productivisme –, de réaliser indéfiniment
leur commune nature immuable d’accumulation sans fin d’une plus value en
croissance continuelle.
Ce limite n’est
pas de l’ordre de la théologie économiste ni uniquement de la critique marxiste
de l’économie politique, mais physiologique, empirique, animal, organique. En
établissant un point indépassable par la domination, il traduit dans la réalité
l’intuition théorique du Sixième chapitre
inédit du Capital que les recherches passionnées de Jacques Camatte nous
ont restitué après un long oubli, il y a un demi-siècle: le passage de la
domination formelle à la domination réelle du Capital sur le travail humain
(production et consommation désormais inextricables).
Si la démographie
est la mesure d’un fait, la réification[2]
est un facteur qui, avec l’aliénation, caractérise le capitalisme dans son
devenir. L’aliénation fut abondamment et clairement dénoncée par Marx comme un
facteur central du processus de production du capital. Dés les premières pages
de son ouvrage majeure (Das Kapital),
Marx l’a clairement mise sous les réflecteurs de l’intelligence historique et
politique à partir de l‘heureuse intuition pré psychanalytique du fétichisme de la marchandise[3],
mécanisme d’illusion économique dont la publicité est le langage mystique.
L’analyse
puissante de Marx a utilisé ponctuellement en allemand les concepts de Verdinglichung et Versachlichung pour indiquer la réduction des êtres à des choses dans le processus aliénant
de fétichisation des marchandises ; néanmoins, ce sera Lukács qui soulignera l’importance du processus de réification en le
portant puissamment à la lumière en Histoire et conscience de classe, en 1921. Après Lukács, ce sera l’Ecole de Frankfurt (Horkheimer
et Adorno, puis Marcuse) qui développera profondément ce thème. Il sera repris
ensuite par Debord, Vaneigem et autres situationnistes dans leur critique
radicale de la société spectaculaire marchande.
Depuis, toute la critique sociale actuelle s’est nourrie bien ou mal, parfois pire,
de ce concept.
Ce n’est pas
un hasard si la réification – les éléments nécessaires à sa dénonciation
sont déjà présents dans l’analyse marxienne depuis les Manuscrits économico
philosophiques de 1844[4] – n’apparaît pas comme un élément central dans l’apparat
critique du marxisme des origines alors qu’elle devient importante aux premiers
signes de crise d’un bolchevisme qui a été le berceau et le cercueil de
l’idéologie communiste.
Le capitalisme et
sa critique productiviste (car le marxisme est inscrit dans le productivisme)[5]
ne font pas uniquement face aux exploités que le communisme prétend défendre en
les faisant travailler autant que son ennemi déclaré (sinon plus, voir le
masque social de Stakhanov). Ils bataillent toujours aussi avec leur ennemi
commun, historique, primitif et eternel : la société humaine organique –
c'est-à-dire une société en relation symbiotique inaliénable avec la nature dont elle est partie.
Si on ajoute à ces
annotations celle de l’inexistence, jusqu’après la fin de la deuxième guerre
mondiale, de la partie la plus amplement argumentée et ouverte de la réflexion
marxienne que sont les Grundrisse[6], le productivisme marxiste apparaît
dans toute sa dimension tragique, non pas comme un simple retard, mais comme
une falsification « religieuse », nécessaire à la refondation permanente
de l’idéologie communiste.
Comme les premiers
évangiles chrétiens qui nous sont parvenus remontent aux temps de l’empereur
Constantin, au troisième siècle après le Christ hypothétique – écrits en grec
et non pas en araméen comme on aurait pu s’attendre s’ils étaient effectivement
contemporains aux faits relatés –, ainsi la Bible marxiste ignore une bonne
partie de l’œuvre marxienne et, comme par hasard, la partie du doute, des notes
critiques, de la libre réflexion de base qui nourrit une recherche dénuée du
dogme productiviste qui marque intimement Le
Capital.
Le marxisme a
affronté la critique de la relation entre le capitalisme et la nature comme une
contradiction de la civilisation productiviste, mais il n’a pas souligné assez
radicalement la dimension organique de ce conflit[7].
Car Le Capital ne met pas en
discussion le productivisme et les marxistes (plus que le Marx de la fin qui
aimait répéter qu’il n’était pas marxiste) n’arrêtent pas d’appeler barbares et
sauvages les hommes qui précédent la civilisation productiviste. La critique
marxiste du capitalisme est, d’un côté, d’ordre moral (l’exploitation) et de
l’autre côté mécanique-économiste (les problemes de l’industrialisation et les
crises économiques structurelles du moderne mode de production capitaliste, la chute
tendancielle du taux de profit). Dans ce sens, le marxisme s’apprête déjà en
théorie, sans le vouloir, à devenir ce qu’il sera en pratique dans la Russie
soi-disant soviétique et dans ses clones divers et variés par horreur
totalitaire : l’idéologie d’un capitalisme d’Etat.
La décroissance
qui se propose aujourd’hui comme une nouvelle idéologie suite à la faillite
historique de l’idéologie communiste, est née du constat que manque au marxisme
le concept de société organique, barbare ou sauvage qu’on la dise[8].
« Dans un monde fini, une croissance
infinie est une folie démentielle ». Voilà, en synthèse, la version de
l’aliénation capitaliste donnée par les théoriciens de la décroissance, penseurs
trop souvent prisonniers, hélas, d’une logique binaire qui réduit la
décroissance à une énième idéologie incapable de cueillir dialectiquement toute
la richesse de la proposition qu’elle implique.
Comme toujours,
dans le mouvement organique du vivant, on croit et on décroit harmoniquement ou
on meurt. Face à la croissance spasmodique et monomaniaque du productivisme et
de sa phase terminale – le capitalisme – la décroissance économique est un
régime nécessaire pour se soigner de la boulimie consumériste. Cette décroissance
est la conditio sine qua non de la
croissance qualitative du bonheur de vivre auquel aspire l’humanité : son
fonctionnement orgastique qui mélange dans un épicurien cocktail vital,
sobriété et excès maîtrisés, ni suicidaires ni toxiques.
A l’écart, donc,
des aliments fades, de la frustration du plaisir, de la confusion entre
sobriété jouissive et renoncement sacrificiel, du choix moraliste et anti
orgastique d’une survie monotone et asensuelle
où tout excès est vécu comme un peché. Je suis certain que beaucoup de partisans
de la décroissance désirent un bonheur sans limites imposées, sans l’identifier
avec une overdose ni avec une morale anorexique. Car c’est un fait que la
production non organique produit surtout de la poubelle, c'est-à-dire des
cadavres réifiés du vivant.
Le moteur de la
société organique est la quête de la qualité de la vie et sa spiritualité dégage
un hommage égalitaire, tendre et sensuel à la centralité féminine. Respect affectueux
témoigné par les mille statuettes de soi-disant Déesses que l’archéologie a
ramené à la lumière du fin fond de la préhistoire[9],
en interprétant, à tort, ces œuvres d’art acratiques de la joie de vivre comme des
symboles d’une croyance religieuse au féminin.
C’est dans la société
productiviste, où le noyau est le cadavre rentable (la chose) et la poubelle son totem désormais omniprésent sur terre
comme dans les océans, qu’on convertit systématiquement la spiritualité en
religion, humiliation hiérarchique qui rend tabou le libre arbitre en
soumettant l’être humain à la superstition.
Le matérialisme de
Marx a su dénoncer remarquablement un fétichisme de la marchandise devenu
depuis de plus en plus envahissant, mais dans son analyse scientifiquement
fondée du processus de production du capital, il n’accorde pas l’importance due
aux quatre millénaires de résistance antiproductiviste qui séparent les
premiers signes archéologiques de l’apparition de l’agriculture de la parution
des premières Cités-Etat productivistes de la Mésopotamie.
Cela fut le début
cruciale d’une longue histoire aux milles facettes qui a concerné des cultures
et de civilisations fort differentes. L’empire productiviste égyptien, par
exemple, dont les légendaires pyramides sont un monument particulier du culte
de la mort – aliénation religieuse payée par le travail inouï et périlleux de
masses d’esclaves au service des rêves angoissés d’un Pharaon hagard par la
peur morbide de la mort[10].
Plus proche de
nous, arriva ensuite le moment de la polis
grecque qui, a bâti plusieurs empires productivistes belliqueux, despotiques ou
démocratiques, mais toujours fortement hiérarchiques et esclavagistes. Toute
l’histoire de la Grece classique a été accompagnée et guidée par une mythologie
chargée de transformer la société organique matri centrique en une société
patriarcale où Zeus conçoit Minerve – la déesse machiste par excellence – en
l’accouchant par la cuisse pour effacer ainsi la centralité maternelle
acratique de la communauté organique d’origine. Ainsi, avec la création des
Cités-Etat destinées à devenir des empires (surtout celui de Rome, la ville
éternelle) et à engendrer, bien plus tard, le moderne monstre productiviste de l’Etat-nation
(d’abord féodal, capitaliste ensuite), est née notre tragédie !
Marx ne s’aperçoit
pas, ou pas assez, de la résistance au productivisme que les communautés
agricoles des peuples de la cueillette de l’Europe ancienne (et d’ailleurs) ont
pratiqué pendant plusieurs millénaires[11],
en se sédentarisant progressivement sans perdre le plaisir de la balade, du far
niente, du voyage et de la découverte, du don sans contrepartie et du contredon
pour plaisir réciproque. Malgré les périls entourant les sociétés organiques
anciennes, ces êtres profondément humains étaient accompagnés dans leur choix
de civilisation par le désir de ne pas travailler plus que ça, agreablement caressés
par la douceur de vivre d’une centralité féminine grâce à laquelle les
mammifères humains ont développé leur humanité avant de la perdre entre
prédation et suprématisme patriarcal.
En fait, à propos
de la lutte des genres, le marxisme théorique (car dans la pratique le machisme
a triomphé comme partout et le nouveau droit des femmes-camarades fut surtout de
travailler autant que les mâles en plus des tâches ménagères) fut plus
clairvoyant qu’à propos des relations organiques entre l’Homme et la nature dans la lutte des classes, mais il n’a pas su
cueillir la dimension acratique de la centralité féminine. Il a fait une
lecture idéologique de la question féminine en parlant de matriarcat (dont la
logique hiérarchique risque de polluer le féminisme par la même peste
émotionnelle idéologique qui a frappé l’embarrassante dictature du prolétariat d’antan) et d’un communisme primitif jamais existé en tant que tel car, sans le
triomphe du productivisme, les sociétés organiques dont la centralité féminine
était une ressource naturelle, auraient pu produire des sociétés
qualitativement heureuses dont la communauté non productiviste vécue n’aurait
pas eu besoin d’idéologismes pour s’affirmer comme une victoire de toutes et de
tous.
En fait, le
passage des sociétés organiques à la civilisation productiviste est vu par le
marxisme comme un continuum, comme un
progrès de la barbarie à la civilisation et, dans ce sens, le marxisme est un
évolutionnisme (d’ailleurs fortement influencé par les encore récentes théories
de Darwin) qui fait du productivisme le sommet humaniste qui trouvera dans la
révolution communiste son apothéose.
Dans la pratique
socialiste soviétique qui se prétendait l’hors-d’œuvre du communisme à venir,
l’indigestion autoritaire était assurée et garantie par la justification
théologique d’un paradis à venir. Dans la rupture entre Marx et Bakunin au
moment de la Première Internationale,
était déjà présent le conflit entre deux religions en rupture idéologique avec
le transfert mystique habituel : celui de l’au-delà. Autant l’anarchisme, avec sa logique sacrificielle, que le
marxisme, avec son productivisme formellement égalitaire, proposent un en deçà qui a toujours comme leitmotiv la
mort : en donnant la vie pour la révolution les uns, en travaillant
jusqu’à la mort pour le socialisme les autres. Une mort faussement laïcisée que
le fascisme rouge de Staline traduira cyniquement en une activité industrielle,
suivi par plusieurs épigones dignes de lui, de Mao à Pol Pot.
Beaucoup de
libertaires – de Bresci à la Bande à Bonnot, mais les exemples sont multiples,
hier et aujourd’hui, d’une révolte poétique désespérée et du sacrifice
autodestructeur et tragique de beaucoup de subversifs qui ont mis fin à leurs
jours ou qui ont été éliminés avec une violence sadique de la part du pouvoir –
ont souvent préféré la mort plutôt que la non vie, laissant la question de la
révolution sociale irrésolue.
Dans ce sens, en
revanche, le marxisme prête le flanc, et d’autres parties du corps bien plus délicates
et sensibles, au Léviathan qui dit de combattre. Pour cela le marxisme n’a
jamais su se débarrasser de l’Etat qu’il prétende de voir dépérir un jour,
comme par magie. En fait, il l’utilise jusqu’au totalitarisme, pendant son
passage à une pratique qui se prétend soviétique alors qu’elle cache toujours
l’autoritarisme pervers d’un Comité Central autoproclamé.
Encore maintenant,
les marxistes bureaucratiques, mais aussi les plus ouverts et idéologiquement libertaires,
n’arrivent pas à imaginer une société sans Etat, une communauté auto organisée
pour une autogestion généralisée de la vie quotidienne égalitaire et
fraternelle. Et pourtant, il est en train de devenir de plus en plus clair,
face à la nature qui réaffirme ses droits, que la Commune n’est pas morte, bien
au contraire.
Elle est concrète
et possible à partir de chaque situation locale, de chaque groupe d’affinité auto
constitué – au-delà des rêves anarchistes où l’a confine jusqu’à maintenant la
barbarie sauvage de la civilisation productiviste. Quelques exemples
concrets ? Le Chiapas, le Rojava, les assemblées des Gilets jaunes et
d’autres mouvements autogérés d’occupation de la vie pour l’émancipation du
totalitarisme étatique et marchand partout dans le monde, la relation spontanée
de solidarité entre le personnel soignant et les malades pendant la contagion du
Coronavirus que les Etats ont manipulé honteusement afin d’accentuer la
domestication.
Une fédération de
Communes est nécessaire outre que possible, mais uniquement en reconstituant la
société organique que le productivisme a détruit. Seule l’egalité fraternelle,
solidaire et acratique réinventée par la renaissance d’une humanité complice
avec la nature, pourra mettre fin aux privilèges misérables et meurtriers d’une
oligarchie qui a bâti sur l’aliénation sociale et la réification son trône en
papier-monnaie désormais que virtuel.
Sergio Ghirardi,
la nuit du 4 aout 2020
[1] On
était un milliard et 300.000 êtres humains en 1830, quand Fourier rêvait encore
d’une augmentation démographique planétaire jusqu’à deux milliards d’individus pour
réaliser pleinement le nouveau monde amoureux de son idéal phalanstérien.
Aujourd’hui nous en somme à sept milliards d’humanoïdes qui jouissent toujours
moins orgastiquement, mais toujours plus virtuellement. Confrontés
douloureusement et tristement aux fétiches marchands de tout désir, les
individus se reproduisent toujours trop pour la dimension organique de la
planète, même si la courbe démographique est en chute.
[2] La réification
est la réduction du sujet à une chose, de l’être en avoir puis en
paraitre d’un objet monétisé et échangeable comme une marchandise quelconque. Son
essor a produit le monde virtuel et robotisé congénial au productivisme
financiarisé à l’époque du capitalisme in et off shore.
[3] K. Marx, Le
capital, Livre premier : La
marchandise, première section : la marchandise et la monnaie. IV. — Le
caractère fétiche de la marchandise et son secret.
[4] « L’existence
de l’ouvrier est donc réduite à la condition d’existence de toute autre
marchandise ». Karl Marx, Manuscrits
de 1844, Editions sociales, Paris 1968.
[5] “Comme une societé ne peut arrêter de
consommer, ainsi elle ne peut arrêter de produire”. K. Marx, Op. Cit.
Ne
ressentant pas la nécessité de préciser la distinction entre la production
organique et la production économique, Marx laisse ouverte la voie à l’idéologie
de la production préexistante au capitalisme, ennemie jurée des sociétés
organiques. En marche depuis des millénaires, le Léviathan étatiste marchand a
continué ce chemin en détruisant progressivement toutes les rapports organiques
jusqu’à la destruction programmée de la biosphère, désormais entamée. Liberal
ou d’Etat, le capitalisme est le dernier rejeton préféré du productivisme.
[7] Le
capitalisme peut exploiter l’homme avec la seule limite de sa survie, alors
qu’il ne peut exploiter la nature sans subir des limites qui deviennent de plus
en plus évidentes ; ainsi qu’il n’a jamais pu exploiter dans un sens
économiste les machines car seulement de l’être humain vivant – producteur et/ou consommateur corvéable à merci – on peut extraire de la plus value.
[8] Je tiens, ici, à rappeler que Murray Bookchin a restitué depuis
longtemps, dans ses écrits, l’importance du concept sous-évalué de société organique. Un type de société humaine
qui ne fut jamais aussi barbare et/ou sauvage que la civilisation productiviste
humiliant la poésie vitale des communautés anciennes, bouleversées et détruites
pendant les millénaires de son impérialisme.
[9] Marija Gimbutas a contribué énormément à ces découvertes et
à d’autres qui ouvrent la porte à l’hypothèse d’une ancienne societé gylanique –
une société organique où la femme était libre.
[10]
Partout sur la planète se sont répétées les expériences d’un écroulement
soudain d’une domination précédemment intouchable et fleurissante : de la
chute de l’Empire romain à la fin de l’Ancien Régime, de la société Maya dans
le Yucatan à la désertification de l’Ile de Pâque, la nature et l’histoire ne
concèdent pas de ristourne à ceux qui les ont trahies.
[11] Les
premiers signes d’une activité agricole organique apparaissent déjà vers le
neuvième millénaire AC, alors que les premières sociétés productivistes et patriarcales
commencent la culture étendue des céréales qui donne naissance à l’économie productiviste,
vers la fin du cinquième millénaire AC.