giovedì 20 agosto 2020

Brevi note su IL CAPITALE quasi due secoli dopo

The Union of Earth and Water 1618 Painting By Peter Paul Rubens

 

L’analisi del processo di produzione del capitale da parte di Marx è universalmente riconosciuta, capitalisti compresi. È logico. Manca, però, un elemento che all’epoca del potente pensatore di Treviri non era ancora chiaramente definibile né immaginabile nelle proporzioni poi avvenute: l’aumento vertiginoso della popolazione mondiale[1], fenomeno parallelo alla spinta reificatrice di un produttivismo approdato al consumismo.

L’importanza relativamente recente dell’incrociarsi di questi due dati ha introdotto una sostanza nuova nello schema interpretativo dell’economia politica: la finitezza del mondo sfruttabile e quindi l’impossibilità, non solo per il capitalismo, ma anche per suo padre – il produttivismo –, di realizzare indefinitamente la loro comune natura immutabile di accumulazione senza fine di un plusvalore in continua crescita.

Questo limite non è dell’ordine della teologia economicista né unicamente della critica marxista dell’economia politica, ma fisiologico, empirico, animale, organico. Stabilendo un punto oltre il quale il dominio non può andare, esso traduce in realtà l’intuizione teorica del Sesto capitolo inedito del Capitale che le ricerche di Jacques Camatte ci hanno restituito, dopo un lungo oblio, mezzo secolo fa: il passaggio dal dominio formale al dominio reale del Capitale sul lavoro umano (produzione e consumo ormai inestricabili).

Se la demografia è la misura di un fatto, la reificazione[2] è un fattore che insieme all’alienazione caratterizza il capitalismo nel suo divenire. L’alienazione è stata abbondantemente e chiaramente denunciata da Marx come un fattore centrale del processo di produzione del capitale. Fin dalle primissime pagine della sua opera massima (Das Kapital), Marx l’ha messa chiaramente sotto i riflettori dell’intelligenza storica e politica a partire dalla felice intuizione prepsicanalitica del feticismo della merce[3], meccanismo d’illusione economica di cui la pubblicità è il linguaggio mistico.

L’analisi potente di Marx ha usato puntualmente in tedesco i concetti di Verdinglichung e di Versachlichung per indicare la riduzione degli esseri a cose nel processo alienante di feticizzazione delle merci; tuttavia sarà Lukács a porre l’accento sull’importanza del processo di reificazione mettendolo prepotentemente in luce in Storia e coscienza di classe, nel 1921. Dopo Lukács, sarà la scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e infine Marcuse) a sviluppare profondamente questo tema. Sarà poi ripreso da Debord, Vaneigem e altri situazionisti nella loro critica radicale della società spettacolare mercantile. In seguito, tutta la critica sociale attuale si è nutrita bene o male, a volte peggio, di questo concetto.

Non è casuale che la reificazione – gli elementi necessari per denunciarla appaiono nell’analisi marxiana fin dai Manoscritti economico filosofici del 1844[4] – non emerga come un elemento centrale nell’apparato critico del marxismo originario e acquisti invece importanza ai primi segni di crisi di quel bolscevismo che è stato la culla e la bara dell’ideologia comunista.

Il capitalismo e la sua critica produttivista (perché il marxismo è iscritto nel produttivismo)[5] non si confrontano solo con gli sfruttati che il comunismo pretende difendere facendoli lavorare quanto il suo nemico dichiarato (se non di più, vedi la maschera sociale di Stachanov). Si scontrano anche sempre con il loro nemico comune, storico, primitivo ed eterno: la società umana organica – cioè una società in rapporto simbiotico inalienabile con la natura di cui è parte.

Se si aggiunge a queste annotazioni quella dell’inesistenza, fino a dopo la fine della seconda guerra mondiale, della parte più ampiamente argomentata e aperta della riflessione marxiana che sono i Grundrisse[6], il produttivismo marxista appare in tutta la sua tragicità, non come un semplice ritardo, ma come una falsificazione “religiosa”, necessaria alla rifondazione incessante dell’ideologia comunista.

Come i primi vangeli cristiani pervenutici risalgono ai tempi dell’imperatore Costantino, nel terzo secolo dopo l’ipotetico Cristo – scritti in greco e non in aramaico come sarebbe logico attendersi se fossero davvero contemporanei dei fatti narrati –, così la Bibbia marxista ignora una buona parte dell’opera marxiana e, guarda caso, la parte del dubbio, degli appunti critici, della libera riflessione di base che nutre una ricerca scevra da quel dogma produttivista che segna intimamente Il Capitale.

Il marxismo ha affrontato la critica del rapporto tra capitalismo e natura come una contraddizione problematica della civiltà produttivista, ma non ha sottolineato abbastanza radicalmente la dimensione organica di questo conflitto[7]. Il Capitale, infatti, non mette in discussione il produttivismo e i marxisti (più dell’ultimo Marx che amava ripetere di non essere marxista) non smettono di chiamare barbari e selvaggi gli uomini che precedono la civiltà produttivista. La critica marxista del capitalismo è da un lato di ordine morale (lo sfruttamento) e d’altro canto di ordine meccanico-economicista (i problemi dell’industrializzazione e le crisi economiche strutturali del moderno modo di produzione capitalista, la caduta tendenziale del saggio di profitto). In questo senso il marxismo si prepara già in teoria, senza volerlo, a diventare quel che sarà praticamente nella Russia cosiddetta sovietica e nei suoi cloni diversi e variati per orrore totalitario: l’ideologia di un capitalismo di Stato.

La decrescita che oggi si propone come una nuova ideologia in seguito al fallimento storico dell’ideologia comunista, è nata dalla constatazione che manca al marxismo il concetto di società organica, barbara o selvaggia che la si dica[8]. “In un mondo finito, una crescita infinita è una follia demente”. Ecco, in sintesi, la versione dell’alienazione capitalista data dai teorici della decrescita, pensatori troppo spesso prigionieri, purtroppo, di una logica binaria che riduce la decrescita a un’ennesima ideologia incapace di cogliere dialetticamente tutta la ricchezza della proposizione che implica.

Come sempre, nel movimento organico del vivente, si cresce e si decresce armonicamente o si muore. Di fronte al crescere spasmodico e monomaniaco del produttivismo e della sua fase terminale – il capitalismo – decrescere economicamente è una dieta necessaria per curarsi della bulimia consumistica. La decrescita economica è la conditio sine qua non della crescita qualitativa della felicità di vivere cui aspira l’umanità: il suo funzionamento orgastico che mescola in un epicureo cocktail vitale, sobrietà ed eccessi controllati, né autolesionisti né tossici.

Alla larga, dunque, dai cibi insipidi, dalla frustrazione del piacere, dalla confusione tra sobrietà gaudente e rinuncia sacrificale, dalla scelta moralistica e antiorgastica di una sopravvivenza noiosa e asensuale in cui ogni eccesso è vissuto come un peccato. Sono certo che molti sostenitori della decrescita desiderano una felicità senza limiti imposti, senza confonderla con un’overdose né con una morale anoressica. Perché è un fatto che la produzione non organica produce soprattutto spazzatura, cioè dei cadaveri reificati del vivente. 

Museo nazionale di Cagliari statuetta in calcarenite di divinità ...

Il motore della società organica è la ricerca della qualità della vita e la sua spiritualità manifesta un omaggio egualitario, tenero e sensuale alla centralità femminile. Rispetto affettuoso testimoniato dalle mille statuette di sedicenti Dee che l’archeologia ha riportato alla luce dal fondo della preistoria[9], interpretando, a torto, queste opere d’arte acratiche della gioia di vivere come simboli di una credenza religiosa coniugata al femminile.


È nella società produttivista, il cui fulcro è il cadavere redditizio (la cosa) e la spazzatura il suo totem ormai onnipresente in terra come negli oceani, che si converte sistematicamente la spiritualità in religione, umiliazione gerarchica che rende tabù il libero arbitrio sottomettendo l’essere umano alla superstizione.

Il materialismo di Marx ha saputo denunciare magistralmente un feticismo della merce diventato poi sempre più invadente, ma nella sua analisi scientificamente fondata del processo di produzione del capitale, non dà l’importanza dovuta ai quattro millenni di resistenza antiproduttivista che separano i primi segni archeologici della comparsa dell’agricoltura dall’apparizione delle prime città Stato produttiviste della Mesopotamia.

Fu quello l’inizio cruciale di una lunga storia dalle mille sembianze che ha riguardato culture e civiltà molto diverse tra loro. L’impero produttivista egizio, per esempio, le cui leggendarie piramidi sono un monumento particolare di culto della morte – alienazione religiosa pagata dal lavoro prodigioso ed esiziale di masse di schiavi al servizio dei sogni angosciati di un faraone rincoglionito dalla paura morbosa della morte[10].

Più vicina a noi, è stato poi il turno della polis greca che ha dato vita a vari imperi produttivisti bellicosi, dispotici o democratici, ma sempre fortemente gerarchici e schiavistici. Tutta la storia della Grecia classica è stata accompagnata e guidata da una mitologia incaricata di trasformare la società organica matricentrica in una società patriarcale dove Zeus concepisce Minerva – la dea maschilista per antonomasia – partorendola dalla coscia per cancellare così l’acratica centralità materna della comunità organica di origine. Così, con la creazione delle Città-Stato destinate a diventare imperi (soprattutto quello di Roma, città eterna) e a partorire, molto più tardi, il moderno mostro produttivista dello Stato-nazione (prima feudale, poi capitalista), è nata la nostra tragedia!

Marx non si accorge, o non abbastanza, della resistenza al produttivismo che le comunità agricole dei popoli raccoglitori dell’antica Europa (e di altrove) hanno praticato per parecchi millenni[11], sedentarizzandosi progressivamente senza perdere il piacere della passeggiata, del far niente, del viaggio e della scoperta, del dono senza contropartita e del contro dono per piacere reciproco. Nonostante i pericoli che attorniavano le società organiche antiche, questi esseri profondamente umani erano accompagnati nella loro scelta di civiltà dal desiderio di non lavorare mai più di tanto, piacevolmente accarezzati dalla dolce vita di una centralità femminile che ha permesso ai mammiferi umani di sviluppare la loro umanità prima di perderla tra predazione e suprematismo patriarcale.

In effetti, sulla lotta di genere, il marxismo teorico (perché nella pratica il machismo ha trionfato come dovunque e il nuovo diritto delle donne-compagne è stato soprattutto quello di lavorare quanto i maschi in aggiunta ai compiti casalinghi) è stato più lungimirante che sui rapporti organici tra l’Uomo e la natura nella lotta di classe, ma non ha saputo cogliere la dimensione acratica della centralità femminile. Ha dato una lettura ideologica della questione femminile, parlando di matriarcato (la cui logica gerarchica rischia d’inquinare il femminismo con la stessa peste emozionale ideologica che ha segnato l’imbarazzante dittatura del proletariato di un tempo) e di un comunismo primitivo mai esistito in quanto tale perché, senza il trionfo del produttivismo, le società organiche, la cui centralità femminile era una risorsa naturale, avrebbero avuto la possibilità di produrre delle società qualitativamente felici, la cui comunità non produttivista vissuta non avrebbe avuto bisogno di ideologismi per affermarsi come una vittoria di tutte e di tutti.

In effetti, il passaggio dalle società organiche alla civiltà produttivista è visto dal marxismo come un continuum, come un progresso dalla barbarie alla civiltà e, in questo senso, il marxismo è un evoluzionismo (del resto fortemente ma confusamente influenzato dalle ancora recenti teorie di Darwin) che fa del produttivismo l’apice umanistico che avrà nella rivoluzione comunista la sua apoteosi.

Nella pratica socialista sovietica che si pretendeva l’antipasto del comunismo a venire, l’indigestione autoritaria era assicurata e garantita dalla giustificazione teologica di un paradiso a venire. Nella rottura tra Marx e Bakunin nella Prima Internazionale era già presente il conflitto tra due religioni in rottura ideologica con il transfert mistico abituale: quello dell’aldilà. Sia l’anarchismo, con la sua logica sacrificale, che il marxismo, con il suo produttivismo formalmente egualitario, propongono un aldiquà che ha sempre come leitmotiv la morte: facendo dono della vita per la rivoluzione gli uni, lavorando fino alla morte per il socialismo gli altri. Una morte falsamente laicizzata che il fascismo rosso di Stalin tradurrà cinicamente in un’attività industriale, seguito da diversi epigoni degni di lui, da Mao a Pol Pot.

Molti libertari – da Bresci alla Banda Bonnot, ma gli esempi sono tanti, ieri come oggi, di una disperata rivolta poetica e del sacrificio autodistruttivo e tragico di molti sovversivi suicidatisi o eliminati con una violenza sadica da parte del potere – hanno spesso preferito la morte piuttosto che la non vita, lasciando la questione della rivoluzione sociale irrisolta.

In questo senso, il marxismo presta invece il fianco, e altre parti del corpo viepiù delicate e sensibili, al Leviatano che dice di combattere. Per questo il marxismo non è mai riuscito a liberarsi dello Stato che pretende di veder deperire un giorno come per magia. In realtà, lo usa fino al totalitarismo nel suo passaggio a una pratica che si pretende sovietica mentre nasconde sempre l’autoritarismo perverso di un Comitato Centrale autoproclamato.

Ancora oggi, i marxisti burocratici, ma anche i più aperti e ideologicamente libertari, non riescono a immaginare una società senza Stato, una comunità auto organizzata per un’autogestione generalizzata della vita quotidiana egualitaria e fraterna. Eppure, sta diventando sempre più chiaro, di fronte alla natura che riafferma i suoi diritti, che la Comune non è morta, tutt’altro.

Essa è concreta e possibile a partire da ogni situazione locale, da ogni gruppo di affinità auto costituito – oltre i sogni anarchici in cui l’ha confinata finora la barbarie selvaggia della civiltà produttivista. Qualche esempio concreto? Il Chiapas, il Rojava, le assemblee di Gilet jaunes e di altri movimenti autogestiti di occupazione della vita per l’emancipazione dal totalitarismo statale e mercantile, il rapporto spontaneo di solidarietà creatosi tra personale curante e malati durante il contagio del Coronavirus che gli Stati hanno manipolato vergognosamente per accentuare l’addomesticamento.

Una federazione di Comuni è necessaria oltre che possibile, ma soltanto ricostituendo la società organica che il produttivismo ha distrutto. Solo l’uguaglianza fraterna, solidale e acratica reinventata dalla rinascita di un’umanità complice con la natura, potrà mettere fine ai privilegi miserabili e omicidi di un’oligarchia che ha costruito sull’alienazione sociale e la reificazione il suo trono di carta moneta ormai solo virtuale.

 

 

Sergio Ghirardi, la notte del 4 agosto 2020


Municipalismo libertario

[1] Si era a un miliardo e trecentomila esseri umani nel 1830, quando Fourier sognava ancora un aumento demografico planetario fino a due miliardi di individui per realizzare pienamente il nuovo mondo amoroso del suo ideale falansteriano. Oggi, siamo ormai oltre i sette miliardi di umanoidi che gioiscono orgasticamente sempre di meno, ma godono virtualmente sempre di più. Confrontati dolorosamente e tristemente con i feticci mercantili di ogni desiderio, gli individui si riproducono sempre troppo per la dimensione organica del pianeta anche se la curva demografica è in crisi.

[2] La reificazione è la riduzione del soggetto a cosa, dell’essere in avere, poi in apparenza di un oggetto monetizzato e scambiabile come una merce qualunque. La sua diffusione ha prodotto il mondo virtuale e robotizzato congeniale al produttivismo finanziarizzato nell’era del capitalismo in e off shore.

[3] Karl Marx, Il capitale, Libro primo, Prima sezione, capitolo primo, quarto paragrafo, pag. 103: Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano, Editori Riuniti, sesta edizione, Roma 1967.

[4]L’esistenza dell’operaio è quindi ridotta all’esistenza di ogni altra merce”. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pag. 12, Einaudi, Torino 1968.

[5] Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre”. Karl Marx, op. cit., pag. 621. Non sentendo il bisogno di precisare la distinzione tra il produrre organico e la produzione economica, Marx lascia aperta la strada all’ideologia della produzione preesistente al capitalismo, nemica giurata delle società organiche. In marcia da qualche millennio, il Leviatano statale-mercantile la percorrerà distruggendo progressivamente ogni rapporto organico fino alla distruzione programmata della biosfera, oggi in via di realizzazione. Liberale o di Stato, il capitalismo è l’ultimogenito prediletto del produttivismo.

[6] Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (“Grundrisse”) voll. 1 e 2, Einaudi Torino 1976. Questa parte fondamentale dell’opera di Marx che include gli appunti critici propedeutici alla stesura de Il Capitale, è arrivata a conoscenza degli stessi marxisti soltanto nei primi anni cinquanta del secolo scorso, prima in tedesco poi in francese e italiano, grazie all’opera preziosa e testarda della minoranza bordighista, eresia intelligente della chiesa bolscevica sovietica.

[7] Il capitale può sfruttare l’uomo con l’unico limite della sua sopravvivenza, mentre non può sfruttare la natura senza subire dei limiti che diventano sempre più evidenti; così come non ha mai potuto sfruttare in senso economicista le macchine perché soltanto dall’essere umano vivo – produttore e/o consumatore sfruttabile a piacimento – si può estrarre plusvalore.

[8] Tengo a ricordare, qui, che Murray Bookchin ha restituito da molto tempo, nei suoi scritti, l’importanza dovuta al concetto sottovalutato di società organica. Un tipo di società umana che non fu mai barbara e/o selvaggia quanto la civiltà produttivista che ha umiliato la poesia vitale delle comunità antiche sconvolte e distrutte durante i millenni del suo imperialismo.

[9] Marija Gimbutas ha contribuito enormemente a queste e altre scoperte che aprono la porta all’ipotesi di una antica società gilanica – una società organica in cui la donna era libera.

[10] Dovunque sul pianeta si sono ripetute le esperienze di un crollo subitaneo di un dominio precedentemente intoccabile e fiorente: dalla caduta dell’Impero romano alla fine dell’Ancien Régime, dalla società Maya nello Yucatan alla desertificazione dell’isola di Pasqua, la natura e la storia non concedono sconti a chi le ha tradite.

[11] I primi segni di un’attività agricola organica risalgono già al nono millennio prima della nostra era mentre le prime società produttiviste e patriarcali cominciano verso la fine del quinto millennio AC la coltivazione estesa dei cereali da cui nasce l’economia produttivista. 


Rubens, Pieter Paul - MAM-E

Notes brèves sur LE CAPITAL prés de deux siècles plus tard

 

L’analyse de Marx du processus de production du capital est universellement reconnue, capitalistes inclus. C’est logique. Manque, toutefois, un élément qu’aux temps du puissant penseur de Trèves n’état pas encore clairement définissable ni imaginable dans les proportions qui devinrent ensuite les siennes : l’augmentation vertigineuse de la population mondiale[1], phénomène parallèle à la poussée réificatrice d’un productivisme qui a abouti au consumérisme.

L’importance relativement récente du croisement de ces deux données a introduit une substance nouvelle dans le schéma interprétatif de l’économie politique : la finitude du monde exploitable, donc l’impossibilité, pas uniquement pour le capitalisme, mais pour son père aussi – le productivisme –, de réaliser indéfiniment leur commune nature immuable d’accumulation sans fin d’une plus value en croissance continuelle.

Ce limite n’est pas de l’ordre de la théologie économiste ni uniquement de la critique marxiste de l’économie politique, mais physiologique, empirique, animal, organique. En établissant un point indépassable par la domination, il traduit dans la réalité l’intuition théorique du Sixième chapitre inédit du Capital que les recherches passionnées de Jacques Camatte nous ont restitué après un long oubli, il y a un demi-siècle: le passage de la domination formelle à la domination réelle du Capital sur le travail humain (production et consommation désormais inextricables).

Si la démographie est la mesure d’un fait, la réification[2] est un facteur qui, avec l’aliénation, caractérise le capitalisme dans son devenir. L’aliénation fut abondamment et clairement dénoncée par Marx comme un facteur central du processus de production du capital. Dés les premières pages de son ouvrage majeure (Das Kapital), Marx l’a clairement mise sous les réflecteurs de l’intelligence historique et politique à partir de l‘heureuse intuition pré psychanalytique du fétichisme de la marchandise[3], mécanisme d’illusion économique dont la publicité est le langage mystique.

L’analyse puissante de Marx a utilisé ponctuellement en allemand les concepts de Verdinglichung et Versachlichung pour indiquer la réduction des êtres à des choses dans le processus aliénant de fétichisation des marchandises ; néanmoins, ce sera Lukács qui soulignera l’importance du processus de réification en le portant puissamment à la lumière en Histoire et conscience de classe, en 1921. Après Lukács, ce sera l’Ecole de Frankfurt (Horkheimer et Adorno, puis Marcuse) qui développera profondément ce thème. Il sera repris ensuite par Debord, Vaneigem et autres situationnistes dans leur critique radicale de la société spectaculaire marchande. Depuis, toute la critique sociale actuelle s’est nourrie bien ou mal, parfois pire, de ce concept.

Ce n’est pas un hasard si la réification les éléments nécessaires à sa dénonciation sont déjà présents dans l’analyse marxienne depuis les Manuscrits économico philosophiques de 1844[4] – n’apparaît pas comme un élément central dans l’apparat critique du marxisme des origines alors qu’elle devient importante aux premiers signes de crise d’un bolchevisme qui a été le berceau et le cercueil de l’idéologie communiste.

Le capitalisme et sa critique productiviste (car le marxisme est inscrit dans le productivisme)[5] ne font pas uniquement face aux exploités que le communisme prétend défendre en les faisant travailler autant que son ennemi déclaré (sinon plus, voir le masque social de Stakhanov). Ils bataillent toujours aussi avec leur ennemi commun, historique, primitif et eternel : la société humaine organique – c'est-à-dire une société en relation symbiotique inaliénable avec la nature dont elle est partie.

Si on ajoute à ces annotations celle de l’inexistence, jusqu’après la fin de la deuxième guerre mondiale, de la partie la plus amplement argumentée et ouverte de la réflexion marxienne que sont les Grundrisse[6], le productivisme marxiste apparaît dans toute sa dimension tragique, non pas comme un simple retard, mais comme une falsification « religieuse », nécessaire à la refondation permanente de l’idéologie communiste.

Comme les premiers évangiles chrétiens qui nous sont parvenus remontent aux temps de l’empereur Constantin, au troisième siècle après le Christ hypothétique – écrits en grec et non pas en araméen comme on aurait pu s’attendre s’ils étaient effectivement contemporains aux faits relatés –, ainsi la Bible marxiste ignore une bonne partie de l’œuvre marxienne et, comme par hasard, la partie du doute, des notes critiques, de la libre réflexion de base qui nourrit une recherche dénuée du dogme productiviste qui marque intimement Le Capital.

Le marxisme a affronté la critique de la relation entre le capitalisme et la nature comme une contradiction de la civilisation productiviste, mais il n’a pas souligné assez radicalement la dimension organique de ce conflit[7]. Car Le Capital ne met pas en discussion le productivisme et les marxistes (plus que le Marx de la fin qui aimait répéter qu’il n’était pas marxiste) n’arrêtent pas d’appeler barbares et sauvages les hommes qui précédent la civilisation productiviste. La critique marxiste du capitalisme est, d’un côté, d’ordre moral (l’exploitation) et de l’autre côté mécanique-économiste (les problemes de l’industrialisation et les crises économiques structurelles du moderne mode de production capitaliste, la chute tendancielle du taux de profit). Dans ce sens, le marxisme s’apprête déjà en théorie, sans le vouloir, à devenir ce qu’il sera en pratique dans la Russie soi-disant soviétique et dans ses clones divers et variés par horreur totalitaire : l’idéologie d’un capitalisme d’Etat.

La décroissance qui se propose aujourd’hui comme une nouvelle idéologie suite à la faillite historique de l’idéologie communiste, est née du constat que manque au marxisme le concept de société organique, barbare ou sauvage qu’on la dise[8]. « Dans un monde fini, une croissance infinie est une folie démentielle ». Voilà, en synthèse, la version de l’aliénation capitaliste donnée par les théoriciens de la décroissance, penseurs trop souvent prisonniers, hélas, d’une logique binaire qui réduit la décroissance à une énième idéologie incapable de cueillir dialectiquement toute la richesse de la proposition qu’elle implique.

Comme toujours, dans le mouvement organique du vivant, on croit et on décroit harmoniquement ou on meurt. Face à la croissance spasmodique et monomaniaque du productivisme et de sa phase terminale – le capitalisme – la décroissance économique est un régime nécessaire pour se soigner de la boulimie consumériste. Cette décroissance est la conditio sine qua non de la croissance qualitative du bonheur de vivre auquel aspire l’humanité : son fonctionnement orgastique qui mélange dans un épicurien cocktail vital, sobriété et excès maîtrisés, ni suicidaires ni toxiques.

A l’écart, donc, des aliments fades, de la frustration du plaisir, de la confusion entre sobriété jouissive et renoncement sacrificiel, du choix moraliste et anti orgastique d’une survie monotone et asensuelle où tout excès est vécu comme un peché. Je suis certain que beaucoup de partisans de la décroissance désirent un bonheur sans limites imposées, sans l’identifier avec une overdose ni avec une morale anorexique. Car c’est un fait que la production non organique produit surtout de la poubelle, c'est-à-dire des cadavres réifiés du vivant.

Le moteur de la société organique est la quête de la qualité de la vie et sa spiritualité dégage un hommage égalitaire, tendre et sensuel à la centralité féminine. Respect affectueux témoigné par les mille statuettes de soi-disant Déesses que l’archéologie a ramené à la lumière du fin fond de la préhistoire[9], en interprétant, à tort, ces œuvres d’art acratiques de la joie de vivre comme des symboles d’une croyance religieuse au féminin.

C’est dans la société productiviste, où le noyau est le cadavre rentable (la chose) et la poubelle son totem désormais omniprésent sur terre comme dans les océans, qu’on convertit systématiquement la spiritualité en religion, humiliation hiérarchique qui rend tabou le libre arbitre en soumettant l’être humain à la superstition.

Le matérialisme de Marx a su dénoncer remarquablement un fétichisme de la marchandise devenu depuis de plus en plus envahissant, mais dans son analyse scientifiquement fondée du processus de production du capital, il n’accorde pas l’importance due aux quatre millénaires de résistance antiproductiviste qui séparent les premiers signes archéologiques de l’apparition de l’agriculture de la parution des premières Cités-Etat productivistes de la Mésopotamie.

Cela fut le début cruciale d’une longue histoire aux milles facettes qui a concerné des cultures et de civilisations fort differentes. L’empire productiviste égyptien, par exemple, dont les légendaires pyramides sont un monument particulier du culte de la mort – aliénation religieuse payée par le travail inouï et périlleux de masses d’esclaves au service des rêves angoissés d’un Pharaon hagard par la peur morbide de la mort[10].

Plus proche de nous, arriva ensuite le moment de la polis grecque qui, a bâti plusieurs empires productivistes belliqueux, despotiques ou démocratiques, mais toujours fortement hiérarchiques et esclavagistes. Toute l’histoire de la Grece classique a été accompagnée et guidée par une mythologie chargée de transformer la société organique matri centrique en une société patriarcale où Zeus conçoit Minerve – la déesse machiste par excellence – en l’accouchant par la cuisse pour effacer ainsi la centralité maternelle acratique de la communauté organique d’origine. Ainsi, avec la création des Cités-Etat destinées à devenir des empires (surtout celui de Rome, la ville éternelle) et à engendrer, bien plus tard, le moderne monstre productiviste de l’Etat-nation (d’abord féodal, capitaliste ensuite), est née notre tragédie !

Marx ne s’aperçoit pas, ou pas assez, de la résistance au productivisme que les communautés agricoles des peuples de la cueillette de l’Europe ancienne (et d’ailleurs) ont pratiqué pendant plusieurs millénaires[11], en se sédentarisant progressivement sans perdre le plaisir de la balade, du far niente, du voyage et de la découverte, du don sans contrepartie et du contredon pour plaisir réciproque. Malgré les périls entourant les sociétés organiques anciennes, ces êtres profondément humains étaient accompagnés dans leur choix de civilisation par le désir de ne pas travailler plus que ça, agreablement caressés par la douceur de vivre d’une centralité féminine grâce à laquelle les mammifères humains ont développé leur humanité avant de la perdre entre prédation et suprématisme patriarcal.

En fait, à propos de la lutte des genres, le marxisme théorique (car dans la pratique le machisme a triomphé comme partout et le nouveau droit des femmes-camarades fut surtout de travailler autant que les mâles en plus des tâches ménagères) fut plus clairvoyant qu’à propos des relations organiques entre l’Homme et la nature dans la lutte des classes, mais il n’a pas su cueillir la dimension acratique de la centralité féminine. Il a fait une lecture idéologique de la question féminine en parlant de matriarcat (dont la logique hiérarchique risque de polluer le féminisme par la même peste émotionnelle idéologique qui a frappé l’embarrassante dictature du prolétariat d’antan) et d’un communisme primitif jamais existé en tant que tel car, sans le triomphe du productivisme, les sociétés organiques dont la centralité féminine était une ressource naturelle, auraient pu produire des sociétés qualitativement heureuses dont la communauté non productiviste vécue n’aurait pas eu besoin d’idéologismes pour s’affirmer comme une victoire de toutes et de tous.

En fait, le passage des sociétés organiques à la civilisation productiviste est vu par le marxisme comme un continuum, comme un progrès de la barbarie à la civilisation et, dans ce sens, le marxisme est un évolutionnisme (d’ailleurs fortement influencé par les encore récentes théories de Darwin) qui fait du productivisme le sommet humaniste qui trouvera dans la révolution communiste son apothéose.

Dans la pratique socialiste soviétique qui se prétendait l’hors-d’œuvre du communisme à venir, l’indigestion autoritaire était assurée et garantie par la justification théologique d’un paradis à venir. Dans la rupture entre Marx et Bakunin au moment de la Première Internationale, était déjà présent le conflit entre deux religions en rupture idéologique avec le transfert mystique habituel : celui de l’au-delà. Autant l’anarchisme, avec sa logique sacrificielle, que le marxisme, avec son productivisme formellement égalitaire, proposent un en deçà qui a toujours comme leitmotiv la mort : en donnant la vie pour la révolution les uns, en travaillant jusqu’à la mort pour le socialisme les autres. Une mort faussement laïcisée que le fascisme rouge de Staline traduira cyniquement en une activité industrielle, suivi par plusieurs épigones dignes de lui, de Mao à Pol Pot.

Beaucoup de libertaires – de Bresci à la Bande à Bonnot, mais les exemples sont multiples, hier et aujourd’hui, d’une révolte poétique désespérée et du sacrifice autodestructeur et tragique de beaucoup de subversifs qui ont mis fin à leurs jours ou qui ont été éliminés avec une violence sadique de la part du pouvoir – ont souvent préféré la mort plutôt que la non vie, laissant la question de la révolution sociale irrésolue.

Dans ce sens, en revanche, le marxisme prête le flanc, et d’autres parties du corps bien plus délicates et sensibles, au Léviathan qui dit de combattre. Pour cela le marxisme n’a jamais su se débarrasser de l’Etat qu’il prétende de voir dépérir un jour, comme par magie. En fait, il l’utilise jusqu’au totalitarisme, pendant son passage à une pratique qui se prétend soviétique alors qu’elle cache toujours l’autoritarisme pervers d’un Comité Central autoproclamé.

Encore maintenant, les marxistes bureaucratiques, mais aussi les plus ouverts et idéologiquement libertaires, n’arrivent pas à imaginer une société sans Etat, une communauté auto organisée pour une autogestion généralisée de la vie quotidienne égalitaire et fraternelle. Et pourtant, il est en train de devenir de plus en plus clair, face à la nature qui réaffirme ses droits, que la Commune n’est pas morte, bien au contraire.

Elle est concrète et possible à partir de chaque situation locale, de chaque groupe d’affinité auto constitué – au-delà des rêves anarchistes où l’a confine jusqu’à maintenant la barbarie sauvage de la civilisation productiviste. Quelques exemples concrets ? Le Chiapas, le Rojava, les assemblées des Gilets jaunes et d’autres mouvements autogérés d’occupation de la vie pour l’émancipation du totalitarisme étatique et marchand partout dans le monde, la relation spontanée de solidarité entre le personnel soignant et les malades pendant la contagion du Coronavirus que les Etats ont manipulé honteusement afin d’accentuer la domestication.

Une fédération de Communes est nécessaire outre que possible, mais uniquement en reconstituant la société organique que le productivisme a détruit. Seule l’egalité fraternelle, solidaire et acratique réinventée par la renaissance d’une humanité complice avec la nature, pourra mettre fin aux privilèges misérables et meurtriers d’une oligarchie qui a bâti sur l’aliénation sociale et la réification son trône en papier-monnaie désormais que virtuel.

 

Sergio Ghirardi, la nuit du 4 aout 2020



[1] On était un milliard et 300.000 êtres humains en 1830, quand Fourier rêvait encore d’une augmentation démographique planétaire jusqu’à deux milliards d’individus pour réaliser pleinement le nouveau monde amoureux de son idéal phalanstérien. Aujourd’hui nous en somme à sept milliards d’humanoïdes qui jouissent toujours moins orgastiquement, mais toujours plus virtuellement. Confrontés douloureusement et tristement aux fétiches marchands de tout désir, les individus se reproduisent toujours trop pour la dimension organique de la planète, même si la courbe démographique est en chute.

[2] La réification est la réduction du sujet à une chose, de l’être en avoir puis en paraitre d’un objet monétisé et échangeable comme une marchandise quelconque. Son essor a produit le monde virtuel et robotisé congénial au productivisme financiarisé à l’époque du capitalisme in et off shore.

[3] K. Marx, Le capital, Livre premier : La marchandise, première section : la marchandise et la monnaie. IV. — Le caractère fétiche de la marchandise et son secret.

[4] « L’existence de l’ouvrier est donc réduite à la condition d’existence de toute autre marchandise ». Karl Marx, Manuscrits de 1844, Editions sociales, Paris 1968.

[5]Comme une societé ne peut arrêter de consommer, ainsi elle ne peut arrêter de produire”. K. Marx, Op. Cit.

Ne ressentant pas la nécessité de préciser la distinction entre la production organique et la production économique, Marx laisse ouverte la voie à l’idéologie de la production préexistante au capitalisme, ennemie jurée des sociétés organiques. En marche depuis des millénaires, le Léviathan étatiste marchand a continué ce chemin en détruisant progressivement toutes les rapports organiques jusqu’à la destruction programmée de la biosphère, désormais entamée. Liberal ou d’Etat, le capitalisme est le dernier rejeton préféré du productivisme.

[6] Karl Marx, Grundrisse ….Cette partie fondamentale de l’œuvre de Marx qui inclut les notes critiques propédeutiques à l’écriture du Capital, a été acquise à la connaissance des marxistes eux-mêmes uniquement au début des années cinquante du siècle dernier, d'abord en allemand puis en français et en italien, grâce au travail précieux et obstiné de la minorité bordiguiste, hérésie intelligente de l’église bolchevique soviétique.

[7] Le capitalisme peut exploiter l’homme avec la seule limite de sa survie, alors qu’il ne peut exploiter la nature sans subir des limites qui deviennent de plus en plus évidentes ; ainsi qu’il n’a jamais pu exploiter dans un sens économiste les machines car seulement de l’être humain vivant producteur et/ou consommateur corvéable à merci on peut extraire de la plus value.

[8] Je tiens, ici, à rappeler que Murray Bookchin a restitué depuis longtemps, dans ses écrits, l’importance du concept sous-évalué de société organique. Un type de société humaine qui ne fut jamais aussi barbare et/ou sauvage que la civilisation productiviste humiliant la poésie vitale des communautés anciennes, bouleversées et détruites pendant les millénaires de son impérialisme.

[9] Marija Gimbutas a contribué énormément à ces découvertes et à d’autres qui ouvrent la porte à l’hypothèse d’une ancienne societé gylanique – une société organique où la femme était libre.

[10] Partout sur la planète se sont répétées les expériences d’un écroulement soudain d’une domination précédemment intouchable et fleurissante : de la chute de l’Empire romain à la fin de l’Ancien Régime, de la société Maya dans le Yucatan à la désertification de l’Ile de Pâque, la nature et l’histoire ne concèdent pas de ristourne à ceux qui les ont trahies.

[11] Les premiers signes d’une activité agricole organique apparaissent déjà vers le neuvième millénaire AC, alors que les premières sociétés productivistes et patriarcales commencent la culture étendue des céréales qui donne naissance à l’économie productiviste, vers la fin du cinquième millénaire AC.


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