In seguito alla
circolazione del testo di Graeber e Wengrow (su questo sito dal 12 settembre)
ho apportato le mie considerazioni che seguono su questo tema cruciale e ho poi
scambiato un breve dialogo interessante con Daniel Kesselring anch'esso
proposto alla lettura di tutti alla ricerca di una verità comune troppo a lungo
oscurata dalla cultura dominante. Ho infine ricevuto il breve scritto di Raoul
Vaneigem che apporta la sua luce particolare sulla questione. Grazie a Graeber
e a Barravento di aver stimolato tutte queste riflessioni.
Sergio Ghirardi
Non si può cambiare il corso della
storia già accaduta,
ma
si può smettere di farle dire quello che non dice.
Il discorso detto e
scritto, ormai ripetuto incessantemente dalla macchina mediatica – onnipresente
cattedrale virtuale della religione mercantile –, tutela senza ritegno l’uso
della forza che si dice legittima e del sopruso che si pretende legale,
esercitati materialmente dal dominio gerarchico dei signori sugli schiavi.
Le ideologie religiose e
politiche sono uno strumento che il Leviatano produttivista, in particolare, ha
costantemente usato per eliminare gli ostacoli al suo dominio e per
devitalizzare le resistenze al suo imperialismo strutturale. Per manipolare la
realtà ci si è sempre serviti del passato e del futuro. Il futuro è stato addobbato
di paradisi immaginari e d’ipotetici domani meravigliosi che drogano di
speranze illusorie la parte insopportabile del presente.
Ruminando in mille maniere
diverse e spesso contraddittorie sull’idea di una liberazione a venire – al di
qua o aldilà della morte ineluttabile, ma pur sempre lontano dal presente – si
è tolta alle rivolte spontanee dei molti sfruttati per l’arricchimento di pochi,
la forza necessaria per tradursi in emancipazione reale. Insieme al futuro,
però, anche il passato è stato costantemente manipolato per fargli dire quel
che i sottomessi dovevano credere per restare confinati nella loro
sopravvivenza miserabile. Voltandosi indietro, la menzogna dominante mostra
un’altra faccia della stessa medaglia: quella del potere esercitato da alcuni
sui molti con la forza delle ideologie e della violenza sociale.
Masse di esseri umani privati
di libertà sono state destinate per millenni a cambiare spesso nome (schiavi,
servi, lavoratori) ma mai di ruolo; perché se, col tempo, l’esercizio del
dominio ha perso un po’ della sua violenza materiale, non è affatto diminuita
la sua intensità nel passaggio dal giogo schiavista al servaggio, per arrivare,
infine, al lavoro salariato. Si può notare, in proposito, che la schiavitù
informale del “libero” lavoratore moderno non é per nulla riconosciuta come una
cattività: si arriva persino a ringraziare i padroni generosi che donano del lavoro! Il dominio è semplicemente
diventato più intimo, interiorizzato, sostituendo in parte l’alienazione alla
sofferenza fisica e la servitù volontaria all’imprigionamento coatto, con l’obbligo
subdolo di consumare abbondantemente pur restando qualitativamente indigenti,
inquinati, insoddisfatti, sfruttati.
Dalle origini del
produttivismo, la cultura dominante appartiene inevitabilmente a quanti
esercitano il dominio. La storia è stata scritta dai vincitori non perché i
vinti non avessero una loro opinione, ma perché questa era in catene quanto e
forse più degli stessi soggetti asserviti. Persino le date della storia sono
state stabilite dalle gerarchie che si sono impadronite delle società umane, promuovendovi
progressivamente quel produttivismo che, di volta in volta, l’homo economicus ha imposto in modi vari
e con dinamiche diverse, in sostanza dappertutto, colonizzando il pianeta.
Così, fino
all’instaurarsi dell’economia politica capitalista come una teologia universale
del dominio gerarchico, i cristiani hanno inventato un loro calendario
specifico datato dalla presunta nascita del loro supposto figlio di Dio; i
musulmani usano un altro calendario a partire dalle loro profezie medievali e
persino i rivoluzionari borghesi del 1789 hanno sentito il bisogno ideologico
di inventarsi un loro modo particolare di datare la storia.
A ogni nuova rivoluzione
ideologica, il potere religioso e politico non può fare a meno, per imporsi, di
occupare un vissuto sociale che si sogna libero mentre si presenta coatto, impadronendosi
dello spazio-tempo dell’epoca con tutti i mezzi a sua disposizione: le armi, la
violenza, lo stupro, l’umiliazione e la paura, ma anche il mito, la seduzione,
la corruzione e le credenze che l’ideologia giustifica; tutto ciò corrobora
l’importanza di una sindrome di Stoccolma forse anche più vecchia del
produttivismo perché radicata nel lato servile e gregario dell’umanità
sofferente.
Così la storia
riconosciuta come tale è soltanto quella del produttivismo. Il resto è
preistoria. Con la scusa plausibile ma inaccettabile dell’assenza di documenti scritti
che permettano di leggere gli avvenimenti più antichi, la storia è stata datata
dall’invenzione della scrittura. La quale, prima di diventare effettivamente
anche uno strumento di libertà e di poesia, di cultura e di comunicazione, è
stata la traccia indelebile dell’ossessione produttivista nell’accumulare
derrate, beni, merci; perché è dal loro stoccaggio e dalla loro contabilità
scrupolosamente registrata che è nata la ricchezza opprimente del commercio e
dell’accumulazione economica.
Due rivoluzioni bio-sociali
dalla radicalità molto diversa hanno marchiato a fuoco – è il caso di dirlo,
visto che il primo di questi sconvolgimenti fu la scoperta del fuoco –
l’evoluzione dell’umanità. La scoperta del fuoco è stata una prima rivoluzione
bio-sociale condivisa da alcune specie di ominidi più antiche di Neanderthal e di Sapiens, almeno un mezzo milione di anni fa[1]. Si è trattato in realtà
di un addomesticamento, perché evidentemente il fuoco esisteva in natura già
ben prima che una specie composita di mammiferi simili – dei primati in via di
umanizzazione – imparasse a domarlo e ad accedere, dunque, a una rivoluzione
biologica e sociale grandiosa, capace di dare vita alle società umane organiche[2].
Grazie all’uso del fuoco,
infatti, la maniera di nutrirsi della scimmia umanoide è mutata radicalmente,
creando i presupposti della specie umana. La cottura è diventata un’arte
maggiore della specie in fieri e la cucina si è aggiunta all’alcova come
momento cruciale del senso della vita, oltre una sopravvivenza che qualunque
essere vivente difende istintivamente con le unghie e con i denti. Ancora oggi,
nonostante la sessuofobia diffusa e l’alienazione sacrificale che si eccita
soltanto dinanzi alle merci, dall’automobile al dildo, dal telefono portatile
alla nutella, l’arte di cucinare e di fare l’amore restano le due arti maggiori
della specie umana. Nell’intimo in parte rimosso da un superio sempre più
reificato, esse fanno di tutte le altre arti una splendida sublimazione
secondaria non strutturalmente necessaria ma molto importante qualitativamente,
degna di rispetto, di apprezzamento e di quanta libera passione creativa si
voglia.
Per farla breve senza
dimenticare niente, tralascio dunque le rivoluzioni transitorie[3] che hanno apportato una
crescente capacità di produzione di beni utili alle società umane per passare
direttamente, dalla rivoluzione del fuoco alla rivoluzione agraria che ha
introdotto il germe del produttivismo e con esso degli effetti profondamente
biosociali che, nei tempi lunghi, hanno cambiato radicalmente la fisionomia
psicogeografica dell’umano in gestazione.
Se, infatti, il Sapiens (apparso all’incirca duecentomila
anni fa) è l’ultima specie sopravvissuta delle varie genie di ominidi che hanno
apportato ai primati un processo umanizzante durato milioni di anni e ancor
oggi incompiuto, le sue collettività organiche hanno subito, qualche millennio
fa, uno sconvolgimento strutturale – bio-sociale, appunto – che ha prodotto dei
mutamenti decisivi nella loro progressiva capacità di trasformazione della
natura e con essa della natura umana. Se il fuoco ha dunque enormemente
contribuito alla nascita delle società organiche, la rivoluzione agraria produttivista
ha dato loro un colpo destinato col tempo a diventare mortale.
Senza pretendere di
rifare la storia, ma molto desideroso di ampliarne il campo dei possibili con
l’ausilio e il controllo di tutti, mi sono dunque focalizzato sulla rivoluzione
agraria perché essa ha finito per essere una controrivoluzione che ha corrotto
il processo di evoluzione organica della specie umana, artificializzandolo pericolosamente.
Ed è proprio questo passaggio che, la storia dei vincitori ha particolarmente
mitologizzato, falsato e nascosto, restituendo un racconto selettivo e forzato
dei fatti al fine di giustificare e far passare questa mutazione distruttrice
come la nascita della civiltà umana.
Se condivido, dunque,
l’esigenza del compianto compagno Graeber e del suo collega Wengrow[4] di rompere con la favola
di un comunismo primitivo, originario e generalizzato, che gli ideologi
comunisti hanno immaginato come cauzione delle loro rivoluzioni burocratiche a
venire, non mi trovo per niente d’accordo con loro nel negare la consistenza
storica di una rivoluzione agraria. Un tale diniego impedisce di cogliere le
ragioni profonde della tragica situazione attuale mentre l’affermazione
dell’importanza di quest’avvenimento ci dà una chiave di lettura essenziale per
comprendere la realtà. Il che non significa identificare l’agricoltura con il
produttivismo che l’ha monopolizzata, perché il punto dolens della “civiltà” non è stato il passaggio dalla raccolta
spontanea dei primi gruppi ominidi alla scoperta e all’uso organico
dell’agricoltura, ma la successiva appropriazione privativa di questa tecnica
da parte di oligarchie mercantili e guerriere pronte a tutto per riuscire l’affare
che le avrebbe rese ricche e potenti.
Certo, si tratta di essere
chiari su quel che s’intende: in effetti, la pratica dell’agricoltura di cui l’archeologia
data la comparsa attorno ai dieci, undici millenni prima della nostra era (e
forse anche prima in alcuni luoghi dell’estremo oriente), non è stata di per sé
più destabilizzante di altri mutamenti e scoperte importanti della cosiddetta preistoria
e del neolitico in particolare. I popoli raccoglitori che dipendevano dalla
terra, dalle mutazioni climatiche e dai movimenti delle altre specie viventi
per garantirsi la sopravvivenza alimentare, hanno aggiunto la loro nuova
capacità di coltivare la terra come un savoir-faire
in più da applicare alla natura per produrre i beni necessari alla
sopravvivenza e all’addolcimento progressivo della vita. Questo era, infatti, e
resta, il vero progresso, la vera civiltà, l’obiettivo primario d’individui e
società umane: intervenire sulla natura per umanizzarne gli effetti senza
alterare gli equilibri delicati di quella che il linguaggio scientifico moderno
definisce la biosfera e che per gli antichi era semplicemente la natura di cui
l’umano fa parte.
Come non rilevare che
l’umanità ha resistito alla deriva mortifera del produttivismo almeno per
quattro millenni? Durante questo lungo periodo, le comunità agricole
matricentriche si sono guardate dall’alterare gli equilibri organici del
rapporto degli esseri umani con la natura, mentre le tribù patriarcali si
occupavano marginalmente di praticare la predazione e la guerra di conquista
per alimentare il loro sistema bellicoso e parassitario. Tutti i dati in nostro
possesso ci dicono che dall’incrocio tra il parassitismo patriarcale e la
logica produttivista è nata quella rivoluzione agraria che ha trasformato la
vita nel mondo.
Come non porsi oggi la
questione di come uscire dalla trappola che ha trasformato la produzione di
beni utili per vivere meglio e di più, nella produzione economicista di beni
sempre più superflui e inquinanti, sotto la tirannia del valore di scambio
(perché questo è il produttivismo, non l’attività di produrre dei beni utili!)?
Una volta dato inizio alla coltivazione schiavistica dei cereali che ha
introdotto l’accumulazione primitiva produttivista, l’umanità è diventata
schiava dell’ossessione di fare del grano,
rimuovendo, di epoca in epoca, di progresso in progresso, di moneta in moneta,
la questione dell’indebolimento letale delle società organiche che mette oggi
in pericolo la sopravvivenza stessa della specie e di molte altre forme di vita
sul pianeta.
D’accordo con Graeber, in
questo: non facciamo dire nulla alla preistoria come un ventriloquo al suo
pupazzetto, evitiamo di affermare qualunque semplice ipotesi come una verità
accertata. Pur se cominciano ad abbondare i dati empirici che la preistoria
restituisce ai suoi ricercatori appassionati, nessuno può affermare con
certezza delle verità assolute su quei tempi cosi lontani e poco documentabili.
Limitiamoci ai fatti che l’archeologia ci offre e, partendo da essi, esploriamo
quell’archeomitologia consapevole dei
propri limiti e dunque umilmente circospetta, che analizza e interpreta le
scoperte senza perseguire l’obiettivo di farne delle ideologie[5].
L’umanità ha
probabilmente sempre tentato tutti i mezzi a sua disposizione per migliorare le
proprie condizioni di vita, dai più egoisti e cinici ai più collettivi e
affettuosi, dai più ottusi ai più lungimiranti. Solo parzialmente cosciente dei
suoi pregi e difetti, delle sue contraddizioni, l’essere umano ha esplorato
tutte le forme possibili di “progresso”. Resta che se il comunismo primitivo è
un mito ideologico, la tendenza alla solidarietà, all’aiuto reciproco e a
rapporti pacifici in un ambiente naturale è un dato oggettivo che riguarda la
specie umana quanto altri mammiferi, altrettanto se non di più che la tendenza
predatrice. Quest’ultima attraversa la natura come un automatismo animale che
solo la coscienza di specie di
un’umanità ritrovata potrà superare opponendo ai guasti provocati dalla civiltà
produttivista una ricostituzione del progetto umano autentico senza sognare un
impossibile ritorno alle società organiche del passato, ma usando organicamente, tra le tecniche acquisite
nei secoli, quelle utili a realizzare la felicità degli esseri, smettendo di perseguire una ricchezza di averi accumulati che ha ridotto a cose anche gli esseri viventi.
Tramite questa nuova
coscienza di specie nascente, tutto è ancora possibile se ce ne resterà il
tempo, perché l’essere umano non è né buono né cattivo di per sé, ma sa
comportarsi da amico o da nemico e anche meglio o peggio pur di godere della
vita. In realtà, è capace di tutto e la scelta del bene che l’etica, scivolando
in morale, esorta a preferire, non è che un espediente ideologico, un dover
essere intellettuale. Ignorando Epicuro, ci si è dimenticati che la gioia e il
godimento di vivere danno un’altra interpretazione possibile alla scelta del
“bene” anziché del “male”. È, infatti, scientificamente provato che attraverso la
condivisione, la pace, la solidarietà e il godimento sereno si vive meglio e di
più. Il predatore ha in natura vita molto più breve dell’animale pacifico.
Una dinamica orgastica[6] che favorisca l’organizzazione
sociale degli istinti solidali e del sentimento amoroso spontaneo nei confronti
della vita, dei propri simili e, molto spesso, dell’altro genere in particolare,
è dunque concretamente possibile. Si tratta di una scelta non moralista ma tutt’altro
che immorale, che – tanto dal punto di vista pragmatico che emozionale –
rifiuta come cattiva soluzione la predazione, comportamento diffuso ma niente
affatto la norma tra i mammiferi di cui l’essere umano fa parte.
È piuttosto probabile
che, così come scimpanzé e bonobo condividono con noi una quasi totalità del
patrimonio genetico, pur essendo assolutamente diversi se non opposti tra loro
nel funzionamento sociale, anche tra gli umani si siano sviluppate spontaneamente,
ab origine, in maniera concomitante e
diversamente conflittuale, le organizzazioni sociali matricentriche, acratiche
e libertarie ma anche le comunità patriarcali gerarchiche e autoritarie. Se
queste due scelte opposte hanno potuto facilmente convivere quando la specie
era una presenza quantitativamente limitata sul pianeta e ogni gruppo poteva quindi
facilmente esistere in relativa indipendenza e sottoposto a conflittualità
assai rare, con i mutamenti dovuti a ragioni climatiche e all’aumento
demografico della popolazione, i conflitti e gli scontri si sono
inevitabilmente moltiplicati.
Denunciare, come fa
Graeber, l’ideologia idilliaca del buon selvaggio e del comunismo primitivo è dunque
certamente giusto, ma non significa che la rivoluzione agraria non sia esistita
come una svolta finalmente negativa per gli esseri umani. Essa ha, infatti, modificato
profondamente l’evoluzione della specie che è passata dal rapporto organico,
con e nella natura, a una volontà pretenziosa di dominio (l’hybris tanto aspramente denunciata nella Grecia antica) che il patriarcato produttivista ha esteso
alla donna, agli schiavi di entrambi i generi e di qualunque età e alla natura,
con un’attitudine becera, sadica e predatrice. La rivoluzione agraria
produttivista ha introdotto nella vita degli esseri umani il lavoro. Il labor, tortura che il produttivismo ha
reso necessaria e che aggiunge alla cattività forzata lo sfruttamento della
forza-lavoro altrui, ha spinto alla moltiplicazione delle guerre per procurarsi
schiavi per i campi, per la casa e per il letto.
Trovo difficile stabilire
se la schiavitù fosse già praticata puntualmente ai primordi organici della
specie – è possibile, direi, ma non più del cannibalismo e di una sessualità
rozza e approssimativa perché povera della poesia orgastica che illumina il
vivente quando la bestia partorisce finalmente l’essere umano. Prima di ciò si
era ancora agli albori animali di mammiferi onnivori e non carnivori, capaci di
gerarchie feroci e patriarcali ma anche di centralità femminili acratiche,
affettuose e conviviali. Quel che è certo, invece, è che lo schiavismo – insieme
alla gerarchia di genere, riguardante anch’essa altrettanto il lavoro che la
sessualità – ha segnato millenni di vicende umane della società produttivista con
uno sfruttamento sistemico dei più deboli, facendo della storia riconosciuta
come tale una lotta di classe permanente.
Mi ripeto in sintesi
sull’essenziale: la rivoluzione agraria produttivista
è il mutamento disgraziato cui l’umanità ha resistito per millenni (all’incirca
dal decimo al quinto prima della nostra era, quando sono apparse numerose
città-stato nella pianura mesopotamica – forse esse stesse successive a un
processo analogo ancora da approfondire che potrebbe averle anticipate qui e là
in altre parti del mondo). Una volta concretizzato il sopravvento patriarcale e
produttivista di cui la mitologia greca ci dà una ricca narrazione, questo
sconvolgimento fondamentale ha segnato il lento ma inarrestabile passaggio
dalle società organiche di raccoglitori, diventati nel frattempo anche agricoltori
di sostentamento, a società produttiviste che hanno introdotto l’appropriazione
privativa, l’accumulazione di beni e lo scambio economico come meccanismi di
base del loro funzionamento. Strettamente legato, al suo inizio, alla
produzione agricola intensiva di cereali –accumulabili e stoccabili nei tempi lunghi, a differenza di frutti e
altri prodotti della natura consumabili, ma rapidamente deteriorabili –, questo passaggio, assolutamente
rivoluzionario da un punto di vista sociale, era destinato a diventarlo anche
dal punto di vista biologico.
Con
la modernità, da quest’accumulazione agraria dipendente dal dominio sui
territori oltre che sul lavoro umano (ricordiamoci che i primi economisti
fisiocratici consideravano la terra e la potenza di produzione agricola la sola
vera fonte di ricchezza) si è passati all’industrializzazione che l’economia
politica celebra da secoli come il progresso assoluto. In realtà, la tecnologia
industriale produttivista (applicata del resto tanto alle fabbriche che
all’agricoltura) è giunta ormai a produrre, come conclusione finale della rivoluzione
agraria, il crollo degli equilibri biologici ed ecologici necessari alla vita.
* * * * *
Così la fine programmata
delle società organiche ha visto trionfare quell’homo economicus che è la
radice arcaica dell’homo trans umano ormai
fantasticato dagli alienati di ultima generazione.
Il precipuo della verità
è di mutare parzialmente nello spazio e nel tempo, pur restando sempre coerente
nella sua totalità. La verità di ieri può diventare la menzogna di oggi. Relativamente,
però, perché la verità verificabile
dura nel tempo finché sussistono le condizioni che l’hanno prodotta. Si tratta,
dunque, di imparare da tutti senza diventare discepoli di nessuno, mescolando i
dubbi alle convinzioni per renderle stabili e farle vivere anziché adorarne il
cadavere. Solo così si vive da liberi esploratori del reale, vale a dire da esseri
umani in simbiosi armonica con la natura di cui fanno parte.
Su questo punto cruciale
s’innesta la coscienza di specie che ho
ripetutamente citato e che rompe con l’artificializzazione della vita
cominciata con la rivoluzione agraria ed esplosa con l’industrializzazione
produttivista. Essa appare come la realizzazione e il superamento di quella coscienza
di classe[7] che è stata l’ultima forma
di coscienza alienata prodotta dal
produttivismo. Necessaria alla lotta dei disagiati, sfruttati e alienati
durante il processo di artificializzazione della vita chiamato progresso, in
realtà la coscienza di classe ha contribuito, in nome degli sfruttati, all’hybris
produttivista. Come sarebbe potuto venire in mente, altrimenti, ai teorici del
proletariato, di rivendicare la sua dittatura, fosse pur transitoria?
Ecco
due postulati che alimentano una coscienza di specie sempre più diffusa nella
società umana:
1)
Lo Stato si abroga, non deperisce mai, magicamente, da solo – incompatibile con la democrazia
diretta, anche quando non è più niente, continua a esercitare imperterrito i
suoi privilegi che tocca a noi di abolire;
2) La dittatura si
combatte da qualunque parte essa venga perché non è mai di per sé transitoria – nel migliore dei casi, essa crolla
sotto le rovine di un muro che non abbiamo mai finito di demolire.
L’ideologia comunista
autoritaria che ha monopolizzato la coscienza di classe di un’intera epoca, mescolava
la giusta rivendicazione proletaria dell’emancipazione con la difesa del
progetto artificiale alla radice dello sfruttamento dell’essere umano: il
produttivismo. Il peggior limite del marxismo è pretendere di abolire il
capitalismo senza rompere con il produttivismo, finendo ineluttabilmente per
partorire un capitalismo di Stato.
Bisogna imparare da Marx,
come da parecchi altri esseri umani dal pensiero ricco, generoso e talvolta
sublime, senza diventare discepoli di nessuno. Non ha senso scegliere tra Marx
e Proudhon, tra Marx e Bakunin, tra l’uno o l’altro degli stendardi che la
religione politica porta a passeggio in ogni via crucis dell’ideologia rivoluzionaria. Si tratta di scegliere
sempre modestamente se stessi in quanto individui sociali autonomi e solidali
nella Comune-mondo che la coscienza
di specie progetta dal locale al planetario; bisogna essere costruttivi ma
attentamente autocritici, perché in ognuno sonnecchia il virus potenziale di un
prete pestilenziale che propone le sue convinzioni come una verità dogmatica.
Ricordiamo, con gli zapatisti del Chiapas, che non ci sono modelli da seguire,
solo esempi da studiare, sostenere solidalmente e in totale autonomia per
affinare la radicalità della propria Comune da costruire.
La credenza, ogni
credenza, è il brodo di coltura della servitù volontaria che ha fatto della
scimmia diventata umana un essere artificiale che non è neppure più scimmia, ma
zombi etero diretto da un’ideologia. Questo processo alienante è il segnale
inequivocabile della terribile controrivoluzione sociale e finalmente biologica
che l’essere umano si è autoimposto con l’introduzione del produttivismo nella
sua evoluzione. Trasformando il mezzo
necessario di produrre dei beni per vivere sempre meglio nel fine unico e ultimo della società, l’homo economicus
ha sfidato la natura come un nemico da combattere e dominare, e con essa la
donna, gli altri esseri umani e le altre specie animali. Il rapporto tra
l’essere e l’avere si è rovesciato e la predazione, elemento ambivalente da
superare attraverso l’umanizzazione, è diventata il modus vivendi di tutte le società patriarcali e gerarchiche.
Questo ciclo terribile ma
affascinante perché investe –
negandola – tutta l’umanità degli
esseri umani, è cominciato precisamente con quella rivoluzione agraria che ha trasformato l’umano incompiuto in bestia
da soma e poi in macchina computerizzata, valorizzatrice di un feticcio
religioso che comprende tutte le credenze passate: il feticismo della merce. La
merce è il dio reificato di un misticismo totalitario di cui l’economia
politica è la teologia che ha imposto il dominio del commercio e della sua
civiltà sulle società organiche sottomesse a un’artificialità invadente.
Stato e Mercato hanno imposto
lo scambio redditizio come valore principale dell’attività umana, poi come
l’unico possibile nell’attuale mondo finanziarizzato in cui solo il denaro
circola liberamente e gli esseri umani sono confinati
con scuse sempre meno plausibili. Una volta reso accessorio il valore d’uso dei
beni, il denaro materiale tende a sparire diventando virtuale e trasformando il
condizionamento imposto alla società dalle leggi economiche in addomesticamento
assoluto, sotto il controllo totalitario del Grande fratello economicista.
Per la civiltà
produttivista di cui il capitalismo è il figlio e l’erede finale, tutto è buono
per incatenare gli oppressi. Dal terrorismo politico a quello virale, questi
mostri che oscillano dal mitologico al reale, vengono qualche volta creati,
spesso aiutati e mitizzati ma sempre ufficialmente esecrati. Questa strategia
riguarda tanto il terrorismo islamista che il coronavirus, passando per la
polvere di perlimpinpin della
violenza estremista ultraminoritaria che parassita le prime manifestazioni
pubbliche della coscienza di specie nascente, con o senza gilet jaune. Ovunque
l’umanità si risveglia, i resti di una rabbia cieca e bloccata, in cerca inconscia di un palazzo d’inverno che non esiste
più o di una marcia su Roma che la storia umana ha già fucilato nel 1945, è machiavellicamente
agevolata, a dosi omeopatiche, dai governi produttivisti che adorano i cattivi
“casseurs” per criminalizzare, di fronte all’opinione pubblica spaventata di
una democrazia spettacolare, l’insurrezione della vita quotidiana – unico
nemico di cui hanno davvero paura.
Da tempo, l’obiettivo del
sistema globale è quello di confinare definitivamente gli esseri umani nei loro
ghetti produttivisti. Il suo progetto totalitario consiste nel fare di ogni
pecora il proprio cane che autogestisca l’universo carcerale della sopravvivenza
dei cittadini produttori-consumatori. Per questo il coronavirus è un vero e
proprio “dono di dio” che i preti produttivisti esibiscono sugli altari delle
loro messe mediatiche, alternando paura e cinismo. La trappola è innescata, a
noi di evitare ogni misticismo virale:
che tu sia disponibile o no, che tu serva molto o poco, sono pronto a usarti
per precauzione, non a fare di te un velo mistico produttivista per o contro il
quale battersi. Né ti adoro né ti aborro. Ti uso e soprattutto ti getto. TI
CONOSCO MASCHERINA!
La realtà non può essere
questa, il loro carnevale macabro non può essere il nostro. Eppure, di fronte a
quest’ultima manipolazione che approfitta della pandemia per spostare il
cursore dell’alienazione a un livello mai raggiunto prima, certuni sono ancora bisognosi
di un millenarismo arcaico per opporre ai diktat della religione ufficiale un’eresia
equivalente. Mentre il sistema usa il coronavirus facendone un diavolo utile
per sacralizzare di nuovo il dio produttivista in perdizione, una troupe di “miscredenti
da social”, vittima della
reificazione generalizzata, nega la pericolosità del virus come i creazionisti
negano l’evoluzione, spingendo le intelligenze sensibili atee e agnostiche
verso l’assurda logica binaria di un misticismo che svilisce la spiritualità
naturale dell’essere umano in cerca di totalità vivente[8].
Il misticismo è, infatti,
l’errata interpretazione delle situazioni psicogeografiche in cui si sviluppa
organicamente la complessità del vivente e, come ogni virus della peste
emozionale, può valersi di qualunque pozione ideologica. Nutrito da rumori che
si presentano come verità scientifiche, il misticismo è una paranoia dell’intelligenza
sensibile che nega la parte di realtà che incute paura per mezzo di una
lucidità allucinata in cerca del diavolo. Questa emotività patologica,
defraudata dell’intelligenza sensibile da secoli di alienazione, si accontenta
di negare quel che il potere afferma approfittando delle sue innumerevoli
menzogne. Si rischia cosi di spingere una parte degli avversari del discorso
ufficiale verso un manicheismo suicida che trasforma la paura rimossa della
morte in gregarismo fideistico. La lotta per la vita si rovescia cosi in un
ultimo grottesco e involontario “Viva
la muerte!”.
Liberandosi dell’ipnosi
della logica binaria, l’umanità deve interrompere il processo letale che l’ha
separata dalla natura e ne prepara la rovina definitiva. Tutti i segnali sono
là per ricordarcelo e spingerci a far presto. Nessun ambientalismo gregario
dell’economia salverà la specie. La salute e la felicità che essa sottende non
permettono più compromessi. Solo un progetto di ecologia radicale per abolire
il capitalismo e restaurare la vita organica contro la peste emozionale che
l’economia politica secerne, potrà incarnare la rivoluzione di una coscienza di
specie che, come tutti noi che ne siamo i portatori, non ha alcuna certezza di
farcela, ma non ha altra scelta.
Fino a ieri la critica ha
denunciato l’intollerabile, l’assurdo, il riprovevole, l’alienato senza mai
sovvertirne il potere. Oggi si tratta di abolirlo. Domani rischia di essere
troppo tardi.
Sergio Ghirardi,
10 ottobre 2020
Scambio di mail con Daniel Kesselring:
Salut
Sergio,
va
come può andare, il mondo è marcio ma la vita è bella!
Ho
letto il tuo testo e sono d’accordo con la maggior parte delle idee.
Giovedì
faremo una serata in omaggio a Graeber e rileggerò gli ultimi capitoli di “5000
anni del debito”, “La democrazia ai margini” e “Come se fossimo già liberi”.
Non
ho forse letto il testo cui fai riferimento, ma nel momento in cui si può
tentare di fare un bilancio del contributo di Graeber non solo al pensiero
critico contemporaneo ma anche all’elaborazione pratica de “l’occupazione della
vita” (Occupy Wall Street), poi all’elaborazione teorica che ne consegue, con
lo studio approfondito degli aspetti tattici e strategici, il fatto che abbia
sottovalutato l’importanza della rivoluzione neolitica non mi pare molto
importante.
Opporre
Scott (autore di Zomia e di Homo domesticus, NdT) a Graeber non mi
pare giudizioso nella misura in cui Graeber ha preparato il terreno e reso
possibili i lavori di Scott. Come Clastres prima di lui. (E Mauss che è anche
l’ispiratore di “5000 anni del debito” di Graeber).
La
principale critica che ti faccio è che ho l’impressione che ti rifugi in una
sorta di primitivismo economico.
Avrei
adorato vivere nel mesolitico, ma il produttivismo è principalmente consistito
nel produrre pletore di esseri umani e questa sovrapproduzione riduce sempre
più la gamma dei modi di vita possibili.
La
transizione verso un avvenire non apocalittico non può fare l’impasse
sull’esigenza di decorticare tutte le fumisterie schiavistiche che si rivestono
della parola prigioniera di Economia.
La
transizione dovrà appoggiarsi su una fissazione del valore, condizione
necessaria per il superamento dell’economia.
Non
ho il tempo per sviluppare un’affermazione che ti sembrerà perlomeno perentoria!
Ti
auguro una bella estate indiana e ti abbraccio affettuosamente.
Baci
da Alessandra
Caro
Daniel,
Grazie,
innanzitutto per lo scambio che arricchisce.
Sono
d’accordo con la maggior parte delle cose che tu rilevi, ciò che accentua un
po’ di più l’importanza di qualche disaccordo puntuale e certamente superabile
dal dialogo:
1)
Non oppongo nessuno a nessuno. Ho scritto chiaramente nel mio testo che non
scelgo “tra Marx e Proudhon” eccetera.
2)
Graeber è per me un camarade compianto
di cui apprezzo la qualità e condivido lo spirito di fondo e le molte
intuizioni importanti (ho aggiunto io la versione in francese del testo in
questione di Graeber e Wengrow che puoi leggere su Barravento del 12 settembre)
ma la sua sottovalutazione della rivoluzione agraria è per me un errore grave
da cancellare. Ecco tutto.
Tanto
più che Graeber ha lavorato con Sahlins e ha ben integrato, secondo me, il
meglio di Bookchin senza cadere nelle derive bookchiniste, aggiungendo, come tu
ricordi, la sua prossimità con Mauss.
Condivido
meglio che posso tutto ciò. Si può essere in disaccordo con la mia critica
puntuale, ma bisogna allora spiegare il perché. Io non amerei vivere nel
passato, ma in un futuro che impari dal passato quel che è stato tragicamente
cancellato o dimenticato sul cammino drammatico (anche da un punto di vista
demografico, certo) del nostro presente.
Hai
certamente altro da fare di più importante, ma se mi leggi con attenzione, io
non esprimo alcuna nostalgia primitivista. Al contrario: bisogna superare
RADICALMENTE l’economia politica, mai il termine superamento fu più urgente!
Si
potrà, spero, sviluppare meglio bevendo insieme in questo presente che prosegue
in eterno sempre più claustrofobico; in cui la vita è bella, certo, ma ti
confesso che ho sempre maggiori difficoltà a incontrarla nel quotidiano.
Augurandoti
il meglio, ti abbraccio con tutta la mia amicizia e con te i tuoi cari, sergio
L’arte
della confusione succede al cinismo della menzogna
Arrivando
ai suoi limiti e alla sua fine, la civiltà agro-mercantile mette in luce
contemporaneamente il fenomeno che ha presidiato la sua apparizione e la
confusione scientemente coltivata sulle sue origini.
La
vita, lo sappiamo, sperimenta in permanenza delle nuove forme di esistenza.
Esse nascono, si sviluppano, si consolidano, si atrofizzano, spariscono per
ragioni che non abbiamo preso troppo la pena o il piacere di esplorare. Ne è
testimonianza la creazione dal caos
delle specie minerali, vegetali, animali e umane tra cui i dinosauri, gli
ominidi, l’Uomo di Neanderthal, l’Uomo di Flores, l’Uomo di Denisova. Tuttavia,
l’ombra del grande Orologiaio continua a occultare le coscienze e il favore preferito
delle culture mercantili va al peggiore avatar dell’ominide, l’homo economicus.
Partigiani
e detrattori del sistema dominante si affrontano in un’arena in cui i
combattimenti sono truccati. Mentre milioni di esseri muoiono lottando per
vivere, storici, archeologi, sociologi e altri esperti si sforzano di recitare
un ruolo nello spettacolo culturale le cui poste sono principalmente polemiche
e si riducono a battibecchi di prestigio. Tuttavia, sotto il ridicolo di chi
“piscia più lontano” è il territorio, cosi innaffiato e delimitato da ognuno,
che diventa rivelatore. È là che gli interessi mostrano fino a che punto siano
manipolati dai vecchi pregiudizi.
Il
conservatorismo dispone del peso delle idee tradizionalmente preconcette. Non
ci si stupirà oltremisura che gli specialisti s’interessino piuttosto dell’oggetto dei loro studi che della loro
soggettività di osservatori, tanto ordinariamente inficiata da pregiudizi
sessisti, patriarcali, elitisti, vuoi razzisti.
Nel
campo avverso, il progressismo ha buon gioco nel denunciare le tare di quelli
che Rimbaud chiama I Seduti[9]. Con la soddisfazione della rivincita, il femminismo si diletta ad
assestare una dura correzione agli ultimi sapienti apertamente o ipocritamente misogini.
Con
maggiore giustezza e pertinenza, l’etologia devasta la fortezza in cui si
conserva ancora, per quanto indebolito sia, il dogma di una civiltà prodotta dal genio di quell’Uomo la cui
lettera maiuscola vuol fare dimenticare che si tratta solo di un aborto
dell’ominide: l’homo economicus.
L’apporto
degli etologi rimette in discussione le nostre conoscenze stratificate – del
resto succede lo stesso per l’insieme delle scienze che il soffio dell’aria
nuova rivivifica. Ha mostrato che gli ominidi e le loro civiltà (per non citare
sommariamente che l’Europa: Aurignaziano, Gravettiano Solutreano, Magdaleniano,
Aziliano) evolvono affinando e sforzandosi di superare – vale a dire negare e
conservare – il comportamento animale in cui predazione e aiuto reciproco si
alternano e si coniugano.
Ebbene,
una stessa aberrazione, una stessa ignoranza voluta equipara conservatori e
progressisti. Entrambi hanno sotto gli occhi un’evidenza che occultano
deliberatamente. Si può convenire che il concetto di Rivoluzione agraria non
renda esattamente conto di uno sconvolgimento dei comportamenti, delle
pratiche, delle mentalità, delle sensazioni che mette due o tre millenni a
compiersi. Resta che esiste uno scarto considerevole tra due stadi della nostra
evoluzione.
Al
periodo che abbraccia la fine del paleolitico superiore e l’inizio del
neolitico é seguita l’instaurazione di una civiltà fondata sulla schiavitù e
sullo sfruttamento della natura a fini di profitto. È una degenerazione brutale
dell’evoluzione in corso, una battuta d’arresto inflitta all’umanizzazione
dell’ominide. L’importanza accordata dai Bonobo all’aiuto reciproco, alla
preoccupazione di calmare i conflitti, al sostegno dei più deboli, non
lascerebbe forse augurare per l’umanità nascente delle forme di società solidali che raccolgano e affinino la manna
terrestre restando in simbiosi con la natura, la cui fecondità riconosceva analogicamente alla donna una preminenza
acratica? Perché la vera specificità umana è la creazione di sé e del mondo,
non la loro miserabile trasformazione in merce.
Questa
stasi involutiva segna lo snaturamento di un’evoluzione naturale. Essa é
prodotta dall’emergenza di un sistema economico fondato sull’appropriazione del
suolo, attraverso il saccheggio delle risorse naturali. Essa segna l’atto di
nascita di una società disumana il cui grottesco crollo minaccia oggi di coinvolgere
nella sua morte programmata una specie che non ha mai smesso di devitalizzare.
Si
capisce che il conservatorismo che considera la civiltà mercantile la Civiltà
per eccellenza, dileggi le civiltà della raccolta e preferisca il Logos scambista e il potere gerarchico
al modo di vita delle società preagrarie studiate da Marshall Sahlins in L'economia
dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive.
Tuttavia è assai sorprendente che un eminente etologo come Frans de Wall non
prenda molto in conto un fenomeno storico tanto catastrofico per l’uomo che per
la bestia.
Più
sorprendente ancora è la tiepidità critica che assimila al mito del buon
selvaggio in voga nel diciottesimo secolo le ipotesi azzardate sul
comportamento della donna e dell’uomo nelle civiltà anteriori alla civiltà
produttivista e mercantile. Si direbbe che gli ultimi intellettuali soffrano
nello stesso tempo di sentirsi svalutati nel loro statuto di funzionari dello
spirito e di essere contaminati dallo stupefacente degrado mentale che
testimoniano i loro signori e mentori, aberranti deiezioni di un sistema che li
governa e che non governano più.
Nessuno
pretende che il mito dell’Età dell’oro rimandi a una società idilliaca né alla
finzione che è il comunismo primitivo, ma è forse una ragione per ignorare o
trattare con condiscendenza le ipotesi di Gimbutas e delle sue discepole e
discepoli che evocano l’irruzione di una popolazione proveniente dal nord della
Siberia di allevatori di cavalli e di costruttori di tombe dette “kurgan”?
Non
c’è forse uno stratagemma nel servirsi del mito del buon selvaggio per
attaccare gli ultimi vagoni delle civiltà preagrarie alla locomotiva della
civiltà mercantile? Bella falsificazione intellettuale, del resto, privilegiare
l’ideologia (incontestabile) a spese della volontà iniziale e altrettanto
incontestabile di un Diderot e di un Rousseau, preoccupati di riabilitare la
natura riabilitando l’essere umano che ne fu escluso? Quel che fa la ricchezza
dei Rabelais, Montaigne, La Boétie e degli intellettuali illuministi, è lo
slancio di generosità che imprimono alle mentalità e ai costumi. La loro
volontà di stimolare il senso umano predomina sul pensiero che con successi
diversi si sforza di renderne conto.
Progressista
o reazionario, l’intellettuale porta in sé la tara di una disumanità inerente
alla sua funzione gerarchica dominante. A causa di questa separazione tra il
suo pensiero e la vita quotidiana che provoca il suo malessere, ricorre al
rituale esorcistico dell’eccesso di critica per calmarne il prurito. Orbene,
non c’è per l’intellettuale e il manuale che tutti siamo, altro sbocco se non
il superamento che solo renderà possibile l’eradicazione dell’alienazione
economica.
A
difetto di questa lotta che ognuno combatte con se stesso, c’è da temere che un
buon numero di pensatori specializzati finiscano per assomigliare a quegli
esperti della scienza archeologica che accusarono gli scopritori delle pitture
rupestri di Altamira di averle dipinte.
Raoul
Vaneigem, 13 ottobre 2020
[1] La recente scoperta di un focolare
nella grotta africana di Wonderwerk, potrebbe spostare la datazione della
scoperta del fuoco a un milione di anni fa.
[2] «L’idea che il destino dell’uomo sia di dominare la natura non è affatto
un tratto universale della cultura umana. [...] Quanto più procediamo a ritroso
verso le comunità senza classi economiche e senza Stato politico – società che
possono essere definite organiche per la loro forte solidarietà interna e con
il mondo naturale – tanto maggiori prove troviamo di una visione della vita che
si rappresenta le persone, le cose e le relazioni in termini di unicità anziché
in base a una loro “superiorità” o “inferiorità”. [...] Nelle varie società
organiche in cui prevale ancora questa concezione, concetti come “uguaglianza”
e “libertà” restano indefinibili». Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, Eleuthera, Milano 1986.
[3]
Mi riferisco all’età della
pietra e a quelle del bronzo e del ferro, queste ultime successive
all’irruzione dell’agricoltura produttivista e, guarda caso, particolarmente dedite
al perfezionamento delle armi da guerra.
[4] Vedi in Barravento pensiero: David
Graeber, David Wengrow, Come cambiare il
corso della storia umana.
[5] Onore a Marija Gimbutas che ci
parla dell’evidenza di una centralità femminile in un’Europa antica da Lei
profondamente studiata e scavata, rifiutando di farne un’ideologia femminista e
preferendo parlare – appunto, archeomitologicamente
– di una sociètà gilanica in cui la
libertà e la centralità acratica della donna erano fatti accertati. Molto
importanti anche i suoi studi sulle invasioni Kurgan, popolazioni patriarcali
preproduttiviste che hanno oggettivamente preparato il terreno alla rivoluzione
agraria di cui è qui questione.
[6] L’aggettivo orgastico è tributario delle ricerche di Wilhelm Reich sulla
funzione dell’orgasmo che questo scienziato appassionato colloca al centro del
funzionamento vitale.
[7] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967.
[8] Lebendige
totalität, diceva
Lukács sempre in Storia e coscienza di
classe.
[9] Les assis é un poema di Rimbaud del settembre 1871, subito dopo la
fine tragica della Comune (NdT).
A propos de la préhistoire contemporaine
Suite à la circulation du texte de
Graeber et Wengrow (sur ce site depuis le 12 septembre), j’ai apporté les
observations qui suivent à propos de ce thème crucial et j’ai ensuite échangé
un bref dialogue intéressant avec Daniel Kesselring que je propose aussi à la
lecture de tous en cherche d’une vérité commune trop longtemps obscurcie par la
culture dominante. J’ai enfin reçu le bref écrit de Raoul Vaneigem qui apporte
sa lumière particulière à la question. Merci à Graeber et à Barravento pour
avoir stimulé toutes ces réflexions.
Sergio
Ghirardi
On ne peut pas changer le cours
de l'histoire passée,
mais on peut arrêter de lui faire dire ce qu’elle ne dit
pas
Le discours dit et écrit, désormais répété incessamment par la machine
médiatique – omniprésente cathédrale virtuelle de la religion marchande –,
cautionne sans retenue l’utilisation de la force qui se dit légitime et de
l’injustice qui se prétend légal, exercées matériellement par la domination
hiérarchique des seigneurs sur les esclaves.
Les idéologies religieuses et politiques sont un instrument que le
Léviathan productiviste, en particulier, a constamment utilisé pour éliminer
les obstacles à sa domination et pour dévitaliser les résistances à son
impérialisme structurel. Pour manipuler la réalité, on s’est toujours servis du
passé et du futur. Le futur a été adoubé de paradis imaginaires et d’hypothétiques
lendemains qui chantent pour droguer d’espoirs illusoires la partie
insupportable du présent.
En ruminant de milles façons
differentes et souvent contradictoires l’idée d’une liberation à venir – en deçà
ou au-delà de la mort inéluctable, mais toujours bien loin du présent – on a
enlevé aux révoltes spontanées du grand nombre exploité pour l’enrichissement
d’une petite minorité, la force nécessaire pour se traduire en émancipation
réelle. Avec le futur, toutefois, le passé aussi a été constamment manipulé
pour lui faire dire ce que les soumis devaient croire pour rester confinés dans
leur survie misérable. En se tournant en arrière, le mensonge dominant affiche
une autre face de la même médaille : celle du pouvoir exercé par
quelques-uns sur un grand nombre par la force des idéologies et de la violence
sociale.
Des masses d’êtres humains dépourvus de liberté ont été destinées, pendant
des millénaires, à changer souvent leur nom (esclaves, serfs, travailleurs)
mais jamais leur rôle ; car si, avec le temps, l’exercice de la domination
a perdu un peu de sa violence matérielle, son intensité n’a surtout pas
diminuée dans le passage des chaines esclavagistes au servage, puis au travail
salarié. On peut remarquer, à ce propos, que l’esclavage informel du
« libre » travailleur moderne n’est pas du tout reconnu comme une
captivité : on arrive même à remercier les patrons généreux qui donnent du travail ! La domination
est simplement devenue plus intime, intériorisée, en substituant en partie l’aliénation
à la souffrance physique et la servitude volontaire à l’emprisonnement forcé, avec
l’obligation sournoise de consommer abondamment, tout en restant
qualitativement des indigents, des pollués, des insatisfaits, des exploités.
Dès origines du productivisme, la culture dominante appartient
inéluctablement à ceux qui exercent la domination. L’histoire a été écrite par
les vainqueurs non pas parce que les vaincus n’avaient pas une opinion, mais
parce que celle-ci était enchainée autant que ces mêmes sujets asservis. Même
les dates de l’histoire ont été établies par les hiérarchies qui se sont
emparés des sociétés humaines en y instaurant progressivement ce productivisme
qu’au fur et à mesure l’homo economicus a imposé de façons variées et
par dynamiques differentes, pratiquement partout, en colonisant la planète.
Ainsi, jusqu’à l’instauration de l’économie politique capitaliste comme une
théologie universelle de la domination hiérarchique, les chrétiens ont inventé
leur propre calendrier spécifique daté à partir de la naissance présumée de
leur fils de dieu supposé ; les musulmans utilisent un autre calendrier à
partir de leurs prophéties médiévales et même les révolutionnaires bourgeois de
1789 ont ressenti le besoin idéologique de s’inventer leur mode particulier de
dater l’histoire.
A chaque nouvelle révolution idéologique, le pouvoir religieux et politique
ne peut pas s’empêcher, pour s’imposer,
d’occuper un vécu qui se rêve libre mais qu’il s’affiche captif, en s’emparant
de l’espace-temps de l’époque par tous les moyens disponibles : les armes,
la violence, le viol, l’humiliation et la peur, mais aussi le mythe, la
séduction, la corruption et les croyances que l’idéologie justifie ; tout cela
corrobore l’importance d’un syndrome de Stockholm peut-être plus ancien encore
que le productivisme car enraciné dans le côté servile et grégaire de
l’humanité souffrante.
Ainsi l’histoire reconnue comme telle est uniquement celle du
productivisme. Le reste est préhistoire. Grace à l’excuse plausible mais
inacceptable de l’absence de documents écrits pour en lire les événements les
plus anciens, l’histoire a été datée depuis l’invention de l’écriture.
Laquelle, avant de devenir, effectivement, aussi un instrument de liberté et de
poésie, de culture et de communication, a été la trace indélébile de
l’obsession productiviste dans l’accumulation des denrées, des biens, des
marchandises ; car c’est par leur stockage et par leur comptabilité scrupuleusement
enregistrée qu’est née la richesse opprimante du commerce et de l’accumulation
économique.
Deux révolutions bio-sociales à la radicalité très différente ont marqué au
fer rouge (c’est le cas de le dire, puisque le premier en date de ces
bouleversements fut la découverte du feu) le développement de l’humanité. La
découverte du feu a été une première révolution bio-sociale partagée par un
certain nombre d’hominides plus anciens que Neandertal
et Sapiens, il y a au moins un
demi-million d’années[1]. En fait, il fut question
d’une domestication car, évidemment, le feu existait en nature bien avant
qu’une espèce composite de mammifères similaires – des primates en voie
d’humanisation – apprenne à le dompter et à accéder ainsi à une révolution
biologique et sociale grandiose, capable de donner vie aux sociétés humaines organiques[2].
Car grâce à l’utilisation du feu, la manière de se nourrir du singe
humanoïde a changé radicalement, en créant les conditions de l’espèce humaine.
La cuisson est devenue un art majeur de l’espèce en devenir et la cuisine s’est
ajoutée à l’alcôve en tant que moment crucial du sens de la vie, au-delà d’une
survie que tout animal vivant protège instinctivement avec acharnement.
Aujourd’hui encore, malgré la sexophobie répandue et l’aliénation sacrificielle
qui s’excite uniquement face aux marchandises, de la voiture au godemichet, du
telephone à la Nutella, l’art de cuisiner et de faire l’amour restent les deux
arts majeurs de l’espèce humaine. Dans l’intimité en partie refoulée par un
surmoi toujours plus réifié, elles font de tous les autres arts une splendide
sublimation secondaire pas structurellement nécessaire et pourtant très
importante qualitativement, digne de respect, d’appréciation et d’autant qu’on
veut de passion créative.
Pour faire bref sans rien oublier, je laisse donc de côté les révolutions
transitoires[3] qui
ont apporté une croissante capacité de production de biens utiles aux sociétés
humaines pour passer directement de la révolution du feu à la révolution agraire
qui a introduit le germe du productivisme et avec lui des effets profondément
bio-sociaux qui, à long terme, ont changé radicalement la physionomie
psychogeographique de l’humain en gestation.
Si, en fait, le Sapiens (apparu
il y a environs 200.000 années) est la dernière espèce rescapée parmi les
differentes génies d’hominides qui ont apporté aux primates un processus d’humanisation
duré des millions d’années et aujourd’hui encore inachevé, ses collectivités
organiques ont subi, il y a quelques millénaires, un bouleversement structurel
– bio-social, justement – qui, a produit des mutations déterminantes dans leur
progressive capacité de transformation de la nature et avec elle de la nature
humaine. Si le feu a donc énormément contribué à la naissance des sociétés
organiques, la révolution agraire productiviste leur a donné un coup destiné,
dans le temps, à devenir mortel.
Sans la prétention de refaire l’histoire, mais souhaitant fermement
amplifier son champ des possibles avec l’aide et le contrôle de tous, je me
suis donc focalisé sur la révolution agraire car elle a fini par être une
contrerévolution qui a corrompu le processus d’évolution organique de l’espèce
humaine en le rendant dangereusement artificiel. Et c’est justement ce passage
que l’histoire des vainqueurs a particulièrement mythologisé, faussé et caché,
en restituant un récit sélectif et forcé des faits, dans le but de justifier et
interpréter cette mutation destructrice comme la naissance de la civilisation
humaine.
Si je partage, donc, l’exigence du regretté camarade Graeber et de son
collègue Wengrow[4] d’en
finir avec la fable d’un communisme primitif, originaire et généralisé, que les
idéologues communistes ont imaginé comme une caution pour leurs révolutions
bureaucratiques à venir, je ne suis pas du tout d’accord avec eux quand ils
nient la consistance historique d’une révolution agraire. Un tel déni empêche
de saisir les raisons profondes de la tragique situation actuelle, alors que
l’affirmation de l’importance de cet événement nous donne une clé de lecture
essentielle pour comprendre la réalité. Ce qui ne signifie pas identifier
l’agriculture avec le productivisme qui l’a monopolisée, car le point dolens de la « civilisation »
n’a pas été le passage de la cueillette spontanée des premiers hominides à la
découverte et à l’utilisation organique de l’agriculture, mais la subséquente
appropriation privative de cette technique par des oligarchies marchandes et
guerrières prêtes à tout pour réaliser l’affaire qui allait les rendre riches
et puissantes.
Certes, il faut être clairs sur ce qu’on entend : en effet la pratique
de l’agriculture dont l’archéologie date l’apparition autour de dix mille, onze
mille années avant notre ère (et peut-être même avant, dans certains lieux de
l’extrème orient), ne fut pas en soi plus déstabilisante que d’autres mutations
et découvertes importantes de la soi-disant préhistoire et du néolithique en
particulier. Les peuples de la cueillette qui dépendaient de la terre, des
mutations climatiques et des mouvements des autres espèces vivantes pour se
garantir la survie alimentaire, ont ajouté leur nouvelle capacité de cultiver
la terre comme un savoir-faire en plus à appliquer à la nature pour produire
les biens nécessaires à la survie et à l’adoucissement progressif de la vie.
Car cela était, et il est encore, le véritable progrès, la véritable
civilisation, le but primaire des individus et des sociétés humaines :
intervenir dans la nature pour humaniser ses effets sans altérer les équilibres
délicats de ce que le langage scientifique moderne appelle la biosphère et qui
était pour les anciens simplement la nature dont l’humain fait partie.
Comment ne pas remarquer que l’humanité a résisté à la dérive mortifère du
productivisme pendant quatre millénaires au moins ? Pendant cette longue
période les communautés agricoles matri centrique ont refusé d’altérer les
équilibres organiques de la relation entre les humains et la nature, alors que
les tribus patriarcales s’occupaient marginalement de pratiquer la prédation et
la guerre de conquête pour alimenter leur système belliqueux et parasitaire. Toutes
les données en notre possession nous disent que du croisement entre le
parasitisme patriarcal et la logique productiviste, est née cette révolution
agraire qui a transformé la vie dans le monde.
Comment ne pas se poser la question de comment sortir du piège qui a
transformé la production de biens utiles pour vivre mieux et plus, dans la
production économiste de biens de plus en plus superflus et polluants sous la
tyrannie de la valeur d’échange (car ceci est le productivisme et non pas
l’activité de produire des biens utiles !) ? Une fois démarrée la
culture esclavagiste des céréales qui a introduit l’accumulation primitive
productiviste, l’humanité est devenue esclave de l’obsession de faire du blé, refoulant, d’époque en
époque, de progrès en progrès, de monnaie en monnaie, la question de
l’affaiblissement létale des sociétés organiques qui met aujourd’hui en danger
la survie même de l’espèce et de beaucoup d’autres formes de vie sur la
planète.
D’accord avec Graeber, en cela : ne faisons rien dire à la préhistoire
comme un ventriloque à son pantin, évitons d’affirmer aucune simple hypothèse
comme une vérité certaine. Même si les données empiriques que la préhistoire restitue
à ses chercheurs passionnés sont désormais abondantes, personne ne peut
affirmer avec certitude des vérités absolues à propos de ces temps lointains,
dépourvus de documentation. Limitons-nous aux faits que l’archéologie nous
donne et, à partir d’eux, explorons-nous cette archéomythologie consciente de ses limites, donc humblement
circonspecte, qui analyse et interprète les découvertes sans poursuivre le but
d’en faire des idéologies[5].
L’humanité a probablement toujours essayé tous les moyens à sa disposition
pour améliorer ses conditions de vie, des plus égoïstes et cyniques aux plus
collectifs et affectueux, des plus bornés aux plus clairvoyants. Conscient
uniquement en partie de ses qualités et de ses défauts, de ses contradictions,
l’être humain a exploré toutes les formes possibles de « progrès ».
Reste que, si le communisme primitif est un mythe idéologique, la tendance à la
solidarité, à l’aide réciproque et aux relations pacifiques dans un
environnement naturel est une donnée objective concernant l’espèce humaine
comme d’autres mammifères, autant sinon plus que la tendance prédatrice.
Celle-ci traverse la nature comme un automatisme animal que seule la conscience d’espèce d’une humanité
retrouvée pourra dépasser en opposant aux dégats provoqués par la civilisation
productiviste une recomposition du projet humain authentique sans rêver d’un
impossible retour aux sociétés organiques du passé, mais utilisant organiquement, parmi les techniques
acquises pendant des siècles, celles utiles à réaliser le bonheur des êtres, arrêtant de poursuivre une
richesse d’avoirs accumulés qui a
réduit à des choses même les êtres
vivants.
Par cette nouvelle conscience d’espèce naissante tout est encore possible,
si nous aurons le temps, car l’être humain n’est ni bon ni mauvais en soi, mais
il sait se comporter en ami ou en ennemi et aussi mieux et pire que ça pour
jouir de la vie. En fait, il est capable de tout et le choix du bien que
l’éthique, glissant vers la morale, invite à préférer, n’est qu’un escamotage idéologique,
un devoir être intellectuel. En ignorant Epicure, on a oublié que la joie et la
jouissance de la vie donnent une autre interprétation possible au choix du
« bien » plutôt que du « mal ». Car c’est scientifiquement
prouvé que par le partage, la paix, la solidarité et la jouissance sereine on
vit mieux et plus longtemps. Dans la nature, le prédateur a une vie beaucoup
plus brève que l’animal pacifique.
Une dynamique orgastique[6] qui privilégie
l’organisation sociale des instincts solidaires et d’un spontané sentiment
amoureux pour la vie, pour ses semblables et, très souvent, pour l’autre genre
en particulier, est donc concrètement possible. Il est question d’un choix non
moraliste mais surtout pas immorale, qui – autant d’un point de vue pragmatique
qu’émotionnel – refuse comme une mauvaise solution la prédation, attitude
répandue mais loin d’être la norme parmi les mammifères dont l’être humain fait
partie.
C’est assez probable que, ainsi que les chimpanzés et les bonobos partagent
avec nous presque la totalité du patrimoine génétique, tout en étant absolument
differents sinon opposés entre eux par le fonctionnement social, chez les
humains aussi se soient développées spontanément, ab origine, de façon concomitante et différemment conflictuelle,
les organisations sociales matri centriques, acratiques et libertaires, mais
aussi les communautés patriarcales hiérarchiques et autoritaires. Si ces deux
options opposées ont pu facilement cohabiter quand l’espèce était une présence
quantitativement réduite sur la planète et chaque groupe pouvait donc exister
facilement en relative indépendance et soumis à des assez rares
conflictualités, avec les mutations dues à des raisons climatiques et à la
croissance démographique de la population, les conflits et les confrontations
se sont inévitablement multipliés.
Dénoncer, comme fait Graeber, l’idéologie idyllique du bon sauvage et du
communisme primitif, est donc certainement correct, mais ceci ne signifie pas
que la révolution agraire n’ait pas existé comme un tournant finalement négatif
pour les êtres humains. Car elle a modifié profondément l’évolution de l’espèce
qui est passée d’une relation organique, dans et avec la nature, à une volonté
prétentieuse de domination (l’hubris
si âprement dénoncée dans la Grèce ancienne) que le patriarcat productiviste a
étendu à la femme, aux esclaves des deux genres et de toute âge et à la nature,
avec une attitude rustre, sadique et prédatrice. La révolution agraire
productiviste a introduit dans la vie des êtres humains le travail. Le labour, torture que le productivisme
agraire a rendue nécessaire et qui ajoute à la captivité forcée l’exploitation
de la force de travail d’autrui, a poussé à la multiplication des guerres afin
de se procurer des esclaves pour les champs, pour la maison et pour le lit.
Je trouve difficile établir si l’esclavage ait déjà été pratiqué
ponctuellement aux débuts organiques de l’espèce – c’est possible, je dirais,
mais pas plus que le cannibalisme et une sexualité brute et approximative parce
que pauvre de la poésie orgastique qu’illumine le vivant quand la bête accouche
enfin de l’être humain. Avant cela on était encore aux prémices animales de
mammifères omnivores et non pas carnivores, capables de hiérarchies féroces et
patriarcales mais aussi de centralités féminines acratiques, tendres et
conviviales. C’est certain, en revanche, que l’esclavage – avec la hiérarchie
de genre concernant elle aussi autant le travail que la sexualité – a marqué
des millénaires de péripéties humaines dans la société productiviste par une
exploitation systémique des plus faibles, en faisant de l’histoire reconnue en
tant que telle une lutte de classes permanente.
Je me répète en synthèse sur l’essentiel : la révolution agraire productiviste est la mutation malheureuse à
laquelle l’humanité a résisté pendant des millénaires (environs du dixième au
cinquième avant notre ère, quand sont apparues nombreuses cités-état dans la
plaine mésopotamienne – celles-ci mêmes, peut-être, successives à un processus
analogue qui pourrait les avoir anticipées ici ou là dans le monde). Une fois
concrétisée la suprématie patriarcale et productiviste dont la mythologie
grecque nous donne une riche narration, ce bouleversement fondamental a marqué
le lent mais inarrêtable passage des sociétés organiques de cueilleurs, devenus
entretemps aussi agriculteurs de subsistance, aux sociétés productivistes qui
ont introduit l’appropriation privative, l’accumulation des biens et l’échange
économique comme des mécanismes de base de leur fonctionnement. Etroitement lié,
à ses débuts, à la production agricole intensive des céréales – qu’on peut accumuler et stocker dans le
long terme à la différence des fruits et d’autres produits de la nature,
consommables mais rapidement périssables –, ce passage absolument révolutionnaire d’un point de vue social, était
destiné à le devenir aussi du point de vue biologique.
Avec la modernité, de cette
accumulation agraire dépendant de la domination sur les territoires autant que
sur le travail humain (rappelons-nous que les premiers économistes physiocrates
considéraient la terre et la puissance de production agricole l’unique
véritable source de richesse) on est passés à l’industrialisation que
l’économie politique célèbre, depuis des siècles, comme le progrès absolu. En
fait, la technologie industrielle productiviste (appliquée, d’ailleurs, autant
aux usines qu’à l’agriculture) est arrivée aujourd’hui à produire, comme conclusion finale de la révolution agraire, l’écroulement des
équilibres biologiques et écologiques nécessaires à la vie.
* * * * *
Ainsi la fin programmée des sociétés organiques a vu le triomphe de cet homo economicus qui est la racine
archaïque de l’homo trans humain désormais fantasmé par les
aliénés de la dernière génération.
Le principal de la vérité est de muter partiellement dans l’espace et le
temps tout en restant toujours cohérente dans sa totalité. La verité de hier
peut devenir le mensonge d’aujourd’hui. Relativement, toutefois, car la verité vérifiable dure dans le temps jusqu’à
quand se prolongent les conditions qui l’ont produite. Il faut donc apprendre
par tous sans devenir les disciples de personne, en mêlant les doutes aux
convictions pour les rendre stables et les faire vivre et ne pas adorer leur
cadavre. C’est ainsi qu’on vit en libres explorateurs du réel, c'est-à-dire des
êtres humains en symbiose harmonique avec la nature dont ils font partie.
Sur ce point crucial s’enclenche la conscience
d’espèce que j’ai déjà mise en exergue et qui rompt avec
l’artificialisation de la vie commencée avec la révolution agraire et éclatée
avec l’industrialisation productiviste. Elle apparaît comme la réalisation et
le dépassement de cette conscience de classe[7] qui fut la dernière forme
de conscience aliénée produite par le
productivisme. Nécessaire à la lutte des défavorisés, des exploités et des
aliénés pendant le processus d’artificialisation de la vie appelé progrès, la
conscience de classe a contribué, au nom des exploités, à l’hubris
productiviste. Comment, autrement, il serait pu venir à l’esprit des
théoriciens du prolétariat, de revendiquer sa dictature, fusse-t-elle
transitoire ?
Voilà deux postulats qui alimentent une conscience d’espèce qui se répand
de plus en plus dans la société humaine :
1) L’Etat s’abroge, il ne dépérit jamais, magiquement tout seul –
incompatible avec la démocratie directe, même quand il n’est plus rien, il
continue d’exercer, imperturbable, ses privilèges que c’est à nous d’abolir ;
2) La dictature, il faut la combattre d’où qu’elle vienne, car elle n’est
jamais transitoire en soi – dans le
meilleur des cas, elle s’écroule sous les ruines d’un mur qu’on n’a jamais fini
de démolir.
L’idéologie communiste autoritaire qui a monopolisé la conscience de classe
d’une époque entière, mélangeait la juste revendication prolétaire de
l’émancipation avec la défense du projet artificiel à la racine de
l’exploitation de l’homme par l’homme : le productivisme. La pire limite
du marxisme est de vouloir abolir le capitalisme sans rompre avec le
productivisme, en finissant inéluctablement par accoucher d’un capitalisme
d’Etat.
Il faut apprendre par Marx, comme par plusieurs autres êtres humains dont
la pensée est riche, généreuse et parfois sublime, sans devenir le disciple de
personne. Choisir entre Marx et Proudhon, Marx et Bakunin, entre l’un ou
l’autre des étendards que la religion politique promène dans chaque via crucis de l’idéologie
révolutionnaire, n’a pas de sens. Il faut toujours choisir humblement soi même
en tant qu’individus sociaux autonomes et solidaires dans la Commune-monde que la conscience d’espèce
échafaude, du local au planétaire ; il faut être constructifs mais
attentivement autocritiques car en chacun sommeille le virus potentiel d’un
prêtre pestilentiel qui propose ses convictions comme une verité dogmatique.
Rappelons-nous, avec les zapatistes du Chiapas, qu’il n’y a pas de modèles à
suivre ; que des exemples à étudier, à soutenir solidairement et en totale
autonomie pour affiner la radicalité de sa propre Commune à bâtir.
La croyance, toute croyance, est le bouillon de culture de la servitude
volontaire qui a fait du singe devenu humain un être artificiel qui n’est même
plus un singe, mais un zombi hétéro direct par une idéologie. Ce processus
aliénant est le signe clair de la redoutable contrerévolution sociale et
finalement biologique que l’être humain s’est auto imposé par l’introduction du
productivisme dans son évolution. En transformant le moyen nécessaire de produire des biens pour vivre toujours mieux
dans le fin unique et ultime de la
société, l’homo economicus a défié la nature comme un ennemi à combattre et
dominer, et avec elle la femme, les autres êtres humains et les autres espèces
animales. La relation entre l’être et l’avoir s’est renversée et la prédation,
élément ambivalent à dépasser par l’humanisation, est devenue le modus vivendi de toutes les sociétés
patriarcales et hiérarchiques.
Ce cycle terrible mais fascinant parce qu’il concerne – en la niant – toute
l’humanité des êtres humains, a commencé précisément avec la révolution agraire qui a transformé
l’humain inachevé en bête de somme puis en machine computerisée valorisant un
fétiche religieux inclusif de toutes les croyances passées : le fétichisme
de la marchandise. La marchandise est le dieu réifié d’un mysticisme
totalitaire dont l’économie politique est la théologie qui a imposé la
domination du commerce et de sa civilisation sur les sociétés organiques
soumises à une artificialité envahissante.
Etat et Marche ont imposé l’échange rentable comme la valeur principale de
l’activité humaine, puis comme l’unique possible dans l’actuel monde
financiarisé où seul l’argent circule librement et les êtres humains sont confinés par des excuses de moins en
moins plausibles. Une fois rendue accessoire la valeur d’utilisation des biens,
l’argent matériel tend à disparaître en devenant virtuel et transformant le
conditionnement imposé à la société par les lois économiques en une
domestication absolue sous le contrôle du Big
Brother économiste.
Pour la civilisation productiviste dont le capitalisme est le fils et
l’héritier final, tout est bon pour enchainer les opprimés. Du terrorisme
politique au terrorisme viral, ces monstres qui balancent du mythologique au
réel sont parfois inventés, souvent aidés et mythifiés mais toujours
officiellement exécrés. Cette stratégie concerne autant le terrorisme islamiste
que le coronavirus, en passant par la poudre de perlimpinpin de la violence
extrémiste ultra minoritaire qui parasite les premières manifestations
publiques de la conscience d’espèce naissante, avec ou sans gilet jaune.
Partout où l’humanité se réveille, les restes d’une rage aveugle et bloquée, en quête inconsciente d’un
palais d’hiver qui n’existe plus ou d’une marche sur Rome que l’histoire
humaine a déjà fusillé en 1945, est machiavéliquement facilitée, à doses
homéopathiques, par les gouvernements productivistes qui adorent les méchants casseurs afin de criminaliser,
face à l’opinion publique apeurée d’une démocratie spectaculaire,
l’insurrection de la vie quotidienne – le seul ennemi qu’ils craignent
vraiment.
Le but du système global est, depuis longtemps, celui de confiner
définitivement les êtres humains dans leurs ghettos productivistes. Son projet
totalitaire a pour but de faire de chaque brebis son propre chien qui autogère
l’univers carcéral de la survie des citoyens producteurs-consommateurs. Pour
cela le coronavirus est un véritable « cadeau de dieu » que les
prêtres productivistes exhibent sur les autels de leurs messes médiatiques,
entre peur et cynisme. Le piège est déclenché, à nous d’éviter tout mysticisme viral : que tu soit disponible ou
pas, que tu soit très utile ou très peu, je suis prêt à t’utiliser par
précaution, pas à faire de toi un voile mystique productiviste pour ou contre
lequel se battre. Je ne t’adore pas ni je te déteste. Je t’utilise et surtout je
te jette. TI CONOSCO MASCHERINA! (Je vois
bien qui se cache sous le masque!).
La réalité ne peut pas se réduire à ça. Leur carnaval macabre ne peut pas
être le notre. Et pourtant, face à cette dernière manipulation qui profite de
la pandémie pour déplacer le curseur de l’aliénation à un niveau jamais atteint
auparavant, certains sont encore besogneux d’un millénarisme archaïque pour
opposer aux diktats de la religion officielle une hérésie équivalente. Alors
que le système utilise le virus en faisant de lui un diable utile pour
sacraliser à nouveau le dieu productiviste en perdition, une troupe de
« mécréants de réseaux sociaux », victime de la réification
généralisée, nie la dangerosité du virus comme les créationnistes nient
l’évolution, poussant les intelligences sensibles athées et agnostiques vers
l’absurde logique binaire d’un mysticisme qui avilit la spiritualité naturelle
de l’être humain en quête de totalité vivante[8].
Car le mysticisme est l’interprétation erronée des situations
psychogéographiques où se développe organiquement la complexité du vivant et,
comme un virus de la peste émotionnelle, il peut se nourrir de n’importe quelle
potion idéologique. Nourri par des rumeurs qui se présentent comme des vérités
scientifiques, le mysticisme est une paranoïa de l’intelligence sensible qui
nie la partie de la réalité qui fait peur par une lucidité hallucinée en quête
du diable. Cette émotivité pathologique, spoliée de l’intelligence sensible par
des siècles d’aliénation, se contente de nier ce que le pouvoir affirme, en
profitant de ses innombrables mensonges. On risque ainsi de pousser une partie
des adversaires du discours officiel vers un manichéisme suicidaire qui
transmue la peur refoulée de la mort en grégarisme fidéiste. La lutte pour la
vie se renverse ainsi en un dernier grotesque et involontaire « ¡Viva la muerte ! ».
En se libérant de l’hypnose de la logique binaire, l’humanité doit
interrompre le processus létal qui l’a séparée de la nature en préparant sa
ruine définitive. Tous les signes sont là pour nous le rappeler et nous pousser
à faire vite. Aucun environnementalisme grégaire de l’économie ne sauvera
l’espèce. Ni la santé ni le bonheur qu’elle implique ne permettent plus de
compromis. Seul un projet d’écologie radicale pour abolir le capitalisme et
restaurer la vie organique contre la peste émotionnelle que l’économie
politique sécrète, pourra incarner la révolution d’une conscience d’espèce qui,
comme nous tous qui en sommes les porteurs, n’a aucune certitude d’y arriver,
mais il n’y a pas le choix.
Jusqu’à hier la critique a dénoncé l’intolérable, l’absurde, le
répréhensible, l’aliéné sans balayer son pouvoir. Aujourd’hui il est question
de l’abolir. Demain risque d’être trop tard.
Sergio Ghirardi, 10 octobre 2020
Echange de mails
avec Daniel Kesselring :
Salut Sergio,
ça va
comme ça peut aller, le monde est pourri mais la vie est belle!
J'ai lu
ton texte et je suis en accord avec la plupart des idées.
Jeudi
soir nous faisons une soirée hommage à Graeber et je relis les derniers
chapitres de "La Dette", "La Démocratie aux marges" et
"Comme si nous étions déjà libres".
Je n'ai
peut-être pas lu le texte auquel tu fais référence, mais à l'heure où l'on peut
s'essayer à faire un bilan de l'apport de Graeber non seulement dans la pensée
critique contemporaine mais aussi dans l'élaboration pratique de
l'"occupation de la vie" (Occupy Wall Street), puis dans
l'élaboration théorique en découlant, avec l'étude approfondie des aspects
tactiques et stratégiques, qu'il ait sous-estimé l'importance de la révolution
néolithique me parait pas très important.
Jouer
Scott contre Graeber ne me parait pas judicieux dans la mesure où Graeber a
préparé le terrain et rendu possible les travaux de Scott. Comme Clastres avant
lui. (Et Mauss qui est aussi l'inspirateur de "La Dette" de Graeber.
La principale critique que je te fais c'est que j'ai l'impression que tu te
cantonne dans une sorte de primitivisme économique.
J'aurai adoré vivre au mésolithique, mais le productivisme a principalement
consisté à produire des pléthores d'êtres humains et cette surproduction réduit
de plus en plus la palette des modes de vie possibles.
La transition vers un avenir non apocalyptique ne peut faire l'impasse de
décortiquer tous les enfumages esclavagistes que l'on affuble du mot-captif
d'Economie.
La transition devra s'appuyer sur une fixation de la valeur, condition
nécessaire pour le dépassement de l'économie.
Je n'ai pas le temps de développer une affirmation qui te paraitra pour le
moins péremptoire!
Je te souhaite un bel été indien et je t'embrasse affectueusement.
bisous d'Alexandra
Cher Daniel,
Merci, avant tout, pour l’échange enrichissant.
Je suis d’accord avec la majorité des choses que
tu remarque ce qui accentue un peu plus l’importance des quelques désaccords
ponctuels et certainement dépassables par le dialogue :
1) Je ne joue personne contre personne. J’ai écris
clairement dans mon texte que je ne choisis pas « entre Marx et
Proudhon » etcetera.
2) Graeber est pour moi un camarade regretté dont
j’apprécie la qualité et je partage l’esprit de fond avec plusieurs intuitions
importantes (c’est moi qui a ajouté la version en français du texte de Graeber
et Wengrow en question que tu peux lire sur Barravento du 12 septembre), mais
sa sous-évaluation de la révolution agraire est pour moi une erreur grave à
effacer. C’est tout.
Surtout que Graeber a travaillé avec Sahlins et
qu’il a bien intégré, selon moi, le mieux de Bookchin sans tomber dans des
dérives bookchinistes, en ajoutant, comme tu le rappelle, qu’il est proche de
Mauss.
Je partage, mieux que je peux, tout cela. On peut
ne pas être d’accord avec ma critique ponctuelle, mais alors il faut expliquer
pourquoi. Moi je n’aimerais pas vivre dans le passé, mais dans un futur qui
apprend du passé ce qu’on a tragiquement effacé ou oublié sur la route
dramatique (démographiquement aussi, bien-sur) de notre présent.
Tu a certainement autre chose à faire de plus
important, mais si tu me relis bien je n’exprime aucune nostalgie primitiviste.
Bien au contraire: il faut dépasser RADICALEMENT l'économie politique, jamais
le mot dépassement fut plus urgent!
On pourra, je l’espère, mieux développer en buvant
ensemble dans ce présent qui s'éternise de plus en plus claustrophobe; où la
vie est belle, certes, mais moi –je t’avoue– j’ai de plus en plus de mal à la
rencontrer dans mon quotidien.
En te souhaitant le mieux, je t’embrasse de toute
mon amitié et avec toi les tiens sergio
L’ART DE LA CONFUSION SUCCEDE AU CYNISME DU MENSONGE
En atteignant ses limites et sa fin, la civilisation
agro-marchande met en lumière tout à la fois le phénomène qui a présidé à son
apparition et la confusion sciemment entretenue sur ses origines.
La vie, on le sait, expérimente en permanence des formes
d’existences nouvelles. Elles naissent, se développent, s’affermissent,
s’atrophient, disparaissent, pour des raisons que nous ne nous n’avons guère
pris la peine ou le plaisir d’explorer. En témoignent la création ex chao
des espèces minérales, végétales, animales et humaines parmi lesquelles les
dinosaures, l’hominien, l’Homme de Neandertal, l’Homme de Flores, l’Homme de
Denisova. Mais l’ombre du Grand Horloger continue d’occulter les consciences et
la faveur élective des cultures marchandes va au pire avatar de l’hominien, l’homo
economicus.
Partisans et détracteurs du système dominant s’affrontent
dans une arène où les combats sont biaisés. Tandis que des millions d’êtres
meurent en combattant pour vivre, historiens, archéologues, sociologues et
autres experts s’efforcent de tenir un rôle dans un spectacle culturel où les
enjeux sont principalement polémiques et se réduisent à des querelles de
prestige. Cependant, sous le ridicule de qui «pisse le plus loin», c’est le
territoire, ainsi arrosé et délimité par chacun, qui devient révélateur. C’est
là que les intérêts montrent à quel point ils sont manipulés par les vieux
préjugés.
Le conservatisme dispose du poids des idées
traditionnellement reçues. On ne s’étonnera pas outre mesure que la plupart des
spécialistes se penchent davantage sur l’objet de leurs études que sur
leur subjectivité d’observateur, si ordinairement percluse de présupposés
sexistes, patriarcaux, élitistes, voire racistes.
Dans le camp adverse, le progressisme a beau jeu de dénoncer les tares de ceux que Rimbaud
appelle les Assis. Avec les délectations de la revanche, le féminisme se
satisfait d’asséner une volée de bois vert aux derniers savants ouvertement ou
hypocritement misogynes.
Avec plus de justesse et de pertinence, l’éthologie
dévaste la forteresse où se conserve encore, si étiolé qu’il soit, le dogme
d’une civilisation produite par le génie de cet Homme dont la majuscule veut
faire oublier qu’il ne s’agit que d’un avorton de l’hominien, l’homo economicus.
L’apport des éthologues remet en cause nos connaissances
stratifiées – au reste, il en va de même pour l’ensemble des sciences que le
souffle de l’air nouveau revivifie. Il montre que les hominiens et leurs
civilisations (pour ne citer sommairement que l’Europe : Aurignacien,
Gravettien, Solutréen, Magdalénien, Azilien) évoluent en affinant et en
s’efforçant de dépasser – c’est à dire de nier et de conserver – le
comportement des animaux, où prédation et entraide alternent et se conjuguent.
Or une même aberration, une même ignorance délibérée
renvoie dos à dos conservateurs et progressistes. Les uns et les autres ont
sous les yeux une évidence qu’ils occultent délibérément. Que l’appellation de
Révolution agraire ne rende pas exactement compte d’un bouleversement des
comportements, des pratiques, des mentalités, des sensations qui prend deux ou
trois millénaires pour s’accomplir, on peut en convenir. Il n’en reste pas
moins qu’il existe un écart considérable entre deux stades de notre évolution.
A la période embrassant la fin du paléolithique supérieur
et le début du néolithique a succédé l’instauration d’une civilisation fondée
sur l’esclavage et sur l’exploitation de la nature à des fins de profit. C’est
un dévoiement abrupt de l’évolution en cours, un coup d’arrêt porté à
l’humanisation de l’hominien. L’importance accordée par les Bonobos à
l’entraide, au souci d’apaiser les conflits, au soutien des plus faibles, ne
laissait-elle pas augurer pour l’humanité naissante des formes de sociétés
solidaires, recueillant et affinant la manne terrestre en demeurant en
symbiose avec la nature, dont la fécondité attribue analogiquement à la
femme une prééminence acratique ? Car la véritable spécificité humaine c’est
la création de soi et du monde, ce n’est pas la misérable transformation de
l’être vivant en marchandise.
Cette stase involutive marque la dénaturation et la
dérive d’une évolution naturelle. Elle est produite par l’émergence d’un
système économique fondé sur l’appropriation du sol, par le pillage des
ressources naturelles. Elle signe l’acte de naissance d’une société inhumaine
dont l’effondrement grotesque menace aujourd’hui d’entraîner dans sa mort programmée une espèce qu’elle
n’a jamais cessé de dévitaliser.
On comprend que le conservatisme, qui tient la
civilisation marchande pour la
Civilisation par excellence, se moque des civilisations de la cueillette et
préfère le
Logos échangiste et le pouvoir hiérarchique au mode de vie des sociétés pré-agraires
étudiée par Marshall Sahlins dans Age de pierre, âge d’abondance. Mais
qu’un éminent éthologue comme Frans de Waal ne prenne guère en compte un
phénomène historique aussi catastrophique pour l’homme que pour la bête est
assez surprenant.
Plus surprenante encore est la frilosité critique qui
assimile au mythe du bon sauvage en vogue au XVIIIe siècle les hypothèses
hasardées sur le comportement de la femme et de l’homme dans civilisations
antérieures à la civilisation productiviste et marchande. On dirait que les
derniers intellectuels souffrent à la fois de se sentir dévalorisés par leur
statut de fonctionnaire de l’esprit et d’être contaminés par l’effarante
dégradation mentale dont témoignent leurs maîtres et mentors, aberrantes
déjections d’un système qui les gouverne et qu’ils ne gouvernent plus.
Nul ne prétend que le mythe de l’Age d’or renvoie à une
société idyllique ni à la fiction qu’est le communisme primitif, mais est-ce
une raison pour ignorer ou pour traiter avec condescendance les hypothèses de
Gimbutas et de ses disciples évoquant l’intrusion d’une peuplade d’éleveurs de
chevaux et de constructeurs de tombes ou « kurgan », issus du nord de
la Sibérie ?
N’y a-t-il pas quelque entourloupe à se servir du mythe
du bon sauvage pour accrocher les derniers wagons des civilisations
pré-agraires à la locomotive de la civilisation marchande ? Belle
falsification intellectuelle par ailleurs que de privilégier l’idéologie
(incontestable) aux dépens de la volonté initiale et tout aussi incontestable
d’un Diderot et d'un Rousseau, soucieux de réhabiliter la nature en réhabilitant
l’être humain qui en fut exclu ? Ce qui fait la richesse des Rabelais, des
Montaigne, les La Boétie, des intellectuels des Lumières tient à l’élan de
générosité qu’ils impulsent aux mentalités et aux mœurs. Leur volonté de
stimuler le sens humain prime sur la pensée, qui avec des succès divers,
s’efforce d’en rendre compte.
Progressiste ou réactionnaire, l’intellectuel porte en
lui la tare d’une inhumanité inhérente à sa fonction hiérarchique dominante.
Cette séparation entre sa pensée et sa vie quotidienne, cause de son malaise,
il recourt à ce rituel d’exorcisme qu’est la surenchère critique pour en
apaiser le prurit. Or, il
n’y a pas pour
l’intellectuel et pour le manuel, que nous sommes tous, d’autre issue que le
dépassement, que seul rendra possible l’éradication de l’aliénation économique.
A défaut de ce combat que chacun livre avec lui-même, il
est à craindre que nombre de penseurs spécialisés finissent par ressembler à
ces experts de la science archéologique qui accusèrent le découvreur des peintures
rupestres d’Altamira de les avoir peintes.
Raoul Vaneigem, 13 octobre 2020
[1] La
découverte récente d’un foyer dans la grotte africaine de Wonderwerk pourrait
rétrocéder la datation de la découverte du feu à il y a un million d’années.
[2] « L’idée que le destin de
l’homme soit de dominer la nature n’est pas du tout un trait universel de la
culture humaine. […] Plus on recule vers les communautés sans classes
économiques et sans Etat politique – sociétés qu’on peut définir organiques par
leur forte solidarité interne et avec le monde naturel – plus on trouve les
preuves d’une vision de la vie qui se représente les personnes, les choses et
les relations en termes d’unicité et non pas de supériorité ou infériorité. […] Dans plusieurs sociétés organiques où cette conception l’emporte
encore, des concepts comme egalité et liberté restent indéfinissables ».
Murray Bookchin, The
Ecology of Freedom, Cheshire Books, Palo Alto 1982.
[3] Je me réfère à l’age de la pierre et à celles du bronze
et du fer qui ont suivi l’irruption de l’agriculture productiviste et qui furent,
comme par hasard, particulièrement dédiées à l’amélioration des armes de
guerre.
[4] Voir dans Barravento pensiero: David Graeber, David Wengrow, Comme changer le cours de l’histoire humaine
[5] Honneur à Marija Gimbutas qui nous parle de l’évidence d’une centralité
féminine dans une Europe ancienne qu’elle a profondément étudiée et fouillée,
refusant d’en faire une idéologie féministe et préférant parler – justement archéomytologiquement – d’une societé gylanique où la liberté et la
centralité acratique de la femme étaient des faits vérifiés. Très importants
aussi ses études sur les invasions Kurgan, peuplades patriarcales
préproductivistes qui ont objectivement préparé le terrain à la révolution
agraire dont il est ici question.
[6]
L’adjectif orgastique est tributaire
des recherches de Wilhelm Reich sur la fonction de l’orgasme que ce
scientifique passionné place au centre du fonctionnement vital.
[7] G. Lukács, Histoire et conscience de classe, Editions de Minuit, Paris1960.