venerdì 19 febbraio 2021

Risposte di Jacques Philipponneau[1] al questionario del giornale La Décroissance del 12-02-2021 e rifiutate dal suo comitato di redazione.

 



 

La Décroissance: Secondo Lei “l’aspetto positivo di questa crisi che non fa che cominciare è la diffidenza generale di fronte alle menzogne incredibili del governo e alla sua incompetenza criminale, la costatazione dell’impotenza dello Stato in situazione d’urgenza e l’evidenza che la reattività, l’iniziativa, il buon senso, la solidarietà sono venuti dalla società a dispetto di tutte le ostruzioni amministrative delle burocrazie statali[2]”. Non è piuttosto il fatto che siamo stati trasformati in “pecore paranoiche infantilizzate” come anche Lei scrive?

Jacques Philipponneau: I diversi detournement delle assurdità governative durante il primo confinamento ricordano la notevole creatività dell’humour sovietico quando la libertà d’espressione si esercitava nelle cucine di casa. Per una parte della nostra vita recente la nostra situazione era la stessa e, parafrasando Freud, si trattava di una sorta di vittoria paradossale della coscienza in condizioni disperanti.

Dare credito ai fantasmi di dominio totale (assolutamente reali, come sogni, come molti altri progetti della stessa natura da quando esiste una società divisa in classi) è l’altro versante, disfattista, di una compensazione psicologica della coscienza isolata e impotente di cui l’humour nero rappresenta il lato esultante della vita nonostante tutto.

LD: Questo progetto di dominio totale è ben reale...

JP: Non si tratta di negare l’esistenza di questo progetto nelle antiche democrazie rappresentative poiché esse guardano apertamente con gelosia la supposta efficacia di un totalitarismo asiatico diventato reale. Già i gesuiti invidiavano la meccanica totalitaria dell’impero cinese che pensavano di poter mettere al loro servizio; ma, come si sa, c’è distanza tra il sogno e la realtà e la fine della storia resta il sogno inaccessibile di tutte le dominazioni.

È evidente che esiste una congiunzione obiettiva tra i tre soggetti automatici che producono questa rapida evoluzione: degli Stati in cerca di controllo sociale compiuto, il capitalismo dei nuovi mercati della digitalizzazione completa dell’esistenza e la tecno scienza al servizio di entrambi perseguono il loro ideale di riduzione della vita a un puro funzionalismo biologico.

Tuttavia, concepire una società digitale totalitaria realmente capace di escludere ogni capacità di rovesciamento, vuol dire concedere loro una coscienza sovra storica unificata di cui sono assolutamente incapaci. Non c’è evidentemente alcun complotto di fronte a programmi così anticamente pubblici, così costantemente reiterati, così compiacentemente promossi dai media e così facilmente accettati da una maggioranza.

Il “Great Reset” di cui vi fate l’eco realizza il crollo effettivo di tutte le stabilità che hanno permesso il mantenimento e la trasformazione conflittuale della società industriale da due secoli.

Il dominio è diventato apertamente catastrofista per forza di cose e deve integrare il riformismo ecologico in quella sovra burocratizzazione del mondo che sola è capace di gestire, in questa società, le catastrofi che essa produce.

Questo ecologismo da caserma, normativo e colpevolizzante, ultimo avatar del peccato cristiano (le indulgenze pontificali dell’impronta ecologica, il flygskam – la vergogna di prendere l’aereo del luteranesimo nordico , la stupidità antispecistica anglosassone) che non attacca mai frontalmente lo Stato né il capitalismo, ma soltanto le loro “deviazioni” o i loro “eccessi”, rimpiazza la vecchia socialdemocrazia morta sul lavoro nella sua funzione integrativa della società così com’è.

La crisi sanitaria attuale (qualunque sia l’origine e la gravità che le si accorda) ha costretto il dominio a rendere pubblico il suo programma. La sua concezione della vita.

Essa si riassume in questo: il modo di vita industriale non è negoziabile e le rappresentazioni catastrofiste, diffuse con tanta compiacenza da una decina d’anni, non sono concepite per rinunciarvi ma per fare accettare le restrizioni e gli aggiustamenti che permetteranno di perpetuarlo. All’ingrosso fare regredire la libertà umana alla sua sola funzione animale di “conservare la specie”, la “vita nuda” ridotta alla sua sola realtà biologica: l’esempio più trivialmente attuale è il sollievo vigliacco di fronte a una vaccinazione – di fatto obbligatoria – che permetta di ritrovare la vita “normale”.

 

LD: Lei pensa che un tale progetto non si realizzerà?

 

JP: Un tal progetto non va da sé perché, per essere efficace supporrebbe una specie di governo mondiale di cui non si vede oggi l’ombra di un inizio. Beninteso, però, il più grande ostacolo a questo “reset” risiede nell’accettazione perenne da parte delle popolazioni di un tale programma. Cambiare tutto perché non cambi niente, agire cioè radicalmente per la perpetuazione di una società gerarchizzata, non è mai scevro di pericoli.

Il turbamento della primavera scorsa di fronte alla saturazione degli ospedali e alle previsioni apocalittiche (500000 morti pronosticati in Gran Bretagna e in Francia dall’Imperial College) ha trasformato in un primo tempo l’immensa maggioranza della popolazione in un gregge impaurito. Con il passare del tempo, però, di fronte a una propaganda mondiale inedita e a un ministero della verità che elimina ogni opinione critica (assimilata a un complottismo delirante), numerosi refrattari alla tirannia sanitaria o eretici del non pensiero medico ufficiale si sono nonostante tutto manifestati in modi molto diversi.

Non c’è finora un punto di vista unificato – e tanto meglio – di un’altra concezione della vita di fronte all’abiezione che ci è proposta, ma un rifiuto minoritario più o meno cosciente, più o meno globale di una totalità mortifera dove la rinuncia alla libertà non garantisce affatto una qualunque sicurezza.

Questa libertà che se ne va e questa sicurezza che scompare riuniranno certamente il partito della paura attorno a soluzioni autoritarie, ma moltiplicheranno anche i disertori pratici (quando è possibile) e i dissidenti del pensiero (è sempre possibile) in un partito della resistenza attiva. In questo la nostra epoca è profondamente storica pur se, beninteso, non esiste alcuna certezza concernente l’evoluzione di questo conflitto.

 

LD: Lei scrive che “se tutte le rivolte viste nel mondo da due anni, [...] hanno tutte fallito è perché la questione fondamentale di ogni insurrezione – quale società noi vogliamo – è rimasta e rimane ancora dovunque senza risposta positiva nell’immensità e nella complessità di una tale incombenza”. Per Lei la sola via emancipatrice sta “nella distruzione razionale della società industriale”. Che cosa intende con questo e come cominciare a farlo?

 

JP: Non c’è né programma né ricetta per uscire dalla società industriale se non alcuni grandi orientamenti di massima (noti a tutti) impossibili da mettere in atto (se non marginalmente e parzialmente) con la celerità e l’energia che l’urgenza implica, senza una trasformazione rivoluzionaria della società.

Pensare di combattere la società industriale senza abolire il capitalismo o volerlo abolire senza disfarlo, riconquistare la libertà individuale e collettiva che permetta la padronanza del destino dell’umanità senza sopprimere lo Stato, sostenere la democrazia diretta o l’autogestione generalizzata senza uscire dall’economia e senza abolire il denaro, ecco l’essenziale delle impossibilità pratiche che le alternative emancipatrici dovranno assumere sperimentalmente nel crollo in corso.



[1] Membro della scomparsa Enciclopedia delle nocività.

[2]Lettera a Piero... di qui e di altrove” del 22 gennaio 2021, disponibile su Barravento pensiero.






Réponses de Jacques Philipponneau[1] au questionnaire de La Décroissance envoyées le 12 février 2021 et refusées par son comité de rédaction.

 

La Décroissance: Selon vous «l'aspect positif de cette crise qui ne fait que commencer [c'est] la défiance générale devant les mensonges inouïs du gouvernement et son incompétence criminelle, la constatation de l’impuissance de l’État en situation d’urgence et l’évidence que la réactivité, l’initiative, le bon sens, la solidarité sont venus de la société en dépit de toutes les obstructions administratives des bureaucraties étatiques[2]». N'est-ce pas plutôt le fait que nous ayons été transformés en « moutons paranoïaques infantilisés » ainsi que vous l'écrivez également ?

 

Jacques Philipponneau: Les détournements divers des absurdités gouvernementales durant le premier confinement rappellent la créativité remarquable de l’humour soviétique quand la liberté d’expression tenait sa cour dans les cuisines d’appartements. Pour une part de notre vie récente nous en étions là et, en paraphrasant Freud, il s’agissait d’une sorte de victoire paradoxale de la conscience dans des conditions désespérantes.

Accorder crédit aux fantasmes de domination totale (tout à fait réels, comme rêves, ainsi que l’on été d’innombrables projets de même nature depuis que la société de classes existe) est l’autre versant, défaitiste, d’une compensation psychologique de la conscience isolée et impuissante, dont l’humour noir représente le côté jubilatoire de la vie malgré tout.

 

LD: Ce projet de domination totale est bien réel...

 

JP: Il n’est pas question de nier l’existence de ces projets dans les anciennes démocraties représentatives puisqu’elles jalousent ouvertement l’efficacité supposée d’un totalitarisme asiatique réalisé. Déjà les jésuites enviaient la mécanique totalitaire de l’empire chinois qu’ils pensaient pouvoir mettre à leur service ; mais comme on sait il est loin du rêve à la réalité et la fin de l’histoire est celui inaccessible de toutes les dominations.

 Il est évident qu’il existe une conjonction objective entre les trois sujets automates produisant cette évolution rapide : des États en quête de contrôle social achevé, le capitalisme des nouveaux marchés de la numérisation complète de l’existence et la techno-science au service des deux précédents, poursuivant son idéal de réduction de la vie à un pur fonctionnalisme biologique.

 Mais concevoir une société numérisée totalitaire capable réellement d’exclure toute possibilité de renversement, c’est leur prêter une conscience supra-historique unifiée dont ils sont bien incapables. Il n’y a évidemment aucun complot devant des programmes si anciennement publics, si constamment réitérés, si complaisamment promus par les médias et si bien acceptés majoritairement.

Le « great reset » dont vous vous faites l’écho acte l’effondrement effectif de toutes les stabilités qui ont permis le maintien et la transformation conflictuelle de la société industrielle depuis deux siècles.

La domination est devenue ouvertement catastrophiste et par la force des choses, elle doit intégrer le réformisme écologique dans cette sur-bureaucratisation du monde seule à même de gérer, dans cette société, les catastrophes qu’elle produit.

Cet écologisme de caserne, normatif et culpabilisant, dernier avatar du péché chrétien (les indulgences pontificales du bilan carbone, le flygskam – la honte de prendre l’avion du luthérianisme nordique –, la niaiserie antispéciste anglo-saxonne) qui n’attaque jamais frontalement l’État ni le capitalisme, mais seulement leurs « dévoiements » ou leurs « excès », remplace la vieille social- démocratie morte à la tâche dans sa fonction intégrative à la société telle qu’elle est.

La crise sanitaire actuelle (quelle que soit son origine et la gravité qu’on lui accorde) a contraint la domination à afficher son programme. Sa conception de la vie.

Elle se résume à celle-ci : le mode de vie industriel n’est pas négociable et les représentations catastrophistes, si complaisamment diffusées depuis une dizaine d’années, ne sont pas conçues pour y faire renoncer mais pour faire accepter les restrictions et aménagements qui permettront de le perpétuer. En gros, faire régresser la liberté humaine à sa seule fonction animale de « conserver l’espèce », la « vie nue » réduite à sa seule réalité biologique : l’exemple le plus trivialement actuel en est le lâche soulagement devant une vaccination – de fait obligatoire – permettant de retrouver la vie « normale ».

 

LD: Vous pensez qu'un tel projet ne se réalisera pas ?

 

JP:  Un tel projet ne va pas de soi car, pour être efficace, il supposerait une sorte de gouvernement mondial dont on ne voit pas aujourd’hui l’amorce d’un commencement. Mais bien entendu le plus grand obstacle à un tel « reset » réside dans l’acceptation pérenne des populations à un tel programme. Tout changer pour que rien ne change, c’est-à-dire agir radicalement pour la perpétuation d’une société hiérarchisée n’est cependant jamais sans danger.

La sidération du printemps dernier devant la saturation des hôpitaux et les prévisions apocalyptiques (500 000 décès pronostiqués en Grande Bretagne et en France par l’Imperial Collège) a transformé dans un premier temps l’immense majorité de la population en un troupeau apeuré. Mais le temps passant, face à une propagande mondiale inédite et un ministère de la vérité chassant toute opinion critique (assimilée à un complotisme délirant), de nombreux réfractaires à la tyrannie sanitaire ou hérétiques de l’officielle non-pensée médicale se sont malgré tout manifestés de très diverses façons.

Il n’y a à ce jour pas de point de vue unifié -et c’est heureux- d’une autre conception de la vie face à l’abjection qui nous est proposée, mais un refus minoritaire plus ou moins conscient, plus ou moins global d’une totalité mortifère où le renoncement à la liberté ne garantit en rien quelque sécurité que ce soit.

Cette liberté qui s’en va et cette sécurité qui disparaît vont certes rassembler le parti de la peur autour de solutions autoritaires mais aussi multiplier déserteurs pratiques (quand c’est possible) et dissidents de la pensée (c’est toujours possible) dans un parti de la résistance active. C’est en ceci que notre époque est profondément historique sans qu’il n’existe bien entendu aucune certitude quant à l’évolution de ce conflit.

 

LD: Vous écrivez que « si toutes les révoltes que l’on a vues de par le monde depuis deux ans, […] ont toutes échoué c’est parce que la question fondamentale de toute insurrection - quelle société voulons nous ? - est restée et reste encore partout sans réponse positive devant l’immensité et la complexité de la tâche ». Pour vous, la seule voie émancipatrice tient dans « la destruction rationnelle de la société industrielle ». Qu'entendez-vous par là ? Et comment (commencer à) s'y prendre ?

 

JP: Il n’y a non plus ni programme ni recette pour sortir de la société industrielle, tout au plus quelques grandes orientations (connues de tous) impossibles à mettre en œuvre (sauf marginalement et partiellement) avec la célérité et l’énergie que l’urgence implique, sans une transformation révolutionnaire de la société.

Penser combattre la société industrielle sans abolir le capitalisme ou vouloir l’abolir sans défaire celle-ci, recouvrer la liberté individuelle et collective permettant la maitrise du destin de l’humanité sans supprimer l’État, prôner la démocratie directe ou l’autogestion généralisée sans sortir de l’économie et sans abolir l’argent, voilà l’essentiel des impossibilités pratiques que les alternatives émancipatrices devront assumer expérimentalement dans l’effondrement qui vient.

 



[1] Ancien membre de L’Encyclopédie des Nuisances.

[2] «Lettre à Piero... d'Ici et d'Ailleurs», 22 janvier 2021 disponible sur le site lavoiedujaguar.net