sabato 4 settembre 2021

Fatti reali, imprese e favole sulla famosa milizia rivoluzionaria del proletariato" Intervista a Miquel Amorós

 






Intervista a Miquel Amorós nel programma radiofonico gratuito La Nevera, Volume 45, del 7 agosto 2021, a seguito della pubblicazione del libro “La Colonna di Ferro. Fatti reali, imprese e favole sulla famosa milizia rivoluzionaria del proletariato".

 

Nel luglio 1936 la classe operaia fu costretta a scendere in piazza per affrontare il fascismo. Quando ciò è accaduto, il popolo valenzano ha cercato di mettere in atto i cambiamenti sociali che rivendicava da molto tempo. La Colonna di Ferro, formata per combattere a Teruel dai militanti CNT-FAI, la maggior parte dei quali erano onestissimi operai e contadini levantini, basava la sua organizzazione e il suo lavoro costruttivo sulle idee di uguaglianza, libertà e giustizia sociale, pilastri della nuova società che si doveva fondare. Come ci si poteva aspettare, questo non piacque alla borghesia né ai partiti politici, alle potenze straniere e, specialmente all'Unione Sovietica e alla nuova burocrazia CNT, sviluppatasi nei primi mesi di guerra. Per questo motivo la Colonna fu oggetto di un'enorme diffamazione che continua ancora oggi.

La Nevera: Avevi già pubblicato un libro sulla Colonna di Ferro (“José Pellicer, l'anarchico integerrimo”), cosa ti ha portato a scriverne un altro?

Miquel Amorós: Un migliore accesso agli archivi, una maggiore disponibilità della stampa storica e, infine, la comparsa di nuove testimonianze e nuove opere storiografiche, che mi hanno dato una conoscenza più profonda della tragica epopea proletaria iniziata nel 1936 e, in particolare, del ruolo fondamentale che il gruppo Nosotros e i suoi collaboratori hanno svolto nella regione levantina.

L.N.: La Colonna di Ferro è passata per la regione dell'Alto Palancia e aveva un rapporto con la gente di lì, che la conosceva bene, ma continua ad essere la Colonna più criticata fino ad oggi, perché?

M.A.: Quanti ebbero direttamente a che fare con i miliziani non hanno mantenuto di essa un'impressione sfavorevole, e tanto meno le quasi diecimila persone che in un modo o nell'altro vennero a partecipare alla Colonna. Si sentivano rappresentati da essa. Era una milizia rivoluzionaria, idealista, desiderosa di un mondo libero dall'oppressione, "la stella di un sogno che prende colore", come ha detto un poeta dell'epoca. La sua presenza attiva si scontrava con i piani restauratori della borghesia repubblicana, con la politica stalinista, con il rafforzamento dello Stato e, infine, con i comitati accomodanti "responsabili" dell'organizzazione confederale e libertaria. Dava fastidio a tutti i settori, e di conseguenza non era apprezzata da nessuno. Per tutti i difensori dell'ordine precedente il 19 luglio, la Colonna non era altro che "una squadraccia di banditi ed ex detenuti".

L.N.: Autori "filogovernativi" come Eladi Mainar, giornalisti di destra e pseudo cronisti locali le hanno attribuito tutti gli eccessi della retroguardia...

M.A.: Seguendo gli orientamenti di stalinisti come Herbert Southworth, Tuñón de Lara, Pierre Vilar, Julio Aróstegui, Adrian Shubert, Ángel Viñas, Juan Marichal e molti altri, gli storici universitari e i giornalisti dediti al postfranchismo detestano enormemente il libro più obiettivo che sia mai stato scritto sulla guerra civile spagnola: “The Grand Camouflage”, di Burnett Bolloten, pubblicato a New York nel 1961. E proprio questo libro descrive la Colonna di Ferro con tratti rivoluzionari, riproducendo per la prima volta la storia del prigioniero di San Miguel de los Reyes tante volte modificata. Tali disinformatori prolungano il lavoro del KGB e dei giudici inquisitori della Causa Generale. Basta vedere chi sono coloro che ripetono oggi la canzone diffamatoria un tempo intonata dalla borghesia, dal franchismo e dalla Chiesa: neofascisti, beati, reazionari, conservatori, post-stalinisti... gente d'ordine, idolatri dell'autorità, che odiano con tutte le loro forze le iniziative popolari autonome e i cambiamenti radicali. La menzogna è la loro arma, tanto quanto la verità è quella della rivoluzione. Le vere idee e le posizioni senza compromessi della Colonna sono facili da rintracciare. Ha pubblicato manifesti, comunicati e appelli, ha stampato un giornale sul fronte (“Linea de fuego”) e ne ha fondato un altro per la FAI (“Nosotros”). Una lettura anche sommaria della documentazione rivelerebbe un anarchismo rivoluzionario nel suo più alto grado di espressione pratica. La Colonna di Ferro era semplicemente l'avanguardia armata del proletariato levantino.

L.N.: Nel libro ti sei concentrato maggiormente sulla retroguardia. Fu l'unica colonna anarchica a visitarla per conto suo per ricordare ai borghesi che non si batteva per la Repubblica, ma per la Rivoluzione. La Repubblica mitizzata dalla "sinistra" attuale è abbastanza ridicola.

M.A.: Nei primi tempi l'iniziativa fu portata avanti da operai e contadini di ogni tendenza, che occuparono terre e fabbriche con l'intento di collettivizzarle. Il governo di Giral era un fantasma. La Colonna di Ferro fu un ulteriore elemento della marea rivoluzionaria. Ovunque passasse, cercava di trascinarsi dietro la Rivoluzione. Il popolo liberato rispondeva organizzandosi e inviando alla Colonna dei vestiti, del cibo e del denaro. La rapida estensione di questo processo rivoluzionario spaventò lo Stato, poiché un tale bagaglio rendeva impossibile l'annullamento del Patto di non intervento tra le potenze. L'unico modo per bloccarlo era incorporare la CNT nel governo repubblicano. Sarebbe stata allora questione di militarizzare le milizie e trasformarle in brigate di un Esercito Popolare la cui direzione sfuggisse alle mani del proletariato per finire in quelle dello Stato. Così il proletariato sarebbe stato neutralizzato e disarmato. Non ci volle molta pressione perché la CNT entrasse nel governo e consegnasse le forze che controllava ai nemici interni.

L.N.: Nei tuoi libri (per esempio in "La rivoluzione tradita. La vera storia di Balius e Los Amigos de Durruti") denunci le manovre controrivoluzionarie dei comunisti, ma fai anche notare che i dirigenti della CNT e della FAI hanno fatto il loro gioco.

M.A.: Valencia era diversa dalla Catalogna. Nella regione di Levante la tendenza riformista pesava molto di più. La tendenza rivoluzionaria era minoritaria e si appoggiava su pochi sindacati (soprattutto il Sindacato Unico della Costruzione), sulle federazioni locali dei villaggi contadini e su un pugno di giovani entusiasti sparsi nei gruppi di affinità o di difesa. Sebbene questa minoranza diffidasse della Repubblica e la ritenesse incapace di risolvere qualsiasi problema, fosse la crisi, la disoccupazione o la riforma agraria, la CNT ufficiale lottava per una politica unitaria con le forze stataliste e borghesi. Le due tendenze hanno marciato insieme all'inizio della guerra sotto l'egida del Comitato esecutivo popolare, un organo di governo regionale, ma quando il fronte si è esaurito, hanno cominciato a prendere le distanze. La paralisi del fronte fu il motivo dell’indebolimento della retroguardia della Colonna di Ferro, la quale voleva prendere Teruel il prima possibile, per spianare la strada verso Saragozza. Declinando, essa ha verificato con stupore che la vita frivola dei tempi passati regnava come se non ci fosse guerra né rivoluzione, e che i fucili, tanto carenti al fronte, riposavano placidamente nelle retrovie sulle spalle delle forze dell'ordine. In seguito, quando la presenza nel governo di quattro ministri libertari coprì il trasferimento della capitale a Valencia, la separazione fu totale.

L.N.: Il primo compito prefissosi dal governo di Largo Caballero fu quello di ristabilire la propria autorità per fermare il processo di trasformazione iniziato. Ciò passava per il taglio dei rifornimenti ai fronti e l’interruzione delle operazioni. Dare inizio a una controrivoluzione.

M.A.: La controrivoluzione cominciò già nel CEP, con forze politiche che l'hanno sabotato dall'interno. La creazione della Guardia Popolare ne fu un esempio. La priorità data a Madrid un altro. Il fronte di Madrid assorbì quasi tutto lo sforzo militare a scapito dei fronti gestiti dagli anarchici, che rimasero stagnanti. La difesa di Madrid significava la difesa dello Stato. L'offensiva aragonese avrebbe significato il trionfo della Rivoluzione. La controrivoluzione lo aveva chiaro: il 25 settembre 1936, il nuovo arrivato generale Gorev avvertì Mosca che "la lotta contro gli anarchici sarebbe stata inevitabile [e] molto dura". Poco più di un mese dopo, ha avuto luogo il massacro in Plaza Tetuán. La controrivoluzione è continuata con la costante vessazione delle collettività e ha portato alle fucilazioni di Vinalesa, Alfara, Benaguacil, Gandía, ecc., che hanno prefigurato gli eventi del maggio 1937.

L.N.: Si indebolirebbe anche il sentimento di solidarietà e fratellanza con le altre tendenze proletarie, rappresentate dall'UGT e dal POUM. Ho sentito spesso commenti come "le colonne non erano abbastanza combattive". Cosa ne pensi?

M.A.: Senza quelle colonne il fascismo non si sarebbe fermato. Erano migliori di qualsiasi normale unità di soldati, perché sebbene partissero da zero, erano guidati dall'idea e dalla passione. Le donne lottavano per la loro emancipazione. Molti miliziani erano troppo giovani, avevano mentito sulla loro età al momento dell'iscrizione. Altri erano troppo vecchi. Tutti senza eccezione erano vestiti con abiti estivi, senza alcun equipaggiamento, senza saper sparare né schierarsi a terra o proteggersi dai proiettili... Tutte le colonne mancavano dell’essenziale; tuttavia, hanno imparato mentre marciavano: hanno combattuto e vinto. La Colonna di Ferro è diventata un'efficace unità d'urto in meno di un mese, improvvisando dal nulla un sistema sanitario, di trasporto e di approvvigionamento. Non si può negare che alcune colonne titubassero, ma in generale erano molto più combattive quando le animava lo spirito rivoluzionario di quando si convertirono in brigate. La Colonna di Ferro non faceva complimenti con coloro che rubavano o uccidevano. Li giudicava, li espelleva e li fucilava la sua stessa centuria. Sebbene alcuni gruppi, su richiesta degli stessi contadini, effettuassero esecuzioni nelle retrovie, è anche certo che la Colonna abbia protetto molti individui abulici, sia impiegandoli negli uffici, negli ambulatori e negli ospedali, sia semplicemente procurando loro un riparo sicuro. La casa dei fratelli Pellicer era un autentico rifugio.

L.N.: Suppongo che fossero persone che passavano informazioni al nemico. In guerra bisognava stare attenti con la cosiddetta Quinta Colonna, che s’infiltrava nelle organizzazioni e trasmetteva informazioni ai faziosi...

M.A.: La violenza contro il nemico storico - il caporione e il curato - era una violenza di classe. Il trasferimento d’informazioni dall'altra parte non avvenne durante i primi mesi di guerra, poiché le pattuglie, i comitati e le diverse milizie di retroguardia tenevano a bada i possibili simpatizzanti dei faziosi. La Quinta Colonna apparve per la prima volta a Madrid alla fine del 1936, sotto forma di modeste cellule senza contatto tra loro, dedite a nascondere i perseguitati e a procurare loro tessere di organizzazioni antifasciste. Proprio quando l'ordine pubblico venne a dipendere interamente dal governo, i sostenitori dei ribelli iniziarono a organizzarsi sul serio, diffondendosi attraverso l'Esercito Popolare e sabotando le armi. La faccenda, però, non preoccupò abbastanza fino all’agosto 1937, quando si creò il SIM, per usarlo contro il POUM e gli anarchici. Con il governo di Negrín la controrivoluzione raggiungerà il suo culmine.

L.N.: Tornando al tema della repressione nelle retrovie e degli incontrollati, osservo che tutta la violenza e tutti gli eccessi che si sono verificati continuano ad essere sistematicamente attribuiti alla Colonna di Ferro. Per esempio, l'articolo scritto senza alcun rigore“La Colonna di Ferro. Puro e duro terrore nella guerra civile”, di un certo Álvaro Vanderbrule, pubblicato su El Confidencial, il 13 dicembre 2014. Hai scritto che il Comitato di guerra fu contrario a tutto questo e hai fornito l’informazione che altre fazioni, come il PCE, attribuirono i loro misfatti agli anarchici ...

M.A.: “El Confidencial” è un giornale di destra e l'articolo in questione è un campione chimicamente puro del fariseismo cittadinista che oggi caratterizza i cecchini ideologici dell'ordine costituito, incaricati di alimentare periodicamente la paura della rivoluzione per propendere verso l'autoritarismo della classe dirigente, senza preoccuparsi minimamente della veridicità e dell'obiettività. Questa paura quasi genetica che dura, si traduce in odio africano per il gruppo che meglio ha incarnato la rivoluzione. In verità ci furono decessi in ognuno dei gruppi della Colonna, ma la stragrande maggioranza era incaricata dei pattugliamenti dell'ordine pubblico di qualsiasi segnale che brulicasse nelle retrovie, e ancor più della polizia ufficiale o ufficiosa. Ciò che realmente traumatizzò la borghesia non furono i conati di "terrore rosso" che si sono succeduti tra l’agosto e l’ottobre del 1936, ma gli atti, le multe e le requisizioni di gioielli e oggetti di valore effettuati dalla Colonna alla ricerca di mezzi pecuniari per l'acquisto di armi, che furono molto numerosi. La borghesia ha sempre tenuto il cuore nel portafoglio.

L.N.: Va evidenziato il grande lavoro costruttivo della Colonna di Ferro e il suo carattere assembleare...

M.A.: La sola presenza della Colonna servì a organizzare autonomamente i paesi vicini al fronte, sviluppare sindacati e promuovere collettività. La Colonna aveva un interesse materiale nel farlo, poiché gli operai e i contadini erano i suoi principali fornitori di cibo e indumenti caldi. Dalle industrie collettivizzate venivano inviate coperte e cinture. A Burriana, una fabbrica autogestita la riforniva di munizioni. La Colonna di Ferro funzionava come l'esercito greco descritto da Senofonte nell'"Anabasi", con un alto grado di autonomia. Tutti i suoi componenti erano venuti volontariamente e potevano lasciare la Colonna volontariamente. Tuttavia, l'autodisciplina, frutto della coscienza rivoluzionaria, impediva una dispersione caotica. Le perdite erano immediatamente compensate da nuovi volontari. Il Comitato di Guerra si limitava a informare e coordinare; le decisioni venivano prese regolarmente nell'assemblea dei delegati, precedentemente eletti e incaricati dalle assemblee di centuria. Né saluti militari, né gerarchie, né percosse, né ordini unilaterali, né uniformi, né punizioni. Le altre colonne libertarie funzionavano più o meno allo stesso modo. La militarizzazione mise fine a tutto, separando la guerra dalla rivoluzione.

L.N.: Beh, hai altro da dire? Qual è stato il tuo scopo nello scrivere sulla guerra civile rivoluzionaria?

M.A.: Quando ho cominciato a documentarmi sulla guerra civile, sono rimasto sorpreso dall'occultamento metodico dell'impresa proletaria da parte degli storici. La testimonianza dei miei parenti, alcuni della CNT, contrastava con la versione ufficiale filo-repubblicana dello stile di Hugh Thomas o Raymond Carr, per non parlare di quella comunista. Fino alla lettura di "La CNT nella rivoluzione spagnola", di José Peirats, e di "Durruti. Il proletariato in armi”, di Abel Paz, non l'ho visto chiaramente. Poiché chi ignora il passato è condannato a ripeterlo, il mio impegno per la rivoluzione sociale abbozzata nel 1936 mi ha spinto a lavorare per la verità dei fatti, prima vittima della guerra, che mi ha portato a rivendicare i suoi protagonisti più radicali, dimenticati anche dalle loro stesse organizzazioni. Da lì sono nate  le  mie investigazioni sulla morte di Durruti, le traiettorie di Jaime Balius e José Pellicer, il Gruppo degli Amici di Durruti, la Colonna Maroto e la Colonna di Ferro. Il risultato fu la chiara constatazione del conflitto tra un anarchismo rivoluzionario inflessibile e un sindacalismo libertario riformista e condiscendente, che rinunciò letteralmente ai suoi principi e tradì la rivoluzione. Tale affermazione irritò molti membri "ortodossi" della CNT e sconvolse i loro storici mercenari; qualcuno mi accusò di "fare il gioco del nemico". Se questo significa trasformare la storia in propaganda, cioè falsificare la realtà, allora non si conti su di me. La verità è sempre rivoluzionaria, il trucco e  il travisamento non lo sono. Un'altra cosa è che l'interesse per la Rivoluzione, e di conseguenza l'interesse per la verità, siano diminuiti. Il nemico ha trionfato e le conseguenze del trionfo sono molto presenti. Anche se comincio a dubitare che la verità ci renda liberi, data l'enorme confusione e l'oblio imperante contro cui posso fare poco, l'ignoranza e la menzogna ci renderanno irrevocabilmente schiavi.

 

Sede de la Columna de Hierro en Valencia



Entrevista hecha a Miquel Amorós en el programa de radio libre La Nevera, Volumen 45, el 7 de agosto de 2021, a raíz de la publicación del libro “La Columna de Hierro. Hechos reales, hazañas y fabulaciones sobre la célebre milicia revolucionaria del proletariado.”

 

En julio de 1936 la clase obrera se vio obligada a salir a la calle para hacerle frente al fascismo. Cuando esto ocurrió, el pueblo valenciano trató de realizar los cambios sociales que venía reivindicando desde mucho tiempo atrás. La Columna de Hierro, formada para combatir en Teruel por militantes de la CNT-FAI, en su mayoría honradísimos obreros y campesinos levantinos, basó su organización y su obra constructiva en las ideas de igualdad, libertad y justicia social, pilares de la nueva sociedad que había de fundarse. Como se podía esperar, a la burguesía esto no le gustó, ni a los partidos políticos, ni a las potencias extranjeras, especialmente a la Unión Soviética, ni tampoco a la nueva burocracia cenetista, desarrollada en los primeros meses de la guerra. Por ello la Columna fue objeto de una enorme difamación que todavía perdura.

 La Nevera: Ya habías publicado un libro sobre la Columna de Hierro (“José Pellicer, el anarquista íntegro”) ¿Qué es lo que te ha llevado a escribir otro? 

 Miquel Amorós: Un mejor acceso a los archivos, una mayor disponibilidad de la prensa histórica, y en fin, la aparición de nuevos testimonios y nuevos trabajos historiográficos, lo cual me proporcionó un conocimiento más profundo de la trágica epopeya proletaria iniciada en el 36 y, en particular, del papel fundamental que jugaron en la regional levantina el grupo Nosotros y sus colaboradores.

 L.N.: La Columna de Hierro pasó por el Alto Palancia, y tuvo relación con la gente de allí, que la conoció bien, pero continúa siendo la Columna más criticada hasta hoy ¿por qué?

 M.A.: Quienes trataron directamente con los milicianos no guardaron una impresión desfavorable de ella y menos aún las cerca de diez mil personas que de una manera u otra llegaron a participar en la Columna. Se sentían representados por ella. Era una milicia revolucionaria, idealista, deseosa de un mundo libre de opresión, “la estela de un sueño que toma color”, como dijo un poeta de entonces. Su activa presencia chocaba con los planes restauradores de la burguesía republicana, con la política estalinista, con el refuerzo del Estado y, al final, con los acomodaticios comités “responsables” de la organización confederal y libertaria. Molestaba a todos los sectores, y en consecuencia, no era apreciada por ninguno. Para todos los defensores del orden anterior al 19 de julio, la Columna no era más que “una cuadrilla de bandidos y ex presidiarios”.

 L.N.: Autores “oficialistas” como Eladi Mainar, periodistas de derechas y seudocronistas locales le han atribuido todos los desmanes de la retaguardia...

 M.A.: Siguiendo las orientaciones de filoestalinistas como Herbert Southworth, Tuñón de Lara, Pierre Vilar, Julio Aróstegui, Adrian Shubert, Ángel Viñas, Juan Marichal y tantos otros, los historiadores universitarios y los periodistas adictos al posfranquismo detestan sobremanera al libro más objetivo que se jamás escrito sobre la guerra civil española: “El Gran Camuflaje”, de Burnett Bolloten, publicado en 1961. Y precisamente este libro dibuja a la Columna de Hierro con trazos revolucionarios, reproduciendo por primera vez la historia del preso de San Miguel de los Reyes tantas veces editada. Ese tipo de desinformadores prolongan la tarea del KGB y los jueces verdugos de la Causa General. No hay más que ver quiénes son los que repiten hoy la cantinela difamatoria antaño entonada por la burguesía, el franquismo y la Iglesia: neofascistas, beatos, reaccionarios, conservadores, posestalinistas... gente de orden, idólatras de la autoridad, que odian las iniciativas populares autónomas y los cambios radicales con todas sus fuerzas. La mentira es su arma, tanto como la verdad lo es de la revolución. Las verdaderas ideas y posiciones intransigentes de la Columna son fáciles de rastrear. Publicó manifiestos, comunicados y llamamientos, imprimió un diario en el frente (“Línea de Fuego”) y  fundó otro para la FAI (“Nosotros”). Una lectura incluso somera de la documentación nos revelaría un anarquismo revolucionario en su más alto grado de expresión práctica. La Columna de Hierro era sencillamente la vanguardia armada del proletariado levantino.

 L.N.: En el libro te has centrado más en la retaguardia. Fue la única columna anarquista que la visitó por su cuenta para recordar a los burgueses que no luchaba por la República, sino por la Revolución. La República mitificada por la “izquierda” de ahora queda bastante en ridículo.

 M.A.: En los primeros días la iniciativa corrió a cargo de los obreros y campesinos de todas las tendencias, que ocuparon tierras y fábricas con la intención de colectivizarlas. El Gobierno de Giral era un fantasma. La Columna de Hierro fue un elemento más de la marea revolucionaria. Por donde pasaba intentaba arrastrar a la Revolución. El pueblo liberado respondía organizándose y enviándole ropa, comida y dinero. La rapidez y extensión de este proceso revolucionario asustó al Estado, pues tal bagaje le imposibilitaba revertir el Pacto de No Intervención entre las potencias. La única manera de detenerlo era incorporando la CNT al gobierno republicano. Luego sería cuestión de militarizar las milicias y convertirlas en brigadas de un Ejército Popular cuya dirección escaparía de las manos proletarias para ir a parar a manos del Estado. Así pues, el proletariado quedaría neutralizado y desarmado. No hizo falta mucha presión para que la CNT entrara en el Gobierno y entregara las fuerzas que controlaba a los enemigos de dentro.

 L.N: En tus libros (por ejemplo, en “La Revolución Traicionada. La verdadera historia de Balius y Los Amigos de Durruti”) denuncias las maniobras contrarrevolucionarias de los comunistas, pero también señalas que los dirigentes de la CNT y la FAI les hicieron el juego.

 M.A.: Valencia era diferente de Cataluña. En la Regional de Levante pesaba mucho más la tendencia reformista. La tendencia revolucionaria era minoritaria y se apoyaba en unos pocos sindicatos (el Sindicato Único de la Construcción sobre todo), en las federaciones locales de pueblos campesinos y en un puñado de jóvenes entusiastas desperdigados en los grupos de afinidad o de defensa. Si bien esta minoría desconfiaba de la República y la creía incapaz de solucionar ningún problema, fuese la crisis, el paro o la reforma agraria, la CNT oficial pugnaba por una política unitaria con las fuerzas estatistas y burguesas. Las dos tendencias marcharon juntas al comienzo de la guerra bajo el paraguas del Comité Ejecutivo Popular, órgano regional de gobierno, pero cuando el frente quedó desabastecido, empezaron a distanciarse. La parálisis del frente fue el motivo de la bajada a la retaguardia de la Columna de Hierro. Esta quería tomar Teruel cuanto antes, para despejar el camino a Zaragoza. Al bajar, comprobó asombrada, que la vida frívola de los tiempos pasados reinaba como si no hubiera guerra ni revolución, y que los fusiles que tanta falta hacían en el frente, descansaban plácidamente en la retaguardia sobre los hombros de las fuerzas del orden. Luego, cuando la presencia en el gobierno de cuatro ministros libertarios cubrió el traslado de la capitalidad a Valencia, la separación fue total.

 L.N.: La primera tarea que se impuso el Gobierno de Largo Caballero fue restablecer su autoridad para detener el proceso transformador que se había iniciado. Eso pasaba por cortar los suministros a los frentes y parar las operaciones. Empezar una contrarrevolución.

 M.A.: La contrarrevolución empezó ya en el CEP, con fuerzas políticas que lo saboteaban desde dentro. La creación de la Guardia Popular fue un ejemplo. La prioridad dada a Madrid fue otro. El frente de Madrid absorbió casi todo el esfuerzo militar en detrimento de los frentes gestionados por los anarquistas, que quedaron estancados. La defensa de Madrid significaba la defensa del Estado. La ofensiva de Aragón hubiera significado el triunfo de la Revolución. La contrarrevolución lo tenía claro : el 25 de septiembre de 1936, el recién llegado general Gorev avisaba a Moscú de “que la lucha contra los anarquistas será inevitable [y] muy dura.” Algo más de un mes mas tarde tuvo lugar la matanza de la Plaza Tetuán. La contrarrevolución continuó con el hostigamiento constante a las colectividades y desembocó en los tiroteos de Vinalesa, Alfara, Benaguacil, Gandía etc., que prefiguraron los sucesos de Mayo del 37.

 L.N.: También se debilitaría el sentimiento de solidaridad y hermandad con las demás tendencias proletarias, representadas por la UGT y el POUM. A menudo he escuchado comentarios del estilo de “las columnas no eran suficientemente combativas”. ¿Qué opinas?

 M.A.: Sin aquellas columnas no se hubiera parado al fascismo. Fueron mejores que cualquier unidad regular de soldados, pues aunque partían de cero les movía la idea y la pasión. Las mujeres luchaban por su propia emancipación. Muchos milicianos eran demasiado jóvenes, habían mentido en la edad a la hora de apuntarse. Otros eran demasiado viejos. Todos sin excepción iban vestidos con ropa de verano, sin equipamiento alguno, sin saber disparar, ni desplegarse por el terreno, ni protegerse de las balas... Todas las columnas carecían de lo más imprescindible; sin embargo, aprendieron sobre la marcha: libraron batalla y vencieron. La de Hierro se transformó en una unidad de choque eficaz en menos de un mes, improvisando de la nada un sistema de sanidad, transporte y aprovisionamiento. No podemos negar que alguna columna chaqueteara, pero en general, se mostraron mucho más combativas cuando les animaba el espíritu revolucionario, que cuando se convirtieron en brigadas. La Columna de Hierro no tenía contemplaciones con quienes robaban o mataban. Los juzgaba, expulsaba y fusilaba su propia centuria. Si bien algunos grupos, a petición de los propios campesinos, llevaron a cabo ejecuciones en la retaguardia, también es cierto que la Columna protegió a mucha gente desafecta, bien empleándola en los despachos o en los ambulatorios y los hospitales, o simplemente buscándole resguardo seguro. La casa de los hermanos Pellicer era un auténtico refugio.

 L.N.: Supongo que se trataba de gente que pasaba información al enemigo. En guerra había que tener cuidado con la llamada Quinta Columna, que se infiltraba en las organizaciones y pasaba información a los facciosos...

 M.A.: La violencia contra el enemigo histórico - el cacique y el cura - era una violencia de clase. El pase de información al otro lado no tuvo lugar durante los primeros meses de la guerra, pues las patrullas, los comités y las distintas milicias de retaguardia tenían bien a raya a los posibles simpatizantes de los facciosos. La Quinta Columna apareció primero en Madrid a finales del 36, en forma de modestas células sin contacto entre sí dedicadas a esconder perseguidos y a procurarles carnets de organizaciones antifascistas. Precisamente cuando el orden público pasó a depender enteramente del Gobierno los partidarios de los sublevados empezaron a organizarse en serio, extendiéndose por los mandos del Ejército Popular y saboteando armamento. Sin embargo, el asunto no preocupó lo suficiente hasta agosto del 37, cuando se creó el SIM, pero para ser empleado contra el POUM y los anarquistas. Con el gobierno de Negrín la contrarrevolución alcanzará su cota máxima.

 L.N.: Volviendo al tema de la represión en la retaguardia y a los incontrolados, observo que toda la violencia y todos los desmanes habidos siguen siendo sistemáticamente achacados a la Columna de Hierro. Por ejemplo, el artículo escrito sin ningún rigor “La Columna de Hierro. Terror puro y duro en la Guerra Civil”, de un tal Álvaro Vanderbrule, publicado en El Confidencial, el 13 de diciembre de 2014. Tu escribiste que el Comité de Guerra se oponía a todo ello y facilitaste el dato de que otras facciones, como el PCE, atribuían sus fechorías a los anarquistas...

 M.A.: “El Confidencial” es un diario de derechas y el artículo en cuestión es una muestra químicamente pura del fariseismo ciudadanista que caracteriza hoy a los francotiradores ideológicos del orden establecido, encargados de atizar periódicamente el miedo a la revolución para decantar hacia el autoritarismo a la clase dirigente, sin preocuparse lo más mínimo de la veracidad y de la objetividad. Ese miedo casi genético que perdura, se traduce en odio africano al colectivo que mejor encarnaba la revolución. En verdad hubo muertes por parte de algunos grupos de la Columna, pero la gran mayoría corrieron a cargo de las patrullas de orden público de cualquier signo que pululaban en la retaguardia y más aún de la policía oficial u oficiosa. Lo que verdaderamente traumatizó a la burguesía no fueron los conatos de “terror rojo” que se sucedieron entre agosto y octubre del 36, sino los registros, las multas y las requisas de joyas y objetos de valor efectuadas por la Columna en busca de medios pecuniarios para la compra de armas, que fueron muy numerosas. La burguesía ha tenido siempre su corazón en el bolsillo.

 L.N.: Remarcaría la gran labor constructiva de la Columna de Hierro y su carácter asambleario...

 M.A.: La sola presencia de la Columna sirvió para organizar autónomamente los pueblos cercanos al frente, desarrollar sindicatos y promover colectividades. Tenía interés material en hacerlo pues los obreros y campesinos eran sus principales suministradores de víveres y ropa de abrigo. De las industrias colectivizadas les enviaban mantas y correajes. En Burriana, una fábrica autogestionada le proporcionaba munición. La Columna de Hierro funcionaba como el ejército griego descrito por Jenofonte en la “Anábasis”, con un grado elevado de autonomía. Todos sus componentes habían venido voluntarios y voluntariamente podían abandonarla. Sin embargo, la autodisciplina, fruto de la conciencia revolucionaria, impedía una dispersión caótica. Las bajas se cubrían inmediatamente con nuevos voluntarios. El Comité de Guerra solamente informaba y coordinaba; las decisiones eran tomadas regularmente en la asamblea de delegados, elegidos previamente y mandatados por las asambleas de centuria. Ni saludos castrenses, ni jerarquías, ni galones, ni órdenes unilaterales, ni uniformes, ni castigos. Las demás columnas libertarias funcionaban más o menos del mismo modo. La militarización acabó con todo, separando la guerra de la revolución.

 L.N.: Bueno, ¿tienes algo más que decir? ¿Cuál ha sido tu propósito al escribir sobre la guerra civil revolucionaria?

 M.A.: Al empezar a documentarme sobre la guerra civil, me sorprendió la ocultación metódica de la gesta proletaria por parte de los historiadores. El testimonio de mis familiares, algunos de la CNT, contrastaba con la versión oficial pro republicana del estilo de Hugh Thomas o Raymond Carr, no digamos ya con la comunista. Hasta la lectura de “La CNT en la Revolución Española”, de José Peirats, y del “Durruti. El proletariado en armas”, de Abel Paz, no lo vi claro. Como sea que quien ignora el pasado está condenado a repetirlo, mi compromiso con la revolución social esbozada en el 36 me impelía a trabajar en pos de la verdad de los hechos, la primera víctima de la guerra, lo que me condujo a reivindicar a sus protagonistas más radicales, olvidados hasta por sus mismas organizaciones. De ahí salieron mis investigaciones sobre la muerte de Durruti, las trayectorias de Jaime Balius y José Pellicer, la Agrupación de Los Amigos de Durruti, la Columna Maroto y la Columna de Hierro. El resultado fue la clara constatación de la pugna entre un anarquismo revolucionario inflexible y un sindicalismo libertario reformista y condescendiente, que literalmente renunció a sus principios y traicionó la revolución. Tal afirmación irritó a muchos “ortodoxos” cenetistas y soliviantó a sus historiadores mercenarios; hubo quien me acusó de “hacerle el juego al enemigo”. Si eso significa convertir la historia en propaganda, o sea, falsear la realidad, entonces que no cuenten conmigo. La verdad siempre es revolucionaria, el maquillaje y la tergiversación no lo son. Otra cosa es que el interés por la Revolución, y por consiguiente, el interés por la verdad, hayan decaído. El enemigo triunfó y las consecuencias del triunfo están muy presentes. Si bien empiezo a dudar de que la verdad nos haga libres, dada la enorme confusión y desmemoria reinante contra la que poco puedo hacer, la ignorancia y la mentira nos harán irremisiblemente esclavos.