lunedì 22 agosto 2022

Neoliberalismo e statalizzazione di Miquel Amoros

 



Eccovi in anteprima la traduzione in italiano di quest’articolo di Miquel Amoros la cui versione in lingua originale spagnola è prevista per l’autunno.

SGS

 

Neoliberalismo e statalizzazione

Perché lo Stato è il più grande nemico del genere

umano e chiunque vi si intrappoli entra in conflitto.

Attenzione... restate sempre liberi, indipendenti,

non tenete conti aperti con nessuno.

(Benito Pérez Galdós, Miau)

 

La questione della natura dello Stato contemporaneo e del suo attuale rapporto con l'economia capitalista in una fase neoliberale avanzata altamente infiammabile per ogni tipo di crisi, è di grande importanza per il chiarimento teorico della protesta all'interno delle masse dominate. Tale chiarimento è una condizione fondamentale per la loro emancipazione pratica. Alla luce di ciò, sarebbe bene formulare alcune considerazioni al riguardo.

Durante i periodi critici lo Stato è portato in processione. Se la recente crisi sanitaria ne ha messo in luce il ruolo fondamentale nel controllo della popolazione e nella parziale cessazione dell'attività economica, senza traumi o contestazioni significative, le urgenze del riscaldamento globale del pianeta e l'attuale aumento dei prezzi dei carburanti non hanno fatto altro che riaffermarlo. I meccanismi messi in atto per garantire il compito sono stati trasformati qualitativamente: la digitalizzazione ha compiuto passi da gigante, la comunicazione unilaterale si è generalizzata e la manipolazione delle informazioni ha superato tutti i limiti senza una percettibile resistenza. Le garanzie giuridiche e i diritti sociali sono progressivamente eliminati mentre l'apparato repressivo continua a rafforzarsi. Ciò che oggi chiamano democrazia, transizione ecologica o sviluppo sostenibile non sono altro che simulacri burleschi che non nascondono la crescente atmosfera autoritaria e il primato antiecologico della finanza. Il potere reale è concentrato e centralizzato mentre le masse sono espropriate di qualsiasi decisione e spogliate di ogni informazione obiettiva. Il dominio ha davanti a sé nient'altro che una popolazione disinformata e in gran parte rassegnata, aggrappata a qualunque ancora di salvezza il sistema voglia fornirle. Con il popolo controllato e sottomesso, la statalizzazione della vita ha la via libera per salire alcuni gradini. Come ci dice il conservatore Carl Schmitt, ciò che definisce lo Stato è precisamente "la possibilità di disporre apertamente, frequentemente, della vita degli uomini", quindi non sorprende che nel mondo postmoderno lo Stato penetri fino nell'intimità più profonda. D'altra parte, la professionalizzazione della politica e lo spettacolo deplorevole del suo esercizio contribuiscono notevolmente alla perversione dell'attività pubblica e alla disaffezione sociale. La tecnicizzazione fa lo stesso con la vita privata (la tecnologia è attualmente una forza produttiva diretta). Paradossalmente, la dottrina neoliberale, dogma dell'alta borghesia esecutiva, ha elevato a livelli superiori la presenza quotidiana dello Stato in ogni attività.

Contrariamente a tutti i postulati teorici, la globalizzazione finanziaria va di pari passo con lo statalismo. Il controllo globale delle risorse la geopolitica ha spinto a una militarizzazione accelerata e, di conseguenza, a un enorme rafforzamento burocratico dello Stato e a una concentrazione senza precedenti della sfera decisionale. Le derive conflittuali esistenti dalla Guerra del Golfo illustrano la tendenza guerrafondaia-statalista delle grandi potenze, quindi dell'intera coorte delle potenze minori. La sicurezza di una vita privata dedicata al tempo libero, al consumo e al turismo, attività tanto apprezzate dalla massa sottomessa, dipende ora dall'interazione tra strategie di sicurezza su scala mondiale. Gli squilibri di potere causati dalle crisi politiche internazionali in un contesto di crisi multiple impongono un cambiamento nei rapporti tra la società, gli Stati e i mercati globali. L'autoritarismo, e quindi la burocratizzazione e la gerarchizzazione, s’impongono a tutti i livelli, poiché per preservare la sovranità dei mercati e salvare il commercio mondiale è necessario un salto di qualità nella disciplina e nel controllo della società. Se in tempi calmi le istituzioni statali si sottomettono agli imperativi dell'economia, nei periodi di crisi l'economia ha bisogno dell'intervento dello Stato come la pioggia a maggio.

Il rapporto tra Capitale e Stato sembra invertirsi, ma qui non si tratta di un capitalismo di Stato come quello descritto ai loro tempi da Bruno Rizzi o Friedrich Pollock, né d’ingerenze strettamente limitate all'attività economica come quelle proposte da Keynes ai suoi tempi. Tranne che nel caso della Cina, i governi non assumono il ruolo del capitalista più potente, né gli Stati sono il fattore economico più importante. Non esiste un partito unico onnipresente e il gruppo delle cupole di partito svolge un compito secondario, poiché la decisione non dipende abitualmente dai parlamenti. Nei sistemi partitocratici i mercati non retrocedono (né subiscono minime alterazioni), le corporazioni finanziarie mantengono la loro posizione e la proprietà pubblica non supera mai certe barriere. Nessuna nazionalizzazione o monopolio. Siamo molto lontani dallo Stato-nazione del secolo scorso: un'élite corporativa transnazionale plana al di sopra di tutto. Lo Stato non controlla il denaro, il credito, gli investimenti né i profitti aziendali. In breve, non interferisce con il Capitale, anzi obbedisce ai suoi disegni. Al massimo adotta alcune misure di bilancio, controlla temporaneamente i prezzi degli alimenti e dell'energia di base, regola il consumo di alcuni prodotti, concede sussidi o decreta tasse straordinarie, ma senza modificare sostanzialmente le leggi economiche. In fin dei conti, l'interesse generale espresso nelle dinamiche statali non è altro che la fusione tra l'interesse privato della burocrazia politica e quello delle oligarchie finanziarie mondiali. Questa burocrazia non trasforma il suo status e la sua posizione direttamente in strumenti di potere come in passato nei sistemi totalitari e nelle dittature; si serve semplicemente di loro per inserirsi in grandi aziende o organizzazioni parastatali grazie alle porte girevoli. In Occidente, l'economia definisce l'esercizio del potere e la corrispondente ricompensa, non il contrario.

Nonostante l'intensa propaganda a suo favore, il liberalismo politico non quadra con le convinzioni della maggioranza dei leader mondiali, in particolare di quelli dei paesi colpiti dalle misure neoliberali e di quanti le ripudiano nei paesi promotori perché, apertamente o di nascosto, tendono a dare priorità alla sussistenza e alla crescita economica nei confronti della conservazione delle apparenze democratiche e del garantismo giuridico. Per questi araldi del populismo, lo sviluppo nazionale è lo strumento migliore per la stabilizzazione politica e il modello cinese, spesso definito dai commentatori come "il consenso di Pechino", è l'esempio cui ispirarsi. In effetti, l'esperienza cinese suggerisce che la "modernizzazione" economica, e quindi l'integrazione nell'economia-mondo, sono compatibili con un autoritarismo estremo, purché la burocrazia dominante sappia adattarsi al business, operi secondo le regole mercantili e accetti di essere giudicata dai risultati. Il sistema politico non conta, il parlamentarismo è prescindibile senza che sia turbata la stabilità interna, poiché essa dipende molto più dalla crescita dell'economia che dalla riforma politica (il che era un assioma durante il regime franchista). Nonostante le disuguaglianze e le sacche di povertà, le classi dominate e controllate legano in maggioranza la loro prosperità materiale al sistema, cosicché l'opposizione è quasi una testimonianza. La classe dirigente cinese ha reso protagonista una notevole crescita indifferente alla situazione finanziaria del capitalismo occidentale, dimostrando la possibilità di una globalizzazione che preservi la sovranità statale, incoraggi il nazionalismo, esalti lo stile di governo autoritario e chiuda un occhio sulla repressione. Il modello richiede un ruolo decisivo per il partito-Stato in quanto maggior fornitore di risorse, principale finanziatore e attore dominante in settori considerati strategici come i trasporti, la sanità, l'estrazione mineraria e le comunicazioni. Anche il settore privato dell'economia in Cina non è trascurabile, ma l'élite economica generata è più interessata a rafforzare il sistema di cui fa parte e da cui riceve beneficio che a cambiarlo. Qui le porte girevoli portano alla politica. Il controllo è fondamentale, ma il partito unico opera in quest’ambito con provata efficacia. In breve, il modello cinese mostra che il capitalismo può funzionare perfettamente senza forme politiche rappresentative e che il sistema dei partiti, nonostante la sua sottomissione ai dettami dell'economia e della geopolitica, pende dai regimi occidentali come un ornamento ereditato piuttosto che come uno strumento mediatamente utile.

In definitiva, le crisi hanno stimolato un'involuzione autoritaria e di controllo in tutto il mondo capitalista. Il dispotismo è all'ordine del giorno. Nei paesi con una classe media importante, la sicurezza prevale sulla libertà. Così, le misure di emergenza sono ogni giorno più numerose e i condizionamenti democratici sono sempre più evidenti. La tentazione cinese assedia la mentalità dirigente, gran parte della quale considera le istituzioni politiche come un ostacolo allo sviluppo e persino un fattore di distruzione dell'economia. Di conseguenza, si spalancano le porte per una futura epifania di sistemi dittatoriali più o meno mascherati dal nazionalismo.

Miquel Amoros