Transalpino radicale che sono, voglio
denunciare in senso contrario allo spettacolo dominante, non Giordano Bruno
all'Inquisizione ma l'inquisizione ai Giordano Bruno anonimi che rifiutano
ancora, in Francia, in Italia e altrove, di arrendersi all’addomesticamento
economicista omicida che imperversa.
L'esagono francese dove ho fatto il
nido, come lo stivale italiano dove sono nato, è una delle nazioni
psicogeografiche che amo. Assolutamente nessuna è la mia patria, né l'una né
l'altra. Il mio paese è il mondo. L'internazionalista antipatriarcale che sono
ha scelto liberamente di vivere qui da quasi mezzo secolo, senza opportunismi
né inganni, solo per amore della vita, mescolando le sue radici alverniate con
quelle liguri, avendo contribuito molto modestamente – modestia che
è la fatalità di ogni maschio – alla nascita a Parigi di mio figlio, per la
quale ringrazio particolarmente sua madre, bella compagna di avventura, e mio
figlio stesso.
Le mie radici nomadi e la mia parte
sedentaria sono dunque un mix transalpino che nessun nazionalismo potrà
rubarmi. La vita mi ha insegnato a viverla da essere umano, senza confini di
nessun genere – e sottolineo genere!
Sono quindi francese per mia scelta quotidiana e a causa di una
parte della mia storia antica e recente, altrettanto che italiano per il resto
del mio vissuto e delle mie origini. Non importano i passaporti e gli obblighi
che la burocrazia statalista di Francia, Navarra o altrove mi richiedono.
L'unico lato positivo dell'Europa reazionaria produttivista al servizio dello Stato
globale in fieri, è che su questo punto preciso i burocrati di Stato ce la
menano molto meno di prima con i loro papiri marcescenti. Ma ancora troppo, per
i miei gusti!
Le mie due anime transalpine si preoccupano anche della sorte
delle mie due nazioni principali[1], storicamente prigioniere, come tutte le altre, del patriarcato
produttivista che ha inventato lo Stato per facilitare il business planetario e
proteggere il Mercato dal libero e gioioso dispendio di energia vitale degli
esseri umani.
L’ibrido perverso che fu la Città-Stato, è diventato Stato-nazione
e sta per realizzare il suo ideale di Stato planetario. Lo Stato è nato e
morirà al servizio del Mercato e dei mercanti che manipolano mandrie di servitori
volontari, drappeggiando sempre la disumanità del Leviatano con le sue volgari
bandiere suprematiste e i suoi inni morbosi (che la nazione diventata vassalla
dello Stato sia fiera del sangue che annaffia i suoi solchi o che si proclami
schiava di Roma e pronta a morire per la patria).
Mentre l'Italia si prepara tragicamente a celebrare con il voto[2] il centenario della marcia su Roma di Mussolini culminata nel
"ventennio" fascista e nella seconda guerra mondiale, la Francia sonnecchia
nel suo complesso di superiorità che un transalpino famoso (Coluche) aveva esemplarmente
stigmatizzato ricordando la predilezione del gallo francese imperialista a
cantare imperturbabile la sua grandezza napoleonica anche a Waterloo, con i piedi
nella merda e nel sangue che scorre a fiotti.
Come tutti gli ignoranti diplomati che il produttivismo ingaggia
nella gestione politica del suo dominio (in Italia si preferiscono i non
laureati più rozzi nella loro ignoranza ma senza scrupoli nell'ignominia e nel
ridicolo), il presidente Macron, eterno ragazzino bon chic bon genre, distilla regolarmente, in quel che resta della
Francia (supposta eterna, in realtà arcaica quanto i nostri antenati Galli e
l'Impero romano dall’altra parte delle Alpi), delle briciole di verità
involontaria che macchiano la sua fedeltà all’economia politica, riccamente
ricompensata, economicamente e narcisisticamente, dalla civiltà produttivista
di cui è il dipendente, come tutti i politicanti. A forza di sproloquiare bugie
populiste che non nascondono nemmeno una goccia del suo profondo disprezzo per il
popolo, Macron lascia che alcune delle sue intime convinzioni scivolino nel
quadro sub realista della sua visione del mondo, liberale e mercantile fino
alla feccia.
Si è visto nel centocinquantesimo anniversario della Comune di
Parigi e della sua sconfitta vittoriosa: quello stesso accanito repubblicano
che periodicamente singhiozza in modo spettacolare, a corrente alternata, su Vichy
e la resistenza antifascista in versione Mitterrandiana[3] ha ammesso di apprezzare piuttosto lo spirito di Versailles che
la passione dei Comunardi. La sua professione d'amore per Adolphe Thiers e per
i suoi omicidi repubblicani, a Lione poi a Parigi, rivendica, del resto, sottobanco,
una pratica del terrore punitivo migliorata, per non dire democratizzata,
dall'uso accecante di flash balls ad
personam invece degli omicidi collettivi che insanguinarono Parigi durante
la terribile settimana del pogrom della Comune. Altra epoca, stesso spirito
borghese.
La borghesia proletarizzata di oggi, diventata una casta di
servitori volontari più che una classe dominante, è politicamente molto
corretta e preferisce veder affondare le barche degli immigrati nel
Mediterraneo invece di massacrare gli operai – purché francesi, preferibilmente
cattolici e che restino soprattutto lontano dai Ronds-points dei Gilets jaunes. Così, grazie alla peste emozionale
islamista che continua a modo suo la nostra inquisizione cristiana del passato,
si possono demonizzare tutti i musulmani come untermenchen e trattare d’islamo-gauchista
chiunque rifiuti quest’amalgama razzista semplificatore, fosse anche qualcuno profondamente
e gioiosamente ateo e radicalmente critico di ogni psicopatologia monoteistica.
Inoltre, attraverso la sua filosofia da caffè del commercio, la neolingua ci
insegna che radicalizzarsi è sinonimo
d’islamizzazione. La radicalità dell'Illuminismo di una volta, da Diderot a
Marx, è così diventata l'ultima vittima della ghigliottina oscurantista del
capitalismo.
Il dominio reale del capitale sul lavoro umano è ormai un dato
di fatto e quindi la società dei consumi non vede di buon occhio i campi di
concentramento e lo sterminio di massa; preferisce i supermercati e una
sopravvivenza da consumatori, miserabile ma produttrice di valore economico, a qualunque
prezzo. Certo, non possiamo lamentarci, noi che abbiamo ancora (ma fino a
quando?) l’acqua potabile al rubinetto mentre una porzione incredibile della
popolazione mondiale non l'ha mai avuta.
Alla minima voce di una penuria idrica, chi non si è mai curato
per un solo secondo della sorte altrui, si precipita nei supermercati per fare
scorta di acqua, olio, farina e altri generi alimentari, incurante di
contribuire così alla penuria prima ancora che sia reale. Intanto i prezzi
ballano la rumba indiavolata della speculazione mentre i teologi dell’economia
politica ci parlano d’inflazione e di recessione con un tono ispirato e
scientifico che occulta la truffa.
Così i tempi cambiano affinché non cambi l'essenziale e con esso
la soddisfazione delle esigenze del dominio. Fino a ieri parlare di decrescita
era ridicolizzato dal minimo sociologo, politico o giornalista. Ognuno di
questi specialisti di un quasi tutto che assomiglia al quasi niente, vomita le sue
certezze, incerte e ammuffite ma ben pagate, sugli schermi televisivi, sui
gafam e accessoriamente sulla carta stampata – questo dinosauro in via di sparizione quasi altrettanto
folgorante di quella degli alberi della foresta amazzonica e di altrove.
Ora, gli apostoli della crescita economica, di fronte al
disastro di cui essa è la portatrice malsana, si stanno riciclando in paladini
della sobrietà, dimenticando di averla derisa fino a ieri. Pandemia, clima e
guerra li obbligano! Un conto, però, era l'idea di una decrescita rivendicata
per salvare al meglio la qualità di vita ancora possibile, un'altra la
decrescita imposta dalla catastrofe produttivista e, per di più, per continuare
a produrre una stupida crescita economica alienata: la ricchezza finanziaria e
l'abbondanza di cose inutili di una società termo industriale che ha prodotto
il disastro ecologico e sociale facendo della decrescita una risposta obbligata
alla natura dimenticata dall'hubris dell'uomo. In questo casino, il gas figlio di
Putin sembra un'ironia della storia, ma una storia testarda che non scende a
compromessi sull'ecologia sociale e ride di tutti gli oligarchi e delle loro
mandrie di servitori volontari.
Eppure, i discorsi che preparano all’obbligo del risparmio
energetico e quindi della riduzione dei consumi in genere, continuano a
preservare gli stessi privilegi di sempre per alcuni e ad aggravare le corvè
insopportabili per gli altri. È importante sottolinearlo, soprattutto nel paese
che sembra dimenticare la data del 4 agosto 1789, legata nella sua storia
all'abolizione dei privilegi.
In un mondo in cui l'immensa ricchezza prodotta e accumulata è
nelle mani dell'uno per cento della popolazione mondiale, le crescenti
differenze all’interno del 99 per cento dei meno ricchi e dei poveri moltiplicano
dei conflitti tra dominati che proteggono le élite dominanti dalla rivoluzione
sociale. Mentre si potrebbe abolire un sistema anti egualitario instaurando una
società senza dei né padroni, quindi umana, si riproduce la batracomiomachia
che per millenni di produttivismo ha sostituito la poesia del vivente
umanizzato con una sordida battaglia per una sopravvivenza miserabile in nome
del suprematismo: il chimerico “posto al sole” rivendicato da ogni imperialismo
fascista.
Perché il fascismo non è un'idea che diventa azione. È, al
contrario, un'azione malata, reattiva, predatoria, spinta dalla paura di mancare,
dalla paura dell'altro, dalla paura del godimento, dalla paura della vita. Il
fascismo diventa ideologia politica per giustificare la sua essenza: “Cerca, dunque, di dire o fare il contrario e
vedrai cosa ti succede”.
Nella natura primitiva, nella giungla, il predatore non ha
scelta. Deve uccidere per sopravvivere. Il darwinismo sociale (e non la teoria
dell'evoluzione di Darwin che è, al contrario, un patrimonio dell'umanità che
ci aiuta a capire chi siamo, i nostri limiti e le nostre potenzialità poetiche)
giustifica ideologicamente il fascismo politico sragionando su un pretestuoso
limite naturale primario mentre l'evoluzione della specie umana ha sempre precisamente
scommesso sul possibile superamento dell'animalità primitiva senza negarla, per
raffinarla dialetticamente.
Più che un'utopia, ogni Arcadia è una mappa aleatoria e
imprecisa ma poetica, nel senso radicale del termine, di un territorio
psicogeografico che non conosciamo ancora molto bene e che ci sfugge nonostante
le nostre ripetute esplorazioni. Perché, sempre, come in un déjà-vu, la violenza della guerra
cancella in un'ipnosi pavloviana il desiderio d'amore che essa violenta, uccide
e umilia fino alla rimozione finale che ci protegge dalla vergogna
interiorizzata al prezzo di una disgrazia teorizzata e messa in pratica.
Laddove la poesia gilanica[4] ha esplorato in più epoche, più volte e in luoghi diversi, una
civiltà umana possibile, il produttivismo ha sempre trovato nel fascismo
caratteriale lo spunto per farci regredire sistematicamente verso i conflitti
della natura primitiva, dove spesso la tua
morte permette la mia vita (mors tua
vita mea).
Da millenni, la civiltà produttivista ci sciroppa la favola
ideologica dei limiti al cuore della natura umana mentre è appunto il
produttivismo che incarna la nostra antinatura disumana. È sempre il presunto
fascismo dell'altro (l'untermensch) a
giustificare il nostro. Così, ora, i neonazisti russi pretendono di liberare il
mondo dai neonazisti ucraini e viceversa, mentre l'umano soffre e muore
dappertutto.
Il progetto della stupida intellighenzia delle élite di ogni
bordo è chiaro: il peggio del comunismo unito al peggio del capitalismo.
Esplosione delle disuguaglianze e controllo sociale del popolo, esplosione dei profitti
da parte di big Pharma e di big finanza. Due mondi paralleli disegnano una
distopia incarnata da questo momento di nulla politico che stiamo subendo a
fondo.
Ho adattato questa limpida affermazione – finita per caso
davanti ai miei occhi di contro informatore volontario che osserva talvolta il
virtuale, nonostante la mia diffidenza nei suoi confronti – al mio bisogno di
capire e denunciare la trappola sociale che c’imprigiona sempre di più, forse,
irrevocabilmente.
Abbiamo solo la scelta di liberarcene o morirne.
Scegli da che parte stare, camarade!
Sergio Ghirardi Sauvageon, 20 settembre 2022
[1]
Da bulimico viaggiatore psicogeografico che
sono, queste due nazioni soggettive, femminili
e ricche di fascino, non sono le uniche che ho amato nella mia vita.
[2]
È di questi giorni il voto per le elezioni legislative italiane che i sondaggi
vedono ampiamente alla portata degli eredi di ciò che resta della fiamma razzista e fascista (1922/2022).
[4] Mi riferisco, ancora una volta, alla riflessione di Marjia Gimbutas et Riane Eisler sul significato di questo neologismo antropologico misconosciuto ma fondamentale per capire come porre la vera questione dell'opposizione conflittuale tra la civiltà umana, organica e la civiltà produttivista, disumana, artificiale. Informatevi, se lo volete, sul termine gilanico. Non voglio qui esercitare il minimo atteggiamento pedagogico perché non intendo convincere nessuno. Possa il virtuale, per una volta, aiutare voi e la vostra coscienza organica, di specie.
La sobriété énergétique, un truc de
pauvres !
Transalpin radical que je suis, je veux
dénoncer dans le sens opposé au spectacle dominant, non pas Giordano Bruno à
l’inquisition mais l’inquisition aux Giordano Bruno anonymes qui refusent toujours,
en France, en Italie et ailleurs, de se rendre à la domestication économiste
déferlante et meurtrière.
L’hexagone français où je crèche, comme
la botte italienne où je suis né, est une des nations psychogéographiques que
j’aime. Elles ne sont surtout pas ma patrie, ni l’une ni l’autre. Mon pays est
le monde. L’internationaliste anti patriarcal que je suis a librement choisi de
vivre ici depuis presque un demi-siècle, sans opportunismes ni magouilles,
juste par amour de la vie, mêlant ses racines auvergnates à ses racines
ligures, en ayant contribué très modestement – modestie qui est le lot de tout
mâle – à la naissance à Paris de mon fils dont je remercie surtout sa mère,
belle compagne d’aventure, et mon fils lui-même.
Mes racines nomades et ma composante
sédentaire sont donc un mélange transalpin qu’aucun nationalisme ne pourra me
voler. La vie m’a appris à la vivre comme un être humain, sans limites de
frontière d’aucun genre – j’ai bien dit genre !
Je suis donc français par mon choix
quotidien et à cause d’une partie de mon histoire ancienne et récente, autant
qu’italien par le reste de mon vécu et de mes origines. Peu importent les
passeports et les obligations que la bureaucratie étatiste de France, de
Navarre ou d’ailleurs exigent de moi. Le seul côté positif de la réactionnaire
Europe productiviste au service de l’État global in fieri, est que sur ce point précis les bureaucrates d’État nous
emmerdent beaucoup moins qu’avant avec leurs papiers pourris. Mais toujours
trop, à mes goûts !
Mes deux âmes transalpines se
préoccupent également du sort qu’on fait à mes deux nations principales[1],
historiquement captives, comme toutes les autres, du patriarcat productiviste
qui a inventé l’État pour faciliter le business planétaire et protéger le Marché
de la libre et joyeuse dépense d’énergie vitale des êtres humains.
Cet hybride pervers qu’était la
cité-État, est devenu l’État-nation et est sur le point d’atteindre son idéal
d’État planétaire. L’État est né et mourra au service du Marché et des
marchands qui manipulent des troupeaux de serviteurs volontaires, drapant toujours
l’inhumanité du Léviathan de ses vulgaires drapeaux suprématistes et de ses
hymnes morbides (que la nation vassalisée par l’État soit fière du sang qui
abreuve ses sillons ou qu’elle se proclame esclave de Rome et prête à mourir
pour la patrie).
Alors que l’Italie s’apprête
tragiquement à fêter par le vote[2]
le centenaire de la marche mussolinienne sur Rome aboutie au
« ventennio » fasciste et à la seconde guerre mondiale, la France
ronronne dans son complexe de supériorité qu’un transalpin célèbre (Coluche)
avais si bien épinglé en rappelant la prédilection du coq français impérialiste
à chanter imperturbablement sa grandeur napoléonienne même à Waterloo, les
pieds dans la merde et dans le sang qui coule à flots.
Comme tous les ignorants diplômés que le
productivisme embauche dans la gestion politique de sa domination (en Italie on
préfère plutôt les ignorants non diplômés, plus rudes mais sans états d’âme
dans l’ignominie et le ridicule), le président Macron, inépuisable garçon bon
chic bon genre, distille régulièrement, dans ce qui reste de la France (soi-disant éternelle, en
réalité archaïque autant que nos ancêtres les Gaulois et l’Empire romain de
l’autre côté des Alpes), des miettes de vérité involontaire qui tachent sa
fidélité à l’économie politique richement récompensée économiquement et
narcissiquement par la civilisation productiviste dont il est l’employé, comme
tous les politiciens. À force de débiter des mensonges populistes qui ne
cachent même pas une goutte de son profond mépris du peuple, Macron laisse
glisser quelques-unes de ses convictions intimes dans le tableau subréaliste de
sa vision du monde, libérale et marchande jusqu’à la lie.
Ce fut le cas pendant l’anniversaire des
cent cinquante années de la Commune de Paris et de sa défaite
victorieuse : ce même républicain acharné qui périodiquement larmoie de
façon spectaculaire, à courant alterné, sur Vichy et la résistance antifasciste
dans sa version mitterrandienne[3] a avoué apprécier plutôt l’esprit versaillais que la passion communarde.
Sa profession d’amour pour Adolphe Thiers et pour ses meurtres de masse
républicains, à Lyon puis à Paris, revendique, d’ailleurs, en catimini, une
pratique de la terreur punitive améliorée, pour ne pas dire démocratisée, par
l’utilisation aveuglante des flash balls ad
personam à la place des meurtres collectifs qui ont ensanglanté Paris
pendant la terrible semaine du pogrom de la Commune. Autre époque, même esprit
bourgeois.
La bourgeoisie prolétarisée d’aujourd’hui, devenue une caste de serviteurs volontaires
plus qu’une classe dominante, est politiquement très correcte et préfère voir
sombrer les bateaux d’immigrés dans la Méditerrané plutôt que massacrer les
travailleurs – pourvu qu’ils soient bien français, préférablement catholiques
et surtout loin des ronds-points des Gilets jaunes. Ainsi, grâce à la peste
émotionnelle islamiste qui continue à sa manière notre inquisition chrétienne
d’antan, on peut diaboliser tous les musulmans comme des untermenschen et traiter d’islamo-gauchiste quiconque refuse cet
amalgame raciste et réducteur, fût-il quelqu’un de profondément et joyeusement
athée et radicalement critique de n’importe quelle psychopathologie
monothéiste. D’ailleurs, par sa philosophie de comptoir, la novlangue nous
apprend que se radicaliser est
synonyme d’islamisation. La radicalité des lumières d’antan, de Diderot à Marx,
est ainsi devenue la dernière victime de la guillotine obscurantiste du
capitalisme.
La domination réelle du capital sur le travail humain est désormais un fait
et par conséquent la société de consommation n’a pas de goût pour les camps de
concentration ni pour l’extermination de masse ; elle leur préfère les
supermarchés et une survie de consommateurs, misérable mais productrice de
valeur économique, coûte que coûte.
Certes, nous sommes mal placés pour nous plaindre, nous qui avons encore (mais
jusqu’à quand ?) l’eau potable au robinet alors qu’une portion inouïe de
la population mondiale ne l’a jamais eue.
À la moindre rumeur de pénurie d’eau, ceux qui ne se sont jamais souciés
une seule seconde du destin d’autrui se ruent dans les supermarchés pour faire
provision d’eau, d’huile, de farine et autres denrées, indifférents au fait
qu’ils contribuent ainsi à la pénurie avant même qu’elle soit réelle. Pendant
ce temps les prix dansent la rumba endiablée de la spéculation tandis que les
théologiens de l’économie politique nous parlent d’inflation et de récession avec
un ton inspiré et scientifique qui dissimule l’arnaque.
Ainsi, les temps changent afin que l’essentiel ne change pas et avec eux la
satisfaction des exigences de la domination. Jusqu’à hier, parler de
décroissance était ridiculisé par le moindre sociologue, politicien ou
journaliste. Chacun de ces spécialistes d’un presque tout qui ressemble au
presque rien, vomit ses certitudes, incertaines et moisies mais bien payées,
sur les plateaux de télévision, sur les gafam et accessoirement sur le papier
de la presse écrite – ce dinosaure en voie de disparition presque aussi fulgurante
que celle des arbres de la forêt amazonienne et d’ailleurs.
Maintenant, les apôtres de la croissance économique, face au désastre dont
celle-ci est la porteuse malsaine, se reconvertissent en chantres de la
sobriété, oubliant qu’ils l’ont raillée jusqu’à hier. Pandémie, climat et
guerre obligent ! Or, une chose était l’idée d’une décroissance
revendiquée pour sauver au mieux la qualité de la vie encore possible, une
autre est la décroissance imposée par la catastrophe productiviste et, de surcroît,
afin de continuer à produire une débile croissance économique aliénée : la
richesse financière et l’abondance de choses inutiles d’une société thermo
industrielle qui a produit le désastre écologique et social faisant de la
décroissance une réponse obligée à la nature oubliée par l’hubris des humains.
Dans ce bordel, le gaz fils de Putin ressemble à une ironie de l’histoire, mais
une histoire têtue qui ne transige pas sur l’écologie sociale et se moque de
tous les oligarques et de leurs troupeaux de serviteurs volontaires.
Et pourtant, les discours qui préparent à la tâche obligatoire d’épargner
l’énergie et donc de limiter la consommation en général, continuent de
préserver les privilèges des uns et d’aggraver les corvées affligeant les
autres. Il est important de le souligner, surtout dans le pays qui semble
oublier la date du 4 août 1789, liée dans son histoire à l’abolition des
privilèges.
Dans un monde où l’immense richesse produite et accumulée est dans les
mains d’un pour cent de la population mondiale, les différences s’accentuant
parmi les 99 pour cent des moins riches et des pauvres multiplient des conflits
entre dominés qui protègent les élites dominantes de la révolution sociale.
Plutôt qu’abolir un système inégalitaire en instaurant une société sans dieux
ni maîtres, donc humaine, on reproduit la batrachomyomachie qui pendant des
millénaires de productivisme a remplacé la poésie du vivant humanisé par une
sordide bataille pour une survie misérable au nom du suprématisme : la
chimérique « place au soleil » revendiquée par tout impérialisme
fasciste.
Car le fascisme n’est pas une idée qui se fait action. Il est, au
contraire, une action malade, réactive, prédatrice poussée par la peur du
manque, la peur de l’autre, la peur de la jouissance, la peur de la vie. Le
fascisme se fait idéologie politique pour justifier son essence : « Essaie, donc, de dire ou faire le contraire
et tu vas voir ce qui va t’arriver ».
Dans la nature primitive, dans la jungle, le prédateur n’a pas le choix. Il
doit tuer pour survivre. Le darwinisme social (et non pas la théorie de
l’évolution de Darwin qui est, au contraire, un patrimoine de l’humanité qui
nous aide à comprendre qui nous sommes, nos limites et nos potentialités
poétiques) justifie idéologiquement le fascisme politique déraisonnant à propos
d’une prétendue limite naturelle primaire alors que l’évolution de l’espèce
humaine a précisément toujours parié sur le dépassement possible de l’animalité
primitive, sans la renier, pour l’affiner dialectiquement.
Plus qu’une utopie, toute Arcadie est une carte aléatoire et imprécise mais
poétique, dans le sens radical du terme, d’un territoire psychogéographique
qu’on ne connaît pas encore très bien et qui se dérobe à nous malgré nos
explorations répétées. Car, toujours, comme dans un déjà-vu, la violence de la
guerre efface dans une hypnose pavlovienne l’envie d’amour qu’elle viole, tue
et humilie jusqu'au refoulement final qui nous protège de la honte intériorisée
au prix d’un malheur théorisé et mis en pratique.
Alors que la poésie gylanique[4] a
exploré à plusieurs époques, plusieurs reprises et dans des endroits
différents, une civilisation humaine possible, le productivisme a toujours
trouvé dans le fascisme caractériel le levier pour nous faire systématiquement
régresser vers les conflits de la nature primitive, où souvent ta mort permet ma vie (mors tua vita mea).
Depuis des millénaires, la civilisation productiviste nous serine la fable
idéologique des limites au cœur de la nature humaine, alors que le
productivisme incarne justement notre antinature inhumaine. C’est toujours le
fascisme présumé de l’autre (l’untermensch)
qui justifie le nôtre. Ainsi, maintenant, les néonazis russes prétendent
libérer le monde des néonazis ukrainiens et réciproquement, tandis que l’humain
souffre et meurt partout.
Le projet de
l’intelligentsia stupide des élites de tout bord est clair : le pire du
communisme allié au pire du capitalisme. Explosion des inégalités et contrôle
social pour le peuple, explosion des profits du côté de big Pharma et big
finance. Deux mondes parallèles dessinent une dystopie incarnée dans ce moment
de néant politique que nous accusons de plein fouet.
J’ai adapté
cette affirmation limpide – passée par hasard
devant mes yeux de lanceur d’alerte volontaire dont le regard guette parfois le
virtuel, malgré ma méfiance envers lui – à mon besoin de comprendre et de
dénoncer le piège social qui nous embastille de plus en plus, irrévocablement
peut-être.
Il ne nous
reste que le choix de nous en libérer ou d’en mourir.
Choisis ton
camp, camarade !
Sergio Ghirardi Sauvageon, 20 septembre 2022
[1] En boulimique voyageur psychogeographique que je suis, ces deux nations subjectives,
féminines et riches de charme, ne sont pas les seules que j’aie aimées dans ma
vie.
[2] On vote ces jours-ci, en Italie, pour les élections législatives que les
sondages voient décidément à la portée des héritiers de ce qui reste de la
flamme raciste et fasciste.
[3] C'est-à-dire sous les drapeaux ambigus d’une social-démocratie héritière de
Noske et Scheidemann et non pas de Rosa Luxembourg, plus proche de la Franciska
que de la révolution sociale. La stratégie consistant
à favoriser une renaissance contrôlée du fascisme vulgaire, a permis de faire
ingurgiter au peuple frustré, manipulé et infecté par la peste émotionnelle
productiviste, le « moindre mal » de l’État totalitaire dans sa
versione pseudo démocrate plutôt que national populiste.
[4] Je renvoie, une fois de plus, à la réflexion de Marjia Gimbutas et Riane
Eisler concernant le sens de ce néologisme anthropologique méconnu mais
fondamental pour comprendre comment poser la vraie question de l’opposition
conflictuelle entre la civilisation humaine, organique et la civilisation
productiviste, inhumaine, artificielle. Renseignez-vous, si vous le voulez, sur
le mot gylanique. Je ne veux exercer
ici la moindre attitude pédagogique car je ne cherche à convaincre personne.
Que le virtuel, pour une fois, soit avec vous et avec votre conscience
organique, d’espèce.