Una delle caratteristiche
principali del nostro tempo è la concentrazione della popolazione in grandi
agglomerati impersonali illimitati, strutturati solo da assi stradali, frutto
della globalizzazione, o più chiaramente, della dissoluzione di un capitalismo
di nazioni in un capitalismo di regioni urbane interconnesse. Il fenomeno è
noto come metropolizzazione. Il tipo di insediamento che ne deriva, la
metropoli, determina una nuova forma di relazione e di governo, quindi una
diversa cultura, individualistica e consumistica, e un diverso stile di vita,
più artificiale e dipendente, più industriale e commercializzato, determinato
quasi interamente dagli imperativi dell'esternalizzazione produttiva. Le
metropoli, infatti, sono soprattutto i più idonei centri di accumulazione di
capitale per la globalizzazione degli scambi finanziari, evento direttamente
responsabile dei disastri ecologici e sociali che ci colpiscono.
L'urbanizzazione intensiva che li alimenta non è altro che il violento
riadattamento del territorio alle esigenze evolutive dell'economia globale.
L'area metropolitana è la concrezione spaziale della società globalizzata. In
questa fase, la crescita economica è fondamentalmente distruttiva,
insostenibile, tossica e quindi conflittuale. Gli effetti sulla salute fisica e
mentale della popolazione concentrata sono terribili e il danno ambientale è
simile a quello di una guerra contro le campagne e la natura: desertificazione
e salinizzazione del suolo, acidificazione degli oceani, rottura dei cicli biologici,
inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei terreni, l'accumulo di rifiuti, lo
spreco energetico, l'esaurimento delle risorse, la perdita di biodiversità, il
riscaldamento globale, ecc. Allo stesso tempo, le economie indigene sono
rovinate, poiché la produzione locale di beni e cibo non può competere con la grande
produzione industriale. Di conseguenza, l'agricoltura tradizionale, la piccola
produzione e il piccolo commercio tendono a scomparire a favore delle
piattaforme logistiche, dell'industria delocalizzata e dei supermercati. Proprio come è successo con gli artigiani agli albori del
capitalismo moderno, il contadino diventa superfluo e la sua cultura obsoleta.
Il territorio inarrestabilmente si svuota e si degrada; gli abitanti di paesi e
piccole città migrano verso agglomerati urbani sempre più inabitabili dove
regnano la disuguaglianza e lo sradicamento, mentre le città di medie
dimensioni ristagnano e declinano. Ora che l'industria agroalimentare è
preponderante, il processo di svuotamento rurale può proseguire senza ostacoli,
poiché è necessario per la completa conversione del territorio in capitale, in motore
di sviluppo e fonte prioritaria di profitto.
Oggi la questione
sociale si manifesta sempre meno come esclusivamente lavorativa, avendo il
mondo del lavoro perso la sua antica centralità. Neppure, però, come problematica
circoscritta ai conglomerati urbani, per quanto le conseguenze indesiderabili
della metropolizzazione – formazione di ghetti periferici, inquinamento atmosferico,
servizi pubblici insufficienti o inesistenti, gentrificazione, precarietà,
sfratti, povertà, ecc. – danno origine a numerose proteste. Il territorio,
opportunamente spopolato e fortemente sbilanciato e impoverito dalle pratiche
estrattive, si diversifica come fonte di reddito e acquisisce peculiarità
economiche complementari a quelle della conurbazione: riserva edificabile,
supporto contenitore di infrastrutture, produttore di risorse energetiche,
luogo di agricoltura industriale e allevamento intensivo, spazio per il tempo
libero, seconde case o turismo rurale... L'aggressione del territorio produce
involontariamente uno spostamento geografico dell'asse delle lotte, che nei
paesi turbo capitalisti affluiscono in sua difesa. La questione sociale
riappare dunque come questione territoriale, e, dato lo spopolamento rurale – quasi assoluto
nello Stato spagnolo, con il conseguente abbandono di decine di migliaia di
piccole aziende agricole e di milioni di ettari di coltivazioni – la sua
espressione più autentica anche se più difficile è il ritorno alla campagna. Tuttavia,
un vero soggetto collettivo con un obiettivo unificante e chiaramente trasformatore
non riesce a concretizzarsi.
I neorurali non
costituiscono da nessuna parte un collettivo numericamente sufficiente per
formare un soggetto politico con i giovani abitanti del posto, i ricercatori dissidenti,
le donne e i contadini residui. Il soggetto si costituisce con la segregazione
radicale di un gruppo anticonformista che vuole costruire il proprio mondo; al
contrario, l'opposizione al cancro dello sviluppo non si discosta affatto dai
metodi convenzionali. Spesso ricorre alla mediazione della politica tradizionale
e accetta la coabitazione con il vecchio ordine sociale. Non si tratta di
amministrazione comunale, di accesso popolare alla terra o di smantellamento
del suo sfruttamento industriale. Nonostante tutto, nel territorio si
dispiegano più a fondo tutte le contraddizioni del capitalismo e dello
statalismo, ma il dominio – il sistema, il potere, la classe dirigente – è ancora capace
di neutralizzarle con meccanismi di cooptazione e formule di stabilizzazione tipo
l'“economia sociale”, la “transizione energetica”, la “decrescita” non
conflittuale o il “nuovo patto verde”. La difesa del territorio è
oggettivamente anticapitalista, ma soggettivamente non lo è ancora. L'esodo
rurale ha messo fine alla società contadina in Europa e ha reso impossibile la
comunione d’interessi nelle campagne e quindi la formazione di una classe
solida e attiva. Per questo si dà il caso di un soggetto allo stato gassoso,
concretizzato in “entità”, piattaforme o coordinazioni, che cerca di cambiare
la società senza disturbare le sue élites mentre cerca di uscire dal capitalismo
senza sfondare la porta. Per questo, l'attuale difesa del territorio è incapace
di capovolgere la situazione nonostante il contributo non trascurabile delle
masse peri-urbane insoddisfatte, poiché l'obiettivo proclamato consiste solo
nel cambiare il "modello di sviluppo", presupponendo, grazie a una
benevola disposizione delle istituzioni “ripensate” o “reinventate” non si sa
da chi, di non porre fine al capitalismo, alla gerarchia e allo Stato. In
verità, sulla difesa del territorio pende la spada di Damocle
dell'istituzionalizzazione, della promozione di dirigenti e di un disordine
incanalato. Solo un collasso urbano potrebbe alterare tali limiti, tenendo
conto che le metropoli sono sempre più vulnerabili e che i problemi derivanti
dal cambiamento climatico o dalle difficoltà nell'approvvigionamento idrico,
elettrico, di combustibili o di cibo potrebbero facilmente renderle invivibili.
Solo nelle terre
dell'America Latina, alcune condizioni storiche contrarie a ciò che i dirigenti
chiamano "progresso" hanno permesso la sopravvivenza di un numero
importante di contadini, in parte indigeni, che ha mantenuto le sue tradizioni
comunitarie di autoproduzione, autodifesa e autogestione. Lì, la resistenza
all'assalto della globalizzazione ha potuto ricostruire un'identità
rivoluzionaria ossia una classe pericolosa. L'attività eminentemente difensiva
delle comunità rurali ha posto il problema agrario al centro della questione
sociale, irradiando l'influenza della campagna sui quartieri emarginati della
città. In questo modo la difesa del territorio fa un salto di qualità verso il
sollevamento della terra e diventa lo specchio in cui va vista la lotta urbana.
Politicamente, con la rivendicazione del potere di decisione – della
sovranità – da parte delle assemblee territoriali autonome; economicamente,
con la volontà di trasferire le risorse dalla metropoli alla campagna;
socialmente, con le pratiche di autogestione e auto-organizzazione.
Indubbiamente, in questo contesto di contraddizioni emergenti che impediscono
al sistema dominante di presentarsi come parte principale della soluzione, come
fa da noi, si accentua l'antagonismo tra il campo comunitario e l’estrattivismo
industriale, divenendo, a vista di tutti, insolubile nell'ambito di un regime
capitalista e statalista. Ogni passo avanti nella produzione e distribuzione
alternative, ogni terra occupata, ogni gerarchia abolita, significherà una
battuta d'arresto del regime suddetto, cioè del dominio, per cui ci si può
aspettare una controffensiva alla quale parare, che, logicamente, sarà autoritaria
nella sua concezione e poliziesca e pure militare se la situazione lo richiede,
nella sua realizzazione.
Non intendo il sollevamento della terra come una mera
espressione tipica della neolingua della sinistra domestica, né penso che con
essa si alluda al sollevamento retorico di un 15M o alle innocenti
rivendicazioni rivolte ai governi dello pseudo-movimento di Estinzione-Ribellione
o dei collapsologi patentati. Il sollevamento della terra va inteso nel suo
significato letterale: la rivolta contro il potere costituito da parte di un
ampio settore della popolazione eretto in soggetto collettivo – in classe – che vuole vivere secondo i suoi desideri, senza mediazioni
esterne, e per questo esige cambiamenti sociali rivoluzionari nell’economia, nella
politica e nella società. È una risposta insurrezionale contro le conseguenze
catastrofiche della crescita economica e anche la fase culminante di un
processo di lotta sociale. Nei paesi senza agricoltori il processo sta appena
iniziando; si cerca la strada a tentoni, attraverso discussioni, liberazione di
spazi, scaramucce ed esperimenti. L'obiettivo è una società civile composta di
comunità autorganizzate, radicate nella terra, separate il più possibile dallo
Stato e dai “mercati”, dunque disurbanizzate, destatalizzate e de-globalizzate.
Il che, ovviamente, non si realizza con SMS (l'arma preferita di Negri), simulacri
circensi, denunce misurate alle autorità o manuali di collassologia. Per uscire
dal capitalismo bisogna affrontarlo con decisione. Tuttavia, nonostante il
moltiplicarsi di situazioni critiche di ogni genere e le implicite minacce di
collasso, il regime capitalista e statalista continua a riprodursi perché trova
lungo il cammino nuovi alleati con cui perseverare nella stessa dinamica di
potere e di crescita. Le predizioni apocalittiche non lo spaventano, anzi. La
catastrofe lo nutre. Così, non lo fermeranno le sfilate carnevalesche, le
candidature elettorali, le prodigiose formule associative o qualsiasi altro
tipo di sostituto convivialista. Tutto ciò fa parte del suo mondo. Come si diceva
un tempo, alla guerra come alla guerra, anche se in realtà si tratta di sfuggirla.
Miguel Amorós, 15 novembre 2022
Per il ciclo di dibattiti online Sublevaciones de la Tierra, moderato dalla rivista Soberanía Alimentaria.
GEOGRAFÍA DEL COMBATE SOCIAL
De la defensa del territorio a la sublevación de la
tierra
Una de las
características principales de nuestro tiempo es la concentración de la
población en grandes aglomeraciones impersonales ilimitadas, vertebradas
únicamente por ejes viarios, fruto de la globalización, o más claramente, de la
disolución de un capitalismo de naciones acotadas en un capitalismo de regiones
urbanas interconectadas. El fenómeno se conoce como metropolitanización. El
tipo de asentamiento resultante, la metrópolis, determina una nueva forma de
relación y de gobierno, luego una cultura distinta, individualista y
consumista, y un estilo de vida diferente, más artificial y dependiente, más
industrial y mercantilizado, determinado casi enteramente por los imperativos
de la terciarización productiva. En efecto, las metrópolis son antes que nada
los centros de acumulación de capitales más idóneos para la mundialización de
los intercambios financieros, suceso responsable directo de los desastres
ecológicos y sociales que nos asolan. La urbanización intensiva que las
alimenta no es más que la readaptación violenta del territorio a las exigencias
desarrollistas de la economía global. El área metropolitana es la concreción
espacial de la sociedad globalizada. En esta fase, el crecimiento económico es
fundamentalmente destructivo, insostenible, tóxico, y por consiguiente,
conflictivo. Los efectos sobre la salud física y mental de la población
concentrada son terribles y los daños ambientales se asemejan a los de una
guerra contra el campo y la naturaleza: desertificación y salinización de suelos,
acidificación de océanos, rotura de los ciclos biológicos, polución del aire,
las aguas y las tierras, acumulación de basuras, despilfarro energético,
agotamiento de recursos, pérdida de la biodiversidad, calentamiento global,
etc.. Paralelamente, las economías autóctonas se arruinan, pues la producción
local de bienes y alimentos no puede competir con la gran producción
industrial. En consecuencia, la agricultura tradicional, la pequeña producción
y el pequeño comercio tienden a desaparecer en favor de las plataformas
logísticas, la industria deslocalizada y las grandes superficies. Igual que
pasó con los artesanos en el periodo de arranque del capitalismo moderno, el
campesinado se vuelve superfluo, y su cultura, obsoleta. El territorio se vacía
imparablemente y se degrada; los habitantes de los pueblos y pequeñas ciudades
emigran a las cada vez más inhabitables conurbaciones donde reina la
desigualdad y el desarraigo, mientras que las urbes medianas se estancan y
declinan. Cuando la industria agroalimentaria es preponderante, el proceso de
vaciado rural puede proseguir sin obstáculos, pues es necesario para la
conversión completa del territorio en capital, motor de desarrollo desbocado y
fuente mayor de beneficios.
La cuestión social
hoy menos que nunca se manifiesta como exclusivamente laboral, habiendo perdido
el mundo del trabajo su antigua centralidad. Tampoco como problemática
circunscrita a los conglomerados urbanos, por más que las consecuencias
indeseables de la metropolitanización – formación de guetos periféricos, contaminación atmosférica y
lumínica, ruido, servicios públicos insuficientes o inexistentes,
gentrificación, precariedad, desahucios, pobreza, etc. –
originen numerosas protestas. El territorio, convenientemente despoblado y
ferozmente desequilibrado y esquilmado por prácticas extractivistas, se
diversifica como manantial de ingresos y adquiere peculiaridades económicas
complementarias a las de la conurbación: reserva urbanizable, soporte y
contenedor de infraestructuras, productor de recursos energéticos, lugar de la
agricultura industrial y la ganadería intensiva, espacio para el ocio, la
segunda residencia o el turismo rural... La agresión al territorio produce
involuntariamente un desplazamiento geográfico del eje de las luchas, que en
los países turbocapitalistas ocurren en su defensa. La cuestión social
reaparece entonces como cuestión territorial, y, dada la despoblación rural – casi absoluta en el estado español,
con el consiguiente abandono de decenas de miles de pequeñas explotaciones y
millones de hectáreas de cultivo – su expresión más auténtica aunque más dificultosa es la
vuelta al campo. Sin embargo, un verdadero sujeto colectivo con una finalidad
unificadora y transformadora clara no consigue concretarse.
Los neorrurales no
constituyen en ninguna parte un colectivo lo bastante numeroso como para formar
con los jóvenes lugareños, los investigadores disidentes, las mujeres y el
campesinado residual un verdadero sujeto político. El sujeto se constituye al
segregarse radicalmente un grupo disconforme para construir su mundo; en
cambio, la oposición al cáncer desarrollista en ninguna parte se distancia
demasiado de los métodos convencionales. A menudo, recurre a la mediación de la
política tradicional y acepta cohabitar con el viejo orden social. No se
plantea la administración concejil, el acceso popular a la tierra o el
desmantelamiento de su explotación industrial. A pesar de todo, en el
territorio se despliegan con mayor profundidad todas las contradicciones del
capitalismo y estatismo, pero la dominación – el sistema, el poder, la clase dirigente – aún es capaz de neutralizarlas con
mecanismos de cooptación y fórmulas de estabilización del estilo de la
“economía social”, el “desarrollo rural”, la “transición energética”, el
“decrecimiento” no conflictual o el “nuevo pacto verde”. La defensa del
territorio es objetivamente anticapitalista, pero subjetivamente todavía no lo
es. El éxodo rural acabó con la sociedad campesina en Europa e hizo imposible
la comunidad de intereses en el campo, y por lo tanto, la formación de una
clase sólida y activa. Por eso, se da el caso de un sujeto en estado gaseoso,
concretado en “entidades”, plataformas o coordinadoras, que busca cambiar la
sociedad sin molestar a sus élites y trata de salir del capitalismo sin romper
la puerta. Y por eso, la actual defensa del territorio es incapaz de revertir
la situación a pesar de la contribución no desdeñable de las insatisfechas
masas periurbanas, pues la meta proclamada consiste solo en “cambiar el modelo
de desarrollo”, por supuesto, gracias a una benévola disposición de las
instituciones “repensadas” o “reinventadas” por no se sabe quién, no en acabar
con el capitalismo, la jerarquía y el Estado. En verdad, sobre la defensa del
territorio pende la espada de Damocles de la institucionalización, la promoción
de líderes y el malestar encauzado. Solamente un colapso urbano podría alterar
tales limitaciones, habida cuenta de que las metrópolis son cada vez más
vulnerables, ya que los problemas derivados del cambio climático o las
dificultades en el suministro de agua, electricidad, combustibles o alimentos
podrían fácilmente volverlas inviables.
Únicamente en
tierras latinoamericanas, determinadas condiciones históricas opuestas a lo que
los dirigentes llaman “progreso” han permitido subsistir a un campesinado
numeroso, en parte indígena, que mantuvo sus tradiciones comunitarias de
autoproducción, autodefensa y autogobierno. Allí la resistencia a las
acometidas de la globalización ha podido reconstruir una identidad
revolucionaria, o sea, una clase peligrosa. La actividad eminentemente
defensiva de las comunidades rurales ha colocado el problema agrario en el
centro de la cuestión social, irradiando la influencia del campo sobre las
barriadas marginadas de la urbe. Es así como la defensa del territorio da un
salto cualitativo hacia la sublevación de la tierra y se convierte en espejo
donde ha de contemplarse la lucha urbana. Políticamente, con la reivindicación
del poder de decisión – de la soberanía –
para las asambleas territoriales autónomas; económicamente, con la voluntad de
transferir los recursos de la metrópolis al campo; socialmente, con las
prácticas autogestionarias y autoorganizativas. Indudablemente, en ese contexto
de contradicciones emergentes que impide al sistema dominante presentarse como
parte principal de la solución, como hace por aquí, el antagonismo entre campo
comunitario y extractivismo industrial se acentúa, volviéndose a la vista de
todos irresoluble en el marco de un régimen capitalista y estatista. Cada
trecho que se avance en la producción y distribución alternativas, cada terreno
que se ocupe, cada jerarquía que se suprima, significará un retroceso de dicho
régimen, o sea, de la dominación, por lo que cabrá esperar una contraofensiva a
la que parar, que, lógicamente, será autoritaria en su concepción, y policial,
incluso militar si la situación lo exige, en su realización.
No entiendo la
sublevación de la tierra como una mera expresión típica de la neo-lengua de la
izquierda doméstica, ni creo que con ella se aluda al levantamiento retórico de
un 15M o a las inocentes demandas dirigidas a los gobiernos de la seudomovida
Extinción-Rebelión o de los colapsólogos patentados. Hay que entenderla en su
significado literal: la revuelta contra el poder establecido de un amplio
sector de la población erigido en sujeto colectivo –
en clase – que quiere vivir según sus deseos,
sin mediaciones exteriores, y para eso exige cambios revolucionarios en la
economía, la política y la sociedad. Es una respuesta insurgente ante las
consecuencias catastróficas del crecimiento económico y también la etapa
culminante de un proceso de lucha social. En los países sin agricultores el
proceso apenas está empezando; se busca el camino a través de tanteos,
discusiones, liberación de espacios, escaramuzas y experimentos. El objetivo es
una sociedad civil compuesta por comunidades autoorganizadas, con raíces en la
tierra, separada lo más posible del Estado y de “los mercados”, y en
consecuencia, desurbanizada, desestatizada y desglobalizada. Este desde luego
no se alcanza con SMS (el arma preferida de Negri), simulacros circenses,
quejas mesuradas a la autoridad o manuales de colapsología. Para salir del
capitalismo hay que enfrentarse decididamente a él. Pero, a pesar de
multiplicarse las situaciones críticas de todo tipo y las implícitas amenazas
de derrumbe, el régimen capitalista y estatista continúa reproduciéndose,
porque encuentra nuevos aliados por el camino con los que perseverar en la
misma dinámica de poder y crecimiento. Las predicciones apocalípticas no le
arredran, más bien lo contrario. La catástrofe lo nutre. Así pues, nunca le
detendrán desfiles carnavalescos, candidaturas electorales, fórmulas
asociativas prodigiosas o cualquier otra clase de sucedáneo convivencialista.
Todo eso forma parte de su mundo. Tal como antes se decía, en la guerra como en
la guerra, si es que realmente hay que evadirse de él.
Miguel Amorós, 15 de noviembre de 2022
Para el ciclo de debates online Sublevaciones de la Tierra,
moderado por la revista Soberanía Alimentaria
GÉOGRAPHIE DU COMBAT SOCIAL
De la défense du territoire au soulèvement de
la terre
L'une des principales
caractéristiques de notre époque est la concentration de la population dans de
grandes agglomérations impersonnelles, sans limites, structurées uniquement par
des axes routiers, résultat de la mondialisation ou, plus clairement, de la
dissolution d'un capitalisme de nations en un capitalisme de régions urbaines
interconnectées. Ce phénomène est connu sous le nom de métropolisation. Le type
d'établissement qui en résulte, la métropole, détermine une nouvelle forme de
relation et de gouvernement, puis une autre culture, individualiste et
consumériste, et un autre style de vie, plus artificiel et dépendant, plus
industriel et marchandisé, c'est-à-dire déterminé presque entièrement par les
impératifs de la tertiarisation productive. En effet, les métropoles sont avant
tout les centres d'accumulation du capital les mieux adaptés à la
mondialisation des échanges financiers, événement directement responsable des
désastres écologiques et sociaux qui nous frappent. L'urbanisation intensive qui
les nourrit n'est rien d'autre que la réadaptation violente du territoire aux
exigences développementalistes de l'économie mondiale. L'aire métropolitaine
est la concrétisation spatiale de la société mondialisée. Dans cette phase, la
croissance économique est fondamentalement destructrice, non durable, toxique
et donc conflictuelle. Les effets sur la santé physique et mentale de la
population concentrée sont terribles et les dégâts environnementaux ressemblent
à ceux d'une guerre contre la campagne et la nature : désertification et
salinisation des sols, acidification des océans, perturbation des cycles
biologiques, pollution de l'air, de l'eau et des sols, accumulation de déchets,
gaspillage énergétique, épuisement des ressources, perte de biodiversité, réchauffement
climatique, etc. ... Dans le même temps, les économies indigènes sont ruinées,
car la production locale de biens et de nourriture ne peut concurrencer la
production industrielle à grande échelle. En conséquence, l'agriculture
traditionnelle, la production à petite échelle et les petites entreprises
tendent à disparaître au profit des plateformes logistiques, de l'industrie
délocalisée et des grands supermarchés. Comme il est arrivé aux artisans à
l'aube du capitalisme moderne, la paysannerie devient superflue et sa culture
obsolète. Le territoire est de plus en plus vide et dégradé ; les
habitants déracinés des villages et des petites villes migrent vers des
agglomérations de plus en plus inhabitables où règnent l'inégalité et le
déracinement, tandis que les villes moyennes stagnent et déclinent. Maintenant
que l'industrie agroalimentaire est prédominante, le processus de vidage des
campagnes peut se poursuivre sans entrave, car il est nécessaire à la
conversion complète du territoire en capital, moteur du développement et source
majeure de profit.
La question sociale est
aujourd'hui moins que jamais perçue comme une question exclusivement liée au
travail, le monde du travail ayant perdu sa centralité d'antan. Il ne s'agit
pas non plus d'un problème limité aux conglomérats urbains, même si les conséquences
indésirables de la métropolisation – formation de ghettos périphériques, pollution
atmosphérique, services publics insuffisants ou inexistants, gentrification,
précarité, expulsions, pauvreté, etc. – donnent lieu à des nombreuses
protestations. Le territoire, opportunément dépeuplé et férocement déséquilibré
et appauvri par les pratiques extractivistes, se diversifie comme source de
revenus et acquiert des particularités économiques complémentaires à celles de
l'agglomération : réserve de développement, support et contenant
d'infrastructures, producteur de ressources énergétiques, lieu d'agriculture
industrielle et d'élevage intensif, espace de loisirs, de résidences
secondaires ou de tourisme rural... L'agression contre le territoire produit
involontairement un déplacement géographique de l'axe des luttes, qui dans les
pays turbo-capitalistes se déroulent pour sa défense. La question sociale
réapparaît principalement comme une question territoriale et, étant donné
l'exode rural - presque absolu dans l'État espagnol, avec l'abandon consécutif
de dizaines de milliers de petites exploitations et de millions d'hectares de
terres cultivées - son expression la plus authentique mais la plus difficile
est le retour à la campagne. Cependant, un véritable sujet collectif avec un
objectif clair, unificateur et transformateur, ne se matérialise pas.
Nulle part les néo-ruraux ne
constituent un collectif suffisamment important pour former un sujet politique
avec les jeunes locaux, les chercheurs dissidents, les femmes et la paysannerie
résiduelle. Le sujet se constitue en ségrégant radicalement un groupe
non-conformiste afin de construire son monde ; d'autre part, l'opposition
au cancer développementaliste ne s'éloigne pas trop des méthodes
conventionnelles. Elle recourt souvent à la médiation avec la politique traditionnelle
et accepte la cohabitation avec l’ancien ordre social. Il ne s’agit pas
d’administration communale, d’accès populaire à la terre ou de démantèlement de
son exploitation industrielle. Malgré tout, sur le territoire, toutes les
contradictions du capitalisme et de l'étatisme se déploient plus profondément,
mais la domination – le système,
le pouvoir, la classe dirigeante – est encore capable de les neutraliser avec des
mécanismes de cooptation et des formules de stabilisation dans le style de
l'"économie sociale", de la "transition énergétique", de la
"décroissance" non conflictuelle ou du "nouveau pacte
vert". La défense du territoire est objectivement anticapitaliste, mais
subjectivement, elle ne l'est pas encore. L'exode rural a anéanti la société
paysanne en Europe et a rendu impossible la communauté d'intérêts dans les
campagnes donc la formation d’une classe solide et active. C'est pourquoi il
existe un sujet à l'état gazeux, concrétisé dans des « entités », des
plateformes ou des coordinations, qui cherche à changer la société sans
déranger ses élites et tente de sortir du capitalisme sans défoncer la porte.
Et c'est pourquoi la défense actuelle du territoire est incapable de renverser
la situation, malgré la contribution non négligeable des masses périurbaines
insatisfaites, parce que le but proclamé est seulement de changer de
"modèle de développement", en supposant, grâce à une disposition
bienveillante des institutions "repensées" ou "réinventées"
par on ne sait qui, de ne pas supprimer le capitalisme, la hiérarchie et
l'État. En effet, au-dessus de la défense du territoire est suspendue l'épée de
Damoclès de l'institutionnalisation, de la promotion des leaders et de
l'agitation canalisée. Seul un effondrement urbain pourrait modifier ces
contraintes, étant donné que les métropoles sont de plus en plus vulnérables,
car les problèmes liés au changement climatique ou les difficultés
d'approvisionnement en eau, en électricité, en carburant ou en nourriture
pourraient facilement les rendre non viables.
Ce n'est qu'en Amérique
latine que certaines conditions historiques opposées à ce que les dirigeants
appellent le "progrès" ont permis la survie d'une vaste paysannerie,
en partie indigène, qui a conservé ses traditions communautaires
d'autoproduction, d'autodéfense et d'autogestion. Là-bas, la résistance aux
assauts de la mondialisation a pu reconstruire une identité révolutionnaire,
c'est-à-dire une classe dangereuse. L'activité éminemment défensive des
communautés rurales a placé le problème agraire au centre de la question
sociale, irradiant l'influence de la campagne sur les bidonvilles de la ville.
De cette façon, la défense du territoire fait un saut qualitatif vers la
révolte de la terre et devient un miroir dans lequel la lutte urbaine doit être
vue. Politiquement, avec la revendication du pouvoir de décision – la
souveraineté – par des assemblées territoriales
autonomes ; économiquement, avec la volonté de transférer les ressources
de la métropole vers les campagnes ; socialement, avec des pratiques
d'autogestion et d'auto-organisation. Sans doute, dans ce contexte de
contradictions émergentes qui empêchent le système dominant de se présenter
comme la partie principale de la solution, comme il le fait par ici,
l'antagonisme entre la campagne communautaire et l'extractivisme industriel
s'accentue, devenant, à la vue de tous, irrésoluble dans le cadre d'un régime
capitaliste et étatiste. Chaque pas en avant dans la production et la
distribution alternatives, chaque parcelle de terre occupée, chaque hiérarchie
abolie, signifiera un pas en arrière pour ce régime, c'est-à-dire pour la
domination, de sorte que l'on peut s'attendre à une contre-offensive, qui sera
logiquement autoritaire dans sa conception et policière, voire militaire si la
situation l'exige, dans sa réalisation.
Je ne conçois pas le
soulèvement de la terre comme une simple expression typique de la novlangue de
la gauche domestiquée, et je ne crois pas qu'on fasse allusion par elle au
soulèvement rhétorique d'un 15M ou aux demandes innocentes adressées aux
gouvernements par le pseudo-mouvement Extinction-Rébellion ou par des
collapsologues patentés. Il faut l’entendre dans son sens littéral : la
révolte contre le pouvoir établi d'un large secteur de la population érigé en
sujet collectif – en classe – qui veut vivre selon ses désirs, sans médiations
extérieures, et poursuit à cette fin des changements sociaux révolutionnaires
dans l'économie, la politique et la société. C'est une réponse
insurrectionnelle aux conséquences catastrophiques de la croissance économique
et aussi l'étape culminante d'un processus de lutte sociale. Dans les pays sans
agriculteurs, le processus n'en est qu'à ses débuts ; la voie se cherche
par tâtonnements, discussions, libération de l'espace, escarmouches et
expériences. L'objectif est une société civile composée de communautés
auto-organisées, enracinées dans la terre, séparées autant que possible de
l'État et des "marchés", puis désurbanisées, déstabilisées et dé
mondialisées. Ce n'est certainement pas avec des SMS (l'arme de prédilection de
Negri), des simulacres de cirque, des plaintes mesurées à l'autorité ou des
manuels de collapsologie que l'on y parviendra. Pour sortir du capitalisme, il
est nécessaire de l'affronter avec décision. Néanmoins, malgré la
multiplication des situations critiques de toutes sortes avec des menaces
implicites d'effondrement, le régime capitaliste et étatiste continue de se
reproduire, car il trouve de nouveaux alliés avec lesquels persévérer dans la
même dynamique de pouvoir et de croissance. Les prédictions apocalyptiques ne
le dissuadent pas, bien au contraire. La catastrophe le nourrit. Ainsi, il ne
sera jamais arrêté par des parades carnavalesques, des candidatures
électorales, des formules associatives prodigieuses ou tout autre type de
substitut convivialiste. Tout cela fait partie de son monde. Comme on disait avant,
à la guerre comme à la guerre, s’il faut bien y échapper.
Miguel Amorós, 15 novembre 2022
Pour la série de discussions en ligne Sublevaciones de la Tierra, modérée par le magazine Soberanía Alimentaria.