venerdì 18 novembre 2022

Geografia della lotta sociale - Dalla difesa del territorio al sollevamento della terra

 





Una delle caratteristiche principali del nostro tempo è la concentrazione della popolazione in grandi agglomerati impersonali illimitati, strutturati solo da assi stradali, frutto della globalizzazione, o più chiaramente, della dissoluzione di un capitalismo di nazioni in un capitalismo di regioni urbane interconnesse. Il fenomeno è noto come metropolizzazione. Il tipo di insediamento che ne deriva, la metropoli, determina una nuova forma di relazione e di governo, quindi una diversa cultura, individualistica e consumistica, e un diverso stile di vita, più artificiale e dipendente, più industriale e commercializzato, determinato quasi interamente dagli imperativi dell'esternalizzazione produttiva. Le metropoli, infatti, sono soprattutto i più idonei centri di accumulazione di capitale per la globalizzazione degli scambi finanziari, evento direttamente responsabile dei disastri ecologici e sociali che ci colpiscono. L'urbanizzazione intensiva che li alimenta non è altro che il violento riadattamento del territorio alle esigenze evolutive dell'economia globale. L'area metropolitana è la concrezione spaziale della società globalizzata. In questa fase, la crescita economica è fondamentalmente distruttiva, insostenibile, tossica e quindi conflittuale. Gli effetti sulla salute fisica e mentale della popolazione concentrata sono terribili e il danno ambientale è simile a quello di una guerra contro le campagne e la natura: desertificazione e salinizzazione del suolo, acidificazione degli oceani, rottura dei cicli biologici, inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei terreni, l'accumulo di rifiuti, lo spreco energetico, l'esaurimento delle risorse, la perdita di biodiversità, il riscaldamento globale, ecc. Allo stesso tempo, le economie indigene sono rovinate, poiché la produzione locale di beni e cibo non può competere con la grande produzione industriale. Di conseguenza, l'agricoltura tradizionale, la piccola produzione e il piccolo commercio tendono a scomparire a favore delle piattaforme logistiche, dell'industria delocalizzata e dei supermercati. Proprio come è successo con gli artigiani agli albori del capitalismo moderno, il contadino diventa superfluo e la sua cultura obsoleta. Il territorio inarrestabilmente si svuota e si degrada; gli abitanti di paesi e piccole città migrano verso agglomerati urbani sempre più inabitabili dove regnano la disuguaglianza e lo sradicamento, mentre le città di medie dimensioni ristagnano e declinano. Ora che l'industria agroalimentare è preponderante, il processo di svuotamento rurale può proseguire senza ostacoli, poiché è necessario per la completa conversione del territorio in capitale, in motore di sviluppo e fonte prioritaria di profitto.

 

     Oggi la questione sociale si manifesta sempre meno come esclusivamente lavorativa, avendo il mondo del lavoro perso la sua antica centralità. Neppure, però, come problematica circoscritta ai conglomerati urbani, per quanto le conseguenze indesiderabili della metropolizzazione formazione di ghetti periferici, inquinamento atmosferico, servizi pubblici insufficienti o inesistenti, gentrificazione, precarietà, sfratti, povertà, ecc. danno origine a numerose proteste. Il territorio, opportunamente spopolato e fortemente sbilanciato e impoverito dalle pratiche estrattive, si diversifica come fonte di reddito e acquisisce peculiarità economiche complementari a quelle della conurbazione: riserva edificabile, supporto contenitore di infrastrutture, produttore di risorse energetiche, luogo di agricoltura industriale e allevamento intensivo, spazio per il tempo libero, seconde case o turismo rurale... L'aggressione del territorio produce involontariamente uno spostamento geografico dell'asse delle lotte, che nei paesi turbo capitalisti affluiscono in sua difesa. La questione sociale riappare dunque come questione territoriale, e, dato lo spopolamento rurale quasi assoluto nello Stato spagnolo, con il conseguente abbandono di decine di migliaia di piccole aziende agricole e di milioni di ettari di coltivazioni la sua espressione più autentica anche se più difficile è il ritorno alla campagna. Tuttavia, un vero soggetto collettivo con un obiettivo unificante e chiaramente trasformatore non riesce a concretizzarsi.

 

   I neorurali non costituiscono da nessuna parte un collettivo numericamente sufficiente per formare un soggetto politico con i giovani abitanti del posto, i ricercatori dissidenti, le donne e i contadini residui. Il soggetto si costituisce con la segregazione radicale di un gruppo anticonformista che vuole costruire il proprio mondo; al contrario, l'opposizione al cancro dello sviluppo non si discosta affatto dai metodi convenzionali. Spesso ricorre alla mediazione della politica tradizionale e accetta la coabitazione con il vecchio ordine sociale. Non si tratta di amministrazione comunale, di accesso popolare alla terra o di smantellamento del suo sfruttamento industriale. Nonostante tutto, nel territorio si dispiegano più a fondo tutte le contraddizioni del capitalismo e dello statalismo, ma il dominio il sistema, il potere, la classe dirigente è ancora capace di neutralizzarle con meccanismi di cooptazione e formule di stabilizzazione tipo l'“economia sociale”, la “transizione energetica”, la “decrescita” non conflittuale o il “nuovo patto verde”. La difesa del territorio è oggettivamente anticapitalista, ma soggettivamente non lo è ancora. L'esodo rurale ha messo fine alla società contadina in Europa e ha reso impossibile la comunione d’interessi nelle campagne e quindi la formazione di una classe solida e attiva. Per questo si dà il caso di un soggetto allo stato gassoso, concretizzato in “entità”, piattaforme o coordinazioni, che cerca di cambiare la società senza disturbare le sue élites mentre cerca di uscire dal capitalismo senza sfondare la porta. Per questo, l'attuale difesa del territorio è incapace di capovolgere la situazione nonostante il contributo non trascurabile delle masse peri-urbane insoddisfatte, poiché l'obiettivo proclamato consiste solo nel cambiare il "modello di sviluppo", presupponendo, grazie a una benevola disposizione delle istituzioni “ripensate” o “reinventate” non si sa da chi, di non porre fine al capitalismo, alla gerarchia e allo Stato. In verità, sulla difesa del territorio pende la spada di Damocle dell'istituzionalizzazione, della promozione di dirigenti e di un disordine incanalato. Solo un collasso urbano potrebbe alterare tali limiti, tenendo conto che le metropoli sono sempre più vulnerabili e che i problemi derivanti dal cambiamento climatico o dalle difficoltà nell'approvvigionamento idrico, elettrico, di combustibili o di cibo potrebbero facilmente renderle invivibili.

 

     Solo nelle terre dell'America Latina, alcune condizioni storiche contrarie a ciò che i dirigenti chiamano "progresso" hanno permesso la sopravvivenza di un numero importante di contadini, in parte indigeni, che ha mantenuto le sue tradizioni comunitarie di autoproduzione, autodifesa e autogestione. Lì, la resistenza all'assalto della globalizzazione ha potuto ricostruire un'identità rivoluzionaria ossia una classe pericolosa. L'attività eminentemente difensiva delle comunità rurali ha posto il problema agrario al centro della questione sociale, irradiando l'influenza della campagna sui quartieri emarginati della città. In questo modo la difesa del territorio fa un salto di qualità verso il sollevamento della terra e diventa lo specchio in cui va vista la lotta urbana. Politicamente, con la rivendicazione del potere di decisione della sovranità da parte delle assemblee territoriali autonome; economicamente, con la volontà di trasferire le risorse dalla metropoli alla campagna; socialmente, con le pratiche di autogestione e auto-organizzazione. Indubbiamente, in questo contesto di contraddizioni emergenti che impediscono al sistema dominante di presentarsi come parte principale della soluzione, come fa da noi, si accentua l'antagonismo tra il campo comunitario e l’estrattivismo industriale, divenendo, a vista di tutti, insolubile nell'ambito di un regime capitalista e statalista. Ogni passo avanti nella produzione e distribuzione alternative, ogni terra occupata, ogni gerarchia abolita, significherà una battuta d'arresto del regime suddetto, cioè del dominio, per cui ci si può aspettare una controffensiva alla quale parare, che, logicamente, sarà autoritaria nella sua concezione e poliziesca e pure militare se la situazione lo richiede, nella sua realizzazione.

 

Non intendo il sollevamento della terra come una mera espressione tipica della neolingua della sinistra domestica, né penso che con essa si alluda al sollevamento retorico di un 15M o alle innocenti rivendicazioni rivolte ai governi dello pseudo-movimento di Estinzione-Ribellione o dei collapsologi patentati. Il sollevamento della terra va inteso nel suo significato letterale: la rivolta contro il potere costituito da parte di un ampio settore della popolazione eretto in soggetto collettivo in classe – che vuole vivere secondo i suoi desideri, senza mediazioni esterne, e per questo esige cambiamenti sociali rivoluzionari nell’economia, nella politica e nella società. È una risposta insurrezionale contro le conseguenze catastrofiche della crescita economica e anche la fase culminante di un processo di lotta sociale. Nei paesi senza agricoltori il processo sta appena iniziando; si cerca la strada a tentoni, attraverso discussioni, liberazione di spazi, scaramucce ed esperimenti. L'obiettivo è una società civile composta di comunità autorganizzate, radicate nella terra, separate il più possibile dallo Stato e dai “mercati”, dunque disurbanizzate, destatalizzate e de-globalizzate. Il che, ovviamente, non si realizza con SMS (l'arma preferita di Negri), simulacri circensi, denunce misurate alle autorità o manuali di collassologia. Per uscire dal capitalismo bisogna affrontarlo con decisione. Tuttavia, nonostante il moltiplicarsi di situazioni critiche di ogni genere e le implicite minacce di collasso, il regime capitalista e statalista continua a riprodursi perché trova lungo il cammino nuovi alleati con cui perseverare nella stessa dinamica di potere e di crescita. Le predizioni apocalittiche non lo spaventano, anzi. La catastrofe lo nutre. Così, non lo fermeranno le sfilate carnevalesche, le candidature elettorali, le prodigiose formule associative o qualsiasi altro tipo di sostituto convivialista. Tutto ciò fa parte del suo mondo. Come si diceva un tempo, alla guerra come alla guerra, anche se in realtà si tratta di sfuggirla.

 

Miguel Amorós, 15 novembre 2022

 

 

Per il ciclo di dibattiti online Sublevaciones de la Tierra, moderato dalla rivista Soberanía Alimentaria.

  




GEOGRAFÍA DEL COMBATE SOCIAL

De la defensa del territorio a la sublevación de la tierra

 

     Una de las características principales de nuestro tiempo es la concentración de la población en grandes aglomeraciones impersonales ilimitadas, vertebradas únicamente por ejes viarios, fruto de la globalización, o más claramente, de la disolución de un capitalismo de naciones acotadas en un capitalismo de regiones urbanas interconectadas. El fenómeno se conoce como metropolitanización. El tipo de asentamiento resultante, la metrópolis, determina una nueva forma de relación y de gobierno, luego una cultura distinta, individualista y consumista, y un estilo de vida diferente, más artificial y dependiente, más industrial y mercantilizado, determinado casi enteramente por los imperativos de la terciarización productiva. En efecto, las metrópolis son antes que nada los centros de acumulación de capitales más idóneos para la mundialización de los intercambios financieros, suceso responsable directo de los desastres ecológicos y sociales que nos asolan. La urbanización intensiva que las alimenta no es más que la readaptación violenta del territorio a las exigencias desarrollistas de la economía global. El área metropolitana es la concreción espacial de la sociedad globalizada. En esta fase, el crecimiento económico es fundamentalmente destructivo, insostenible, tóxico, y por consiguiente, conflictivo. Los efectos sobre la salud física y mental de la población concentrada son terribles y los daños ambientales se asemejan a los de una guerra contra el campo y la naturaleza: desertificación y salinización de suelos, acidificación de océanos, rotura de los ciclos biológicos, polución del aire, las aguas y las tierras, acumulación de basuras, despilfarro energético, agotamiento de recursos, pérdida de la biodiversidad, calentamiento global, etc.. Paralelamente, las economías autóctonas se arruinan, pues la producción local de bienes y alimentos no puede competir con la gran producción industrial. En consecuencia, la agricultura tradicional, la pequeña producción y el pequeño comercio tienden a desaparecer en favor de las plataformas logísticas, la industria deslocalizada y las grandes superficies. Igual que pasó con los artesanos en el periodo de arranque del capitalismo moderno, el campesinado se vuelve superfluo, y su cultura, obsoleta. El territorio se vacía imparablemente y se degrada; los habitantes de los pueblos y pequeñas ciudades emigran a las cada vez más inhabitables conurbaciones donde reina la desigualdad y el desarraigo, mientras que las urbes medianas se estancan y declinan. Cuando la industria agroalimentaria es preponderante, el proceso de vaciado rural puede proseguir sin obstáculos, pues es necesario para la conversión completa del territorio en capital, motor de desarrollo desbocado y fuente mayor de beneficios.

 

     La cuestión social hoy menos que nunca se manifiesta como exclusivamente laboral, habiendo perdido el mundo del trabajo su antigua centralidad. Tampoco como problemática circunscrita a los conglomerados urbanos, por más que las consecuencias indeseables de la metropolitanización formación de guetos periféricos, contaminación atmosférica y lumínica, ruido, servicios públicos insuficientes o inexistentes, gentrificación, precariedad, desahucios, pobreza, etc. originen numerosas protestas. El territorio, convenientemente despoblado y ferozmente desequilibrado y esquilmado por prácticas extractivistas, se diversifica como manantial de ingresos y adquiere peculiaridades económicas complementarias a las de la conurbación: reserva urbanizable, soporte y contenedor de infraestructuras, productor de recursos energéticos, lugar de la agricultura industrial y la ganadería intensiva, espacio para el ocio, la segunda residencia o el turismo rural... La agresión al territorio produce involuntariamente un desplazamiento geográfico del eje de las luchas, que en los países turbocapitalistas ocurren en su defensa. La cuestión social reaparece entonces como cuestión territorial, y, dada la despoblación rural casi absoluta en el estado español, con el consiguiente abandono de decenas de miles de pequeñas explotaciones y millones de hectáreas de cultivo su expresión más auténtica aunque más dificultosa es la vuelta al campo. Sin embargo, un verdadero sujeto colectivo con una finalidad unificadora y transformadora clara no consigue concretarse.

 

     Los neorrurales no constituyen en ninguna parte un colectivo lo bastante numeroso como para formar con los jóvenes lugareños, los investigadores disidentes, las mujeres y el campesinado residual un verdadero sujeto político. El sujeto se constituye al segregarse radicalmente un grupo disconforme para construir su mundo; en cambio, la oposición al cáncer desarrollista en ninguna parte se distancia demasiado de los métodos convencionales. A menudo, recurre a la mediación de la política tradicional y acepta cohabitar con el viejo orden social. No se plantea la administración concejil, el acceso popular a la tierra o el desmantelamiento de su explotación industrial. A pesar de todo, en el territorio se despliegan con mayor profundidad todas las contradicciones del capitalismo y estatismo, pero la dominación el sistema, el poder, la clase dirigente aún es capaz de neutralizarlas con mecanismos de cooptación y fórmulas de estabilización del estilo de la “economía social”, el “desarrollo rural”, la “transición energética”, el “decrecimiento” no conflictual o el “nuevo pacto verde”. La defensa del territorio es objetivamente anticapitalista, pero subjetivamente todavía no lo es. El éxodo rural acabó con la sociedad campesina en Europa e hizo imposible la comunidad de intereses en el campo, y por lo tanto, la formación de una clase sólida y activa. Por eso, se da el caso de un sujeto en estado gaseoso, concretado en “entidades”, plataformas o coordinadoras, que busca cambiar la sociedad sin molestar a sus élites y trata de salir del capitalismo sin romper la puerta. Y por eso, la actual defensa del territorio es incapaz de revertir la situación a pesar de la contribución no desdeñable de las insatisfechas masas periurbanas, pues la meta proclamada consiste solo en “cambiar el modelo de desarrollo”, por supuesto, gracias a una benévola disposición de las instituciones “repensadas” o “reinventadas” por no se sabe quién, no en acabar con el capitalismo, la jerarquía y el Estado. En verdad, sobre la defensa del territorio pende la espada de Damocles de la institucionalización, la promoción de líderes y el malestar encauzado. Solamente un colapso urbano podría alterar tales limitaciones, habida cuenta de que las metrópolis son cada vez más vulnerables, ya que los problemas derivados del cambio climático o las dificultades en el suministro de agua, electricidad, combustibles o alimentos podrían fácilmente volverlas inviables.

 

     Únicamente en tierras latinoamericanas, determinadas condiciones históricas opuestas a lo que los dirigentes llaman “progreso” han permitido subsistir a un campesinado numeroso, en parte indígena, que mantuvo sus tradiciones comunitarias de autoproducción, autodefensa y autogobierno. Allí la resistencia a las acometidas de la globalización ha podido reconstruir una identidad revolucionaria, o sea, una clase peligrosa. La actividad eminentemente defensiva de las comunidades rurales ha colocado el problema agrario en el centro de la cuestión social, irradiando la influencia del campo sobre las barriadas marginadas de la urbe. Es así como la defensa del territorio da un salto cualitativo hacia la sublevación de la tierra y se convierte en espejo donde ha de contemplarse la lucha urbana. Políticamente, con la reivindicación del poder de decisión de la soberanía para las asambleas territoriales autónomas; económicamente, con la voluntad de transferir los recursos de la metrópolis al campo; socialmente, con las prácticas autogestionarias y autoorganizativas. Indudablemente, en ese contexto de contradicciones emergentes que impide al sistema dominante presentarse como parte principal de la solución, como hace por aquí, el antagonismo entre campo comunitario y extractivismo industrial se acentúa, volviéndose a la vista de todos irresoluble en el marco de un régimen capitalista y estatista. Cada trecho que se avance en la producción y distribución alternativas, cada terreno que se ocupe, cada jerarquía que se suprima, significará un retroceso de dicho régimen, o sea, de la dominación, por lo que cabrá esperar una contraofensiva a la que parar, que, lógicamente, será autoritaria en su concepción, y policial, incluso militar si la situación lo exige, en su realización.

 

     No entiendo la sublevación de la tierra como una mera expresión típica de la neo-lengua de la izquierda doméstica, ni creo que con ella se aluda al levantamiento retórico de un 15M o a las inocentes demandas dirigidas a los gobiernos de la seudomovida Extinción-Rebelión o de los colapsólogos patentados. Hay que entenderla en su significado literal: la revuelta contra el poder establecido de un amplio sector de la población erigido en sujeto colectivo en clase que quiere vivir según sus deseos, sin mediaciones exteriores, y para eso exige cambios revolucionarios en la economía, la política y la sociedad. Es una respuesta insurgente ante las consecuencias catastróficas del crecimiento económico y también la etapa culminante de un proceso de lucha social. En los países sin agricultores el proceso apenas está empezando; se busca el camino a través de tanteos, discusiones, liberación de espacios, escaramuzas y experimentos. El objetivo es una sociedad civil compuesta por comunidades autoorganizadas, con raíces en la tierra, separada lo más posible del Estado y de “los mercados”, y en consecuencia, desurbanizada, desestatizada y desglobalizada. Este desde luego no se alcanza con SMS (el arma preferida de Negri), simulacros circenses, quejas mesuradas a la autoridad o manuales de colapsología. Para salir del capitalismo hay que enfrentarse decididamente a él. Pero, a pesar de multiplicarse las situaciones críticas de todo tipo y las implícitas amenazas de derrumbe, el régimen capitalista y estatista continúa reproduciéndose, porque encuentra nuevos aliados por el camino con los que perseverar en la misma dinámica de poder y crecimiento. Las predicciones apocalípticas no le arredran, más bien lo contrario. La catástrofe lo nutre. Así pues, nunca le detendrán desfiles carnavalescos, candidaturas electorales, fórmulas asociativas prodigiosas o cualquier otra clase de sucedáneo convivencialista. Todo eso forma parte de su mundo. Tal como antes se decía, en la guerra como en la guerra, si es que realmente hay que evadirse de él.

 

Miguel Amorós, 15 de noviembre de 2022

 

Para el ciclo de debates online Sublevaciones de la Tierra, moderado por la revista Soberanía Alimentaria

 

 

GÉOGRAPHIE DU COMBAT SOCIAL

De la défense du territoire au soulèvement de la terre

 

 

    L'une des principales caractéristiques de notre époque est la concentration de la population dans de grandes agglomérations impersonnelles, sans limites, structurées uniquement par des axes routiers, résultat de la mondialisation ou, plus clairement, de la dissolution d'un capitalisme de nations en un capitalisme de régions urbaines interconnectées. Ce phénomène est connu sous le nom de métropolisation. Le type d'établissement qui en résulte, la métropole, détermine une nouvelle forme de relation et de gouvernement, puis une autre culture, individualiste et consumériste, et un autre style de vie, plus artificiel et dépendant, plus industriel et marchandisé, c'est-à-dire déterminé presque entièrement par les impératifs de la tertiarisation productive. En effet, les métropoles sont avant tout les centres d'accumulation du capital les mieux adaptés à la mondialisation des échanges financiers, événement directement responsable des désastres écologiques et sociaux qui nous frappent. L'urbanisation intensive qui les nourrit n'est rien d'autre que la réadaptation violente du territoire aux exigences développementalistes de l'économie mondiale. L'aire métropolitaine est la concrétisation spatiale de la société mondialisée. Dans cette phase, la croissance économique est fondamentalement destructrice, non durable, toxique et donc conflictuelle. Les effets sur la santé physique et mentale de la population concentrée sont terribles et les dégâts environnementaux ressemblent à ceux d'une guerre contre la campagne et la nature : désertification et salinisation des sols, acidification des océans, perturbation des cycles biologiques, pollution de l'air, de l'eau et des sols, accumulation de déchets, gaspillage énergétique, épuisement des ressources, perte de biodiversité, réchauffement climatique, etc. ... Dans le même temps, les économies indigènes sont ruinées, car la production locale de biens et de nourriture ne peut concurrencer la production industrielle à grande échelle. En conséquence, l'agriculture traditionnelle, la production à petite échelle et les petites entreprises tendent à disparaître au profit des plateformes logistiques, de l'industrie délocalisée et des grands supermarchés. Comme il est arrivé aux artisans à l'aube du capitalisme moderne, la paysannerie devient superflue et sa culture obsolète. Le territoire est de plus en plus vide et dégradé ; les habitants déracinés des villages et des petites villes migrent vers des agglomérations de plus en plus inhabitables où règnent l'inégalité et le déracinement, tandis que les villes moyennes stagnent et déclinent. Maintenant que l'industrie agroalimentaire est prédominante, le processus de vidage des campagnes peut se poursuivre sans entrave, car il est nécessaire à la conversion complète du territoire en capital, moteur du développement et source majeure de profit.

 

   La question sociale est aujourd'hui moins que jamais perçue comme une question exclusivement liée au travail, le monde du travail ayant perdu sa centralité d'antan. Il ne s'agit pas non plus d'un problème limité aux conglomérats urbains, même si les conséquences indésirables de la métropolisation formation de ghettos périphériques, pollution atmosphérique, services publics insuffisants ou inexistants, gentrification, précarité, expulsions, pauvreté, etc. – donnent lieu à des nombreuses protestations. Le territoire, opportunément dépeuplé et férocement déséquilibré et appauvri par les pratiques extractivistes, se diversifie comme source de revenus et acquiert des particularités économiques complémentaires à celles de l'agglomération : réserve de développement, support et contenant d'infrastructures, producteur de ressources énergétiques, lieu d'agriculture industrielle et d'élevage intensif, espace de loisirs, de résidences secondaires ou de tourisme rural... L'agression contre le territoire produit involontairement un déplacement géographique de l'axe des luttes, qui dans les pays turbo-capitalistes se déroulent pour sa défense. La question sociale réapparaît principalement comme une question territoriale et, étant donné l'exode rural - presque absolu dans l'État espagnol, avec l'abandon consécutif de dizaines de milliers de petites exploitations et de millions d'hectares de terres cultivées - son expression la plus authentique mais la plus difficile est le retour à la campagne. Cependant, un véritable sujet collectif avec un objectif clair, unificateur et transformateur, ne se matérialise pas.

 

    Nulle part les néo-ruraux ne constituent un collectif suffisamment important pour former un sujet politique avec les jeunes locaux, les chercheurs dissidents, les femmes et la paysannerie résiduelle. Le sujet se constitue en ségrégant radicalement un groupe non-conformiste afin de construire son monde ; d'autre part, l'opposition au cancer développementaliste ne s'éloigne pas trop des méthodes conventionnelles. Elle recourt souvent à la médiation avec la politique traditionnelle et accepte la cohabitation avec l’ancien ordre social. Il ne s’agit pas d’administration communale, d’accès populaire à la terre ou de démantèlement de son exploitation industrielle. Malgré tout, sur le territoire, toutes les contradictions du capitalisme et de l'étatisme se déploient plus profondément, mais la domination le système, le pouvoir, la classe dirigeante est encore capable de les neutraliser avec des mécanismes de cooptation et des formules de stabilisation dans le style de l'"économie sociale", de la "transition énergétique", de la "décroissance" non conflictuelle ou du "nouveau pacte vert". La défense du territoire est objectivement anticapitaliste, mais subjectivement, elle ne l'est pas encore. L'exode rural a anéanti la société paysanne en Europe et a rendu impossible la communauté d'intérêts dans les campagnes donc la formation d’une classe solide et active. C'est pourquoi il existe un sujet à l'état gazeux, concrétisé dans des « entités », des plateformes ou des coordinations, qui cherche à changer la société sans déranger ses élites et tente de sortir du capitalisme sans défoncer la porte. Et c'est pourquoi la défense actuelle du territoire est incapable de renverser la situation, malgré la contribution non négligeable des masses périurbaines insatisfaites, parce que le but proclamé est seulement de changer de "modèle de développement", en supposant, grâce à une disposition bienveillante des institutions "repensées" ou "réinventées" par on ne sait qui, de ne pas supprimer le capitalisme, la hiérarchie et l'État. En effet, au-dessus de la défense du territoire est suspendue l'épée de Damoclès de l'institutionnalisation, de la promotion des leaders et de l'agitation canalisée. Seul un effondrement urbain pourrait modifier ces contraintes, étant donné que les métropoles sont de plus en plus vulnérables, car les problèmes liés au changement climatique ou les difficultés d'approvisionnement en eau, en électricité, en carburant ou en nourriture pourraient facilement les rendre non viables.

 

     Ce n'est qu'en Amérique latine que certaines conditions historiques opposées à ce que les dirigeants appellent le "progrès" ont permis la survie d'une vaste paysannerie, en partie indigène, qui a conservé ses traditions communautaires d'autoproduction, d'autodéfense et d'autogestion. Là-bas, la résistance aux assauts de la mondialisation a pu reconstruire une identité révolutionnaire, c'est-à-dire une classe dangereuse. L'activité éminemment défensive des communautés rurales a placé le problème agraire au centre de la question sociale, irradiant l'influence de la campagne sur les bidonvilles de la ville. De cette façon, la défense du territoire fait un saut qualitatif vers la révolte de la terre et devient un miroir dans lequel la lutte urbaine doit être vue. Politiquement, avec la revendication du pouvoir de décision la souveraineté par des assemblées territoriales autonomes ; économiquement, avec la volonté de transférer les ressources de la métropole vers les campagnes ; socialement, avec des pratiques d'autogestion et d'auto-organisation. Sans doute, dans ce contexte de contradictions émergentes qui empêchent le système dominant de se présenter comme la partie principale de la solution, comme il le fait par ici, l'antagonisme entre la campagne communautaire et l'extractivisme industriel s'accentue, devenant, à la vue de tous, irrésoluble dans le cadre d'un régime capitaliste et étatiste. Chaque pas en avant dans la production et la distribution alternatives, chaque parcelle de terre occupée, chaque hiérarchie abolie, signifiera un pas en arrière pour ce régime, c'est-à-dire pour la domination, de sorte que l'on peut s'attendre à une contre-offensive, qui sera logiquement autoritaire dans sa conception et policière, voire militaire si la situation l'exige, dans sa réalisation.

 

      Je ne conçois pas le soulèvement de la terre comme une simple expression typique de la novlangue de la gauche domestiquée, et je ne crois pas qu'on fasse allusion par elle au soulèvement rhétorique d'un 15M ou aux demandes innocentes adressées aux gouvernements par le pseudo-mouvement Extinction-Rébellion ou par des collapsologues patentés. Il faut l’entendre dans son sens littéral : la révolte contre le pouvoir établi d'un large secteur de la population érigé en sujet collectif – en classe – qui veut vivre selon ses désirs, sans médiations extérieures, et poursuit à cette fin des changements sociaux révolutionnaires dans l'économie, la politique et la société. C'est une réponse insurrectionnelle aux conséquences catastrophiques de la croissance économique et aussi l'étape culminante d'un processus de lutte sociale. Dans les pays sans agriculteurs, le processus n'en est qu'à ses débuts ; la voie se cherche par tâtonnements, discussions, libération de l'espace, escarmouches et expériences. L'objectif est une société civile composée de communautés auto-organisées, enracinées dans la terre, séparées autant que possible de l'État et des "marchés", puis désurbanisées, déstabilisées et dé mondialisées. Ce n'est certainement pas avec des SMS (l'arme de prédilection de Negri), des simulacres de cirque, des plaintes mesurées à l'autorité ou des manuels de collapsologie que l'on y parviendra. Pour sortir du capitalisme, il est nécessaire de l'affronter avec décision. Néanmoins, malgré la multiplication des situations critiques de toutes sortes avec des menaces implicites d'effondrement, le régime capitaliste et étatiste continue de se reproduire, car il trouve de nouveaux alliés avec lesquels persévérer dans la même dynamique de pouvoir et de croissance. Les prédictions apocalyptiques ne le dissuadent pas, bien au contraire. La catastrophe le nourrit. Ainsi, il ne sera jamais arrêté par des parades carnavalesques, des candidatures électorales, des formules associatives prodigieuses ou tout autre type de substitut convivialiste. Tout cela fait partie de son monde. Comme on disait avant, à la guerre comme à la guerre, s’il faut bien y échapper.

 

Miguel Amorós, 15 novembre 2022

 

Pour la série de discussions en ligne Sublevaciones de la Tierra, modérée par le magazine Soberanía Alimentaria.