lunedì 28 novembre 2022

Fratelli del libero spirito - Raoul Vaneigem

 



Preferisco il cammino che mi apro a quello che trovo. Solo le bandiere si accontentano dei sentieri tracciati.

 

Nessuna epoca ha avuto quanto la nostra delle possibilità di liberare l'uomo dall'oppressione e mai una tale mancanza di coscienza ha diffuso tanta rassegnazione, apatia, fatalismo. Schiavo, da millenni, di un'economia che sfrutta il suo lavoro, l'uomo ha puntato così poco sulla sua autonomia e sulle sue facoltà creative che rischia di lasciarsi trascinare dalla rivolta impotente, dal risentimento e da quella peste emozionale così pronta ad accecare l'intelligenza sensibile e tuffarsi nella barbarie. Quanti un tempo sfidavano l'esercito, la polizia, le mitragliatrici e i carri armati si indignano manifestando a date fisse senza mai osare affrontare i propri padroni per paura di perdere un posto di lavoro che il collasso del sistema sta loro togliendo. Non viene loro neppure in mente l'idea di occupare fabbriche che sono i soli in grado di far funzionare, mentre l'incompetenza degli uomini d’affari li liquida giocandoli in borsa, perdendoli, licenziando i lavoratori e spingendo il cinismo fino a far loro rimborsare le somme frodate.

Come confermano ovunque le elezioni cosiddette “libere”, la stupidità dei governi non ha altro sostegno che la crescente stupidità delle folle che si esauriscono in un'amara rassegnazione e in collere senza prospettiva. La società dei consumi ha trasformato i cittadini in democratici da supermercato, il cui godimento fittizio è assunto a breve termine e per paura di non avere, alla lunga, di che pagarlo. Il pensiero si è fatto larvale. Si nutre d’idee ricevute, ridicolizzate da decenni. Si vedono riapparire i detriti di un nazionalismo causa d’innumerevoli guerre e massacri. Si va fino alle religioni in rotta che tentano di risollevarsi affidandosi alla moda di un maomettanesimo la cui fede religiosa è sempre più cancellata dal populismo.

Siamo circondati da pecore che sognano di diventare macellai. È nella morte e nel declino che credono con maggiore fermezza. Sono innamorati dei loro terrori. Più sanno che sprofonderanno nel solco e che raggiungeranno solo vicoli ciechi, più si ostinano a deperire nel conforto della decrepitezza cui si dedica la loro scienza.

Comunque dovranno pure svegliarsi, ora che il capitalismo sta crollando, implodendo come quell’impero detto “comunista”, ancora ieri ritenuto invincibile. Dovranno pure lasciare la presa, quelli che vi si aggrappavano consumandolo e quelli che vi s’invischiavano in una critica rabbiosa e sterile. Dovranno pure riapprendere a raddrizzarsi, a camminare, a rifiutare le stampelle imposte da un potere che, da secoli, li convince della loro incapacità ad autogovernarsi. Non è forse il momento di ricordare le parole di Loustalot, che proclamava durante la Rivoluzione francese: “I grandi sono grandi solo perché siamo in ginocchio. Alziamoci!” Non è forse il momento di ripristinare l'autonomia degli individui e gettare le basi per una società autogestita?

Rievocando un passato di oppressione, riscopriamo il corso dell'emancipazione che, come un fiume sotterraneo, non ha mai smesso di scalzare le stratificazioni della barbarie. La Comune di Parigi, i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati nella Russia nel 1917, i soviet dei marinai a Cronstadt nel 1921, le collettività libertarie dell'Andalusia, della Catalogna e dell'Aragona nel 1936-1937 rimettono in luce un'esperienza psicologica e sociale che, interrotta prematuramente da una repressione spietata, non ha fatto che accennarsi e aspirare a continuare e affinarsi. Ciò che è stato accuratamente occultato dalla storia ufficiale riappare oggi nella sua insolente modernità. Se riaffiorano dal passato i pionieri della libertà individuale e collettiva, non è forse perché il nostro presente ha bisogno del loro esempio per ripristinare un desiderio di emancipazione sopito da decenni?

All'incrocio dei nostri cammini sorgono esseri diversi come Jörg Ratgeb, Jöst Fritz, Sébastien Castellion, La Boétie, Cyrano de Bergerac, Jean Meslier, Henri Joseph Du Laurens, Robert Misson, Matthias Knützen, Twistelwood, Blake, Hölderlin, John Brown, Claire Démar, Tahiri (noto come Qurratu'l-Ayn), Ernest Cœurderoy, Ravachol, Louise Michel, Bonnot, Mecislas Goldberg, Marius Jacob, Flores Magón, Pouget, Albert Libertad, Zo d'Axa, i soldati che si ammutinarono contro il grande macello del 1914-1918, Anton Ciliga, Victor Serge, Jan Valtin, Vassili Grossmann, Ret Marut dit Traven, Sabaté, Ascaso, Durruti, Constant Malva, Manouchian, Armand Robin, Joe Hill, Frank Little, Jean Malaquais, Maurice Blanchard, Arthur Koestler, Walter Benjamin, Ödön von Horváth, Victor Kravchenko e tanti altri che, in una indicibile solitudine, si sono sollevati contro l'oppressione e contro l'impostura delle libertà mercantili. Come non salutare di sfuggita i combattenti ebrei del Bund che hanno lottato sia contro l'antisemitismo sia contro la porcheria religiosa inculcata fin dall'infanzia, perché combattevano innanzitutto lo sfruttamento dell'uomo da parte dell’uomo?

Riportando alla luce il Movimento del Libero Spirito, che la storia adulterata del cristianesimo s’impegnava nascondere, ho mostrato che, contrariamente alla menzogna comunemente accettata di una religiosità onnipresente nel Medioevo, la resistenza alla pregnanza cristiana non ha mai smesso, dal dodicesimo secolo al Cinquecento, di opporre all'ipocrita puritanesimo della Chiesa e al suo disprezzo per la natura umana e terrena la libertà dei desideri, del godimento amoroso, dell’emancipazione individuale e della solidarietà.

Dobbiamo ad Abu Tahir, che nel 930 si era impadronito della Mecca, saccheggiando la città, massacrando i pellegrini e impossessandosi della Pietra Nera, questo proposito: "In questo mondo, tre individui hanno corrotto gli uomini: un pastore [Mosè], un medico [Gesù] e un cammelliere [Maometto]. E questo cammelliere è stato il peggior imbroglione, il peggior imbonitore dei tre”. Non ha solo ispirato Averroè che dichiara: “La religione giudaica è una legge dei bambini, quella cristiana una legge dell'impossibilità e quella maomettana una legge di porcelli”. Ha anche accreditato l'esistenza del Libro dei tre impostori, o Dell'inanità delle religioni, che tormenta l'immaginazione del Medioevo senza che se ne sia mai trovata traccia (fu attribuito a Federico II o al suo cancelliere, Pierre de La Vigne, ma la sua unica versione conosciuta, predatata 1598, fu composta intorno al 1753). Se ne trova eco, però, nel portoghese Tommaso Scoto, professore alla Scuola delle Decretali di Lisbona, processato nel 1344 dall'Inquisizione per aver negato i dogmi, assicurato che il mondo sarebbe stato governato meglio dai filosofi che dai teologi e dichiarato: "Tre impostori hanno ingannato il mondo. Mosè ha ingannato gli ebrei, Gesù i cristiani e Maometto i saraceni”. Bruciato all'Aia nel 1512, Herman de Rijswijck affermava: "Il mondo esiste da tutta l'eternità e non è cominciato con la creazione, che è un'invenzione dello stupido Mosè", "Cristo era un imbecille e il seduttore degli uomini semplici", "Credo che la nostra fede sia una favola come dimostrano le buffonate della nostra Scrittura, le leggende bibliche e il delirio del Vangelo".

L'approccio dei sostenitori del Libero Spirito professa meno il rifiuto della religione che il suo superamento. Dio è negato nel senso che, essendo presente in tutti, basta prenderne coscienza per liberarsi dagli ostacoli e dalle leggi del potere spirituale e temporale.

Raggruppati attorno al filosofo Amaury de Bène, gli Amauriciani furono giustiziati nel 1209 perché negavano il peccato e sostenevano la preminenza del desiderio. Stessa sorte subì nel 1310 la beghina piccarda Marguerite Porète per aver individuato Dio e le libertà di natura nel suo libro Lo specchio delle anime semplici (il testo ci è pervenuto con evidenti interpolazioni, mirate a dargli un significato puramente mistico). Nella stessa epoca, Blœmardinne di Bruxelles (circa 1250-1335) identifica l'amore carnale con la perfezione del Dio che ognuno porta dentro. Il suo irradiamento fu tale che l'Inquisizione non osò reprimerla, nonostante gli attacchi del mistico Jan Ruysbroeck. Le sue idee sono state riprese e praticate dagli Homines intelligentiae, gli Uomini d'Intelligenza, processati a Bruxelles nel 1411 e che rifiutano tutti i comandamenti della Chiesa, difendono le libertà dell'amore, propugnano il diritto di seguire i propri desideri e rigettano i divieti promulgati dalle istituzioni clericali e secolari. Sono i loro seguaci che, sfuggendo alla repressione ed entusiasti delle notizie provenienti dalla Boemia, si unirono ai partigiani di Jan Zizka, il cui collettivismo aveva conquistato buona parte degli ussiti. I quali combattevano contro i cattolici, responsabili della morte sul rogo, a Costanza, nel 1415, del predicatore Jan Hus, ostile alla corruzione papale. Di fronte alla corrente libertaria degli adamiti, Zizka, di cui gli stalinisti fecero un eroe nazionale ceco, si comportò non meno crudelmente degli inquisitori e mandò in massa al rogo, nel 1421, uomini e donne il cui unico crimine era di voler vivere in un'innocenza edenica.

Si ritrova la dottrina del Libero Spirito in Isabel de la Cruz, condannata a Toledo nel 1529. Per lei e per coloro che saranno chiamati gli alumbrados, l'illuminazione che rivela la presenza di Dio porta a una tale perfezione che nessuno può più peccare, né venialmente né mortalmente. L'illuminazione rende liberi e sdogana da ogni autorità. Fare l'amore è unirsi con Dio. A Canillas, presso Salamanca, Francisca Hernandez (intorno al 1520) avrebbe raggiunto un tale grado di santità che la continenza non le era più necessaria. Nonostante le persecuzioni, un gruppo di alumbrados apparve ancora a Llerena intorno al 1578. Resi impeccabili dall'estasi orgasmica, sostenevano una vita di libertà e amore, agli antipodi del puritanesimo e del culto della carogna propagato dal cristianesimo (uno di loro, deridendo la Passione di Cristo, diceva: “A che scopo preoccuparsi ogni giorno della morte di quest'uomo!”).

Éloi Pruystinck di Anversa fa parte del movimento della corrente libertaria ostile al cattolicesimo e al protestantesimo. Di mestiere riparatore di tetti, fu uno degli ingannati dagli attacchi di Lutero contro Roma. Nel 1525 attraversa la Germania per andare, con candore, a esporre le sue idee libertarie a colui che aveva appena raccomandato ai nobili di sterminare i contadini stimolati dal suo spirito di rivolta. Lutero si affrettò a denunciare ai magistrati di Anversa "un serpente scivolato tra le anguille". Arrestato nel febbraio 1526 con nove suoi amici, è condannato a una pena lieve: la pubblica penitenza e l'uso di un cartello che lo designasse come eretico. Attorno a lui si forma un gruppo in cui dei ricchi mercanti si affiancano a poveri lavoratori, uniti dal desiderio di godere dei piaceri della vita, di stabilire tra loro legami di solidarietà, di ricercare la propria felicità stando attenti a non nuocere a nessuno. Tra i Loisti, i poveri accedono a un'esistenza senza preoccupazioni pecuniarie, grazie a una consapevolezza per cui i ricchi si abbandonano ai piaceri, senza dover temere né il rimorso né il peccato né le angosce dei possidenti né il risentimento dei diseredati. Non si direbbe forse un primo abbozzo del progetto di Fourier, o dell’abbazia di Thélème immaginata da Rabelais? La repressione si è abbattuta sui Loisti nel 1544. Diversi furono decapitati. Éloi è stato bruciato il 24 ottobre.

Tuttavia, si diffondono a Lilla, con un certo Coppin, a Rouen, su iniziativa di Claude Perceval, e fino alla corte di Marguerite di Navarra, a Nérac, le idee di coloro che Calvino fustigherà con il nome di "libertini spirituali". Nel 1546 il dittatore di Ginevra denuncia ai magistrati di Tournai il sarto Quintin Thiery, che si fa beffe delle Scritture, rifiuta il peccato e la colpa e conduce una vita gioiosa proponendo a tutti di seguire i propri desideri senza preoccuparsi delle favole evangeliche. Quintin e i suoi amici saranno giustiziati a Tournai nel 1546.

Si dovrebbe anche ricordare Noël Journet, bruciato a Metz (1582) dai protestanti per aver evidenziato le incongruenze, le assurdità e gli orrori della Bibbia; Geoffroy Vallée, giustiziato a Parigi nel 1574 perché, rifiutando ogni credenza, redigeva quest’osservazione: «Tutte le religioni si sono preoccupate di togliere all'uomo la felicità del corpo in Dio per renderlo sempre più miserabile».

“Noi neghiamo Dio e lo precipitiamo dalle sue altezze, rigettando il tempio con tutti i suoi sacerdoti. Ciò che basta, a noi coscienziosi, è la scienza non di uno solo ma del maggior numero. Questa coscienza che la natura, madre benevola degli umili, ha concesso a tutti gli uomini, al posto delle Bibbie”. Queste parole sono di Thomas Knutzen (1646-1674?). Ovunque vada, il giovane agitatore diffonde i suoi opuscoli contro la religione, i concistori e l'aristocrazia. Accrediterà l'esistenza del movimento internazionale dei "coscienziosi" dove si è fatto portavoce di tutti i sostenitori della libertà individuale e della distruzione di ogni autorità. Infatti, i suoi scritti, pubblicati clandestinamente da suoi emuli, passarono per la Francia dove Naigeon li fece conoscere all'amico Diderot. Si perdono le tracce, nel 1674, di questo poeta della libertà la cui vita fu un vagabondaggio e una lotta permanente.

Non voglio aggiungere passaggi collaterali ai percorsi ufficiali della storia. Non voglio che un tribunale culturale anatemizzi i monarchi sanguinari, i generali guerrafondai, gli inquisitori di ogni genere, gli assassini ingiustamente onorati di statue e celebrati nei pantheon della memoria: Bonaparte, responsabile di milioni di morti; Luigi XIV, persecutore dei protestanti e del libero pensiero; Lutero, massacratore dei contadini; Calvino, assassino di Jacques Gruet e Michel Servet; Leopoldo II del Belgio, uno dei criminali più cinici del diciannovesimo secolo, la cui pratica del “caoutchouc rouge"[1] non ha finora scosso le coscienze. Esprimo solo l'auspicio che al repertorio dei loro ripugnanti panegirici si aggiunga l'elenco dei loro delitti, la menzione delle loro vittime, il ricordo di chi li ha affrontati. Perché è bene che sia insegnata la conoscenza degli esseri che, in nome della generosità umana, li hanno denunciati. In questi tempi di servitù volontaria, è salutare ricordare l'audacia dei resistenti alla tirannia, perché è da quest’audacia che va oggi a dipendere il destino degli Uomini e della Terra.

 

 

Raoul VANEIGEM Offensiva, n° 28, dicembre 2010. Questo testo è apparso su Dias rebeldes. Crónicas de insumisión, opera collettiva in spagnolo, Octaedro, 2009.

 



[1] Schiavismo, lavori forzati, torture e mutilazioni subite dagli autoctoni del Congo colonizzato dal Belgio di Leopoldo II (NdT).




Frères du libre esprit

Je préfère le chemin que je fraie à celui que je trouve. Seuls les drapeaux s’accommodent des voies tracées.

 

Aucune époque n’a disposé comme la nôtre des possibilités d’affranchir l’homme de l’oppression et jamais un tel manque de conscience n’a propagé autant de résignation, d’apathie, de fatalisme. Esclave, depuis des millénaires, d’une économie qui exploite son travail, l’homme a si peu misé sur son autonomie et sur ses facultés créatrices qu’il risque de se laisser emporter par la révolte impuissante, le ressentiment et cette peste émotionnelle si prompte à aveugler l’intelligence sensible et à se jeter dans la barbarie. Ceux qui jadis bravaient l’armée, la police, la mitraille et les tanks s’indignent en manifestant à date fixe mais n’osent pas affronter leurs patrons de peur de perdre un emploi que l’effondrement du système est en train de leur ôter. L’idée ne leur vient même pas d’occuper des usines qu’ils sont seuls capables de faire marcher, alors que l’incompétence des hommes d’affaires les liquide en les jouant en Bourse, en les perdant, en licenciant les travailleurs et en poussant le cynisme jusqu’à leur faire rembourser les sommes escroquées.

Comme le confirment partout les élections dites « libres », la débilité des gouvernements n’a d’autre support que la débilité croissante des foules, s’épuisant en résignation amère et en colères sans lendemain. La société de consommation a transformé les citoyens en démocrates de supermarché, dont la jouissance fictive s’assume à court terme et dans la crainte de n’avoir pas, à long terme, de quoi la payer. La pensée s’est faite larvaire. Elle se nourrit d’idées reçues, ridiculisées depuis des décennies. On voit ressurgir les détritus de ce nationalisme, cause d’innombrables guerres et de massacres. Il n’est pas jusqu’aux religions en déroute qui ne tentent de se relever en prenant appui sur la vogue d’un mahométisme où la foi religieuse s’efface de plus en plus au profit du populisme.

Nous sommes environnés de moutons qui rêvent de devenir bouchers. C’est à la mort et au déclin qu’ils croient le plus fermement. Ils sont épris de leurs terreurs. Plus ils savent qu’ils s’enliseront dans l’ornière et n’atteindront qu’à des impasses, mieux ils s’obstinent à dépérir dans le confort de la décrépitude auquel leur science se consacre.

Pourtant il faudra bien qu’ils se réveillent, maintenant que le capitalisme s’effondre, implose comme cet empire dit « communiste », hier encore réputé invincible. Il faudra bien qu’ils lâchent prise, ceux qui s’y accrochaient en le consommant et ceux qui s’y engluaient dans une critique rageuse et stérile. Il faudra bien qu’ils réapprennent à se redresser, à marcher, à rejeter les béquilles imposées par un pouvoir qui, depuis des siècles, les persuade de leur incapacité de se gouverner eux-mêmes. N’est-ce pas le moment de rappeler les mots de Loustalot, proclamant lors de la Révolution française : « Les grands ne sont grands que parce que nous sommes à genoux. Levons-nous ! » N’est-ce pas le moment de restaurer l’autonomie des individus et de jeter les bases d’une société autogérée ?

En révoquant un passé d’oppression, nous redécouvrons le cours de l’émancipation qui, tel un fleuve souterrain, n’a jamais cessé de saper les stratifications de la barbarie. La Commune de Paris, les conseils d’ouvriers, de paysans et de soldats dans la Russie de 1917, les soviets de marins à Cronstadt en 1921, les collectivités libertaires d’Andalousie, de Catalogne et d’Aragon de 1936-1937 remettent en lumière une expérience psychologique et sociale qui, interrompue prématurément par une impitoyable répression, n’a fait que s’esquisser et aspire à se poursuivre et à s’affiner. Ce qui a été soigneusement occulté par l’histoire officielle reparaît aujourd’hui dans son insolente modernité. Si les pionniers de la liberté individuelle et collective ressurgissent du passé, n’est-ce pas que notre présent a besoin de leur exemple pour restaurer une volonté d’émancipation, ensommeillée depuis des décennies ?

À la croisée de nos chemins surgissent des êtres aussi divers que Jörg Ratgeb, Jöst Fritz, Sébastien Castellion, La Boétie, Cyrano de Bergerac, Jean Meslier, Henri Joseph Du Laurens, Robert Misson, Matthias Knützen, Twistelwood, Blake, Hölderlin, John Brown, Claire Démar, Tahiri (dite Qurratu’l-Ayn), Ernest Cœurderoy, Ravachol, Louise Michel, Bonnot, Mecislas Goldberg, Marius Jacob, Flores Magón, Pouget, Albert Libertad, Zo d’Axa, les soldats qui se mutinèrent contre la grande boucherie de 1914-1918, Anton Ciliga, Victor Serge, Jan Valtin, Vassili Grossmann, Ret Marut dit Traven, Sabaté, Ascaso, Durruti, Constant Malva, Manouchian, Armand Robin, Joe Hill, Frank Little, Jean Malaquais, Maurice Blanchard, Arthur Koestler, Walter Benjamin, Ödön von Horváth, Victor Kravchenko et tant d’autres qui, dans une indicible solitude, se dressèrent contre l’oppression et contre l’imposture des libertés marchandes. Comment ne pas saluer au passage les combattants juifs du Bund qui luttèrent à la fois contre l’antisémitisme et contre la cochonnerie religieuse inculquée dès l’enfance, parce qu’ils combattaient avant tout l’exploitation de l’homme par l’homme ?

En ramenant au grand jour le Mouvement du Libre-Esprit, que l’histoire frelatée du christianisme s’employait à dissimuler, j’ai montré qu’à l’encontre du mensonge, communément reçu, d’une religiosité omniprésente au Moyen Âge, la résistance à la prégnance chrétienne n’a cessé, du XIIe au XVIe siècle, d’opposer au puritanisme hypocrite de l’Église et à son mépris de la nature humaine et terrestre la liberté des désirs, de la jouissance amoureuse, de l’affranchissement individuel et de la solidarité.

On doit au Karmate Abou Tahir, qui, en 930, s’était emparé de La Mecque, pillant la ville, massacrant les pèlerins et s’emparant de la Pierre Noire, le propos : « En ce monde, trois individus ont corrompu les hommes : un berger [Moïse], un médecin [Jésus] et un chamelier [Mohammed]. Et ce chamelier a été le pire escamoteur, le pire prestidigitateur des trois. » Il a non seulement inspiré Averroès qui déclare : « La religion judaïque est une loi d’enfants, la chrétienne une loi d’impossibilité et la mahométane une loi de pourceaux. » Il a aussi accrédité l’existence du Livre des trois imposteurs, ou De l’inanité des religions, qui hante l’imagination du Moyen Âge sans que l’on n’ait jamais trouvé sa trace (il a été attribué à Frédéric II ou à son chancelier, Pierre de La Vigne, mais sa seule version connue, antidatée 1598, a été composée vers 1753). On en retrouve pourtant des échos chez le Portugais Thomas Scoto, professeur à l’école des Décrétales de Lisbonne, poursuivi en 1344 par l’Inquisition pour avoir nié les dogmes, assuré que le monde serait mieux gouverné par les philosophes que par les théologiens et déclaré : « Trois imposteurs ont trompé le monde. Moïse a trompé les juifs, Jésus les chrétiens et Mahomet les sarrasins ». Brûlé à La Haye en 1512, Herman de Rijswijck affirmait : « Le monde a été de toute éternité et n’a pas commencé par la création, qui est une invention du stupide Moïse », « le Christ fut un imbécile et le séducteur des hommes simples », « j’estime que notre foi est une fable comme le prouvent les bouffonneries de notre Écriture, les légendes bibliques et le délire évangélique ».

La démarche des partisans du Libre-Esprit professe moins le refus de la religion que son dépassement. Dieu est nié en ce sens qu’étant présent en chacun il suffit d’en prendre conscience pour s’affranchir des entraves et des lois du pouvoir spirituel et temporel.

Groupés autour du philosophe Amaury de Bène, les amauriciens seront exécutés en 1209 parce qu’ils niaient le péché et prônaient la prééminence du désir. La béguine picarde Marguerite Porète subira le même sort en 1310 pour avoir identifié Dieu et les libertés de nature dans son livre Le Miroir des simples âmes (le texte nous est parvenu avec d’évidentes interpolations, visant à lui prêter un sens purement mystique). À la même époque, la Bruxelloise Blœmardinne (vers 1250-1335) identifie l’amour charnel à la perfection du Dieu que chacun porte en soi. Son rayonnement était tel que l’Inquisition n’osa sévir contre elle, en dépit des attaques du mystique Jan Ruysbroeck. Ses idées sont reprises et pratiquées par les Homines intelligentiae, les Hommes de l’intelligence, poursuivis à Bruxelles en 1411 et qui rejettent tous les mandements de l’Église, défendent les libertés de l’amour, prônent le droit de suivre ses désirs et rejettent les interdits promulgués par les institutions cléricales et laïques. Ce sont leurs adeptes qui, fuyant la répression et enthousiasmés par les nouvelles venues de Bohème, rejoignirent les partisans de Jan Zizka dont le collectivisme avait séduit une bonne partie des hussites. Ceux-ci menaient la guerre aux catholiques, responsables de la mort sur le bûcher, à Constance, en 1415, du prédicateur Jan Hus, hostile à la corruption papale. Confronté au courant libertaire des Pikarti ou adamites, Zizka, dont les staliniens firent un héros national tchèque, ne se comporta pas moins cruellement que les inquisiteurs et envoya massivement au bûcher, en 1421, des hommes et des femmes dont le seul crime était de vouloir vivre dans une innocence édénique.

On retrouve la doctrine du Libre-Esprit chez Isabel de la Cruz, condamnée à Tolède en 1529. Pour elle et ceux que l’on appellera les alumbrados, l’illumination qui révèle la présence de Dieu conduit à une telle perfection que nul ne peut plus pécher, ni véniellement ni mortellement. L’illumination rend libre et délie de toute autorité. Faire l’amour, c’est s’unir avec Dieu. À Canillas, près de Salamanque, Francisca Hernandez (vers 1520) passe pour avoir atteint un tel degré de sainteté que la continence ne lui est plus nécessaire. Malgré les persécutions, un groupe d’alumbrados se manifesta encore à Llerena vers il 1578. Rendus impeccables par l’extase orgasmique, ils prônaient une vie de liberté et d’amour, aux antipodes du puritanisme et du culte de la charogne propagé par le christianisme (l’un d’eux, raillant la Passion du Christ, disait : « À quoi bon se préoccuper chaque jour de la mort de cet homme ! »).

Éloi Pruystinck d’Anvers s’inscrit dans la mouvance du courant libertaire hostile au catholicisme et au protestantisme. Couvreur de son métier, il est de ceux qu’illusionnent les attaques de Luther contre Rome. En 1525, il traverse l’Allemagne pour aller, dans sa candeur, exposer ses idées libertaires à celui qui venait de recommander aux nobles d’exterminer les paysans stimulés par son esprit de révolte. Luther s’empressa de dénoncer aux magistrats d’Anvers « un serpent qui s’est glissé parmi les anguilles ». Arrêté en février 1526 avec neuf de ses amis, il est condamné à un châtiment léger : la pénitence publique et le port d’un signe le désignant comme hérétique. Autour de lui se constitue un groupe où de riches marchands côtoient de pauvres ouvriers, unis par le désir de jouir des plaisirs de la vie, d’établir entre eux des liens de solidarité, de rechercher leur bonheur dans le souci de ne nuire à personne. Parmi les loïstes, les pauvres accèdent à une existence sans souci pécuniaire, à la faveur d’une prise de conscience où les riches se livrent aux plaisirs, sans avoir à redouter ni les remords ni le péché ni les angoisses des possédants ni le ressentiment des dépossédés. Ne croirait-on pas à une première esquisse du projet de Fourier, voire de la Thélème imaginée par Rabelais ? La répression s’abattit sur les loïstes en I544. Plusieurs furent décapités. Éloi fut brûlé le 24 octobre.

Cependant se propagent à Lille, avec un nommé Coppin, à Rouen, à l’initiative de Claude Perceval, et jusqu’à la cour de Marguerite de Navarre, à Nérac, les idées de ceux que Calvin fustigera du nom de « libertins spirituels ». En 1546, le dictateur de Genève dénonce aux magistrats de Tournai le tailleur Quintin Thiery, qui raille les Écritures, rejette le péché et la culpabilité et mène joyeuse vie en proposant à chacun de suivre ses désirs sans se préoccuper des fables évangéliques. Quintin et ses amis seront exécutés à Tournai en 1546.

Il faudrait citer encore Noël Journet, brûlé à Metz (1582] par les protestants pour avoir relevé les incohérences, les absurdités et les horreurs de la Bible ; Geoffroy Vallée, exécuté à Paris en 1574 parce que, rejetant toutes les croyances, il dressait ce constat : « Toutes les religions ont observé d’ôter à l’homme la félicité du corps en Dieu afin de le rendre toujours plus misérable. »

« Nous nions Dieu et nous le précipitons de ses hauteurs, rejetant le temple avec tous ses prêtres. Ce qui nous suffit à nous, conscientaires, c’est la science non d’un seul mais du plus grand nombre. Cette conscience que la nature, mère bienveillante des humbles, a accordé à tous les hommes, à la place des Bibles. » Ces mots sont de Thomas Knutzen (1646-1674 ?). Partout où il passe, le jeune agitateur essaime ses pamphlets contre la religion, les consistoires et l’aristocratie. Il accréditera l’existence du mouvement international des « conscientaires » où il se faisait le porte-parole de tous les partisans de la liberté individuelle et de la destruction de toute autorité. De fait, ses écrits, publiés clandestinement par des émules, passèrent en France où Naigeon les fit connaître à son ami Diderot. On perd la trace, en 1674, de ce poète de la liberté dont la vie fut une errance et un combat permanent.

Je ne souhaite pas ajouter des contre-allées aux voies officielles de l’histoire. Je ne veux pas qu’un tribunal culturel anathématise les monarques sanguinaires, les généraux fauteurs de guerre, les inquisiteurs en tout genre, les tueurs incongrûment statufiés et célébrés dans les panthéons de la mémoire : Bonaparte, responsable de millions de morts ; Louis quatorzième, persécuteur des protestants et de la libre-pensée ; Luther, massacreur des paysans ; Calvin, assassin de Jacques Gruet et de Michel Servet ; Léopold II de Belgique, un des plus cyniques criminels du XIXe siècle, dont la pratique du « caoutchouc rouge » n’a guère ému jusqu’à présent les consciences. J’émets seulement le vœu qu’au répertoire de leurs répugnants panégyriques viennent s’ajouter la liste de leurs forfaits, la mention de leurs victimes, le souvenir de ceux qui les affrontèrent. Car il est bon que soit enseignée la connaissance des êtres qui, au nom de la générosité humaine, les ont dénoncés. En ces temps de servitudes volontaire, il est salutaire de rappeler l’audace des résistants à la tyrannie, car c’est de cette audace-là que va dépendre aujourd’hui le sort des Hommes et de la Terre.

Raoul VANEIGEM Offensive, n° 28, décembre 2010. Ce texte a paru dans Dias rebeldes. Crónicas de insumisión, ouvrage collectif en espagnol, Octaedro, 2009.

giovedì 24 novembre 2022

APPELLO COLLETTIVO ALLA SOLIDARIETA' CON GLI INSORTI DELL'IRAN

 


Se ovunque nel mondo le insurrezioni si accendono, si spengono e si ravvivano sotto i pretesti più diversi, è perché esse rispondono meno alla paura della borsa della spesa vuota delle famiglie quanto a un movente più potente, che è la volontà di milioni di esseri di vivere secondo la libertà dei loro desideri. Eppure sono questi desideri, che i bambini ereditano alla nascita, che un sistema economico e sociale basato sul profitto si è proposto di reprimere desertificando la terra che li nutre.

Già gli zapatisti del Messico, i Gilet Gialli di Francia, la resistenza del Rojava avevano dimostrato che l'ostinazione di essere là nella quieta ostinazione della vita sempre rinascente dispensava dal cadere nell'ideologia della vittoria e della sconfitta che ha così a lungo posto le rivoluzioni sotto linsegna della morte.

Quanto sta accadendo in Iran illustra una situazione che impedisce qualsiasi ritorno indietro. Il movimento non sa che farsene di petizioni, fa a meno delle manifestazioni catartiche in cui si torna a casa una volta compiuto il proprio dovere, ha bisogno della presa di coscienza di individui anonimi di fronte alla scelta di vivere o sparire. Sono questi individui autonomi che spingeranno verso la vita un mondo che ha avuto solo un'esistenza mortifera. È sufficiente che il loro pensiero si irradi.

Questa coscienza distruggerà i tentativi di recupero che il disordine statale e mondialista opera ignorando un fenomeno radicalmente nuovo: la lotta ha cambiato base.

  

Documento trasmesso da iraniani in lotta



APPEL COLLECTIF À LA SOLIDARITÉ AVEC LES INSURGÉES ET LES INSURGÉS D’IRAN

 

Si partout dans le monde des insurrections s’allument, s’éteignent et se ravivent sous les prétextes les plus divers, c’est qu’elles répondent moins à la hantise du panier vide des ménages qu’à un mobile plus puissant, qui est la volonté de millions d’êtres de vivre selon la liberté de leurs désirs. Or ce sont ces désirs, dont les enfants héritent en naissant, qu’un système économique et social fondé sur le profit a entrepris de réprimer en désertifiant la terre qui les nourrit.

Déjà les zapatistes du Mexique, les Gilets jaunes de France, la résistance du Rojava avaient montré que l’obstination d’être là dans la tranquille obstination de la vie toujours renaissante dispensait de verser dans l’idéologie de la victoire et de la défaite qui a si longtemps placé les révolutions sous l’enseigne de la mort.

Ce qui se passe en Iran illustre une situation qui empêche tout retour en arrière. Le mouvement n’a que faire de pétitions, il se passe de ces manifestations cathartiques où l’on rentre à la maison une fois le devoir accompli, il a besoin de la prise de conscience d’individus anonymes confrontés au choix de vivre ou de disparaître. Ce sont ces individus autonomes qui feront basculer vers la vie un monde qui n’a eu d’existence que mortifère. Il suffit que leur pensée rayonne.

Elle brisera les tentatives de récupération que la gabegie étatique et mondialiste met en œuvre en ignorant un phénomène d’une radicale nouveauté : la lutte a changé de base.

 

 



venerdì 18 novembre 2022

Geografia della lotta sociale - Dalla difesa del territorio al sollevamento della terra

 





Una delle caratteristiche principali del nostro tempo è la concentrazione della popolazione in grandi agglomerati impersonali illimitati, strutturati solo da assi stradali, frutto della globalizzazione, o più chiaramente, della dissoluzione di un capitalismo di nazioni in un capitalismo di regioni urbane interconnesse. Il fenomeno è noto come metropolizzazione. Il tipo di insediamento che ne deriva, la metropoli, determina una nuova forma di relazione e di governo, quindi una diversa cultura, individualistica e consumistica, e un diverso stile di vita, più artificiale e dipendente, più industriale e commercializzato, determinato quasi interamente dagli imperativi dell'esternalizzazione produttiva. Le metropoli, infatti, sono soprattutto i più idonei centri di accumulazione di capitale per la globalizzazione degli scambi finanziari, evento direttamente responsabile dei disastri ecologici e sociali che ci colpiscono. L'urbanizzazione intensiva che li alimenta non è altro che il violento riadattamento del territorio alle esigenze evolutive dell'economia globale. L'area metropolitana è la concrezione spaziale della società globalizzata. In questa fase, la crescita economica è fondamentalmente distruttiva, insostenibile, tossica e quindi conflittuale. Gli effetti sulla salute fisica e mentale della popolazione concentrata sono terribili e il danno ambientale è simile a quello di una guerra contro le campagne e la natura: desertificazione e salinizzazione del suolo, acidificazione degli oceani, rottura dei cicli biologici, inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei terreni, l'accumulo di rifiuti, lo spreco energetico, l'esaurimento delle risorse, la perdita di biodiversità, il riscaldamento globale, ecc. Allo stesso tempo, le economie indigene sono rovinate, poiché la produzione locale di beni e cibo non può competere con la grande produzione industriale. Di conseguenza, l'agricoltura tradizionale, la piccola produzione e il piccolo commercio tendono a scomparire a favore delle piattaforme logistiche, dell'industria delocalizzata e dei supermercati. Proprio come è successo con gli artigiani agli albori del capitalismo moderno, il contadino diventa superfluo e la sua cultura obsoleta. Il territorio inarrestabilmente si svuota e si degrada; gli abitanti di paesi e piccole città migrano verso agglomerati urbani sempre più inabitabili dove regnano la disuguaglianza e lo sradicamento, mentre le città di medie dimensioni ristagnano e declinano. Ora che l'industria agroalimentare è preponderante, il processo di svuotamento rurale può proseguire senza ostacoli, poiché è necessario per la completa conversione del territorio in capitale, in motore di sviluppo e fonte prioritaria di profitto.

 

     Oggi la questione sociale si manifesta sempre meno come esclusivamente lavorativa, avendo il mondo del lavoro perso la sua antica centralità. Neppure, però, come problematica circoscritta ai conglomerati urbani, per quanto le conseguenze indesiderabili della metropolizzazione formazione di ghetti periferici, inquinamento atmosferico, servizi pubblici insufficienti o inesistenti, gentrificazione, precarietà, sfratti, povertà, ecc. danno origine a numerose proteste. Il territorio, opportunamente spopolato e fortemente sbilanciato e impoverito dalle pratiche estrattive, si diversifica come fonte di reddito e acquisisce peculiarità economiche complementari a quelle della conurbazione: riserva edificabile, supporto contenitore di infrastrutture, produttore di risorse energetiche, luogo di agricoltura industriale e allevamento intensivo, spazio per il tempo libero, seconde case o turismo rurale... L'aggressione del territorio produce involontariamente uno spostamento geografico dell'asse delle lotte, che nei paesi turbo capitalisti affluiscono in sua difesa. La questione sociale riappare dunque come questione territoriale, e, dato lo spopolamento rurale quasi assoluto nello Stato spagnolo, con il conseguente abbandono di decine di migliaia di piccole aziende agricole e di milioni di ettari di coltivazioni la sua espressione più autentica anche se più difficile è il ritorno alla campagna. Tuttavia, un vero soggetto collettivo con un obiettivo unificante e chiaramente trasformatore non riesce a concretizzarsi.

 

   I neorurali non costituiscono da nessuna parte un collettivo numericamente sufficiente per formare un soggetto politico con i giovani abitanti del posto, i ricercatori dissidenti, le donne e i contadini residui. Il soggetto si costituisce con la segregazione radicale di un gruppo anticonformista che vuole costruire il proprio mondo; al contrario, l'opposizione al cancro dello sviluppo non si discosta affatto dai metodi convenzionali. Spesso ricorre alla mediazione della politica tradizionale e accetta la coabitazione con il vecchio ordine sociale. Non si tratta di amministrazione comunale, di accesso popolare alla terra o di smantellamento del suo sfruttamento industriale. Nonostante tutto, nel territorio si dispiegano più a fondo tutte le contraddizioni del capitalismo e dello statalismo, ma il dominio il sistema, il potere, la classe dirigente è ancora capace di neutralizzarle con meccanismi di cooptazione e formule di stabilizzazione tipo l'“economia sociale”, la “transizione energetica”, la “decrescita” non conflittuale o il “nuovo patto verde”. La difesa del territorio è oggettivamente anticapitalista, ma soggettivamente non lo è ancora. L'esodo rurale ha messo fine alla società contadina in Europa e ha reso impossibile la comunione d’interessi nelle campagne e quindi la formazione di una classe solida e attiva. Per questo si dà il caso di un soggetto allo stato gassoso, concretizzato in “entità”, piattaforme o coordinazioni, che cerca di cambiare la società senza disturbare le sue élites mentre cerca di uscire dal capitalismo senza sfondare la porta. Per questo, l'attuale difesa del territorio è incapace di capovolgere la situazione nonostante il contributo non trascurabile delle masse peri-urbane insoddisfatte, poiché l'obiettivo proclamato consiste solo nel cambiare il "modello di sviluppo", presupponendo, grazie a una benevola disposizione delle istituzioni “ripensate” o “reinventate” non si sa da chi, di non porre fine al capitalismo, alla gerarchia e allo Stato. In verità, sulla difesa del territorio pende la spada di Damocle dell'istituzionalizzazione, della promozione di dirigenti e di un disordine incanalato. Solo un collasso urbano potrebbe alterare tali limiti, tenendo conto che le metropoli sono sempre più vulnerabili e che i problemi derivanti dal cambiamento climatico o dalle difficoltà nell'approvvigionamento idrico, elettrico, di combustibili o di cibo potrebbero facilmente renderle invivibili.

 

     Solo nelle terre dell'America Latina, alcune condizioni storiche contrarie a ciò che i dirigenti chiamano "progresso" hanno permesso la sopravvivenza di un numero importante di contadini, in parte indigeni, che ha mantenuto le sue tradizioni comunitarie di autoproduzione, autodifesa e autogestione. Lì, la resistenza all'assalto della globalizzazione ha potuto ricostruire un'identità rivoluzionaria ossia una classe pericolosa. L'attività eminentemente difensiva delle comunità rurali ha posto il problema agrario al centro della questione sociale, irradiando l'influenza della campagna sui quartieri emarginati della città. In questo modo la difesa del territorio fa un salto di qualità verso il sollevamento della terra e diventa lo specchio in cui va vista la lotta urbana. Politicamente, con la rivendicazione del potere di decisione della sovranità da parte delle assemblee territoriali autonome; economicamente, con la volontà di trasferire le risorse dalla metropoli alla campagna; socialmente, con le pratiche di autogestione e auto-organizzazione. Indubbiamente, in questo contesto di contraddizioni emergenti che impediscono al sistema dominante di presentarsi come parte principale della soluzione, come fa da noi, si accentua l'antagonismo tra il campo comunitario e l’estrattivismo industriale, divenendo, a vista di tutti, insolubile nell'ambito di un regime capitalista e statalista. Ogni passo avanti nella produzione e distribuzione alternative, ogni terra occupata, ogni gerarchia abolita, significherà una battuta d'arresto del regime suddetto, cioè del dominio, per cui ci si può aspettare una controffensiva alla quale parare, che, logicamente, sarà autoritaria nella sua concezione e poliziesca e pure militare se la situazione lo richiede, nella sua realizzazione.

 

Non intendo il sollevamento della terra come una mera espressione tipica della neolingua della sinistra domestica, né penso che con essa si alluda al sollevamento retorico di un 15M o alle innocenti rivendicazioni rivolte ai governi dello pseudo-movimento di Estinzione-Ribellione o dei collapsologi patentati. Il sollevamento della terra va inteso nel suo significato letterale: la rivolta contro il potere costituito da parte di un ampio settore della popolazione eretto in soggetto collettivo in classe – che vuole vivere secondo i suoi desideri, senza mediazioni esterne, e per questo esige cambiamenti sociali rivoluzionari nell’economia, nella politica e nella società. È una risposta insurrezionale contro le conseguenze catastrofiche della crescita economica e anche la fase culminante di un processo di lotta sociale. Nei paesi senza agricoltori il processo sta appena iniziando; si cerca la strada a tentoni, attraverso discussioni, liberazione di spazi, scaramucce ed esperimenti. L'obiettivo è una società civile composta di comunità autorganizzate, radicate nella terra, separate il più possibile dallo Stato e dai “mercati”, dunque disurbanizzate, destatalizzate e de-globalizzate. Il che, ovviamente, non si realizza con SMS (l'arma preferita di Negri), simulacri circensi, denunce misurate alle autorità o manuali di collassologia. Per uscire dal capitalismo bisogna affrontarlo con decisione. Tuttavia, nonostante il moltiplicarsi di situazioni critiche di ogni genere e le implicite minacce di collasso, il regime capitalista e statalista continua a riprodursi perché trova lungo il cammino nuovi alleati con cui perseverare nella stessa dinamica di potere e di crescita. Le predizioni apocalittiche non lo spaventano, anzi. La catastrofe lo nutre. Così, non lo fermeranno le sfilate carnevalesche, le candidature elettorali, le prodigiose formule associative o qualsiasi altro tipo di sostituto convivialista. Tutto ciò fa parte del suo mondo. Come si diceva un tempo, alla guerra come alla guerra, anche se in realtà si tratta di sfuggirla.

 

Miguel Amorós, 15 novembre 2022

 

 

Per il ciclo di dibattiti online Sublevaciones de la Tierra, moderato dalla rivista Soberanía Alimentaria.

  




GEOGRAFÍA DEL COMBATE SOCIAL

De la defensa del territorio a la sublevación de la tierra

 

     Una de las características principales de nuestro tiempo es la concentración de la población en grandes aglomeraciones impersonales ilimitadas, vertebradas únicamente por ejes viarios, fruto de la globalización, o más claramente, de la disolución de un capitalismo de naciones acotadas en un capitalismo de regiones urbanas interconectadas. El fenómeno se conoce como metropolitanización. El tipo de asentamiento resultante, la metrópolis, determina una nueva forma de relación y de gobierno, luego una cultura distinta, individualista y consumista, y un estilo de vida diferente, más artificial y dependiente, más industrial y mercantilizado, determinado casi enteramente por los imperativos de la terciarización productiva. En efecto, las metrópolis son antes que nada los centros de acumulación de capitales más idóneos para la mundialización de los intercambios financieros, suceso responsable directo de los desastres ecológicos y sociales que nos asolan. La urbanización intensiva que las alimenta no es más que la readaptación violenta del territorio a las exigencias desarrollistas de la economía global. El área metropolitana es la concreción espacial de la sociedad globalizada. En esta fase, el crecimiento económico es fundamentalmente destructivo, insostenible, tóxico, y por consiguiente, conflictivo. Los efectos sobre la salud física y mental de la población concentrada son terribles y los daños ambientales se asemejan a los de una guerra contra el campo y la naturaleza: desertificación y salinización de suelos, acidificación de océanos, rotura de los ciclos biológicos, polución del aire, las aguas y las tierras, acumulación de basuras, despilfarro energético, agotamiento de recursos, pérdida de la biodiversidad, calentamiento global, etc.. Paralelamente, las economías autóctonas se arruinan, pues la producción local de bienes y alimentos no puede competir con la gran producción industrial. En consecuencia, la agricultura tradicional, la pequeña producción y el pequeño comercio tienden a desaparecer en favor de las plataformas logísticas, la industria deslocalizada y las grandes superficies. Igual que pasó con los artesanos en el periodo de arranque del capitalismo moderno, el campesinado se vuelve superfluo, y su cultura, obsoleta. El territorio se vacía imparablemente y se degrada; los habitantes de los pueblos y pequeñas ciudades emigran a las cada vez más inhabitables conurbaciones donde reina la desigualdad y el desarraigo, mientras que las urbes medianas se estancan y declinan. Cuando la industria agroalimentaria es preponderante, el proceso de vaciado rural puede proseguir sin obstáculos, pues es necesario para la conversión completa del territorio en capital, motor de desarrollo desbocado y fuente mayor de beneficios.

 

     La cuestión social hoy menos que nunca se manifiesta como exclusivamente laboral, habiendo perdido el mundo del trabajo su antigua centralidad. Tampoco como problemática circunscrita a los conglomerados urbanos, por más que las consecuencias indeseables de la metropolitanización formación de guetos periféricos, contaminación atmosférica y lumínica, ruido, servicios públicos insuficientes o inexistentes, gentrificación, precariedad, desahucios, pobreza, etc. originen numerosas protestas. El territorio, convenientemente despoblado y ferozmente desequilibrado y esquilmado por prácticas extractivistas, se diversifica como manantial de ingresos y adquiere peculiaridades económicas complementarias a las de la conurbación: reserva urbanizable, soporte y contenedor de infraestructuras, productor de recursos energéticos, lugar de la agricultura industrial y la ganadería intensiva, espacio para el ocio, la segunda residencia o el turismo rural... La agresión al territorio produce involuntariamente un desplazamiento geográfico del eje de las luchas, que en los países turbocapitalistas ocurren en su defensa. La cuestión social reaparece entonces como cuestión territorial, y, dada la despoblación rural casi absoluta en el estado español, con el consiguiente abandono de decenas de miles de pequeñas explotaciones y millones de hectáreas de cultivo su expresión más auténtica aunque más dificultosa es la vuelta al campo. Sin embargo, un verdadero sujeto colectivo con una finalidad unificadora y transformadora clara no consigue concretarse.

 

     Los neorrurales no constituyen en ninguna parte un colectivo lo bastante numeroso como para formar con los jóvenes lugareños, los investigadores disidentes, las mujeres y el campesinado residual un verdadero sujeto político. El sujeto se constituye al segregarse radicalmente un grupo disconforme para construir su mundo; en cambio, la oposición al cáncer desarrollista en ninguna parte se distancia demasiado de los métodos convencionales. A menudo, recurre a la mediación de la política tradicional y acepta cohabitar con el viejo orden social. No se plantea la administración concejil, el acceso popular a la tierra o el desmantelamiento de su explotación industrial. A pesar de todo, en el territorio se despliegan con mayor profundidad todas las contradicciones del capitalismo y estatismo, pero la dominación el sistema, el poder, la clase dirigente aún es capaz de neutralizarlas con mecanismos de cooptación y fórmulas de estabilización del estilo de la “economía social”, el “desarrollo rural”, la “transición energética”, el “decrecimiento” no conflictual o el “nuevo pacto verde”. La defensa del territorio es objetivamente anticapitalista, pero subjetivamente todavía no lo es. El éxodo rural acabó con la sociedad campesina en Europa e hizo imposible la comunidad de intereses en el campo, y por lo tanto, la formación de una clase sólida y activa. Por eso, se da el caso de un sujeto en estado gaseoso, concretado en “entidades”, plataformas o coordinadoras, que busca cambiar la sociedad sin molestar a sus élites y trata de salir del capitalismo sin romper la puerta. Y por eso, la actual defensa del territorio es incapaz de revertir la situación a pesar de la contribución no desdeñable de las insatisfechas masas periurbanas, pues la meta proclamada consiste solo en “cambiar el modelo de desarrollo”, por supuesto, gracias a una benévola disposición de las instituciones “repensadas” o “reinventadas” por no se sabe quién, no en acabar con el capitalismo, la jerarquía y el Estado. En verdad, sobre la defensa del territorio pende la espada de Damocles de la institucionalización, la promoción de líderes y el malestar encauzado. Solamente un colapso urbano podría alterar tales limitaciones, habida cuenta de que las metrópolis son cada vez más vulnerables, ya que los problemas derivados del cambio climático o las dificultades en el suministro de agua, electricidad, combustibles o alimentos podrían fácilmente volverlas inviables.

 

     Únicamente en tierras latinoamericanas, determinadas condiciones históricas opuestas a lo que los dirigentes llaman “progreso” han permitido subsistir a un campesinado numeroso, en parte indígena, que mantuvo sus tradiciones comunitarias de autoproducción, autodefensa y autogobierno. Allí la resistencia a las acometidas de la globalización ha podido reconstruir una identidad revolucionaria, o sea, una clase peligrosa. La actividad eminentemente defensiva de las comunidades rurales ha colocado el problema agrario en el centro de la cuestión social, irradiando la influencia del campo sobre las barriadas marginadas de la urbe. Es así como la defensa del territorio da un salto cualitativo hacia la sublevación de la tierra y se convierte en espejo donde ha de contemplarse la lucha urbana. Políticamente, con la reivindicación del poder de decisión de la soberanía para las asambleas territoriales autónomas; económicamente, con la voluntad de transferir los recursos de la metrópolis al campo; socialmente, con las prácticas autogestionarias y autoorganizativas. Indudablemente, en ese contexto de contradicciones emergentes que impide al sistema dominante presentarse como parte principal de la solución, como hace por aquí, el antagonismo entre campo comunitario y extractivismo industrial se acentúa, volviéndose a la vista de todos irresoluble en el marco de un régimen capitalista y estatista. Cada trecho que se avance en la producción y distribución alternativas, cada terreno que se ocupe, cada jerarquía que se suprima, significará un retroceso de dicho régimen, o sea, de la dominación, por lo que cabrá esperar una contraofensiva a la que parar, que, lógicamente, será autoritaria en su concepción, y policial, incluso militar si la situación lo exige, en su realización.

 

     No entiendo la sublevación de la tierra como una mera expresión típica de la neo-lengua de la izquierda doméstica, ni creo que con ella se aluda al levantamiento retórico de un 15M o a las inocentes demandas dirigidas a los gobiernos de la seudomovida Extinción-Rebelión o de los colapsólogos patentados. Hay que entenderla en su significado literal: la revuelta contra el poder establecido de un amplio sector de la población erigido en sujeto colectivo en clase que quiere vivir según sus deseos, sin mediaciones exteriores, y para eso exige cambios revolucionarios en la economía, la política y la sociedad. Es una respuesta insurgente ante las consecuencias catastróficas del crecimiento económico y también la etapa culminante de un proceso de lucha social. En los países sin agricultores el proceso apenas está empezando; se busca el camino a través de tanteos, discusiones, liberación de espacios, escaramuzas y experimentos. El objetivo es una sociedad civil compuesta por comunidades autoorganizadas, con raíces en la tierra, separada lo más posible del Estado y de “los mercados”, y en consecuencia, desurbanizada, desestatizada y desglobalizada. Este desde luego no se alcanza con SMS (el arma preferida de Negri), simulacros circenses, quejas mesuradas a la autoridad o manuales de colapsología. Para salir del capitalismo hay que enfrentarse decididamente a él. Pero, a pesar de multiplicarse las situaciones críticas de todo tipo y las implícitas amenazas de derrumbe, el régimen capitalista y estatista continúa reproduciéndose, porque encuentra nuevos aliados por el camino con los que perseverar en la misma dinámica de poder y crecimiento. Las predicciones apocalípticas no le arredran, más bien lo contrario. La catástrofe lo nutre. Así pues, nunca le detendrán desfiles carnavalescos, candidaturas electorales, fórmulas asociativas prodigiosas o cualquier otra clase de sucedáneo convivencialista. Todo eso forma parte de su mundo. Tal como antes se decía, en la guerra como en la guerra, si es que realmente hay que evadirse de él.

 

Miguel Amorós, 15 de noviembre de 2022

 

Para el ciclo de debates online Sublevaciones de la Tierra, moderado por la revista Soberanía Alimentaria

 

 

GÉOGRAPHIE DU COMBAT SOCIAL

De la défense du territoire au soulèvement de la terre

 

 

    L'une des principales caractéristiques de notre époque est la concentration de la population dans de grandes agglomérations impersonnelles, sans limites, structurées uniquement par des axes routiers, résultat de la mondialisation ou, plus clairement, de la dissolution d'un capitalisme de nations en un capitalisme de régions urbaines interconnectées. Ce phénomène est connu sous le nom de métropolisation. Le type d'établissement qui en résulte, la métropole, détermine une nouvelle forme de relation et de gouvernement, puis une autre culture, individualiste et consumériste, et un autre style de vie, plus artificiel et dépendant, plus industriel et marchandisé, c'est-à-dire déterminé presque entièrement par les impératifs de la tertiarisation productive. En effet, les métropoles sont avant tout les centres d'accumulation du capital les mieux adaptés à la mondialisation des échanges financiers, événement directement responsable des désastres écologiques et sociaux qui nous frappent. L'urbanisation intensive qui les nourrit n'est rien d'autre que la réadaptation violente du territoire aux exigences développementalistes de l'économie mondiale. L'aire métropolitaine est la concrétisation spatiale de la société mondialisée. Dans cette phase, la croissance économique est fondamentalement destructrice, non durable, toxique et donc conflictuelle. Les effets sur la santé physique et mentale de la population concentrée sont terribles et les dégâts environnementaux ressemblent à ceux d'une guerre contre la campagne et la nature : désertification et salinisation des sols, acidification des océans, perturbation des cycles biologiques, pollution de l'air, de l'eau et des sols, accumulation de déchets, gaspillage énergétique, épuisement des ressources, perte de biodiversité, réchauffement climatique, etc. ... Dans le même temps, les économies indigènes sont ruinées, car la production locale de biens et de nourriture ne peut concurrencer la production industrielle à grande échelle. En conséquence, l'agriculture traditionnelle, la production à petite échelle et les petites entreprises tendent à disparaître au profit des plateformes logistiques, de l'industrie délocalisée et des grands supermarchés. Comme il est arrivé aux artisans à l'aube du capitalisme moderne, la paysannerie devient superflue et sa culture obsolète. Le territoire est de plus en plus vide et dégradé ; les habitants déracinés des villages et des petites villes migrent vers des agglomérations de plus en plus inhabitables où règnent l'inégalité et le déracinement, tandis que les villes moyennes stagnent et déclinent. Maintenant que l'industrie agroalimentaire est prédominante, le processus de vidage des campagnes peut se poursuivre sans entrave, car il est nécessaire à la conversion complète du territoire en capital, moteur du développement et source majeure de profit.

 

   La question sociale est aujourd'hui moins que jamais perçue comme une question exclusivement liée au travail, le monde du travail ayant perdu sa centralité d'antan. Il ne s'agit pas non plus d'un problème limité aux conglomérats urbains, même si les conséquences indésirables de la métropolisation formation de ghettos périphériques, pollution atmosphérique, services publics insuffisants ou inexistants, gentrification, précarité, expulsions, pauvreté, etc. – donnent lieu à des nombreuses protestations. Le territoire, opportunément dépeuplé et férocement déséquilibré et appauvri par les pratiques extractivistes, se diversifie comme source de revenus et acquiert des particularités économiques complémentaires à celles de l'agglomération : réserve de développement, support et contenant d'infrastructures, producteur de ressources énergétiques, lieu d'agriculture industrielle et d'élevage intensif, espace de loisirs, de résidences secondaires ou de tourisme rural... L'agression contre le territoire produit involontairement un déplacement géographique de l'axe des luttes, qui dans les pays turbo-capitalistes se déroulent pour sa défense. La question sociale réapparaît principalement comme une question territoriale et, étant donné l'exode rural - presque absolu dans l'État espagnol, avec l'abandon consécutif de dizaines de milliers de petites exploitations et de millions d'hectares de terres cultivées - son expression la plus authentique mais la plus difficile est le retour à la campagne. Cependant, un véritable sujet collectif avec un objectif clair, unificateur et transformateur, ne se matérialise pas.

 

    Nulle part les néo-ruraux ne constituent un collectif suffisamment important pour former un sujet politique avec les jeunes locaux, les chercheurs dissidents, les femmes et la paysannerie résiduelle. Le sujet se constitue en ségrégant radicalement un groupe non-conformiste afin de construire son monde ; d'autre part, l'opposition au cancer développementaliste ne s'éloigne pas trop des méthodes conventionnelles. Elle recourt souvent à la médiation avec la politique traditionnelle et accepte la cohabitation avec l’ancien ordre social. Il ne s’agit pas d’administration communale, d’accès populaire à la terre ou de démantèlement de son exploitation industrielle. Malgré tout, sur le territoire, toutes les contradictions du capitalisme et de l'étatisme se déploient plus profondément, mais la domination le système, le pouvoir, la classe dirigeante est encore capable de les neutraliser avec des mécanismes de cooptation et des formules de stabilisation dans le style de l'"économie sociale", de la "transition énergétique", de la "décroissance" non conflictuelle ou du "nouveau pacte vert". La défense du territoire est objectivement anticapitaliste, mais subjectivement, elle ne l'est pas encore. L'exode rural a anéanti la société paysanne en Europe et a rendu impossible la communauté d'intérêts dans les campagnes donc la formation d’une classe solide et active. C'est pourquoi il existe un sujet à l'état gazeux, concrétisé dans des « entités », des plateformes ou des coordinations, qui cherche à changer la société sans déranger ses élites et tente de sortir du capitalisme sans défoncer la porte. Et c'est pourquoi la défense actuelle du territoire est incapable de renverser la situation, malgré la contribution non négligeable des masses périurbaines insatisfaites, parce que le but proclamé est seulement de changer de "modèle de développement", en supposant, grâce à une disposition bienveillante des institutions "repensées" ou "réinventées" par on ne sait qui, de ne pas supprimer le capitalisme, la hiérarchie et l'État. En effet, au-dessus de la défense du territoire est suspendue l'épée de Damoclès de l'institutionnalisation, de la promotion des leaders et de l'agitation canalisée. Seul un effondrement urbain pourrait modifier ces contraintes, étant donné que les métropoles sont de plus en plus vulnérables, car les problèmes liés au changement climatique ou les difficultés d'approvisionnement en eau, en électricité, en carburant ou en nourriture pourraient facilement les rendre non viables.

 

     Ce n'est qu'en Amérique latine que certaines conditions historiques opposées à ce que les dirigeants appellent le "progrès" ont permis la survie d'une vaste paysannerie, en partie indigène, qui a conservé ses traditions communautaires d'autoproduction, d'autodéfense et d'autogestion. Là-bas, la résistance aux assauts de la mondialisation a pu reconstruire une identité révolutionnaire, c'est-à-dire une classe dangereuse. L'activité éminemment défensive des communautés rurales a placé le problème agraire au centre de la question sociale, irradiant l'influence de la campagne sur les bidonvilles de la ville. De cette façon, la défense du territoire fait un saut qualitatif vers la révolte de la terre et devient un miroir dans lequel la lutte urbaine doit être vue. Politiquement, avec la revendication du pouvoir de décision la souveraineté par des assemblées territoriales autonomes ; économiquement, avec la volonté de transférer les ressources de la métropole vers les campagnes ; socialement, avec des pratiques d'autogestion et d'auto-organisation. Sans doute, dans ce contexte de contradictions émergentes qui empêchent le système dominant de se présenter comme la partie principale de la solution, comme il le fait par ici, l'antagonisme entre la campagne communautaire et l'extractivisme industriel s'accentue, devenant, à la vue de tous, irrésoluble dans le cadre d'un régime capitaliste et étatiste. Chaque pas en avant dans la production et la distribution alternatives, chaque parcelle de terre occupée, chaque hiérarchie abolie, signifiera un pas en arrière pour ce régime, c'est-à-dire pour la domination, de sorte que l'on peut s'attendre à une contre-offensive, qui sera logiquement autoritaire dans sa conception et policière, voire militaire si la situation l'exige, dans sa réalisation.

 

      Je ne conçois pas le soulèvement de la terre comme une simple expression typique de la novlangue de la gauche domestiquée, et je ne crois pas qu'on fasse allusion par elle au soulèvement rhétorique d'un 15M ou aux demandes innocentes adressées aux gouvernements par le pseudo-mouvement Extinction-Rébellion ou par des collapsologues patentés. Il faut l’entendre dans son sens littéral : la révolte contre le pouvoir établi d'un large secteur de la population érigé en sujet collectif – en classe – qui veut vivre selon ses désirs, sans médiations extérieures, et poursuit à cette fin des changements sociaux révolutionnaires dans l'économie, la politique et la société. C'est une réponse insurrectionnelle aux conséquences catastrophiques de la croissance économique et aussi l'étape culminante d'un processus de lutte sociale. Dans les pays sans agriculteurs, le processus n'en est qu'à ses débuts ; la voie se cherche par tâtonnements, discussions, libération de l'espace, escarmouches et expériences. L'objectif est une société civile composée de communautés auto-organisées, enracinées dans la terre, séparées autant que possible de l'État et des "marchés", puis désurbanisées, déstabilisées et dé mondialisées. Ce n'est certainement pas avec des SMS (l'arme de prédilection de Negri), des simulacres de cirque, des plaintes mesurées à l'autorité ou des manuels de collapsologie que l'on y parviendra. Pour sortir du capitalisme, il est nécessaire de l'affronter avec décision. Néanmoins, malgré la multiplication des situations critiques de toutes sortes avec des menaces implicites d'effondrement, le régime capitaliste et étatiste continue de se reproduire, car il trouve de nouveaux alliés avec lesquels persévérer dans la même dynamique de pouvoir et de croissance. Les prédictions apocalyptiques ne le dissuadent pas, bien au contraire. La catastrophe le nourrit. Ainsi, il ne sera jamais arrêté par des parades carnavalesques, des candidatures électorales, des formules associatives prodigieuses ou tout autre type de substitut convivialiste. Tout cela fait partie de son monde. Comme on disait avant, à la guerre comme à la guerre, s’il faut bien y échapper.

 

Miguel Amorós, 15 novembre 2022

 

Pour la série de discussions en ligne Sublevaciones de la Tierra, modérée par le magazine Soberanía Alimentaria.