“Un Potere fondato sull'Autorità può ovviamente
servirsi della
forza, ma se l'Autorità
genera una
forza, la forza non può mai, per
definizione,
generare un'Autorità politica”.
Alexandre Kojève, La nozione di autorità
A
giudicare dall'impeto con cui la forza pubblica – quella dello Stato – è
esercitata sui manifestanti in disaccordo con i governi, si deduce che la
sovranità popolare, fondamento dei regimi parlamentari, è una chimera. Come ha
sottolineato in passato Benjamin Constant, gli individui “moderni” delle
democrazie rappresentative sono solo sovrani de jure: le loro libertà sono ridotte alla sfera pacifica della
vita privata. Il diritto di dire agli altri ciò che il Potere separato non
vuole che sentano, per esempio, non vi rientra. Il diritto di decidere su
questioni che riguardano la collettività e, infine, l'esercizio diretto,
continuo e quotidiano dei diritti politici individuali nemmeno. Del diritto
consuetudinario, meglio non parlare. Il capitalismo arcaico ha fatto tabula
rasa dei resti della società da esso plasmata.
Nei
regimi partitici impropriamente detti “democratici”, il potere politico, che
sulla carta appartiene al popolo o alla nazione, in realtà è il potere dello
Stato, l'ente che lo detiene e lo esercita. Ogni Stato riposa sul monopolio
della forza ed esercita la sua autorità usandola a sua discrezione. Nella
misura in cui l'uso della forza – la repressione – non ha limiti, e il potere non
li considera quando si sente messo in discussione, lo Stato è autoritario e
poliziesco. Uso e abuso sono indistinguibili. In realtà, lo Stato reagisce con
violenza quando le persone disincantate agiscono per conto proprio, cioè non solo
lo ignorano, ma non lo riconoscono. Questo è il male attuale dello Stato: la
sua fragilità fa sì che ogni atto di disobbedienza sia considerato una sfida
perché mette in discussione la sua autorità che lo Stato cerca di ripristinare
con un uso perverso della legge e un uso eccessivo e intimidatorio della forza.
Sussiste grazie a questo.
Il
che si è visto lo scorso marzo nelle manifestazioni contro la costruzione di un
macro bacino a Sainte-Soline, in Francia, ma possiamo citare esempi iberici del
recente passato come le proteste contro il TAV nei Paesi Baschi, lo sgombero
della comunità di Itoiz e Fraguas, o la lotta contro le linee MAT a Girona.
Qualsiasi protesta al di fuori dei canali stabiliti, che sia in difesa della
terra, o del lavoro, o delle pensioni, o dei diritti dei detenuti, o della
stessa abitabilità planetaria, è una protesta criminale, un problema di ordine
pubblico o, in definitiva, un atto di ribellione contro lo Stato. Del resto, i
canali previsti, parlamenti, sindacati o associazioni sussidiarie, funzionano
sempre meno, perdono efficacia nel neutralizzare il conflitto ambientale e nel dissimulare
gli squilibri territoriali. La crisi attuale è una crisi economica, sociale,
politica e territoriale. Per risolverla a suo favore, il dominio tecno-capitalista
fa un salto di qualità nella pianificazione devastante del territorio
attraverso nuove infrastrutture energetiche e digitali, grandi progetti inutili
nel settore dei trasporti, di accaparramento di risorse, di turismo di massa, di
agricoltura industriale e allevamenti intensivi. Lo Stato non è altro che il
suo braccio armato.
Ricapitoliamo:
l'adattamento terroristico al mercato globale dello spazio rurale e urbano
porta a una crisi dalle molteplici sfaccettature che danneggia interessi e
stili di vita locali poco mercificati, ma soprattutto sottopone l'intera
società agli imperativi economico-finanziari. Si provoca così un declassamento
nella base sociale del regime politico che non tarda a dar luogo a una risposta
popolare di autodifesa estranea alle istituzioni e, in larga misura, a esse
contraria. Se si formano larghe alleanze tra i vari settori della popolazione
colpita e i disertori del sistema mentre un'ondata d’indignazione suscita
passioni, è probabile che in condizioni di discredito politico e di insopportabile
oppressione economica emerga un movimento anti industriale senza padroni o
mediatori patentati. Del resto, non può sorgere in altro modo. La
rappresentanza professionale istituzionalizzata ha i giorni sono contati. La
“cultura del no” alimenta i programmi dei contestatori nel segno di una
democrazia diretta.
La federazione di oppositori con opzioni
ideologiche diverse e obiettivi variabili diventa effettiva attraverso reti di
resistenza, incontri continui in rotatorie, piazze, luoghi pubblici o feste
campestri. E trova nella difesa del territorio e della natura contro ogni
nocività il fronte anticapitalista per eccellenza. La difesa del territorio è
l'unica in grado di aprire orizzonti di libertà ed emancipazione storicamente
legati alla lotta intorno al lavoro. La difesa del territorio è l'unica che può
restituire alla vita la sua sovranità perduta a causa della ricerca privata del
profitto. Il "Né qui, né altrove" lanciato contro i megaprogetti distruttori,
è il suo slogan elementare.
La resistenza alla violenza tecno-capitalista
non si esaurisce in liste di reclami e denunce all'amministrazione.
L'accumulazione di forze e di esperienze consente gesti significativi come
l'occupazione di terre, il blocco di opere indesiderabili, il sabotaggio di
macchinari o i blocchi stradali. Si tratta prima di tutto d’imporre un vero
dibattito pubblico sull’uso comune della terra dell’acqua e del patrimonio
naturale. La sua conversione in capitale è in gioco. L'atmosfera è talmente surriscaldata
dalla politica statale del fatto compiuto e della terra bruciata che i difensori
si permettono atti offensivi, ciò che lo Stato, gendarme degli interessi
economici, non può permettere. È arrivato il momento dello scontro, che non può
risolversi a favore della vita libera se non estendendosi. La rassegnazione ritarda
questo momento, ma non ne sopprime l'avvento, poiché la sua necessità resta
intera.
Miquel
Amorós, 20 aprile 2023.
Une
réflexion sur la violence économique et étatique
« Un Pouvoir fondé sur l'Autorité
peut bien entendu
Se servir de la force,
mais si l'Autorité
engendre une force, la
force ne peut jamais,
par définition,
engendrer une Autorité politique ».
Alexandre Kojève, La notion
d'autorité
A en juger par la brutalité avec laquelle la force
publique – celle de l'État – s'exerce sur les manifestants en désaccord avec
les gouvernements, on peut en déduire que la souveraineté populaire, fondement
des régimes parlementaires, est une chimère. Comme Benjamin Constant l'a
souligné dans le passé, les individus « modernes » des démocraties
représentatives ne sont que des souverains de
jure : leurs libertés sont réduites à la sphère paisible de la vie
privée. Le droit de dire aux autres ce que le Pouvoir séparé ne veut pas qu'ils
entendent, par exemple, n'en fait pas partie. Le droit de décider sur les
questions qui concernent la collectivité et, enfin, l'exercice direct, continu
et quotidien des droits politiques individuels non plus. Du droit coutumier,
mieux vaut ne pas en parler. L’ancien capitalisme a fait table rase des restes
de la société qu'il a façonnée.
Dans les régimes des partis improprement dits «
démocratiques », le pouvoir politique, qui sur le papier appartient au peuple
ou à la nation, est en réalité le pouvoir de l'État, organe qui le détient et
l'exerce. Tout État s'appuie sur le monopole de la force et exerce son autorité
en l'utilisant à sa guise. Dans la mesure où l'usage de la force – la
répression – est sans limites – et le pouvoir lui-même n’y pense que lorsqu'il est
contesté –, l'État est autoritaire et policier. L'usage et l'abus sont
indiscernables. A vrai dire, l'État réagit violemment lorsque des personnes
désenchantées agissent de leur propre chef, c'est-à-dire non seulement qu'elles
l'ignorent, mais pire encore elles ne le reconnaissent pas. C'est le mal actuel
de l'État : sa fragilité fait que tout acte de désobéissance est considéré
comme un défi car il remet en cause son autorité que l'État cherche à restaurer
par un usage pervers de la loi et un usage excessif et intimidant de la force.
Il n’existe qu’ainsi.
On l'a vu en mars dernier lors des manifestations contre
la construction d'un macro bassin à Sainte-Soline, en France, mais on peut
citer des exemples ibériques du passé récent comme les manifestations contre le
TGV au Pays basque, l'expulsion des communautés de Itoiz et Fraguas, ou la
lutte contre les lignes THT à Gérone. Toute protestation en dehors des canaux
établis, qu'elle soit pour la défense de la terre, ou des emplois, ou des
retraites, ou des droits des taulards, ou de l'habitabilité planétaire
elle-même, est une protestation criminelle, un problème d'ordre public, bref un
acte de rébellion contre l'État. Mais lesdits canaux, parlements, syndicats ou
associations subsidiaires, fonctionnent de moins en moins, perdent en
efficacité pour neutraliser le conflit environnemental et masquer les
déséquilibres territoriaux. La crise actuelle est une crise économique,
sociale, politique et territoriale. Pour la résoudre en sa faveur, la domination
techno-capitaliste fait un saut qualitatif dans l'aménagement dévastateur du
territoire à travers de nouvelles infrastructures énergétiques et numériques, des
grands projets inutiles dans les transports, l'accaparement des ressources, le
tourisme de masse, l'agriculture industrielle et l'élevage intensif. L'État
n'est rien d'autre que son bras armé.
Récapitulons : l'adaptation terroriste au marché
mondial de l'espace rural et urbain conduit à une crise multiforme qui porte
atteinte aux intérêts locaux et à des modes de vie peu marchandisés, mais
surtout soumet toute la société à des impératifs économico-financiers. Cela
provoque un déclassement de la base sociale du régime politique qui suscite
bientôt une réponse populaire d'autodéfense étrangère aux institutions et, dans
une large mesure, contraire à celles-ci. Si de larges alliances se forment
entre divers secteurs de la population touchée et les déserteurs du système
alors qu'une vague d'indignation attise les passions, il est possible que dans
des conditions de discrédit politique et d'oppression économique insupportable,
un mouvement anti-industriel sans maîtres ni intermédiaires patentés soit
susceptible d'émerger. Il ne peut d’ailleurs survenir d'aucune autre manière.
Les jours de la représentation professionnelle institutionnalisée sont comptés.
La « culture du non » alimente les programmes des manifestants au nom de la
démocratie directe.
La fédération d'opposants aux options idéologiques
différentes et aux objectifs variables s'opère par des réseaux de résistance,
des rencontres continus dans les ronds-points, les squares, les lieux publics
ou les fêtes champêtres. Et il trouve dans la défense du territoire et de la
nature contre toute nocivité le front anticapitaliste par excellence. La
défense du territoire est la seule capable d'ouvrir des horizons de liberté et
d'émancipation historiquement liés à la lutte autour du travail. La défense du
territoire est la seule qui puisse redonner à la vie sa souveraineté perdue en
raison de la poursuite privée du profit. Le « Ni ici, ni ailleurs » lancé contre
les mégaprojets destructeurs est son slogan élémentaire.
La résistance
à la violence techno-capitaliste ne se termine pas par des listes de doléances
et de plaintes à l'administration. L'accumulation de forces et d'expériences
permet des gestes significatifs tels que l'occupation de terres, le blocage
d'ouvrages indésirables, le sabotage d’engins ou les routes barricadées. Il
s’agit avant tout d’imposer un véritable débat public sur l’usage commun de la
terre, de l’eau et du patrimoine naturel. Sa conversion en capital est en jeu. L'atmosphère
est tellement surchauffée par la politique étatique du fait accompli et de la
terre brûlée que les défenseurs s'autorisent des actes offensifs, ce que
l'Etat, gendarme des intérêts économiques, ne peut permettre. L'heure est à la
confrontation, qui ne peut se résoudre en faveur de la vie libre qu'en
s'étendant. La résignation retarde ce moment, mais ne supprime pas son
avènement, puisque sa nécessité reste intacte.
Miquel Amorós, 20 avril 2023.
Una reflexión
sobre la violencia económica y estatal
“Un Poder fundado
en la Autoridad puede por
supuesto servirse
de la fuerza, pero si la Autoridad
engendra una
fuerza, esta nunca puede, por
definición,
engendrar una Autoridad política.”
Alexandre Kojève, La Noción de la
Autoridad
A juzgar por la contundencia con
que la fuerza pública -la del Estado- se ejerce sobre los manifestantes que
discrepan de los gobiernos, colegimos que la soberanía popular, la base de los
regímenes parlamentarios, es una entelequia. Como antaño señaló Benjamín
Constant, los individuos “modernos” de las democracias representativas no son
soberanos más que de jure: sus
libertades se reducen al ámbito apacible de la vida privada. El derecho a decir
a los demás lo que el Poder separado no quiere que oigan, por ejemplo, no cae
dentro de aquel. El derecho a decidir sobre los asuntos que atañen a la
colectividad, y en fin, el ejercicio directo, continuo y cotidiano de los
derechos políticos individuales, tampoco. Del derecho consuetudinario, mejor no
hablar. El capitalismo temprano hizo tabla rasa de los restos de la sociedad
configurada por él.
En los regímenes de partidos denominados
impropiamente “democráticos”, el poder político, que sobre el papel pertenece
al pueblo o a la nación, en realidad, es el poder del Estado, la entidad que lo
detenta y ejerce. Todo Estado reposa en el monopolio de la fuerza y desempeña
su autoridad usando aquella a discreción. En la medida en que el uso de la
fuerza -la represión- no tiene limitaciones, y no las tiene cuando se siente
cuestionado, el Estado es autoritario y policial. El uso y el abuso son
indistinguibles. Realmente, el Estado reacciona con violencia cuando la gente
desencantada actúa por su cuenta, es decir, no simplemente lo ignora, sino que
no lo reconoce. Ese el mal del Estado en la actualidad: su fragilidad hace que
cualquier acto de desobediencia sea considerado como un desafío porque pone en
entredicho su autoridad, algo que trata de restablecer con un uso perverso de
la ley y un empleo desmesurado e intimidatorio de la fuerza. Subsiste
gracias a ello.
Así lo hemos visto el pasado
marzo en las manifestaciones contra la construcción de un macrodepósito de agua
en Sainte-Soline, Francia, pero podemos citar pasados ejemplos autóctonos como
las protestas contra el TAV en Euskadi, el desalojo de la comunidad de Fraguas,
o la lucha contra las líneas MAT en Girona. Toda protesta fuera de los cauces
establecidos, bien sea en defensa de la tierra, o del trabajo, o de las
pensiones, o de los derechos de los presos, o de la misma habitabilidad
planetaria, es una protesta criminal, un problema de orden público, o en
definitiva, un acto de rebelión contra el Estado. Ahora bien, dichos cauces,
los parlamentos, los sindicatos, o las asociaciones subsidiarias, funcionan
cada vez menos, pierden eficacia en la neutralización de la contienda
ambientalista y el disimulo de los desequilibrios territoriales. La crisis
actual es una crisis económica, social, política y territorial. La dominación
tecnocapitalista, a fin de resolverla favorablemente, realiza un salto
cualitativo en la devastadora ordenación del territorio a través de nuevas
infraestructuras energéticas y digitales, de grandes proyectos inútiles de
transporte, del acaparamiento de recursos, del turismo de masas, de la
agricultura industrial y la ganadería intensiva. El Estado no es más que su
brazo armado.
Recapitulemos: la adaptación
terrorista al mercado global del espacio rural y urbano desemboca en una crisis
de múltiples facetas que lesiona intereses locales y modos de vida escasamente
mercantilizados, pero sobre todo somete todavía más a la sociedad entera a los
imperativos económico-financieros. Así se suscita un desclasamiento en la base
social del régimen político, lo cual no tarda en alumbrar una contestación
popular de autodefensa ajena a las instituciones y, en gran parte, contraria a
ellas. Si entre los diversos sectores de la población afectada y los desertores
del sistema cuajan amplias alianzas y una ola de indignación agita las
pasiones, la posibilidad de que en condiciones de descrédito de la política y
opresión económica insoportable surja un movimiento antidesarrollista sin jefes
ni mediadores patentados es muy real. Es más, no puede surgir de otra manera.
La representación profesional institucionalizada tiene los días contados. La
“cultura del no” alimenta los programas de los contestatarios en el marco de
una democracia directa.
La federación de oponentes con
diferentes opciones ideológicas y objetivos variables se hace efectiva mediante
redes de resistencia, encuentros continuos en rotondas, plazas, locales
públicos o fiestas campestres. Y halla en la defensa del territorio y la
naturaleza contra toda la nocividad el frente anticapitalista por excelencia.
La defensa del territorio es la única capaz de abrir horizontes de libertad y
emancipación históricamente ligados a lucha laboral. La defensa territorial es
la única que puede devolver a la vida su soberanía perdida por culpa de la
búsqueda privada del beneficio. El “Ni aquí, ni en ninguna otra parte” lanzado
contra los megaproyectos destructores es su consigna elemental.
La resistencia a la violencia
tecnocapitalista no termina en pliegos de reclamaciones y quejas a la
administración. La acumulación de fuerzas y experiencias le permite gestos
impactantes como han sido la ocupación de tierras, el bloqueo de obras
indeseables, el sabotaje de la maquinaria o la barricada en las carreteras. El
ambiente está tan caldeado por la política estatal de hechos consumados y
tierra quemada que los defensores se permiten actos ofensivos, y eso, el
Estado, guardián de los intereses económicos, no lo puede consentir. Ha llegado
el momento de la confrontación, que no puede resolverse a favor de la vida
libre sino extendiéndose. La resignación aplaza ese momento, pero no suprime su
advenimiento, puesto que su necesidad se mantiene.
Miquel Amorós, 20 de abril de 2023.