giovedì 20 aprile 2023

Una riflessione sulla violenza economica e di Stato - Miquel Amorós

 



Un Potere fondato sull'Autorità può ovviamente

servirsi della forza, ma se l'Autorità

genera una forza, la forza non può mai, per

definizione, generare un'Autorità politica”.

Alexandre Kojève, La nozione di autorità

 

A giudicare dall'impeto con cui la forza pubblica – quella dello Stato – è esercitata sui manifestanti in disaccordo con i governi, si deduce che la sovranità popolare, fondamento dei regimi parlamentari, è una chimera. Come ha sottolineato in passato Benjamin Constant, gli individui “moderni” delle democrazie rappresentative sono solo sovrani de jure: le loro libertà sono ridotte alla sfera pacifica della vita privata. Il diritto di dire agli altri ciò che il Potere separato non vuole che sentano, per esempio, non vi rientra. Il diritto di decidere su questioni che riguardano la collettività e, infine, l'esercizio diretto, continuo e quotidiano dei diritti politici individuali nemmeno. Del diritto consuetudinario, meglio non parlare. Il capitalismo arcaico ha fatto tabula rasa dei resti della società da esso plasmata.

 

Nei regimi partitici impropriamente detti “democratici”, il potere politico, che sulla carta appartiene al popolo o alla nazione, in realtà è il potere dello Stato, l'ente che lo detiene e lo esercita. Ogni Stato riposa sul monopolio della forza ed esercita la sua autorità usandola a sua discrezione. Nella misura in cui l'uso della forza – la repressione – non ha limiti, e il potere non li considera quando si sente messo in discussione, lo Stato è autoritario e poliziesco. Uso e abuso sono indistinguibili. In realtà, lo Stato reagisce con violenza quando le persone disincantate agiscono per conto proprio, cioè non solo lo ignorano, ma non lo riconoscono. Questo è il male attuale dello Stato: la sua fragilità fa sì che ogni atto di disobbedienza sia considerato una sfida perché mette in discussione la sua autorità che lo Stato cerca di ripristinare con un uso perverso della legge e un uso eccessivo e intimidatorio della forza. Sussiste grazie a questo.

 

Il che si è visto lo scorso marzo nelle manifestazioni contro la costruzione di un macro bacino a Sainte-Soline, in Francia, ma possiamo citare esempi iberici del recente passato come le proteste contro il TAV nei Paesi Baschi, lo sgombero della comunità di Itoiz e Fraguas, o la lotta contro le linee MAT a Girona. Qualsiasi protesta al di fuori dei canali stabiliti, che sia in difesa della terra, o del lavoro, o delle pensioni, o dei diritti dei detenuti, o della stessa abitabilità planetaria, è una protesta criminale, un problema di ordine pubblico o, in definitiva, un atto di ribellione contro lo Stato. Del resto, i canali previsti, parlamenti, sindacati o associazioni sussidiarie, funzionano sempre meno, perdono efficacia nel neutralizzare il conflitto ambientale e nel dissimulare gli squilibri territoriali. La crisi attuale è una crisi economica, sociale, politica e territoriale. Per risolverla a suo favore, il dominio tecno-capitalista fa un salto di qualità nella pianificazione devastante del territorio attraverso nuove infrastrutture energetiche e digitali, grandi progetti inutili nel settore dei trasporti, di accaparramento di risorse, di turismo di massa, di agricoltura industriale e allevamenti intensivi. Lo Stato non è altro che il suo braccio armato.

 

Ricapitoliamo: l'adattamento terroristico al mercato globale dello spazio rurale e urbano porta a una crisi dalle molteplici sfaccettature che danneggia interessi e stili di vita locali poco mercificati, ma soprattutto sottopone l'intera società agli imperativi economico-finanziari. Si provoca così un declassamento nella base sociale del regime politico che non tarda a dar luogo a una risposta popolare di autodifesa estranea alle istituzioni e, in larga misura, a esse contraria. Se si formano larghe alleanze tra i vari settori della popolazione colpita e i disertori del sistema mentre un'ondata d’indignazione suscita passioni, è probabile che in condizioni di discredito politico e di insopportabile oppressione economica emerga un movimento anti industriale senza padroni o mediatori patentati. Del resto, non può sorgere in altro modo. La rappresentanza professionale istituzionalizzata ha i giorni sono contati. La “cultura del no” alimenta i programmi dei contestatori nel segno di una democrazia diretta.

 

     La federazione di oppositori con opzioni ideologiche diverse e obiettivi variabili diventa effettiva attraverso reti di resistenza, incontri continui in rotatorie, piazze, luoghi pubblici o feste campestri. E trova nella difesa del territorio e della natura contro ogni nocività il fronte anticapitalista per eccellenza. La difesa del territorio è l'unica in grado di aprire orizzonti di libertà ed emancipazione storicamente legati alla lotta intorno al lavoro. La difesa del territorio è l'unica che può restituire alla vita la sua sovranità perduta a causa della ricerca privata del profitto. Il "Né qui, né altrove" lanciato contro i megaprogetti distruttori, è il suo slogan elementare.

 

 La resistenza alla violenza tecno-capitalista non si esaurisce in liste di reclami e denunce all'amministrazione. L'accumulazione di forze e di esperienze consente gesti significativi come l'occupazione di terre, il blocco di opere indesiderabili, il sabotaggio di macchinari o i blocchi stradali. Si tratta prima di tutto d’imporre un vero dibattito pubblico sull’uso comune della terra dell’acqua e del patrimonio naturale. La sua conversione in capitale è in gioco. L'atmosfera è talmente surriscaldata dalla politica statale del fatto compiuto e della terra bruciata che i difensori si permettono atti offensivi, ciò che lo Stato, gendarme degli interessi economici, non può permettere. È arrivato il momento dello scontro, che non può risolversi a favore della vita libera se non estendendosi. La rassegnazione ritarda questo momento, ma non ne sopprime l'avvento, poiché la sua necessità resta intera.

 

Miquel Amorós, 20 aprile 2023.


 



Une réflexion sur la violence économique et étatique

« Un Pouvoir fondé sur l'Autorité peut bien entendu

Se servir de la force, mais si l'Autorité

engendre une force, la force ne peut jamais,

par définition, engendrer une Autorité politique ».

Alexandre Kojève, La notion d'autorité

 

A en juger par la brutalité avec laquelle la force publique – celle de l'État – s'exerce sur les manifestants en désaccord avec les gouvernements, on peut en déduire que la souveraineté populaire, fondement des régimes parlementaires, est une chimère. Comme Benjamin Constant l'a souligné dans le passé, les individus « modernes » des démocraties représentatives ne sont que des souverains de jure : leurs libertés sont réduites à la sphère paisible de la vie privée. Le droit de dire aux autres ce que le Pouvoir séparé ne veut pas qu'ils entendent, par exemple, n'en fait pas partie. Le droit de décider sur les questions qui concernent la collectivité et, enfin, l'exercice direct, continu et quotidien des droits politiques individuels non plus. Du droit coutumier, mieux vaut ne pas en parler. L’ancien capitalisme a fait table rase des restes de la société qu'il a façonnée.

 

Dans les régimes des partis improprement dits « démocratiques », le pouvoir politique, qui sur le papier appartient au peuple ou à la nation, est en réalité le pouvoir de l'État, organe qui le détient et l'exerce. Tout État s'appuie sur le monopole de la force et exerce son autorité en l'utilisant à sa guise. Dans la mesure où l'usage de la force – la répression – est sans limites – et le pouvoir lui-même n’y pense que lorsqu'il est contesté –, l'État est autoritaire et policier. L'usage et l'abus sont indiscernables. A vrai dire, l'État réagit violemment lorsque des personnes désenchantées agissent de leur propre chef, c'est-à-dire non seulement qu'elles l'ignorent, mais pire encore elles ne le reconnaissent pas. C'est le mal actuel de l'État : sa fragilité fait que tout acte de désobéissance est considéré comme un défi car il remet en cause son autorité que l'État cherche à restaurer par un usage pervers de la loi et un usage excessif et intimidant de la force. Il n’existe qu’ainsi.

 

On l'a vu en mars dernier lors des manifestations contre la construction d'un macro bassin à Sainte-Soline, en France, mais on peut citer des exemples ibériques du passé récent comme les manifestations contre le TGV au Pays basque, l'expulsion des communautés de Itoiz et Fraguas, ou la lutte contre les lignes THT à Gérone. Toute protestation en dehors des canaux établis, qu'elle soit pour la défense de la terre, ou des emplois, ou des retraites, ou des droits des taulards, ou de l'habitabilité planétaire elle-même, est une protestation criminelle, un problème d'ordre public, bref un acte de rébellion contre l'État. Mais lesdits canaux, parlements, syndicats ou associations subsidiaires, fonctionnent de moins en moins, perdent en efficacité pour neutraliser le conflit environnemental et masquer les déséquilibres territoriaux. La crise actuelle est une crise économique, sociale, politique et territoriale. Pour la résoudre en sa faveur, la domination techno-capitaliste fait un saut qualitatif dans l'aménagement dévastateur du territoire à travers de nouvelles infrastructures énergétiques et numériques, des grands projets inutiles dans les transports, l'accaparement des ressources, le tourisme de masse, l'agriculture industrielle et l'élevage intensif. L'État n'est rien d'autre que son bras armé.

 

Récapitulons : l'adaptation terroriste au marché mondial de l'espace rural et urbain conduit à une crise multiforme qui porte atteinte aux intérêts locaux et à des modes de vie peu marchandisés, mais surtout soumet toute la société à des impératifs économico-financiers. Cela provoque un déclassement de la base sociale du régime politique qui suscite bientôt une réponse populaire d'autodéfense étrangère aux institutions et, dans une large mesure, contraire à celles-ci. Si de larges alliances se forment entre divers secteurs de la population touchée et les déserteurs du système alors qu'une vague d'indignation attise les passions, il est possible que dans des conditions de discrédit politique et d'oppression économique insupportable, un mouvement anti-industriel sans maîtres ni intermédiaires patentés soit susceptible d'émerger. Il ne peut d’ailleurs survenir d'aucune autre manière. Les jours de la représentation professionnelle institutionnalisée sont comptés. La « culture du non » alimente les programmes des manifestants au nom de la démocratie directe.

 

La fédération d'opposants aux options idéologiques différentes et aux objectifs variables s'opère par des réseaux de résistance, des rencontres continus dans les ronds-points, les squares, les lieux publics ou les fêtes champêtres. Et il trouve dans la défense du territoire et de la nature contre toute nocivité le front anticapitaliste par excellence. La défense du territoire est la seule capable d'ouvrir des horizons de liberté et d'émancipation historiquement liés à la lutte autour du travail. La défense du territoire est la seule qui puisse redonner à la vie sa souveraineté perdue en raison de la poursuite privée du profit. Le « Ni ici, ni ailleurs » lancé contre les mégaprojets destructeurs est son slogan élémentaire.

 

     La résistance à la violence techno-capitaliste ne se termine pas par des listes de doléances et de plaintes à l'administration. L'accumulation de forces et d'expériences permet des gestes significatifs tels que l'occupation de terres, le blocage d'ouvrages indésirables, le sabotage d’engins ou les routes barricadées. Il s’agit avant tout d’imposer un véritable débat public sur l’usage commun de la terre, de l’eau et du patrimoine naturel. Sa conversion en capital est en jeu. L'atmosphère est tellement surchauffée par la politique étatique du fait accompli et de la terre brûlée que les défenseurs s'autorisent des actes offensifs, ce que l'Etat, gendarme des intérêts économiques, ne peut permettre. L'heure est à la confrontation, qui ne peut se résoudre en faveur de la vie libre qu'en s'étendant. La résignation retarde ce moment, mais ne supprime pas son avènement, puisque sa nécessité reste intacte.

 

Miquel Amorós, 20 avril 2023.



Una reflexión sobre la violencia económica y estatal

 

“Un Poder fundado en la Autoridad puede por

supuesto servirse de la fuerza, pero si la Autoridad

engendra una fuerza, esta nunca puede, por

definición, engendrar una Autoridad política.”

Alexandre Kojève, La Noción de la Autoridad

 

     A juzgar por la contundencia con que la fuerza pública -la del Estado- se ejerce sobre los manifestantes que discrepan de los gobiernos, colegimos que la soberanía popular, la base de los regímenes parlamentarios, es una entelequia. Como antaño señaló Benjamín Constant, los individuos “modernos” de las democracias representativas no son soberanos más que de jure: sus libertades se reducen al ámbito apacible de la vida privada. El derecho a decir a los demás lo que el Poder separado no quiere que oigan, por ejemplo, no cae dentro de aquel. El derecho a decidir sobre los asuntos que atañen a la colectividad, y en fin, el ejercicio directo, continuo y cotidiano de los derechos políticos individuales, tampoco. Del derecho consuetudinario, mejor no hablar. El capitalismo temprano hizo tabla rasa de los restos de la sociedad configurada por él.

 

 En los regímenes de partidos denominados impropiamente “democráticos”, el poder político, que sobre el papel pertenece al pueblo o a la nación, en realidad, es el poder del Estado, la entidad que lo detenta y ejerce. Todo Estado reposa en el monopolio de la fuerza y desempeña su autoridad usando aquella a discreción. En la medida en que el uso de la fuerza -la represión- no tiene limitaciones, y no las tiene cuando se siente cuestionado, el Estado es autoritario y policial. El uso y el abuso son indistinguibles. Realmente, el Estado reacciona con violencia cuando la gente desencantada actúa por su cuenta, es decir, no simplemente lo ignora, sino que no lo reconoce. Ese el mal del Estado en la actualidad: su fragilidad hace que cualquier acto de desobediencia sea considerado como un desafío porque pone en entredicho su autoridad, algo que trata de restablecer con un uso perverso de la ley y un empleo desmesurado e intimidatorio de la fuerza. Subsiste gracias a ello.

 

     Así lo hemos visto el pasado marzo en las manifestaciones contra la construcción de un macrodepósito de agua en Sainte-Soline, Francia, pero podemos citar pasados ejemplos autóctonos como las protestas contra el TAV en Euskadi, el desalojo de la comunidad de Fraguas, o la lucha contra las líneas MAT en Girona. Toda protesta fuera de los cauces establecidos, bien sea en defensa de la tierra, o del trabajo, o de las pensiones, o de los derechos de los presos, o de la misma habitabilidad planetaria, es una protesta criminal, un problema de orden público, o en definitiva, un acto de rebelión contra el Estado. Ahora bien, dichos cauces, los parlamentos, los sindicatos, o las asociaciones subsidiarias, funcionan cada vez menos, pierden eficacia en la neutralización de la contienda ambientalista y el disimulo de los desequilibrios territoriales. La crisis actual es una crisis económica, social, política y territorial. La dominación tecnocapitalista, a fin de resolverla favorablemente, realiza un salto cualitativo en la devastadora ordenación del territorio a través de nuevas infraestructuras energéticas y digitales, de grandes proyectos inútiles de transporte, del acaparamiento de recursos, del turismo de masas, de la agricultura industrial y la ganadería intensiva. El Estado no es más que su brazo armado.

 

     Recapitulemos: la adaptación terrorista al mercado global del espacio rural y urbano desemboca en una crisis de múltiples facetas que lesiona intereses locales y modos de vida escasamente mercantilizados, pero sobre todo somete todavía más a la sociedad entera a los imperativos económico-financieros. Así se suscita un desclasamiento en la base social del régimen político, lo cual no tarda en alumbrar una contestación popular de autodefensa ajena a las instituciones y, en gran parte, contraria a ellas. Si entre los diversos sectores de la población afectada y los desertores del sistema cuajan amplias alianzas y una ola de indignación agita las pasiones, la posibilidad de que en condiciones de descrédito de la política y opresión económica insoportable surja un movimiento antidesarrollista sin jefes ni mediadores patentados es muy real. Es más, no puede surgir de otra manera. La representación profesional institucionalizada tiene los días contados. La “cultura del no” alimenta los programas de los contestatarios en el marco de una democracia directa.

 

     La federación de oponentes con diferentes opciones ideológicas y objetivos variables se hace efectiva mediante redes de resistencia, encuentros continuos en rotondas, plazas, locales públicos o fiestas campestres. Y halla en la defensa del territorio y la naturaleza contra toda la nocividad el frente anticapitalista por excelencia. La defensa del territorio es la única capaz de abrir horizontes de libertad y emancipación históricamente ligados a lucha laboral. La defensa territorial es la única que puede devolver a la vida su soberanía perdida por culpa de la búsqueda privada del beneficio. El “Ni aquí, ni en ninguna otra parte” lanzado contra los megaproyectos destructores es su consigna elemental.

 

     La resistencia a la violencia tecnocapitalista no termina en pliegos de reclamaciones y quejas a la administración. La acumulación de fuerzas y experiencias le permite gestos impactantes como han sido la ocupación de tierras, el bloqueo de obras indeseables, el sabotaje de la maquinaria o la barricada en las carreteras. El ambiente está tan caldeado por la política estatal de hechos consumados y tierra quemada que los defensores se permiten actos ofensivos, y eso, el Estado, guardián de los intereses económicos, no lo puede consentir. Ha llegado el momento de la confrontación, que no puede resolverse a favor de la vida libre sino extendiéndose. La resignación aplaza ese momento, pero no suprime su advenimiento, puesto que su necesidad se mantiene.

 

Miquel Amorós, 20 de abril de 2023.