venerdì 14 aprile 2023

Le ombre viventi del passato - Uno sguardo sul cammino del “Proletariato selvaggio” in Spagna

 







Che importa un giorno! Ieri allerta

al domani, domani all'infinito.

Uomini di Spagna! Il passato non è morto

e il domani non è scritto – e ieri neppure.

Antonio Machado, Campos de Castilla.

 

Eccettuate le ricostruzioni in chiave eroica delle prime timide balbuzie del sindacalismo ufficiale, un dato di fatto da costatare è la scarsità di lavori sul passato recente del movimento operaio rispetto a quelli realizzati e che continuano a esserlo sulla guerra civile spagnola. Il decennio degli anni '70 del ventesimo secolo è molto più oscuro di quello degli anni '30. Il passato lontano entra nel campo dei miti fondanti delle nuove ideologie, perfettamente adattabili al dominio tanto per la destra che per la sinistra, mentre il passato prossimo è scomodo, poiché la sua eredità non si adatta alle storie legittimanti delle fazioni che hanno acconsentito al passaggio dalla dittatura al regime postfranchista, anzi, ne rivela la reciproca complicità. Nella sua essenza più autentica e democratica, quella concernente il rifiuto dei vertici, il rigetto della delega irrevocabile e, più specificamente, la mediazione professionalizzata e istituzionalizzata, non è rivendicabile. La conoscenza provoca disagio. Per questo la memoria mistificata e disattivata conviene ai gueracivilisti del sistema, e l'amnesia che impedisce di criticare lo status quo, ai franco-democratici.

 

Sebbene alcuni dei testi del libro "Proletariato selvaggio" abbiano quasi cinquant'anni, non sono per niente invecchiati. È vero che tutto è cambiato, che il regime scaturito dalla trasformazione concordata della dittatura si è consolidato e che la classe operaia non è più quella di una volta: tanto per cominciare non è nemmeno una classe. Anche il regno della merce è diverso, più globalizzato, più quotidiano. La ragione economica è penetrata in tutta l'attività umana. Altri sono gli approcci, le linee rosse, le prospettive, le opzioni politiche, gli obiettivi sociali... ma le verità messe sul tavolo in quegli anni sono immutabili. L'idea che gli scritti di allora contenuti nel libro cercavano di esprimere è che se una rivolta di impronta proletaria non avesse abbattuto il franchismo, l'apertura negoziata dall'opposizione avrebbe dato vita a un regime capitalista, parlamentarista ma con forte carattere autoritario di tipo dittatoriale. Ciononostante, l'immobilismo opprimente aveva fatto precipitare nel radicalismo studenti e lavoratori dell'industria senza distinzione di sesso. La situazione internazionale vi contribuiva. Di conseguenza, la dinamica degli scioperi dava luogo a forme di lotta autorganizzata e di autodifesa che, a loro volta, erano forme di libertà implicanti implicitamente il progetto di abolizione delle classi: comitati, assemblee, coordinazioni, consigli di fabbrica, picchetti... Incarnazione dell'unità e della solidarietà di classe, organi di democrazia diretta e come suggerisce il nome antistatalista, di fronte ai quali si erigeva il nemico distribuito su vari fronti: la classe dirigente e i suoi strumenti, cioè le avanguardie autoproclamate, le centrali sindacali, i tavoli dei partiti, la polizia, i giudici, le carceri, i militari... Il Capitale da una parte, e lo Stato dall'altra.

 

Il movimento assembleare ha straripato per un certo tempo oltre i canali che cercavano di contenerlo, ma niente di tutto ciò ha potuto prendere piede. Con la legalizzazione dei sindacati si è compiuto un passo decisivo nella burocratizzazione del movimento operaio. Le centrali si organizzavano direttamente contro di lui. Più prima che poi, i delegati eletti nelle assemblee furono sostituiti da rappresentanti sindacali proposti dalle loro organizzazioni e accettati dai datori di lavoro. Ricorrere a sindacati alternativi non è stata una buona idea. Non ha funzionato. In verità, la classe oppressa si è fermata di fronte all'immensità del compito incombente cedendo alla burocrazia politico-sindacale. I pochi consigli operai che si sono formati non si sono tradotti in realtà. Il riflusso è arrivato e il disincanto è diventato generale. I patti antioperai tra gli esecutori del franchismo e la sinistra ufficiale firmarono la liquidazione delle assemblee autonome. I mercati presero l'iniziativa, le istituzioni si riadattarono al nuovo ordine politico concordato e, nel frattempo, lo Stato rafforzò il controllo sociale. Fu l'ultima apparizione storica della classe operaia peninsulare come soggetto politico prima del consolidamento costituzionale della partitocrazia. Successivamente, la società classista assistita dalla tecnologia e dalle banche si sarebbe trasformata in un aggregato indifferenziato e gerarchico di masse consumatrici, dove la mentalità borghese ha giocato un ruolo ideologico determinante anche in settori esclusi dal mercato del lavoro. Tuttavia, i problemi posti dalla suddetta apparizione non hanno potuto essere risolti nel quadro di un sistema politicamente ibrido e socialmente capitalista, motivo per cui sono riapparsi in una forma o nell'altra ogni volta che le crisi hanno scosso violentemente cercando la costituzione di una forza sociale in grado di risolverli. In tal senso, forse leggere questo libro può essere utile e persino stimolante.

 

Gli autori dei testi erano giovani con una visione libertaria delle cose, influenzati dall'anarchismo operaio della rivoluzione spagnola, dal maggio 1968 e dalla rivoluzione dei garofani, movimenti fortemente critici nei confronti della rappresentanza burocratica, esterna ai conflitti ed estranea agli attori sociali. Il concetto unificante di autonomia proletaria era la spina dorsale del nostro messaggio: nessun problema sociale poteva essere risolto a margine. L'indipendenza di classe era la condizione necessaria per un'azione diretta radicalmente trasformatrice. I gruppi autonomi non avevano altra missione che assicurarla dall'interno, conservando le assemblee come luogo del dibattito e della decisione, difendendo il mandato imperativo, attaccando ogni delegazione separata, ogni autorità recuperatrice: "Niente fuori delle assemblee, tutto dentro di esse ". I lavoratori e le altre forze convergenti che li seguivano dovevano essere gli agenti della loro stessa liberazione. Dovevano avanzare dal lato selvaggio e passare all'offensiva. Secondo il motto della Prima Internazionale, l'emancipazione sarebbe stata opera di loro stessi o niente.

 

... Il fenomeno assembleare si è attenuato in tutti i paesi in cui si è manifestato. Se la prima fu la Francia nel 1968, l'ultima fu la Polonia. La regressione del movimento Solidarnosc (Solidarietà) significò la fine delle possibilità rivoluzionarie dell'epoca. La sconfitta del cosiddetto secondo assalto proletario alla società di classe di fronte a un capitalismo che era riuscito a sopprimere le basi materiali e morali su cui poggiava il suo antagonista – la riconversione produttiva, l’industrializzazione del vivere, la finanziarizzazione del sistema –, ha imposto una dura riflessione critica che pochi hanno saputo fare. La maggioranza ha optato per l'attivismo militante, la lotta armata, la rassegnazione, la fuga nella vita privata, la collaborazione con il nemico e altre forme di rassegnazione. Il risultato finale di tanta confusione smobilitante fu la disfatta, che non è mai definitiva, essendo le condizioni storiche estremamente mutevoli e i periodi di pace sociale tremendamente instabili. La via sovversiva non è mai stata del tutto preclusa a chi volesse percorrerla. Nonostante la presenza di tanti pompieri, la materia sociale in tempi difficili è piuttosto infiammabile e qualsiasi scintilla può creare uno scompiglio capace di provocare uno sviluppo rivoluzionario se emerge una forza sociale capace di porsi obiettivi e dotarsi di mezzi. I movimenti contadini latinoamericani, la rivolta francese delle ZAD e l’insurrezione curda ne sono esempi riconoscibili. La rivoluzione non è mai una questione del passato, un argomento esclusivo per storici o sociologi, ma piuttosto qualcosa da reinventare, certo non nelle università, né tanto meno da parte della sedicente sinistra, poiché entrambe fanno parte del dominio ridefinito politicamente nello Stato Spagnolo nel 1978. Ripartire dalle buone vibrazioni e dalle prediche sulla cittadinanza? Dall’operaismo ottuso ed estemporaneo? Dalle campagne elettorali? Dai movimenti identitari? Assolutamente no. Come ha recentemente affermato Raoul Vaneigem, "Di questi tempi non conta la buona volontà, ma i fatti compiuti". Fatti che sono rotture dell’ordine costituito, straripamenti che portano a situazioni ingovernabili, salti qualitativi nella coscienza ribelle.

 

Miquel Amorós

Presentazione ad Anònims, Granollers, il 12 aprile, all'Ateneu Popular Pla-Carolines, Alicante, il 2 giugno, e al Café Ficciones (Murcia), il 3 giugno 2023.

 



    

    Las sombras vivas del pasado

Presentación del libro recopilatorio “El Proletariado Salvaje”,

De la editorial Milvus

 

¡Que importa un día! Está el ayer alerto

al mañana, mañana al infinito

¡Hombres de España! Ni el pasado ha muerto

Ni está el mañana -ni el ayer- escrito

Antonio Machado, Campos de Castilla.

 

     Si exceptuamos las reconstrucciones en clave heroica de los primeros balbuceos vergonzantes del sindicalismo oficial, un hecho a constatar es la escasez de trabajos sobre el pasado reciente del movimiento obrero en comparación con los que han sido realizados y continúan siéndolo acerca de la guerra civil española. La década de los setenta del siglo XX resulta mucho más oscura que la de los treinta. El pasado lejano entra en el campo de los mitos fundacionales de las modernas ideologías, perfectamente acoplables en la dominación tanto por la derecha como por la izquierda, mientras que el pasado cercano resulta incómodo, pues su legado no encaja con los relatos legitimadores de los bandos que acordaron la transición de la dictadura al post franquismo partitocrático, antes bien, desvela su mutua complicidad. En su esencia más auténtica y democrática, la relativa al rechazo de los dirigentes, a la repulsa de la delegación irrevocable, y más específicamente, el repudio de la mediación profesionalizada e institucionalizada, no es reivindicable. En las condiciones actuales de sumisión voluntaria, el conocimiento causa malestar. Por eso, el recuerdo mistificado y desactivado conviene a los guerracivilistas del sistema, y la amnesia que impide criticar el statu quo, a los francodemócratas.

 

     A pesar de que algunos de los textos del libro “El Proletariado Salvaje” tienen casi cincuenta años, no han envejecido en absoluto. Cierto es que todo ha cambiado, que el régimen que resultó de la transformación pactada de la dictadura se consolidó y que la clase obrera ya no es lo que era: para empezar, ni siquiera es clase. Los esclavos del trabajo hoy no tienen conciencia de clase. También el reino de la mercancía es otro, más mundializado, más diversificado, más cotidiano. La razón económica ha penetrado en toda actividad humana. Otros son los enfoques, las líneas rojas, las perspectivas, las opciones políticas, los objetivos sociales... pero las verdades puestas sobre el tapete en aquellos años son invariables. La idea concreta que los escritos de entonces contenidos en el libro trataban de expresar, era que si una revuelta con impronta proletaria no derrocaba al franquismo, el aperturismo negociado por la oposición alumbraría un régimen capitalista, parlamentario en las formas, pero con fuertes rasgos autoritarios de raígambre dictatorial. No obstante, el inmovilismo opresor había precipitado en el radicalismo a estudiantes, trabajadores industriales y empleados públicos sin distinción de sexo. La coyuntura internacional ayudaba. En consecuencia, la dinámica de las huelgas estaba dando lugar a formas de lucha autoorganizada y modos de autodefensa que a su vez eran formas de libertad, conllevando implícito el proyecto de abolición de las clases: los comités, las asambleas, las coordinadoras, los consejos de fábrica, los piquetes... Mención especial merecen los presos. Plasmación de la unidad y la solidaridad de clase, órganos de la democracia directa a la vez que mecanismos antiestatistas, ante los cuales se erigía el enemigo de clase distribuido en diversos frentes: la clase dominante y sus instrumentos, es decir, las autodenominadas vanguardias, las centrales sindicales, las mesas de partidos, la policía, los tribunales, las cárceles... enfín, el Capital por una parte, y el Estado por la otra.

 

     El movimiento asambleario desbordó durante un tiempo los cauces que pretendían contenerlo, pero nada de aquello pudo afianzarse. Con la legalización de los sindicatos se dio un paso decisivo en la burocratización del movimiento obrero. Las centrales se organizaban directamente contra él. Más pronto que tarde, los delegados elegidos en asambleas fueron sustituidos por representantes sindicales propuestos por sus organizaciones y aceptados por la patronal. Recurrir a sindicatos alternativos no fue una buena idea, no funcionó. En verdad, la clase oprimida se detuvo ante la inmensidad de la tarea pendiente y cedió ante la burocracia político-sindical. Los escasos consejos obreros que se formaron no llegaron a cuajar. Aconteció el reflujo y se generalizó el desencanto. Los pactos antiobreros entre los albaceas del franquismo y la izquierda oficial rubricaron la liquidación de las asambleas autónomas. Los mercados tomaron la iniciativa, las instituciones se readaptaron al nuevo orden político acordado y, mientras, el Estado reforzó el control social. Fue la última aparición histórica de la clase obrera peninsular como sujeto político antes de consolidarse constitucionalmente la partitocracia. Después, la sociedad clasista asistida por la tecnología y la banca se transformaría en un agregado indiferenciado y jerarquizado de masas consumidoras, donde la mentalidad de clase media desempeñaría una función ideológica determinante incluso en los sectores excluidos del mercado de trabajo. Sin embargo, los problemas que planteó la susodicha aparición no han podido ser resueltos en el marco de un sistema políticamente híbrido y socialmente capitalista, por lo que irán reapareciendo de una forma u otra cada vez que las crisis lo sacudan violentamente buscando la constitución de una fuerza social capaz de resolverlos. En ese sentido, quizá la lectura de este libro pueda ser útil y hasta resulte inspiradora.

 

     Los autores de los textos éramos jóvenes con una visión libertaria de las cosas, influenciados por el anarquismo obrero de la revolución española, el Mayo del 68 y la revolución de los claveles, fuertemente críticos con la representación burocrática, exterior a los conflictos y ajena a los actores sociales. El concepto unificador de autonomía proletaria vertebraba nuestro mensaje: ningún problema social podía resolverse al margen. La independencia de la clase era la condición necesaria de una acción directa radicalmente transformadora. A los grupos autónomos no les cabía otra misión que asegurarla desde dentro, preservando las asambleas como el lugar del debate y la decisión, defendiendo el mandato  imperativo, y atacando toda delegación separada, toda autoridad recuperadora: “nada fuera de las asambleas, todo dentro de ellas”. Las asambleas eran el primer peldaño del consejo obrero, organismo gracias al cual los trabajadores y demás fuerzas convergentes que les seguían se convertirían en agentes de su propia liberación. Debían abandonar la táctica puramente defensiva del sindicalismo, rebasar el horizonte laboral, marchar por el lado salvaje y pasar a la ofensiva, en España y en el resto de Europa. De acuerdo con el lema de la Primera Internacional, la emancipación sería obra de ellos mismos, o, en caso contrario. no sería.  

 

     El fenómeno asambleario remitió en todos los países en los que se manifestó. Si el primero fue la Francia del 68, el último fue Polonia. La regresión del movimiento Solidarnosc (Solidaridad) significó el fin de las posibilidades revolucionarias de la época. La derrota del denominado segundo asalto proletario a la sociedad de clases europea ante un capitalismo que logró suprimir las bases materiales y morales en las que se apoyaba su contrincante, -la reconversión productiva, la industrialización del vivir, la financiarización del sistema- obligó a una dura reflexión crítica que pocos fueron capaces de hacer. Los más se decantaron hacia el activismo militante, la lucha armada, la renuncia, el escapismo en la vida privada, la colaboración con el enemigo y otros modos de resignación. El resultado final de tanta confusión desmovilizadora fue la desbandada, que nunca es definitiva, ya que las condiciones históricas son extremadamente mudables y los periodos de paz social, tremendamente inestables. La vía subversiva nunca se cerró del todo a quienes deseasen ir por ella. A pesar de tanto bombero, la materia social en épocas difíciles es bastante inflamable y una chispa cualquiera puede producir múltiples estragos, susceptibles de provocar un desarrollo revolucionario si surge una fuerza social capaz de fijarse objetivos y dotarse de medios. Los movimientos campesinos latinoamericanos, la revuelta de las ZAD francesas y la insurrección kurda son ejemplos reconocibles. La revolución nunca es un asunto pasadista, un tema exclusivo de historiadores o sociólogos, sino algo a reinventar, no desde luego desde la universidad, ni desde la autodenominada izquierda, puesto que ambas forman parte de la dominación, redefinida políticamente en el estado español el 78. ¿A partir del buen rollo pacifista y las prédicas ciudadanistas? ¿del obrerismo obtuso y extemporáneo? ¿de  campañas electorales? ¿de movidas identitarias? Tampoco. Como ha dicho recientemente Raoul Vaneigem, “en estos tiempos no cuenta la buena voluntad, sino los hechos consumados.” Hechos que son rupturas del orden establecido, desbordamientos que conducen a situaciones ingobernables, saltos cualitativos en la conciencia insumisa.

 

Miquel Amorós

Presentación en Anònims, Granollers, el 12 de abril, en el Ateneu Popular Pla-Carolines, Alacant, el 2 de junio, y en el Café Ficciones (Murcia), el 3 de junio de 2023.