Che importa un
giorno! Ieri allerta
al domani, domani
all'infinito.
Uomini di Spagna!
Il passato non è morto
e il domani non è
scritto – e ieri neppure.
Antonio Machado, Campos de Castilla.
Eccettuate le ricostruzioni in chiave eroica delle prime timide
balbuzie del sindacalismo ufficiale, un dato di fatto da costatare è la
scarsità di lavori sul passato recente del movimento operaio rispetto a quelli
realizzati e che continuano a esserlo sulla guerra civile spagnola. Il decennio
degli anni '70 del ventesimo secolo è molto più oscuro di quello degli anni
'30. Il passato lontano entra nel campo dei miti fondanti delle nuove
ideologie, perfettamente adattabili al dominio tanto per la destra che per la
sinistra, mentre il passato prossimo è scomodo, poiché la sua eredità non si
adatta alle storie legittimanti delle fazioni che hanno acconsentito al
passaggio dalla dittatura al regime postfranchista, anzi, ne rivela la
reciproca complicità. Nella sua essenza più autentica e democratica, quella concernente
il rifiuto dei vertici, il rigetto della delega irrevocabile e, più
specificamente, la mediazione professionalizzata e istituzionalizzata, non è
rivendicabile. La conoscenza provoca disagio. Per questo la memoria mistificata
e disattivata conviene ai gueracivilisti del sistema, e l'amnesia che impedisce
di criticare lo status quo, ai franco-democratici.
Sebbene alcuni dei testi del libro "Proletariato
selvaggio" abbiano quasi cinquant'anni, non sono per niente invecchiati. È
vero che tutto è cambiato, che il regime scaturito dalla trasformazione concordata
della dittatura si è consolidato e che la classe operaia non è più quella di
una volta: tanto per cominciare non è nemmeno una classe. Anche il regno della
merce è diverso, più globalizzato, più quotidiano. La ragione economica è
penetrata in tutta l'attività umana. Altri sono gli approcci, le linee rosse,
le prospettive, le opzioni politiche, gli obiettivi sociali... ma le verità
messe sul tavolo in quegli anni sono immutabili. L'idea che gli scritti di
allora contenuti nel libro cercavano di esprimere è che se una rivolta di
impronta proletaria non avesse abbattuto il franchismo, l'apertura negoziata
dall'opposizione avrebbe dato vita a un regime capitalista, parlamentarista ma
con forte carattere autoritario di tipo dittatoriale. Ciononostante, l'immobilismo
opprimente aveva fatto precipitare nel radicalismo studenti e lavoratori
dell'industria senza distinzione di sesso. La situazione internazionale vi
contribuiva. Di conseguenza, la dinamica degli scioperi dava luogo a forme di
lotta autorganizzata e di autodifesa che, a loro volta, erano forme di libertà
implicanti implicitamente il progetto di abolizione delle classi: comitati,
assemblee, coordinazioni, consigli di fabbrica, picchetti... Incarnazione
dell'unità e della solidarietà di classe, organi di democrazia diretta e come
suggerisce il nome antistatalista, di fronte ai quali si erigeva il nemico
distribuito su vari fronti: la classe dirigente e i suoi strumenti, cioè le
avanguardie autoproclamate, le centrali sindacali, i tavoli dei partiti, la
polizia, i giudici, le carceri, i militari... Il Capitale da una parte, e lo
Stato dall'altra.
Il movimento assembleare ha straripato per un certo tempo oltre i
canali che cercavano di contenerlo, ma niente di tutto ciò ha potuto prendere
piede. Con la legalizzazione dei sindacati si è compiuto un passo decisivo
nella burocratizzazione del movimento operaio. Le centrali si organizzavano
direttamente contro di lui. Più prima che poi, i delegati eletti nelle
assemblee furono sostituiti da rappresentanti sindacali proposti dalle loro
organizzazioni e accettati dai datori di lavoro. Ricorrere a sindacati
alternativi non è stata una buona idea. Non ha funzionato. In verità, la classe
oppressa si è fermata di fronte all'immensità del compito incombente cedendo
alla burocrazia politico-sindacale. I pochi consigli operai che si sono formati
non si sono tradotti in realtà. Il riflusso è arrivato e il disincanto è
diventato generale. I patti antioperai tra gli esecutori del franchismo e la
sinistra ufficiale firmarono la liquidazione delle assemblee autonome. I
mercati presero l'iniziativa, le istituzioni si riadattarono al nuovo ordine
politico concordato e, nel frattempo, lo Stato rafforzò il controllo sociale.
Fu l'ultima apparizione storica della classe operaia peninsulare come soggetto
politico prima del consolidamento costituzionale della partitocrazia.
Successivamente, la società classista assistita dalla tecnologia e dalle banche
si sarebbe trasformata in un aggregato indifferenziato e gerarchico di masse
consumatrici, dove la mentalità borghese ha giocato un ruolo ideologico
determinante anche in settori esclusi dal mercato del lavoro. Tuttavia, i
problemi posti dalla suddetta apparizione non hanno potuto essere risolti nel
quadro di un sistema politicamente ibrido e socialmente capitalista, motivo per
cui sono riapparsi in una forma o nell'altra ogni volta che le crisi hanno
scosso violentemente cercando la costituzione di una forza sociale in grado di
risolverli. In tal senso, forse leggere questo libro può essere utile e persino
stimolante.
Gli
autori dei testi erano giovani con una visione
libertaria delle cose, influenzati dall'anarchismo operaio della rivoluzione
spagnola, dal maggio 1968 e dalla rivoluzione dei garofani, movimenti fortemente
critici nei confronti della rappresentanza burocratica, esterna ai conflitti ed
estranea agli attori sociali. Il concetto unificante di autonomia proletaria
era la spina dorsale del nostro messaggio: nessun problema sociale poteva
essere risolto a margine. L'indipendenza di classe era la condizione necessaria
per un'azione diretta radicalmente trasformatrice. I gruppi autonomi non
avevano altra missione che assicurarla dall'interno, conservando le assemblee
come luogo del dibattito e della decisione, difendendo il mandato imperativo,
attaccando ogni delegazione separata, ogni autorità recuperatrice: "Niente
fuori delle assemblee, tutto dentro di esse ". I lavoratori e le altre
forze convergenti che li seguivano dovevano essere gli agenti della loro stessa
liberazione. Dovevano avanzare dal lato selvaggio e passare all'offensiva.
Secondo il motto della Prima Internazionale, l'emancipazione sarebbe stata opera
di loro stessi o niente.
... Il fenomeno
assembleare si è attenuato in tutti i paesi in cui si è manifestato. Se la
prima fu la Francia nel 1968, l'ultima fu la Polonia. La regressione del
movimento Solidarnosc (Solidarietà) significò la fine delle possibilità
rivoluzionarie dell'epoca.
La sconfitta del cosiddetto
secondo assalto proletario alla società di classe di fronte a un capitalismo
che era riuscito a sopprimere le basi materiali e morali su cui poggiava il suo
antagonista – la riconversione produttiva, l’industrializzazione del vivere, la
finanziarizzazione del sistema –, ha imposto una dura riflessione critica che
pochi hanno saputo fare. La maggioranza ha optato per l'attivismo militante, la
lotta armata, la rassegnazione, la fuga nella vita privata, la collaborazione
con il nemico e altre forme di rassegnazione. Il risultato finale di tanta
confusione smobilitante fu la disfatta, che non è mai definitiva, essendo le
condizioni storiche estremamente mutevoli e i periodi di pace sociale
tremendamente instabili. La via sovversiva non è mai stata del tutto preclusa a
chi volesse percorrerla. Nonostante la presenza di tanti pompieri, la materia
sociale in tempi difficili è piuttosto infiammabile e qualsiasi scintilla può creare
uno scompiglio capace di provocare uno sviluppo rivoluzionario se emerge una
forza sociale capace di porsi obiettivi e dotarsi di mezzi. I movimenti
contadini latinoamericani, la rivolta francese delle ZAD e l’insurrezione curda
ne sono esempi riconoscibili. La rivoluzione non è mai una questione del
passato, un argomento esclusivo per storici o sociologi, ma piuttosto qualcosa
da reinventare, certo non nelle università, né tanto meno da parte della
sedicente sinistra, poiché entrambe fanno parte del dominio ridefinito
politicamente nello Stato Spagnolo nel 1978. Ripartire dalle buone vibrazioni e
dalle prediche sulla cittadinanza? Dall’operaismo ottuso ed estemporaneo? Dalle
campagne elettorali? Dai movimenti identitari? Assolutamente no. Come ha
recentemente affermato Raoul Vaneigem, "Di questi tempi non conta la buona
volontà, ma i fatti compiuti". Fatti che sono rotture dell’ordine costituito,
straripamenti che portano a situazioni ingovernabili, salti qualitativi nella
coscienza ribelle.
Miquel Amorós
Presentazione ad Anònims, Granollers, il 12 aprile, all'Ateneu
Popular Pla-Carolines, Alicante, il 2 giugno, e al Café Ficciones (Murcia), il
3 giugno 2023.
Las sombras vivas del pasado
Presentación del libro
recopilatorio “El Proletariado Salvaje”,
De la editorial Milvus
¡Que importa un día! Está el
ayer alerto
al mañana, mañana al infinito
¡Hombres de España! Ni el
pasado ha muerto
Ni está el mañana -ni el ayer-
escrito
Antonio Machado, Campos de Castilla.
Si exceptuamos las reconstrucciones en clave heroica de los primeros
balbuceos vergonzantes del sindicalismo oficial, un hecho a constatar es la
escasez de trabajos sobre el pasado reciente del movimiento obrero en
comparación con los que han sido realizados y continúan siéndolo acerca de la
guerra civil española. La década de los setenta del siglo XX resulta mucho más
oscura que la de los treinta. El pasado lejano entra en el campo de los mitos fundacionales
de las modernas ideologías, perfectamente acoplables en la dominación tanto por
la derecha como por la izquierda, mientras que el pasado cercano resulta
incómodo, pues su legado no encaja con los relatos legitimadores de los bandos
que acordaron la transición de la dictadura al post franquismo partitocrático,
antes bien, desvela su mutua complicidad. En su esencia más auténtica y
democrática, la relativa al rechazo de los dirigentes, a la repulsa de la
delegación irrevocable, y más específicamente, el repudio de la mediación
profesionalizada e institucionalizada, no es reivindicable. En las condiciones
actuales de sumisión voluntaria, el conocimiento causa malestar. Por eso, el
recuerdo mistificado y desactivado conviene a los guerracivilistas del sistema,
y la amnesia que impide criticar el statu quo, a los francodemócratas.
A pesar de que algunos de los textos del
libro “El Proletariado Salvaje” tienen casi cincuenta años, no han envejecido
en absoluto. Cierto es que todo ha cambiado, que el régimen que resultó de la
transformación pactada de la dictadura se consolidó y que la clase obrera ya no
es lo que era: para empezar, ni siquiera es clase. Los esclavos del trabajo hoy
no tienen conciencia de clase. También el reino de la mercancía es otro, más
mundializado, más diversificado, más cotidiano. La razón económica ha penetrado
en toda actividad humana. Otros son los enfoques, las líneas rojas, las
perspectivas, las opciones políticas, los objetivos sociales... pero las
verdades puestas sobre el tapete en aquellos años son invariables. La idea
concreta que los escritos de entonces contenidos en el libro trataban de
expresar, era que si una revuelta con impronta proletaria no derrocaba al
franquismo, el aperturismo negociado por la oposición alumbraría un régimen
capitalista, parlamentario en las formas, pero con fuertes rasgos autoritarios
de raígambre dictatorial. No obstante, el inmovilismo opresor había precipitado
en el radicalismo a estudiantes, trabajadores industriales y empleados públicos
sin distinción de sexo. La coyuntura internacional ayudaba. En consecuencia, la
dinámica de las huelgas estaba dando lugar a formas de lucha autoorganizada y
modos de autodefensa que a su vez eran formas de libertad, conllevando
implícito el proyecto de abolición de las clases: los comités, las asambleas,
las coordinadoras, los consejos de fábrica, los piquetes... Mención especial
merecen los presos. Plasmación de la unidad y la solidaridad de clase, órganos
de la democracia directa a la vez que mecanismos antiestatistas, ante los
cuales se erigía el enemigo de clase distribuido en diversos frentes: la clase
dominante y sus instrumentos, es decir, las autodenominadas vanguardias, las
centrales sindicales, las mesas de partidos, la policía, los tribunales, las
cárceles... enfín, el Capital por una parte, y el Estado por la otra.
El movimiento asambleario desbordó durante
un tiempo los cauces que pretendían contenerlo, pero nada de aquello pudo
afianzarse. Con la legalización de los sindicatos se dio un paso decisivo en la
burocratización del movimiento obrero. Las centrales se organizaban
directamente contra él. Más pronto que tarde, los delegados elegidos en
asambleas fueron sustituidos por representantes sindicales propuestos por sus
organizaciones y aceptados por la patronal. Recurrir a sindicatos alternativos
no fue una buena idea, no funcionó. En verdad, la clase oprimida se detuvo ante
la inmensidad de la tarea pendiente y cedió ante la burocracia
político-sindical. Los escasos consejos obreros que se formaron no llegaron a
cuajar. Aconteció el reflujo y se generalizó el desencanto. Los pactos
antiobreros entre los albaceas del franquismo y la izquierda oficial rubricaron
la liquidación de las asambleas autónomas. Los mercados tomaron la iniciativa,
las instituciones se readaptaron al nuevo orden político acordado y, mientras,
el Estado reforzó el control social. Fue la última aparición histórica de la
clase obrera peninsular como sujeto político antes de consolidarse
constitucionalmente la partitocracia. Después, la sociedad clasista asistida
por la tecnología y la banca se transformaría en un agregado indiferenciado y
jerarquizado de masas consumidoras, donde la mentalidad de clase media
desempeñaría una función ideológica determinante incluso en los sectores
excluidos del mercado de trabajo. Sin embargo, los problemas que planteó la
susodicha aparición no han podido ser resueltos en el marco de un sistema
políticamente híbrido y socialmente capitalista, por lo que irán reapareciendo
de una forma u otra cada vez que las crisis lo sacudan violentamente buscando
la constitución de una fuerza social capaz de resolverlos. En ese sentido,
quizá la lectura de este libro pueda ser útil y hasta resulte inspiradora.
Los autores de los textos éramos jóvenes con una visión libertaria de
las cosas, influenciados por el anarquismo obrero de la revolución española, el
Mayo del 68 y la revolución de los claveles, fuertemente críticos con la
representación burocrática, exterior a los conflictos y ajena a los actores
sociales. El concepto unificador de autonomía proletaria vertebraba nuestro
mensaje: ningún problema social podía resolverse al margen. La independencia de
la clase era la condición necesaria de una acción directa radicalmente
transformadora. A los grupos autónomos no les cabía otra misión que asegurarla
desde dentro, preservando las asambleas como el lugar del debate y la decisión,
defendiendo el mandato imperativo, y
atacando toda delegación separada, toda autoridad recuperadora: “nada fuera de
las asambleas, todo dentro de ellas”. Las asambleas eran el primer peldaño del
consejo obrero, organismo gracias al cual los trabajadores y demás fuerzas
convergentes que les seguían se convertirían en agentes de su propia
liberación. Debían abandonar la táctica puramente defensiva del sindicalismo,
rebasar el horizonte laboral, marchar por el lado salvaje y pasar a la
ofensiva, en España y en el resto de Europa. De acuerdo con el lema de la
Primera Internacional, la emancipación sería obra de ellos mismos, o, en caso
contrario. no sería.
El fenómeno asambleario remitió en todos
los países en los que se manifestó. Si el primero fue la Francia del 68, el
último fue Polonia. La regresión del movimiento Solidarnosc (Solidaridad)
significó el fin de las posibilidades revolucionarias de la época. La derrota
del denominado segundo asalto proletario a la sociedad de clases europea ante
un capitalismo que logró suprimir las bases materiales y morales en las que se
apoyaba su contrincante, -la reconversión productiva, la industrialización del
vivir, la financiarización del sistema- obligó a una dura reflexión crítica que
pocos fueron capaces de hacer. Los más se decantaron hacia el activismo
militante, la lucha armada, la renuncia, el escapismo en la vida privada, la
colaboración con el enemigo y otros modos de resignación. El resultado final de
tanta confusión desmovilizadora fue la desbandada, que nunca es definitiva, ya
que las condiciones históricas son extremadamente mudables y los periodos de
paz social, tremendamente inestables. La vía subversiva nunca se cerró del todo
a quienes deseasen ir por ella. A pesar de tanto bombero, la materia social en
épocas difíciles es bastante inflamable y una chispa cualquiera puede producir
múltiples estragos, susceptibles de provocar un desarrollo revolucionario si
surge una fuerza social capaz de fijarse objetivos y dotarse de medios. Los
movimientos campesinos latinoamericanos, la revuelta de las ZAD francesas y la
insurrección kurda son ejemplos reconocibles. La revolución nunca es un asunto
pasadista, un tema exclusivo de historiadores o sociólogos, sino algo a
reinventar, no desde luego desde la universidad, ni desde la autodenominada
izquierda, puesto que ambas forman parte de la dominación, redefinida
políticamente en el estado español el 78. ¿A partir del buen rollo pacifista y
las prédicas ciudadanistas? ¿del obrerismo obtuso y extemporáneo? ¿de campañas electorales? ¿de movidas
identitarias? Tampoco. Como ha dicho recientemente Raoul Vaneigem, “en estos
tiempos no cuenta la buena voluntad, sino los hechos consumados.” Hechos que
son rupturas del orden establecido, desbordamientos que conducen a situaciones
ingobernables, saltos cualitativos en la conciencia insumisa.
Miquel Amorós
Presentación en
Anònims, Granollers, el 12 de abril, en el Ateneu Popular Pla-Carolines,
Alacant, el 2 de junio, y en el Café Ficciones (Murcia), el 3 de junio de 2023.