mercoledì 11 ottobre 2023

La situazione attuale in un’ottica libertaria

 



“Non ci rassegneremo a contemplare la fine del mondo, impotenti,
isolati e chiusi nelle nostre case. Abbiamo bisogno di aria,
acqua, terra e spazi liberati per esplorare nuove relazioni
sia tra gli esseri umani che con il resto degli esseri viventi”.
Les Soulèvements de la Terre, Appello a riconquistare le terre
e a bloccare le industrie che le divorano.

 

“La decisione di trasformare la provincia di León in una zona di sacrificio
per generare energia ed estrarre ogni tipo di risorse, che saranno
inviate alle grandi città e ai nodi industriali
per continuare a mantenere una crescita impossibile in un mondo di
risorse finite, è una fuga in avanti per continuare a
promuovere l’attuale stile di vita insostenibile...”
ARBA Leon. Manifesto in difesa del territorio.
 

Il sistema capitalista, funzionando con il sovvertimento delle sue precedenti fasi obsolete, autodistruggendosi parzialmente per ricrearsi con maggior vigore – incorporando più elementi estranei al mercato – vive in continua crisi. I disordini del capitalismo, moderati o catastrofici, gli sono inerenti: sono diventati la sua condizione di esistenza. Sono il suo principale nemico e, in assenza di una reale opposizione, la sua unica alternativa. Nessun pericolo da questo lato. Tuttavia, l’entità dei danni provocati, insieme ai problemi aggravati dalla violenza della mercantilizzazione, inducono a pensare a limiti invalicabili e, di conseguenza, ad un crollo definitivo dal quale resterebbero aperte e praticabili le strade di una salvifica “transizione eco sociale”, dove sia l’autonomia che l’autogestione si potrebbero toccare con mano. La cosa, però, non è così semplice. Tralasciando il fatto ovvio che il mondo delle merci non è autogestibile, è evidente che le difficoltà della crescita economica, la penuria di materie prime, l’imminente esaurimento delle risorse energetiche fossili, le disastrose conseguenze del riscaldamento globale del pianeta, dell’inquinamento e dell’inquietante regressione antropologica dell’umanità consumistica, lasciano intravedere un’apocalisse ai bordi del fascismo. In effetti, la società globalizzata e disumanizzata sta precipitando a capofitto nel precipizio ma, giudicando da quel che si osserva, per tappe, attraversando molteplici svolte, scivolando progressivamente verso l’autoritarismo, cosicché è meglio parlare di un lungo periodo piuttosto che di un collasso a breve termine. Non bisogna sottovalutare la capacità del capitale di trasformare in mercato la propria insensata decadenza, prolungando così la propria fase terminale. La fine non arriverà finché il capitalismo riuscirà a commercializzare il suo collasso. A meno che una rivolta popolare sufficientemente estesa lo impedisca.

Il frutto più velenoso della crisi è stato il rafforzamento dello Stato. Il ruolo che svolge non è più quello di un semplice gendarme o di un mero regolatore, ma quello di chi interviene. Lo Stato salva le banche, gestisce fondi per salvaguardare le imprese e stimolare la domanda, investe, stabilisce le linee guida per quella che chiama sostenibilità e protegge la fuga capitalista in avanti, in particolare la cosiddetta transizione ecologica (fondamentalmente elettrificazione dell’industria e dei trasporti) le cui scadenze sono state fissate nel Green Deal europeo, un monumentale programma di greenwashing delle grandi compagnie petrolifere e del gas, principali promotrici delle energie rinnovabili. Naturalmente, la finanza governa il mondo (i grandi fondi controllano da soli la metà del mercato mondiale); Ma gli Stati stanno preparando il terreno, lavorando al “cambiamento di modello”, costruendo reti nazionali intelligenti per penetrare più facilmente tutti gli aspetti dell’economia. Chiunque controllerà l’“economia sostenibile” avrà il potere. Il nuovo corso del capitalismo richiede più di una semplice svolta nel controllo sociale: richiede al centro la presenza dello Stato. Il potere finanziario è riconfigurato e concentrato grazie alla digitalizzazione assistita dallo Stato. Lo Stato partecipa e risolve: la “rivoluzione digitale” accelera la fusione tra le gerarchie politiche e le nuove oligarchie borsistiche e tecnologiche. Il livello appropriato di nazionalizzazione dipenderà dall’intensità delle crisi e dal conflitto che hanno generato. Nel linguaggio esecutivo: dipenderà dalla dolcezza degli “atterraggi” dell'economia e dalla debolezza delle resistenze incontrate.

Coloro che rivendicano l’eredità libertaria, soprattutto nel suo carattere proletario, si troveranno ad affrontare una realtà storica molto diversa da quella dell’era dei sindacati unici e dei comitati di quartiere. Non solo per l’egemonia ideologica e materiale delle nuove classi medie, o per l’automazione del lavoro industriale, o per la preponderanza dei servizi e la quasi scomparsa dei contadini, cioè per l’eliminazione della base de “la classe che lotta”. Le nuove tecnologie non solo hanno soppresso posti di lavoro nei processi produttivi, ma hanno spalancato le porte alla colonizzazione delle menti (o dell’“immaginario”), all’alienazione, dissolvendo ogni tipo di legame sociale, facendo evaporare relazioni che consentivano lo sviluppo di una cultura specificamente operaia, terreno esclusivo della coscienza di classe. Nell’era dei selfie, l’orizzonte comune della maggioranza proletarizzata scompare. Grazie allo sviluppo senza precedenti di uno spazio virtuale, la realtà è stata sommersa in un mare di rappresentazioni fantastiche, mentre la solidarietà collettiva ha lasciato il posto all’individualismo narcisistico e alle sociopatie. Invece di classi pericolose per le loro inclinazioni anarchiche, oggi ci troviamo con una “cittadinanza” eterea composta di moltitudini digitali sradicate, veri e propri sciami umani ciclotimici dediti al consumo di applicazioni.

Involuzione psicopatica, elettropopulismo, identitarismo folclorizzato, complottismo geek, crisi di valori, perdita di riferimenti, assalto alla ragione, postmodernismo... sono fenomeni tipici non solo della crisi delle culture di classe, ma della crisi della cultura occidentale così come si è conformata a partire dal Rinascimento. I suoi contenuti sono stati dinamitati. Non c’è praticamente più nulla che tenga insieme una società civile i cui spazi comuni si disgregano, fatto che spiega l’estrema volatilità dell’esperienza di lotta, il ripiegamento nei ghetti, la peste emozionale, la svalutazione del passato e, di conseguenza, il presentismo, qualcosa che sotto il cittadinismo della leadership comporta la tolleranza masochistica dei partiti e delle associazioni che difendono il compromesso con lo Stato e le élite, come se un altro capitalismo meno terroristico fosse possibile. È evidente che né la deterritorializzazione né il “cambiamento” tecnologico tanto celebrato dai dirigenti hanno giovato in alcun modo alla maggioranza salariata, giacché hanno eliminato o deteriorato posti di lavoro, incidendo negativamente sui salari, hanno esacerbato la concorrenza tra i lavoratori, riducendo al minimo la loro capacità negoziale, hanno portato a una maggiore disuguaglianza, hanno brutalizzato le masse, ecc., il tutto senza che alcuna opposizione all’altezza della situazione si sia manifestata. Sembra che per la maggioranza la digitalizzazione, pur essendo un grande divoratore di energia, e quindi una delle principali cause del mutamento climatico, sia considerata inesorabile e persino benefica fintanto che un’istituzione ufficiale la regola. Il contrario di quanto accade con l’emigrazione. Sia il rifiuto di questo conformismo intollerante verso gli esclusi, sia la critica della tecnicizzazione della vita ci portano a proporre la creazione di una cultura antagonista alla civiltà industriale, per forgiare un immaginario autenticamente anticapitalista, cioè una controcultura.

Le controculture hanno origine negli spazi liberati – quelle “zone da difendere” – durante il confronto con gli interessi dominanti. Emergono da altri modi di vivere emergenti che sfuggono al consumo di massa, quindi alla sfera del mercato. Attualmente solo la difesa del territorio è in grado di illuminarle, perché il conflitto territoriale ha bisogno di essere sostenuto da realizzazioni in margine al capitalismo e queste avvengono con minori difficoltà e migliori risultati in campagna. Gli ambienti urbani sono troppo artificializzati, atomizzati e tecno-dipendenti. Sono terreno ostile alla coscienza. Ciò non significa che le lotte per i salari, le pensioni, l’alloggio, i trasporti gratuiti o i diritti delle minoranze non siano importanti. Semplicemente, il territorio è l’anello più problematico della catena capitalista e con la maggiore capacità unificante. È diventato un elemento strategico decisivo, sia per i suoi sfruttatori sia per i suoi difensori. Tuttavia, in linea di principio, non si tratta tanto di condurre cruente battaglie contro le forze dell’ordine quanto di dimostrare che un altro modo di produrre e gestire, più giusto, più semplice e più egualitario, è perfettamente fattibile. Per raggiungere quest’obiettivo, dobbiamo ripopolare le aree lontane dal capitale da cui promuovere grandi mobilitazioni contro la distruzione dei terreni agricoli o qualsiasi altra nocività. Non partire da formule miracolose o da volontarismi puerili, ma da esperienze comunitarie autonome e coordinate che rompano con la logica della specializzazione e del profitto, per ricostruire una rete di rapporti diretti consuetudinari sufficientemente solida da sostenere un'offensiva. Arrivati a questo punto, i gruppi urbani possono essere ausiliari molto efficaci.

I tempi non scorrono uguali ovunque. Come qualcuno ha giustamente affermato, la storia non è omogenea, numerosi fattori s’insinuano nei suoi interstizi e ne condizionano in modi diversi il divenire. Oggi, nelle nostre coordinate continentali, le lotte per la dignità si combattono soprattutto contro la valanga d’impianti di energie rinnovabili industriali. Altrove, la resistenza alla mercantilizzazione si esercita soprattutto contro la costruzione d’insediamenti residenziali, complessi turistici, autostrade e aeroporti. In tutti loro il fronte comune è contro l’agricoltura industriale. In vaste aree che stanno per essere devastate dall’estrattivismo capitalista, si tratta piuttosto di non entrare che di uscire dal capitalismo, di affrontare – anche con le armi alla mano – le intrusioni vandaliche degli scagnozzi dell’economia a tutti i livelli, rafforzando i legami di una società contadina autogovernata, come accade in varie parti dell’America Latina o del Kurdistan. Il cammino della storia – delle storie – è stato finora un susseguirsi di disastri. La rivoluzione non consisterà mai in un salto di qualità della produttività grazie ad un uso “democratico” di tecniche che sono essenzialmente totalitarie. Non si baserà mai su un’accelerazione pacifica dei cambiamenti economici guidata dallo Stato da guidatori esperti e ben intenzionati, ma piuttosto su un loro brusco arresto, opera anonima di un soggetto collettivo oppresso. Ricordando Walter Benjamin, diremo che non si tratta di salire i gradini, ma di tirare il freno di emergenza.

Un mondo non soggetto ai meccanismi ciechi e incontrollabili del capitalismo è possibile, purché la produzione persegua la soddisfazione dei bisogni anziché l’accumulazione di ricchezza astratta; purché il rapporto con la natura sia equilibrato e l’amministrazione orizzontale – l’autogestione – lasci perdere la separazione tra dirigenti ed esecutori tipica delle società statalizzate. Il New Green Deal tanto apprezzato dagli ambientalisti sovvenzionati, l’oligopolio delle energie rinnovabili, l’internet dell’energia, la de carbonizzazione quotata in borsa, in breve, il capitalismo verde, non sono la risposta. Né lo Stato paternalistico del “welfare” di gregge con i suoi confini ermetici. Trasformare il sistema a forza di leggi, cercando il consenso con gli interessi in gioco, è impensabile. Il lungo tunnel capitalista ha una via d’uscita, ma non è possibile trovarla nella convivenza amichevole con l’attuale ordine delle cose, sostenendo la semplicità di rivolgersi all’aiuto di fondi altruistici o concordando un’agenda di decrescita con le autorità. Tutte le crisi convergono sul territorio, per cui l'intelligenza totale è facilmente afferrabile. Manca dunque soltanto la cristallizzazione di un soggetto agente, prodotto stavolta dalla confluenza tra agricoltori indipendenti, comunità di coloni, cooperative globali, sindacati agrari, ambientalisti onesti, disertori urbani e collettivi di lavoratori che rendano protagonista un movimento abbastanza consistente, capace di mettere in pratica gli imperativi della libertà e della ragione emancipatrice.

 

Miquel Amorós

Discorso del 6 ottobre 2023 all'Ateneu Llibertari di Elx


La situación actual desde una óptica libertaria




“No nos resignaremos a contemplar el fin del mundo, impotentes,
aislados y encerrados en nuestras casas. Necesitamos aire,
agua, tierra y espacios liberados para explorar nuevas relaciones
tanto entre los humanos como con el resto de seres vivos.”
Les Soulevements de la Terre, Llamamiento a retomar las tierras
y a  bloquear las industrias que las devoran.

“La decisión de convertir la provincia de León en zona de sacrificio
para generar energía y extraer todo tipo de recursos, que serán
enviados hacia las grandes ciudades y nodos industriales para
seguir manteniendo un imposible crecimiento en un mundo de
recursos finitos, es una huida hacia adelante en aras de seguir
potenciando el insostenible modo de vida actual...”
ARBA León. Manifiesto en defensa del territorio

 

El sistema capitalista, al funcionar subvirtiendo sus estadios anteriores obsoletos, autodestruyéndose en parte para recrearse aún con más vigor -incorporando más elementos foráneos al mercado-, vive en crisis continua. Los desarreglos del capitalismo, sean contenidos o catastróficos, son inherentes a él: se han vuelto su condición de existencia. Él es su principal enemigo y en ausencia de una oposición real, su única alternativa. Ningún peligro por esa parte. Sin embargo, la magnitud de los desperfectos ocasionados, junto con los problemas agravados por la violencia de la mercantilización, inducen a pensar en unos límites infranqueables y, por consiguiente, en un colapso definitivo a partir del cual los caminos de una “transición ecosocial” salvífica quedarían abiertos y transitables, y, tanto la autonomía como la autogestión, se podrían tocar con la mano. La cosa empero no es tan sencilla. Dejando aparte el hecho palmario de que el mundo de la mercancía es inautogestionable, resulta evidente que las dificultades del crecimiento económico, la escasez de materiales clave, el agotamiento próximo de los recursos energéticos fósiles, las consecuencias desastrosas del calentamiento global del planeta, la contaminación, y la inquietante regresión antropológica de la humanidad consumista, columbran un apocalipsis ribeteado por el fascismo. En efecto, la sociedad mundializada y deshumanizada a la par va de cabeza al precipicio, pero, a juzgar por lo que observamos, a poca velocidad, por etapas, discurriendo por múltiples vericuetos, deslizándose progresivamente hacia el autoritarismo, de forma que mejor hablar de un lapso de tiempo prolongado que de un derrumbe a corto plazo. No hay que menospreciar la capacidad del capital en convertir su propia decadencia en mercado, alargando así su fase terminal. El final no vendrá mientras el capitalismo logre comercializar su hundimiento. A no ser que un levantamiento popular suficientemente extenso se lo impida.

El fruto más ponzoñoso de la crisis ha sido el refuerzo del Estado. El papel que desempeña ya no es el de simple gendarme o el de mero regulador, sino el de interventor. El Estado, rescata bancos, gestiona fondos para salvaguardar empresas y estimular la demanda, invierte, establece pautas a lo que llama sostenibilidad y protege la huida capitalista hacia adelante, en concreto la denominada transición ecológica (fundamentalmente electrificación de la industria y el transporte) cuyos plazos se fijaron en el Pacto Verde Europeo, monumental programa de lavado ecologista de las grandes empresas del gas y del petróleo, principales impulsoras de las energías renovables. Por supuesto, las finanzas gobiernan el mundo (solamente los grandes fondos controlan la mitad del mercado mundial); pero los Estados preparan el escenario -trabajan en el “cambio de modelo”- construyen redes inteligentes nacionales para penetrar más fácilmente en todas las facetas de la economía. Quien controle la “economía sostenible” tendrá el poder. El nuevo curso del capitalismo exige algo más que otra vuelta de tuerca del control social: requiere en su núcleo la presencia estatal. El poder financiero se reconfigura y concentra gracias a una digitalización estatalmente asistida. El Estado participa y resuelve: la “revolución digital” precipita la fusión entre las jerarquías políticas y las nuevas oligarquías bursátiles y tecnológicas. El nivel de estatización adecuado dependerá de la intensidad de las crisis y de la conflictividad que hayan generado. En lenguaje de ejecutivo: dependerá de la suavidad de los “aterrizajes” de la economía y de la pusilanimidad de la resistencia encontrada.

Quienes reivindican la herencia libertaria, sobre todo en su carácter proletario, van a tropezar con una realidad histórica muy diferente a la de la época de los sindicatos únicos y los comités de barriada. No solo por la hegemonía ideológica y material de las nuevas clases medias, o por la automatización del trabajo industrial, o por la preponderancia de los servicios y la casi desaparición del campesinado, es decir, por la eliminación de la base de “la clase que lucha”. Las nuevas tecnologías no solo han suprimido empleos en los procesos productivos, sino que ha abierto de par en par las puertas a la colonización de las mentes (o del “imaginario”), a la alienación, disolviendo toda clase de vínculos sociales, evaporando relaciones que permitían el desarrollo de una cultura específicamente obrera, el terreno exclusivo de la conciencia de clase. En la era de los selfies desaparece el horizonte común a la mayoría proletarizada. Gracias al despliegue sin precedentes de un espacio virtual, la realidad se ha sumergido en un mar de representaciones fantásticas, al tiempo que la solidaridad colectiva ha cedido el lugar al individualismo narcisista y a las sociopatías. En lugar de clases peligrosas por sus inclinaciones anarquistas hoy nos vemos con una etérea “ciudadanía” compuesta por multitudes digitales desarraigadas, verdaderos enjambres humanos ciclotímicos entregados al consumo de aplicaciones.

Involución sicopática, electropopulismo, identitarismo folklórizado, religión woke, complotismo friki, crisis de valores, pérdida de referentes, asalto a la razón, posmodernismo... son fenómenos típicos no solo de  la crisis de las culturas de clase, sino de la crisis de la cultura occidental tal como ha venido conformándose desde el Renacimiento. Sus contenidos han sido dinamitados. No queda prácticamente nada que mantenga cohesionada una sociedad civil cuyos espacios comunes se desmenuzan y sus fundamentos espirituales se difuminan, donde la lucha de clases se remite reductoramente al cuerpo o al género, hechos que explican la volatilidad extrema de la experiencia de lucha, el repliegue en guetos, la peste emocional, la desvalorización del pasado y, en consecuencia, el presentismo, algo que bajo la batuta ciudadanista conlleva la tolerancia masoquista de partidos y asociaciones defensoras de la componenda con el Estado y las élites económicas, como si otro capitalismo menos terrorista fuera posible. Es evidente que ni la desterritorialización ni el “cambio” tecnológico tan celebrado por los dirigentes han beneficiado de algún modo a la mayoría asalariada, puesto que han suprimido o deteriorado lugares de trabajo repercutiendo negativamente en los salarios, han exacerbado la competencia entre los trabajadores reduciendo al mínimo su capacidad de negociación, han acarreado más desigualdad, han embrutecido a las masas laboriosas, etc., todo sin que se haya manifestado una oposición a la altura de las circunstancias. Da la impresión de que para una mayoría, la digitalización, a pesar de ser una gran devoradora de energía, y por lo tanto, una destacada responsable del cambio climático, se considera inexorable e incluso provechosa con tal de que una institución oficial la regule. Lo contrario de lo que sucede con la emigración. Tanto el rechazo de ese conformismo intolerante con los excluidos como la crítica de la tecnificación de la vida nos lleva a plantear la creación de una cultura antagonista a la civilización industrial, a forjar un imaginario genuinamente anticapitalista, o sea, una contracultura.

Las contraculturas se originan en los espacios liberados -esas “zonas a defender”- durante la confrontación con los intereses dominantes. Se desprenden de otras formas de vivir emergentes que escapan al consumo masificado, luego a la esfera del mercado. En la actualidad, únicamente la defensa del territorio es capaz de alumbrarlas, porque el conflicto territorial necesita apoyarse en realizaciones al margen del capitalismo y estas se dan con menos dificultades y mejores resultados en el campo. Los entornos urbanos están demasiado artificializados, atomizados, y son tecnodependientes. Terreno hostil para la conciencia. Eso no quiere decir que las luchas por los salarios, las pensiones, la vivienda, la gratuidad del transporte o los derechos de las minorías no sean importantes. Simplemente, el territorio es el eslabón más problemático de la cadena capitalista y la pieza suelta con mayor capacidad unificadora. Se ha convertido en componente estratégico decisivo, tanto para sus explotadores como para sus defensores. No obstante, en principio, se trata menos de llevar a cabo cruentas batallas contra las fuerzas del orden que de demostrar que otra forma de producir y administrarse más justa, sencilla e igualitaria es perfectamente factible. Para eso, hay que repoblar zonas mantenidas al margen del capital desde donde impulsar grandes movilizaciones contra la destrucción de suelo agrícola, la industria agroalimentaria o cualquier otra nocividad. No partir de fórmulas miríficas o de voluntarismos pueriles, sino de experiencias comunitarias autónomas y coordinadas que rompan con la lógica de la especialización y el beneficio, a fin de reconstruir un entramado de relaciones directas consuetudinarias lo bastante sólido como para sostener una ofensiva. Llegados a ese punto, los colectivos urbanos pueden ser auxiliares muy eficaces.

Los tiempos no discurren igual en todas partes. Como bien dijo alguien, la historia no es homogénea, numerosos factores se cuelan por sus intersticios y condicionan de diferente manera su devenir. Hoy en día, en nuestras coordenadas continentales, los combates de la dignidad se libran mayormente contra la avalancha de instalaciones de renovables industriales. En otros lugares la resistencia a la mercantilización se ejerce principalmente contra la construcción de urbanizaciones residenciales, complejos turísticos, autopistas y aeropuertos. En todas, el frente común  es contra la agricultura industrial. En amplias zonas a punto de ser devastadas por el extractivismo capitalista, más bien es cuestión de no entrar que de salir del capitalismo, de afrontar -incluso con armas en mano- las intrusiones vandálicas de los esbirros de la economía a todos los niveles, reforzando los vínculos de una sociedad campesina autogobernada, tal como sucede en diversos puntos de América Latina o del Kurdistán. La marcha de la historia -de las historias- ha sido hasta ahora una sucesión de desastres. La revolución nunca consistirá en un salto cualitativo en la productividad merced a un uso “democrático” de técnicas que son totalitarias por esencia. Jamás se basará en una aceleración pacífica de los cambios económicos guiada desde el Estado por bienintencionados conductores expertos, sino en una detención abrupta de los mismos, obra anónima de un sujeto colectivo oprimido. Rememorando a Walter Benjamin, diremos que no es cosa de ascender peldaños, sino de tirar del freno de emergencia.

Un mundo no sometido a los mecanismos ciegos e incontrolables del capitalismo es viable, con tal de que la producción persiga la satisfacción de necesidades en lugar de la acumulación de riqueza abstracta; con tal de que la relación con la naturaleza sea equilibrada y de que la administración horizontal -la autogestión- deje atrás la separación entre dirigentes y ejecutantes típica de las sociedades estatizadas. El Nuevo Pacto Verde tan preciado por los ecologistas subvencionados, el oligopolio de las renovables, el internet de la energía, la descarbonización cotizable en bolsa, en suma, el capitalismo verde, no es la respuesta. Ni tampoco el Estado paternalista del “bienestar” de rebaño con sus fronteras herméticas. Transformar el sistema a golpe de ley, buscando el consenso con los intereses creados, es impensable. El largo túnel capitalista tiene salida, pero no es posible encontrarla en amistosa coexistencia con el actual orden de cosas, abonando la simplicidad mediante ayudas de fondos altruistas o pactando una agenda decrecentista con las autoridades. En el territorio convergen todas las crisis, por lo que una inteligencia total es fácilmente aprehensible. Tan solo falta la cristalización de un sujeto agente, esta vez producto de la confluencia entre agricultores independientes, comunidades de pobladores, cooperativas integrales, sindicatos agrarios, ecologistas honestos, desertores urbanos y colectivos obreros, que protagonice un movimiento suficientemente consistente capaz de llevar a la práctica los imperativos de la libertad y de la razón emancipadora.

Miquel Amorós Charla del 6 de octubre de 2023 en el Ateneu Llibertari de Elx