Il
sistema capitalista, funzionando con il sovvertimento delle sue precedenti fasi
obsolete, autodistruggendosi parzialmente per ricrearsi con maggior vigore –
incorporando più elementi estranei al mercato – vive in continua crisi. I
disordini del capitalismo, moderati o catastrofici, gli sono inerenti: sono
diventati la sua condizione di esistenza. Sono il suo principale nemico e, in
assenza di una reale opposizione, la sua unica alternativa. Nessun pericolo da
questo lato. Tuttavia, l’entità dei danni provocati, insieme ai problemi
aggravati dalla violenza della mercantilizzazione, inducono a pensare a limiti
invalicabili e, di conseguenza, ad un crollo definitivo dal quale resterebbero
aperte e praticabili le strade di una salvifica “transizione eco sociale”, dove
sia l’autonomia che l’autogestione si potrebbero toccare con mano. La cosa,
però, non è così semplice. Tralasciando il fatto ovvio che il mondo delle merci
non è autogestibile, è evidente che le difficoltà della crescita economica, la
penuria di materie prime, l’imminente esaurimento delle risorse energetiche
fossili, le disastrose conseguenze del riscaldamento globale del pianeta, dell’inquinamento
e dell’inquietante regressione antropologica dell’umanità consumistica,
lasciano intravedere un’apocalisse ai bordi del fascismo. In effetti, la
società globalizzata e disumanizzata sta precipitando a capofitto nel
precipizio ma, giudicando da quel che si osserva, per tappe, attraversando
molteplici svolte, scivolando progressivamente verso l’autoritarismo, cosicché
è meglio parlare di un lungo periodo piuttosto che di un collasso a breve
termine. Non bisogna sottovalutare la capacità del capitale di trasformare in
mercato la propria insensata decadenza, prolungando così la propria fase
terminale. La fine non arriverà finché il capitalismo riuscirà a
commercializzare il suo collasso. A meno che una rivolta popolare sufficientemente
estesa lo impedisca.
Il
frutto più velenoso della crisi è stato il rafforzamento dello Stato. Il ruolo
che svolge non è più quello di un semplice gendarme o di un mero regolatore, ma
quello di chi interviene. Lo Stato salva le banche, gestisce fondi per
salvaguardare le imprese e stimolare la domanda, investe, stabilisce le linee
guida per quella che chiama sostenibilità e protegge la fuga capitalista in
avanti, in particolare la cosiddetta transizione ecologica (fondamentalmente
elettrificazione dell’industria e dei trasporti) le cui scadenze sono state
fissate nel Green Deal europeo, un monumentale programma di greenwashing
delle grandi compagnie petrolifere e del gas, principali promotrici delle
energie rinnovabili. Naturalmente, la finanza governa il mondo (i grandi fondi
controllano da soli la metà del mercato mondiale); Ma gli Stati stanno
preparando il terreno, lavorando al “cambiamento di modello”, costruendo reti
nazionali intelligenti per penetrare più facilmente tutti gli aspetti dell’economia.
Chiunque controllerà l’“economia sostenibile” avrà il potere. Il nuovo corso
del capitalismo richiede più di una semplice svolta nel controllo sociale:
richiede al centro la presenza dello Stato. Il potere finanziario è
riconfigurato e concentrato grazie alla digitalizzazione assistita dallo Stato.
Lo Stato partecipa e risolve: la “rivoluzione digitale” accelera la fusione tra
le gerarchie politiche e le nuove oligarchie borsistiche e tecnologiche. Il
livello appropriato di nazionalizzazione dipenderà dall’intensità delle crisi e
dal conflitto che hanno generato. Nel linguaggio esecutivo: dipenderà dalla
dolcezza degli “atterraggi” dell'economia e dalla debolezza delle resistenze
incontrate.
Coloro
che rivendicano l’eredità libertaria, soprattutto nel suo carattere proletario,
si troveranno ad affrontare una realtà storica molto diversa da quella dell’era
dei sindacati unici e dei comitati di quartiere. Non solo per l’egemonia
ideologica e materiale delle nuove classi medie, o per l’automazione del lavoro
industriale, o per la preponderanza dei servizi e la quasi scomparsa dei
contadini, cioè per l’eliminazione della base de “la classe che lotta”. Le
nuove tecnologie non solo hanno soppresso posti di lavoro nei processi produttivi,
ma hanno spalancato le porte alla colonizzazione delle menti (o dell’“immaginario”),
all’alienazione, dissolvendo ogni tipo di legame sociale, facendo evaporare
relazioni che consentivano lo sviluppo di una cultura specificamente operaia,
terreno esclusivo della coscienza di classe. Nell’era dei selfie, l’orizzonte
comune della maggioranza proletarizzata scompare. Grazie allo sviluppo senza
precedenti di uno spazio virtuale, la realtà è stata sommersa in un mare di
rappresentazioni fantastiche, mentre la solidarietà collettiva ha lasciato il
posto all’individualismo narcisistico e alle sociopatie. Invece di classi
pericolose per le loro inclinazioni anarchiche, oggi ci troviamo con una
“cittadinanza” eterea composta di moltitudini digitali sradicate, veri e propri
sciami umani ciclotimici dediti al consumo di applicazioni.
Involuzione
psicopatica, elettropopulismo, identitarismo folclorizzato, complottismo geek,
crisi di valori, perdita di riferimenti, assalto alla ragione, postmodernismo...
sono fenomeni tipici non solo della crisi delle culture di classe, ma della
crisi della cultura occidentale così come si è conformata a partire dal
Rinascimento. I suoi contenuti sono stati dinamitati. Non c’è praticamente più
nulla che tenga insieme una società civile i cui spazi comuni si disgregano,
fatto che spiega l’estrema volatilità dell’esperienza di lotta, il ripiegamento
nei ghetti, la peste emozionale, la svalutazione del passato e, di conseguenza,
il presentismo, qualcosa che sotto il cittadinismo della leadership comporta la
tolleranza masochistica dei partiti e delle associazioni che difendono il
compromesso con lo Stato e le élite, come se un altro capitalismo meno
terroristico fosse possibile. È evidente che né la deterritorializzazione né il
“cambiamento” tecnologico tanto celebrato dai dirigenti hanno giovato in alcun
modo alla maggioranza salariata, giacché hanno eliminato o deteriorato posti di
lavoro, incidendo negativamente sui salari, hanno esacerbato la concorrenza tra
i lavoratori, riducendo al minimo la loro capacità negoziale, hanno portato a
una maggiore disuguaglianza, hanno brutalizzato le masse, ecc., il tutto senza
che alcuna opposizione all’altezza della situazione si sia manifestata. Sembra
che per la maggioranza la digitalizzazione, pur essendo un grande divoratore di
energia, e quindi una delle principali cause del mutamento climatico, sia
considerata inesorabile e persino benefica fintanto che un’istituzione
ufficiale la regola. Il contrario di quanto accade con l’emigrazione. Sia il
rifiuto di questo conformismo intollerante verso gli esclusi, sia la critica della
tecnicizzazione della vita ci portano a proporre la creazione di una cultura
antagonista alla civiltà industriale, per forgiare un immaginario
autenticamente anticapitalista, cioè una controcultura.
Le
controculture hanno origine negli spazi liberati – quelle “zone da difendere” –
durante il confronto con gli interessi dominanti. Emergono da altri modi di
vivere emergenti che sfuggono al consumo di massa, quindi alla sfera del
mercato. Attualmente solo la difesa del territorio è in grado di illuminarle,
perché il conflitto territoriale ha bisogno di essere sostenuto da realizzazioni
in margine al capitalismo e queste avvengono con minori difficoltà e migliori
risultati in campagna. Gli ambienti urbani sono troppo artificializzati,
atomizzati e tecno-dipendenti. Sono terreno ostile alla coscienza. Ciò non
significa che le lotte per i salari, le pensioni, l’alloggio, i trasporti
gratuiti o i diritti delle minoranze non siano importanti. Semplicemente, il
territorio è l’anello più problematico della catena capitalista e con la
maggiore capacità unificante. È diventato un elemento strategico decisivo, sia
per i suoi sfruttatori sia per i suoi difensori. Tuttavia, in linea di
principio, non si tratta tanto di condurre cruente battaglie contro le forze
dell’ordine quanto di dimostrare che un altro modo di produrre e gestire, più
giusto, più semplice e più egualitario, è perfettamente fattibile. Per
raggiungere quest’obiettivo, dobbiamo ripopolare le aree lontane dal capitale
da cui promuovere grandi mobilitazioni contro la distruzione dei terreni
agricoli o qualsiasi altra nocività. Non partire da formule miracolose o da
volontarismi puerili, ma da esperienze comunitarie autonome e coordinate che
rompano con la logica della specializzazione e del profitto, per ricostruire
una rete di rapporti diretti consuetudinari sufficientemente solida da
sostenere un'offensiva. Arrivati a questo punto, i gruppi urbani possono essere
ausiliari molto efficaci.
I
tempi non scorrono uguali ovunque. Come qualcuno ha giustamente affermato, la
storia non è omogenea, numerosi fattori s’insinuano nei suoi interstizi e ne
condizionano in modi diversi il divenire. Oggi, nelle nostre coordinate
continentali, le lotte per la dignità si combattono soprattutto contro la
valanga d’impianti di energie rinnovabili industriali. Altrove, la resistenza
alla mercantilizzazione si esercita soprattutto contro la costruzione d’insediamenti
residenziali, complessi turistici, autostrade e aeroporti. In tutti loro il
fronte comune è contro l’agricoltura industriale. In vaste aree che stanno per
essere devastate dall’estrattivismo capitalista, si tratta piuttosto di non
entrare che di uscire dal capitalismo, di affrontare – anche con le armi alla
mano – le intrusioni vandaliche degli scagnozzi dell’economia a tutti i
livelli, rafforzando i legami di una società contadina autogovernata, come
accade in varie parti dell’America Latina o del Kurdistan. Il cammino della
storia – delle storie – è stato finora un susseguirsi di disastri. La
rivoluzione non consisterà mai in un salto di qualità della produttività grazie
ad un uso “democratico” di tecniche che sono essenzialmente totalitarie. Non
si baserà mai su un’accelerazione pacifica dei cambiamenti economici guidata
dallo Stato da guidatori esperti e ben intenzionati, ma piuttosto su un loro
brusco arresto, opera anonima di un soggetto collettivo oppresso. Ricordando
Walter Benjamin, diremo che non si tratta di salire i gradini, ma di tirare il
freno di emergenza.
Un
mondo non soggetto ai meccanismi ciechi e incontrollabili del capitalismo è
possibile, purché la produzione persegua la soddisfazione dei bisogni anziché
l’accumulazione di ricchezza astratta; purché il rapporto con la natura sia
equilibrato e l’amministrazione orizzontale – l’autogestione – lasci perdere la
separazione tra dirigenti ed esecutori tipica delle società statalizzate. Il New Green Deal tanto apprezzato dagli
ambientalisti sovvenzionati, l’oligopolio delle energie rinnovabili, l’internet
dell’energia, la de carbonizzazione quotata in borsa, in breve, il capitalismo
verde, non sono la risposta. Né lo Stato paternalistico del “welfare” di gregge
con i suoi confini ermetici. Trasformare il sistema a forza di leggi, cercando
il consenso con gli interessi in gioco, è impensabile. Il lungo tunnel
capitalista ha una via d’uscita, ma non è possibile trovarla nella convivenza
amichevole con l’attuale ordine delle cose, sostenendo la semplicità di
rivolgersi all’aiuto di fondi altruistici o concordando un’agenda di decrescita
con le autorità. Tutte le crisi convergono sul territorio, per cui
l'intelligenza totale è facilmente afferrabile. Manca dunque soltanto la
cristallizzazione di un soggetto agente, prodotto stavolta dalla confluenza tra
agricoltori indipendenti, comunità di coloni, cooperative globali, sindacati
agrari, ambientalisti onesti, disertori urbani e collettivi di lavoratori che rendano
protagonista un movimento abbastanza consistente, capace di mettere in pratica
gli imperativi della libertà e della ragione emancipatrice.
Miquel
Amorós
Discorso
del 6 ottobre 2023 all'Ateneu Llibertari di Elx
La situación actual desde una óptica libertaria
El sistema
capitalista, al funcionar subvirtiendo sus estadios anteriores obsoletos,
autodestruyéndose en parte para recrearse aún con más vigor -incorporando más
elementos foráneos al mercado-, vive en crisis continua. Los desarreglos del
capitalismo, sean contenidos o catastróficos, son inherentes a él: se han
vuelto su condición de existencia. Él es su principal enemigo y en ausencia de
una oposición real, su única alternativa. Ningún peligro por esa parte. Sin
embargo, la magnitud de los desperfectos ocasionados, junto con los problemas
agravados por la violencia de la mercantilización, inducen a pensar en unos
límites infranqueables y, por consiguiente, en un colapso definitivo a partir
del cual los caminos de una “transición ecosocial” salvífica quedarían abiertos
y transitables, y, tanto la autonomía como la autogestión, se podrían tocar con
la mano. La cosa empero no es tan sencilla. Dejando aparte el hecho palmario de
que el mundo de la mercancía es inautogestionable, resulta evidente que las
dificultades del crecimiento económico, la escasez de materiales clave, el
agotamiento próximo de los recursos energéticos fósiles, las consecuencias
desastrosas del calentamiento global del planeta, la contaminación, y la
inquietante regresión antropológica de la humanidad consumista, columbran un
apocalipsis ribeteado por el fascismo. En efecto, la sociedad mundializada y
deshumanizada a la par va de cabeza al precipicio, pero, a juzgar por lo que
observamos, a poca velocidad, por etapas, discurriendo por múltiples
vericuetos, deslizándose progresivamente hacia el autoritarismo, de forma que
mejor hablar de un lapso de tiempo prolongado que de un derrumbe a corto plazo.
No hay que menospreciar la capacidad del capital en convertir su propia
decadencia en mercado, alargando así su fase terminal. El final no vendrá
mientras el capitalismo logre comercializar su hundimiento. A no ser que un
levantamiento popular suficientemente extenso se lo impida.
El fruto más
ponzoñoso de la crisis ha sido el refuerzo del Estado. El papel que desempeña
ya no es el de simple gendarme o el de mero regulador, sino el de interventor.
El Estado, rescata bancos, gestiona fondos para salvaguardar empresas y
estimular la demanda, invierte, establece pautas a lo que llama sostenibilidad
y protege la huida capitalista hacia adelante, en concreto la denominada
transición ecológica (fundamentalmente electrificación de la industria y el
transporte) cuyos plazos se fijaron en el Pacto Verde Europeo, monumental
programa de lavado ecologista de las grandes empresas del gas y del petróleo,
principales impulsoras de las energías renovables. Por supuesto, las finanzas
gobiernan el mundo (solamente los grandes fondos controlan la mitad del mercado
mundial); pero los Estados preparan el escenario -trabajan en el “cambio de
modelo”- construyen redes inteligentes nacionales para penetrar más fácilmente
en todas las facetas de la economía. Quien controle la “economía sostenible”
tendrá el poder. El nuevo curso del capitalismo exige algo más que otra vuelta
de tuerca del control social: requiere en su núcleo la presencia estatal. El
poder financiero se reconfigura y concentra gracias a una digitalización
estatalmente asistida. El Estado participa y resuelve: la “revolución digital”
precipita la fusión entre las jerarquías políticas y las nuevas oligarquías
bursátiles y tecnológicas. El nivel de estatización adecuado dependerá de la
intensidad de las crisis y de la conflictividad que hayan generado. En lenguaje
de ejecutivo: dependerá de la suavidad de los “aterrizajes” de la economía y de
la pusilanimidad de la resistencia encontrada.
Quienes reivindican
la herencia libertaria, sobre todo en su carácter proletario, van a tropezar
con una realidad histórica muy diferente a la de la época de los sindicatos
únicos y los comités de barriada. No solo por la hegemonía ideológica y
material de las nuevas clases medias, o por la automatización del trabajo
industrial, o por la preponderancia de los servicios y la casi desaparición del
campesinado, es decir, por la eliminación de la base de “la clase que lucha”.
Las nuevas tecnologías no solo han suprimido empleos en los procesos
productivos, sino que ha abierto de par en par las puertas a la colonización de
las mentes (o del “imaginario”), a la alienación, disolviendo toda clase de
vínculos sociales, evaporando relaciones que permitían el desarrollo de una
cultura específicamente obrera, el terreno exclusivo de la conciencia de clase.
En la era de los selfies desaparece el horizonte común a la mayoría
proletarizada. Gracias al despliegue sin precedentes de un espacio virtual, la
realidad se ha sumergido en un mar de representaciones fantásticas, al tiempo
que la solidaridad colectiva ha cedido el lugar al individualismo narcisista y
a las sociopatías. En lugar de clases peligrosas por sus inclinaciones
anarquistas hoy nos vemos con una etérea “ciudadanía” compuesta por multitudes
digitales desarraigadas, verdaderos enjambres humanos ciclotímicos entregados
al consumo de aplicaciones.
Involución
sicopática, electropopulismo, identitarismo folklórizado, religión woke,
complotismo friki, crisis de valores, pérdida de referentes, asalto a la razón,
posmodernismo... son fenómenos típicos no solo de la crisis de las culturas de clase, sino de
la crisis de la cultura occidental tal como ha venido conformándose desde el
Renacimiento. Sus contenidos han sido dinamitados. No queda prácticamente nada
que mantenga cohesionada una sociedad civil cuyos espacios comunes se
desmenuzan y sus fundamentos espirituales se difuminan, donde la lucha de
clases se remite reductoramente al cuerpo o al género, hechos que explican la
volatilidad extrema de la experiencia de lucha, el repliegue en guetos, la
peste emocional, la desvalorización del pasado y, en consecuencia, el
presentismo, algo que bajo la batuta ciudadanista conlleva la tolerancia
masoquista de partidos y asociaciones defensoras de la componenda con el Estado
y las élites económicas, como si otro capitalismo menos terrorista fuera
posible. Es evidente que ni la desterritorialización ni el “cambio” tecnológico
tan celebrado por los dirigentes han beneficiado de algún modo a la mayoría
asalariada, puesto que han suprimido o deteriorado lugares de trabajo
repercutiendo negativamente en los salarios, han exacerbado la competencia
entre los trabajadores reduciendo al mínimo su capacidad de negociación, han
acarreado más desigualdad, han embrutecido a las masas laboriosas, etc., todo
sin que se haya manifestado una oposición a la altura de las circunstancias. Da
la impresión de que para una mayoría, la digitalización, a pesar de ser una
gran devoradora de energía, y por lo tanto, una destacada responsable del
cambio climático, se considera inexorable e incluso provechosa con tal de que
una institución oficial la regule. Lo contrario de lo que sucede con la
emigración. Tanto el rechazo de ese conformismo intolerante con los excluidos
como la crítica de la tecnificación de la vida nos lleva a plantear la creación
de una cultura antagonista a la civilización industrial, a forjar un imaginario
genuinamente anticapitalista, o sea, una contracultura.
Las contraculturas se
originan en los espacios liberados -esas “zonas a defender”- durante la
confrontación con los intereses dominantes. Se desprenden de otras formas de
vivir emergentes que escapan al consumo masificado, luego a la esfera del
mercado. En la actualidad, únicamente la defensa del territorio es capaz de
alumbrarlas, porque el conflicto territorial necesita apoyarse en realizaciones
al margen del capitalismo y estas se dan con menos dificultades y mejores
resultados en el campo. Los entornos urbanos están demasiado artificializados,
atomizados, y son tecnodependientes. Terreno hostil para la conciencia. Eso no
quiere decir que las luchas por los salarios, las pensiones, la vivienda, la
gratuidad del transporte o los derechos de las minorías no sean importantes.
Simplemente, el territorio es el eslabón más problemático de la cadena
capitalista y la pieza suelta con mayor capacidad unificadora. Se ha convertido
en componente estratégico decisivo, tanto para sus explotadores como para sus
defensores. No obstante, en principio, se trata menos de llevar a cabo cruentas
batallas contra las fuerzas del orden que de demostrar que otra forma de
producir y administrarse más justa, sencilla e igualitaria es perfectamente
factible. Para eso, hay que repoblar zonas mantenidas al margen del capital
desde donde impulsar grandes movilizaciones contra la destrucción de suelo
agrícola, la industria agroalimentaria o cualquier otra nocividad. No partir de
fórmulas miríficas o de voluntarismos pueriles, sino de experiencias
comunitarias autónomas y coordinadas que rompan con la lógica de la
especialización y el beneficio, a fin de reconstruir un entramado de relaciones
directas consuetudinarias lo bastante sólido como para sostener una ofensiva.
Llegados a ese punto, los colectivos urbanos pueden ser auxiliares muy
eficaces.
Los tiempos no
discurren igual en todas partes. Como bien dijo alguien, la historia no es
homogénea, numerosos factores se cuelan por sus intersticios y condicionan de
diferente manera su devenir. Hoy en día, en nuestras coordenadas continentales,
los combates de la dignidad se libran mayormente contra la avalancha de
instalaciones de renovables industriales. En otros lugares la resistencia a la
mercantilización se ejerce principalmente contra la construcción de
urbanizaciones residenciales, complejos turísticos, autopistas y aeropuertos.
En todas, el frente común es contra la
agricultura industrial. En amplias zonas a punto de ser devastadas por el extractivismo
capitalista, más bien es cuestión de no entrar que de salir del capitalismo, de
afrontar -incluso con armas en mano- las intrusiones vandálicas de los esbirros
de la economía a todos los niveles, reforzando los vínculos de una sociedad
campesina autogobernada, tal como sucede en diversos puntos de América Latina o
del Kurdistán. La marcha de la historia -de las historias- ha sido hasta ahora
una sucesión de desastres. La revolución nunca consistirá en un salto
cualitativo en la productividad merced a un uso “democrático” de técnicas que
son totalitarias por esencia. Jamás se basará en una aceleración pacífica de
los cambios económicos guiada desde el Estado por bienintencionados conductores
expertos, sino en una detención abrupta de los mismos, obra anónima de un
sujeto colectivo oprimido. Rememorando a Walter Benjamin, diremos que no es
cosa de ascender peldaños, sino de tirar del freno de emergencia.
Un mundo no sometido
a los mecanismos ciegos e incontrolables del capitalismo es viable, con tal de
que la producción persiga la satisfacción de necesidades en lugar de la
acumulación de riqueza abstracta; con tal de que la relación con la naturaleza
sea equilibrada y de que la administración horizontal -la autogestión- deje
atrás la separación entre dirigentes y ejecutantes típica de las sociedades
estatizadas. El Nuevo Pacto Verde tan preciado por los ecologistas
subvencionados, el oligopolio de las renovables, el internet de la energía, la
descarbonización cotizable en bolsa, en suma, el capitalismo verde, no es la
respuesta. Ni tampoco el Estado paternalista del “bienestar” de rebaño con sus
fronteras herméticas. Transformar el sistema a golpe de ley, buscando el
consenso con los intereses creados, es impensable. El largo túnel capitalista
tiene salida, pero no es posible encontrarla en amistosa coexistencia con el
actual orden de cosas, abonando la simplicidad mediante ayudas de fondos
altruistas o pactando una agenda decrecentista con las autoridades. En el
territorio convergen todas las crisis, por lo que una inteligencia total es
fácilmente aprehensible. Tan solo falta la cristalización de un sujeto agente,
esta vez producto de la confluencia entre agricultores independientes,
comunidades de pobladores, cooperativas integrales, sindicatos agrarios,
ecologistas honestos, desertores urbanos y colectivos obreros, que protagonice
un movimiento suficientemente consistente capaz de llevar a la práctica los imperativos
de la libertad y de la razón emancipadora.
Miquel Amorós Charla del 6 de octubre de 2023
en el Ateneu Llibertari de Elx