Di fronte
all’artificializzazione della vita da cui scompare l’intelligenza sensibile che
inventa l’umano nell’animalità originaria, questo testo di Matthieu Amiech che
ho tradotto dal francese mette al centro della questione sociale il mito del
progresso tecnologico incessante, rimettendo in causa l’industrializzazione
produttivista al servizio dell’economia politica e denunciando l’ossimoro
dell’intelligenza artificiale che rende idioti. Questa radicale zona da
difendere appare ormai a molti di noi come una conditio sine qua non della sopravvivenza qualitativa della
specie.
Sergio Ghirardi
Sauvageon
Ci
si può opporre all’informatizzazione del mondo ?
Il 13 marzo 2019, nel programma
radio “Du grain à moudre” su France
Culture, Hervé Gardette ha ricevuto tre ricercatori per rispondere a una
domanda apparentemente poco sovversiva: “Il 5G renderà le nostre vite più
facili?” Dopo qualche scambio iniziale sullo stato attuale delle reti e sulle
sfide industriali di questo progetto di intensificazione delle onde della
telefonia mobile, il giornalista dà una svolta piuttosto inaspettata
all'intervista: "Pensa che la questione dell'utilità sia sufficientemente
posta? Ci é venduta una società che sarà strutturata diversamente, [quindi]
abbiamo la possibilità di dire – diciamo, la società francese – che preferiamo
non scegliere il 5G, perché in vista di guadagni e perdite, noi preferiamo
restare dove siamo? Oppure non è ipotizzabile una domanda del genere?”
Pierre-Jean Benghouzi,
professore all'École Polytechnique (ed ex membro dell'Autorità di
regolamentazione delle comunicazioni e delle poste, Arcep), leggermente
sorpreso, esordisce rispondendo: “No, non è impensabile”. Hervé Gardette allora
insiste: “Dunque si può dire: no, non ci stiamo”. Benghouzi corregge il tiro:
“No, non si può …” Pochi istanti dopo, un altro relatore, il semiologo Laurence
Allard, risponde in modo molto diverso: “La risposta può essere data dalla
terra stessa, dal pianeta, che può a suo modo dire di no. Perché questo
scenario socio tecnico, consistente nel connettere tutti gli oggetti,
moltiplicare i data center, estrarre ancora
di più metalli rari, è abbastanza improbabile in termini ambientali”. Evidenziando
così il legame tra il nostro stile di vita iperconnesso e il riscaldamento
globale.
Qualche settimana prima, in pieno movimento dei Gilet Gialli, il
difensore dei diritti Jacques Toubon aveva posto al centro del suo rapporto del
2019 il problema della disuguaglianza nell’accesso ai servizi pubblici causata
dalle sistematiche politiche di “de materializzazione” di questi servizi[1]. Secondo le sue stime, in
Francia 13 milioni di persone non hanno un facile accesso alle tecnologie dell’informazione
e della comunicazione (TIC): residenti di comunità rurali, pensionati,
cittadini di origine straniera in frequente contatto con le prefetture – tra
gli altri … Il suo rapporto non esprime propriamente una posizione contraria
alla digitalizzazione dei servizi pubblici, può persino essere letto come un
appello ad accelerare gli sforzi per formare e connettere queste popolazioni alle
tecnologie informatiche. Intanto, però, chiede al governo e alle
amministrazioni che siano mantenuti ovunque sportelli fisici – che l'uso di Internet non diventi un obbligo per gli utenti. In
un contesto in cui un'istituzione importante come la SNCF elimina la maggior
parte delle biglietterie delle sue stazioni, per non lasciare ai viaggiatori
altra scelta che acquistare i biglietti online, una simile raccomandazione non
è trascurabile[2].
In modo meno radicale della domanda posta sopra da Hervé
Gardette, la raccomandazione del Difensore dei Diritti si oppone al
determinismo tecnologico. La prima mette in dubbio l’inevitabilità
dell’implementazione del 5G: non è perché ci consente di fare più cose e più
velocemente che la sua adozione è necessaria e automatica. La seconda mette in
discussione l'imposizione dell'uso universale di Internet: non è perché alcuni
servizi possono essere forniti online che le altre modalità finora esistenti
devono scomparire. La messa in discussione della prima e l'esigenza della
seconda risuonano in un clima di scetticismo, se non di preoccupazione in
Francia, di fronte alla ricerca incessante e frenetica dello sviluppo delle
TIC. Fino a poco tempo fa, la critica esplicita agli effetti sociali e politici
delle TIC era limitata ai sostenitori della decrescita. Ora si sta diffondendo
oltre, come dimostra il rifiuto abbastanza ampio dei contatori Linky da parte
della popolazione e, più recentemente, la tensione attorno al 5G. Forse non
siamo ancora al punto di rifiuto causato in passato dal programma nucleare o
dagli OGM; ma si sta delineando una consapevolezza condivisa che
l'informatizzazione del mondo pone seri problemi politici, nonostante la forza
delle abitudini di ciascuno in termini di connessione alla propria tribù e alla
rete globale.
In modo meno radicale della domanda posta sopra da Hervé
Gardette, la raccomandazione del Difensore dei Diritti si contrappone al
determinismo tecnologico. Il primo mette in dubbio l’inevitabilità
dell’implementazione del 5G – non è perché ci consente di fare più cose e più velocemente che
la sua adozione è necessaria e automatica. Il secondo mette in discussione
l'imposizione dell'uso universale di Internet – non è perché alcuni servizi possono essere forniti online che
le altre modalità finora esistenti devono scomparire. La messa in discussione
del primo e l'esigenza del secondo entrano in risonanza con un clima di
scetticismo, vuoi di preoccupazione in Francia, di fronte alla ricerca
incessante e frenetica dello sviluppo delle TIC (Tecnologie Informative e
Comunicative). Fino a poco tempo fa, la critica esplicita agli effetti sociali
e politici delle TIC era limitata ai sostenitori della decrescita. Ora si sta
diffondendo oltre, come dimostra il rifiuto abbastanza ampio dei contatori
Linky da parte della popolazione e, più recentemente, la tensione attorno al
5G. Forse non siamo ancora al punto di rifiuto causato in passato dal programma
nucleare o dagli OGM; ma si sta delineando una coscienza condivisa che
l'informatizzazione del mondo pone seri problemi politici, nonostante la forza
delle abitudini di ciascuno in termini di connessione alla propria tribù e alla
rete globale.
Affinché questa coscienza diffusa e ancora vaga diventi un
movimento di opposizione, è necessario che lo sviluppo della tecnologia cessi
di sembrare una fatalità. Non ci si può opporre a qualcosa che si percepisce
come un destino scritto in anticipo: se l’informatizzazione è un processo più o
meno naturale, si impone a tutti e nessuno può opporsi. Se invece è il
risultato di politiche volontariste di Stati, imprese, grandi fondazioni e
sforzi colossali in materia di ricerca scientifica, allora ha almeno una parte di
contingenza. Dipende da decisioni ministeriali, da scelte gestionali, da finanziamenti
pubblici e privati che possono essere denunciati, contestati vuoi impediti.
Nonostante le ripetute inchieste di alcuni gruppi o giornali sull’argomento[3], il carattere estremamente
volontarista, e quindi evitabile, dello sviluppo tecnologico non è ancora
sufficientemente percepito, anche tra le fasce politicizzate o ribelli della
popolazione.
Opporsi all’informatizzazione del mondo implica ovviamente
considerare che ciò è possibile – e perfino pensabile. Ciò suppone anche di
trovarlo sensato e perfino desiderabile. Qui mi soffermerò su alcune ragioni
che dovrebbero far apparire tale opposizione non solo sensata, ma anche indispensabile.
La nostra dipendenza dagli schermi, e la concomitante riduzione delle nostre
vite a una riserva di informazioni, pone almeno quattro grandi problemi
politici: le imprese economiche stanno aumentando considerevolmente la loro
influenza su di noi; il potere sociale tende a concentrarsi in maniera straordinaria;
il lavoro è più facilmente sfruttabile dal capitale; la catastrofe ecologica in
corso è chiaramente aggravata dalla crescita esponenziale delle tecnologie
cosiddette “immateriali”. Come si vede, non si tratta di questioni estetiche,
di partiti presi sensibili o filosofici, che possono del resto legittimamente
entrare in gioco nel giudicare un mondo dove macchine, algoritmi e procedure impersonali
occupano sempre più posto[4]. Si tratta di problemi
politici essenziali, davanti ai quali nessun sostenitore del progresso sociale
e umano – dell’uguaglianza e della libertà – può rimanere indifferente; e ai
quali un numero crescente di nostri contemporanei è effettivamente sensibile,
anche se ciò non porta per il momento a un rifiuto massiccio della
chincaglieria elettronica.
La crescente
influenza delle imprese economiche sulle nostre esistenze
All’inizio degli anni 2000 Internet sarà il vettore di una
profonda trasformazione dei rapporti tra imprese e consumatori. Non si
contavano gli articoli, i libri e le rubriche che annunciavano la presa di
potere dei consumatori, finalmente in grado d’informarsi e organizzarsi grazie
alle nuove tecnologie. Le quali dovevano porre fine all’asimmetria tra le
grandi organizzazioni industriali, con le loro tecniche di marketing, e la loro
clientela atomizzata e facilmente manipolabile. La ricercatrice americana
Shoshana Zuboff, che ha appena pubblicato L’epoca
del capitalismo di sorveglianza, concordava allora con le analisi molto diffuse
che profetizzano la nascita di “un mondo di individui informati che cercano di
controllare la qualità della propria vita” e impongono le proprie scelte alle
imprese; parlava di “un nuovo capitalismo distribuito, dove la creazione di
valore dipende da una nuova logica di distribuzione attenta ai bisogni delle
persone[5]”.
Vent’anni dopo, sostenere che Internet abbia emancipato
massicciamente le popolazioni dalla società dei consumi è diventato molto
difficile. Il tempo trascorso sugli schermi ci espone in modo approfondito alla
pubblicità e ha consentito un affinamento delle tecniche di marketing difficile
da immaginare nel ventesimo secolo. Parlare di “accerchiamento del consumatore”
(John K. Galbraith, 1967) o di “società burocratica di consumo gestito” (Henri
Lefebvre, 1958) sembra del tutto insufficiente per descrivere il tipo di
influenza che gli attori della grande industria esercitano sui cittadini di
oggi.
Nel suo scritto del 2019, Shoshana Zuboff cambia completamente posizione.
Convalida tutti gli allarmi lanciati negli ultimi due decenni da coloro che non
vedevano l’informatizzazione come una promessa di libertà. Ripercorre
dettagliatamente gli sviluppi che hanno fatto del World Wide Web il terreno di un condizionamento degli individui senza
precedenti: la svolta lucrativa di Google nel 2003, che integra la schedatura
degli utenti del motore di ricerca “ai fini della pubblicità mirata”; il
passaggio di una dirigente di alto livello di Google, Sheryl Sandberg, a
Facebook nel 2008, dove ha importato i suddetti metodi di schedatura;
l'installazione di dispositivi per spiare le nostre abitudini sulle pagine web
come nell'elettronica dell'automobile; l'apparizione degli oggetti connessi; il
lancio del gioco Pokemon Go nel 2016 da parte di un ex dipendente di Google
Maps, in cui i cacciatori di Pokemon vengono “telecomandati” nello spazio
urbano per portarli in particolare nei negozi che hanno pagato per partecipare
al gioco[6]…
Per completare, sottolineiamo che gli individui che trascorrono
molto tempo sulle interfacce sviluppate dai colossi dell'informatica sono
soggetti ad un ritmo di sollecitazioni pubblicitarie estremamente intenso,
dalla semplice visione ripetuta dei logos di marca alle offerte personalizzate
in base ai centri di interesse rilevati dagli algoritmi, compresi gli spot che
vengono attivati continuamente durante la navigazione.
Internet ha sistematizzato e automatizzato il principio della
ricerca di mercato, la base del marketing. Il marketing “tradizionale” si
basava su indagini laboriose, che richiedevano la creazione e l’assemblaggio di
panelli di consumatori rappresentativi di un dato segmento di popolazione,
quindi la somministrazione di questionari o l’osservazione del comportamento in
negozi falsi. Da vent’anni, l’uso sempre più massiccio e permanente del web ha permesso
di risparmiare gran parte di questo lavoro, che ormai è svolto spontaneamente
online, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. I computer non devono fare altro che
analizzare l’immensa quantità di dati raccolti – sulla comparsa di una
determinata tendenza societale, sul successo di una data offerta presso un dato
pubblico, sul progresso o regresso nella notorietà di una data marca, ecc.
Lo stile di vita connesso ha rafforzato le tecniche di influenza
e persino di controllo del comportamento, apparse con la società dei consumi.
Gli inserzionisti non si sbagliano, poiché Internet rappresenta il 41% del
mercato pubblicitario europeo, quasi il 60% nel Regno Unito[7]. E queste tecniche
rischiano di essere ulteriormente rafforzate dall’acquisizione permanente di
dati grazie ai chip RFID e ad altri dispositivi di riconoscimento facciale, in
via di diffusione negli spazi urbani e nelle abitazioni. Si capisce perché gli
attori della grande industria parlano a questo proposito di “realtà aumentata”:
è perché si aspettano un aumento della propria influenza sulla soggettività e
sulle abitudini delle masse umane.
Una società più
centralizzata
L’idea che il potere sociale tenda a concentrarsi grazie alle TIC
dipende ovviamente dalle osservazioni fatte al primo punto, ma molti altri
esempi la supportano. Non è certo la prima volta nella storia moderna che una
serie di innovazioni tecniche rimescolano le carte del gioco capitalista e
favoriscono la nascita di nuovi imperi. Tuttavia, il “potere industriale” (per
usare i termini di Cohen e Bauer nel 1981)[8] acquisito da GAFAM sui
cittadini di tutto il mondo, in soli vent’anni, è davvero qualcosa di notevole.
Ci si aspettava che il microcomputer e la società in rete
decentralizzassero il potere e l’iniziativa. Vista da oggi, l’informatizzazione
della vita quotidiana ha, al contrario, consolidato il potere delle grandi
organizzazioni sugli individui, gli amministrati e i consumatori. Man mano che
diventano “smaterializzate”, queste organizzazioni si fanno più opache che mai agli
occhi dei cittadini di base, mentre dispongono di maggiori informazioni su di
loro. Pensiamo al prelievo diretto sul conto, reso possibile dalla
proliferazione e dall'interconnessione dei dossier del fisco, dell’Urssaf, della
Previdenza sociale, del Pôle emploi, delle banche, ecc. Pensiamo ovviamente ai
contatori Linky, progettati per conoscere a distanza i consumi elettrici
domestici, raccogliere dati sulla composizione dettagliata di tali consumi
(quali apparecchi vengono utilizzati? per quanto tempo? a che ora?), e poter
modulare l’intensità della corrente a seconda delle esigenze della rete – o addirittura
interromperla quando l’utente è insolvibile[9].
Pensiamo più in generale alla logica dell’intelligenza
artificiale: i robot possono essere sviluppati, in medicina, in agricoltura,
nell’istruzione, solo attraverso la raccolta di quantità prodigiose di dati che
“addestrano” il programma informatico. Il quale affina la sua capacità di
risposta man mano che gli si presentano nuovi scenari. Lo sviluppo di tali
algoritmi richiede tecnicamente che questi dati (big data) siano resi
disponibili ad alcuni attori industriali; in quanto tale esso induce quindi
notevoli fenomeni di concentrazione e centralizzazione. È ad accettare questa
concentrazione, questa centralizzazione, che invita il rapporto Villani
sull’intelligenza artificiale[10]: la “cultura del dato” che esso
richiede consiste nel fare di tutto affinché le aziende impegnate nella
robotica medica possano raccogliere quanti più dati possibili sulle diagnosi e
prescrizioni effettuate dai medici, disattendendo, ad esempio, l'impegno di
questi ultimi al segreto medicale.
Che peso hanno blog, forum e siti di informazione indipendenti
rispetto a tutto ciò che i devoti del web dei primi anni 2000 speravano potesse
cambiare il volto della società? Quale contrappeso alle logiche centralizzate
rappresentano le conquiste della galassia del software “libero”, come Wikipédia?
Dire che questo non conti nulla nel mondo di oggi sarebbe ingiusto. Tuttavia,
non vedere che queste conquiste sono marginalizzate dal funzionamento dominante
di Internet, dalle logiche capitaliste e burocratiche che agiscono dietro gli
schermi, indica un’indubbia cecità[11]. E l'analisi degli effetti
dell'informatica sul mondo del lavoro dovrebbe illustrare quanto sia delicato
sperare di contrastare, attraverso questa infrastruttura tecnologica, tendenze
che oggi trovano in gran parte la loro origine in suddette infrastrutture.
Un fattore chiave
nello squilibrio capitale/lavoro a partire dagli anni ’70
Perché e come la classe dei detentori di capitale e dei leader
aziendali è riuscita a invertire un rapporto di forze che era loro
relativamente sfavorevole cinquant’anni fa? Si ritiene spesso che gli
ingredienti decisivi di questa inversione siano lo sviluppo e il rafforzamento
dei mercati finanziari, la globalizzazione della concorrenza, la disoccupazione
di massa e la riorganizzazione delle imprese in reti, con nuove forme di
gestione in corso. Il ruolo delle TIC in questi sviluppi è visto contemporaneamente
come evidente e secondario: si tratta di un elemento importante sullo sfondo,
ma mai di una causa fondamentale della grande regressione sociale in corso[12].
Ebbene, senza entrare qui nel delicato dibattito sul nesso tra
progresso tecnologico e disoccupazione, è chiaro che né il formidabile potere
acquisito dalla finanza, né l’intensificazione della concorrenza in molti
settori, né la gestione neoliberista dell’impresa in rete non possono essere
dissociati dallo sviluppo dell'informatica. Pertanto, sono state
l’informatizzazione e la messa in rete delle borse di tutto il mondo che hanno
consentito l’emergere, a partire dagli anni ’70, di un mercato globale unificato
dei capitali, aperto 24 ore su 24, e sul quale gli investitori possono spostare
i propri fondi con un solo clic, migliaia di volte al giorno. La vertiginosa
esplosione delle transazioni finanziarie, l’aumento in potenza degli
investitori istituzionali non sono solo il risultato di decisioni politiche, ma
sono sostenuti da sviluppi tecnologici brutali e permanenti. Giudichiamo piuttosto:
“dopo la Seconda Guerra Mondiale, un titolo apparteneva al suo proprietario per
quattro anni. Nel 2000, questo periodo era di otto mesi. Poi due mesi nel 2008.
Nel 2013, un titolo del mercato azionario cambia proprietà in media ogni 25
secondi, ma può altrettanto facilmente passare di mano in pochi millisecondi[13]”. Questa velocità non
deriva più semplicemente dall'informatizzazione delle transazioni ma da una
vera e propria automazione: più del 70% degli scambi di borsa sono ormai
effettuati da algoritmi! Dietro i programmi di austerità di bilancio imposti ai
governi dai mercati, dietro le richieste di profitto degli azionisti che
provocano pressioni estreme sui dipendenti, fino ai licenziamenti del mercato
azionario, ci sono senza dubbio attori che difendono degli interessi; ma c’è
anche la potenza di calcolo e di trasmissione dei computer, delle reti e dei
software, che danno concretamente il loro (surplus di) potere a questi attori.
Allo stesso modo, il ruolo delle TIC nella possibilità che hanno
i padroni, dalla fine del ventesimo secolo, di spostare i diversi segmenti
della loro produzione nel luogo del mondo dove i costi salariali, il livello di
protezione sociale e la combattività dei lavoratori, sono ottimali per loro –
questo ruolo è raramente enfatizzato nella dovuta misura. Oggigiorno un gruppo
industriale può avere il management a Londra, centri di ricerca a Monaco e
Sophia-Antipolis, stabilimenti affiliati in Turchia o Tunisia, pezzi di alta
precisione prodotti da PMI concorrenti tra loro nel Nord Italia, l’agenzia di
marketing a Chicago, call center per
la hotline a Bombay e i bollettini di
paga pubblicati in Polonia. Non c’è più bisogno di queste grandi concentrazioni
di mano d’opera, come abbiamo visto spesso negli anni ’60 e ’70, quando la
coscienza e l’organizzazione dei lavoratori avevano spaventato per un certo
periodo le élite economiche di Italia, Francia o Inghilterra: oggi l’informatica
consente di gestire efficacemente una catena di produzione decentralizzata,
composta da stabilimenti, filiali o subfornitori sparsi ai quattro angoli di un
Paese e del mondo. In questa impresa neoliberista del ventunesimo secolo, le TIC
hanno dato nuova vita al taylorismo e alla burocrazia, come il lavoro di
Guillaume Duval e Danièle Linhart[14] ci permetteva di anticipare
vent’anni fa. Svolgono anche un ruolo essenziale nell’imposizione di metodi di
gestione privata nel settore pubblico e nella distruzione dell’etica del lavoro
sentita da molti dipendenti degli ospedali, dei servizi sociali, della SNCF o
dell’Istruzione nazionale. “[L’informatica] sottrae tempo e attenzione al
lavoro vivo, moltiplicando i compiti amministrativi, dichiarano dunque nella loro
piattaforma i lavoratori uniti nella rete di resistenza al management, Écran total.
Ci obbliga a inserire dei dati. Produce quindi statistiche e algoritmi per
dividere, standardizzare e controllare il lavoro. (…) Il know-how è confiscato, la professione diventa applicazione
meccanica di protocolli depositati nei software
da parte di esperti[15]”, e tutto ciò impedisce
loro di trattare gli utenti in modo professionale, o semplicemente umano.
Presto il cuore del
disastro ecologico?
Infine, sempre in totale contraddizione con quanto sostenuto da
molti discorsi ideologici sulla “de materializzazione” dall’inizio del secolo,
le TIC danno un contributo importante alla distruzione degli ambienti di vita,
ai quattro angoli del pianeta Terra. La produzione esponenziale di dispositivi
elettronici richiede quantità enormi di metalli sepolti nel terreno, ed è
quindi un fattore importante nell’attuale boom minerario, con conseguenze
ecologiche catastrofiche. Se, come dice Anna Bednik, ci prepariamo a estrarre
dalla crosta terrestre in una generazione più metalli che in tutta la storia
dell’umanità[16], la domanda dell’industria
digitale di oro, argento, rame, tungsteno, litio e “terre rare” ( neodimio,
ittrio, cerio, germanio, ecc.) è responsabile del fatto. Infatti, l’industria
mineraria è terribilmente inquinante ed energivora.
“Come il loro nome non indica, le terre rare sono meno rare che
difficili da estrarre. (…) La separazione e la raffinazione di questi elementi
naturalmente agglomerati con altri minerali, spesso radioattivi, comportano una
lunga serie di processi che richiedono una grande quantità di energia e
sostanze chimiche: varie fasi di macinazione, di attacchi acidi, di clorazione,
di estrazione con solventi, di precipitazione selettiva e di scioglimento. (…)
Stoccate vicino ai pozzi minerari, le rocce di scarto, questi immensi volumi di
rocce estratte per accedere ad aree più concentrate in minerali, spesso
generano rilasci di solfuri che drenano i metalli pesanti contenuti nelle rocce
e li fanno migrare verso i corsi d'acqua ( …) La quantità di energia necessaria
per estrarre, macinare, lavorare e raffinare i metalli rappresenterebbe dall’8
al 10% dell’energia totale consumata nel mondo, rendendo l’industria mineraria
uno dei principali attori del riscaldamento globale[17]. »
Oltre a ciò che consuma e inquina nella produzione dei suoi
dispositivi, l’industria digitale contribuisce al riscaldamento globale anche
attraverso le enormi quantità di elettricità indotte dal suo funzionamento
ordinario. Secondo le stime, oggi tutte le apparecchiature digitali consumano
tra il 10 e il 15% dell’elettricità globale. Tuttavia, questo consumo raddoppia
ogni quattro anni, il che potrebbe portare la quota del digitale al 50%
dell’elettricità globale nel 2030 (!) – una quantità equivalente a ciò che
l’umanità ha consumato in totale nel … 2008, appena undici anni fa. Queste
vertiginose proiezioni[18] sono in parte informate
dalle stime di alcuni recenti studi, sulla potenza elettrica richiesta da un Data
center (equivalente a quella di una città di 50.000 abitanti), dai 10 miliardi
di e-mail inviate ogni ora nel mondo (equivalenti alla produzione oraria di 15
centrali nucleari, o 4.000 viaggi andata e ritorno da Parigi a New York in
aereo), dai 140 miliardi di ricerche su Google ogni ora, ecc.[19].
A ciò si aggiunge l’inquinamento generato dagli scarti di questa
industria, commisurato all’obsolescenza attentamente mantenuta di tutti i
prodotti che passano per le nostre mani. Ma anche l'inquinamento da moto
ondoso, sulla portata e sulle conseguenze del quale non esiste consenso ma su
cui persistono preoccupazioni supportate da un certo numero di lavori
scientifici[20]).
Qualche mese fa, durante una presentazione pubblica del saggio La libertà in coma del gruppo MARCUSE, dove
io ho composto parte di questo quadro, qualcuno tra il pubblico mi ha chiesto
se quello che noi volevamo era “disinventare
il computer”! Ovviamente non si tratta di questo. Disinventare una tecnologia
che esiste non è possibile, anche se vediamo che provoca danni sociali e
antropologici maggiori dei suoi vantaggi. La questione è piuttosto sapere se le
società umane, che oggi si dicono così evolute, sono capaci di padroneggiare le
loro invenzioni, di farne un uso ragionato che includa la possibilità di una limitazione.
Cornelius Castoriadis ha affermato dunque che una società che “si ponesse
esplicitamente la questione della trasformazione cosciente della propria
tecnologia” sperimenterebbe una forma di libertà superiore e “una rivoluzione
totale, senza precedenti nella storia[21]”.
Nel caso dell’informatica, data l’impennata che stiamo vivendo
da diversi decenni, trasformare consapevolmente le cose richiede innanzitutto
una frenata, una decelerazione. Ciò implicherebbe l’introduzione della
contingenza e della deliberazione in una traiettoria finora definita
esclusivamente dall’interesse commerciale e dall’ideologia del “sempre di più,
sempre più velocemente”. Ci sembra che questo sia il senso dell’azione dei
numerosi gruppi contrari all’installazione dei contatori Linky in tutta la Francia,
tra i quali tutta una parte sta ora includendo il 5G nel proprio ambito di contestazione
e riflessione: queste migliaia di cittadini sentono che c’è qualcosa di
problematico nell’accumulazione stessa delle tecnologie, nella velocità con cui
trasformano le loro vite senza che ci sia mai il minimo spazio socio-politico
in cui la loro necessità, i loro effetti a lungo termine, il ritmo e le
condizioni del loro sviluppo possano essere discussi – discussi davvero. Come dei
zadisti (partigiani di zone da difendere -ZAD), chiedono quindi che alcuni
grandi progetti industriali vengano sospesi, in modo che tutta la società possa
essere informata e riflettere su cosa è desiderabile e cosa non lo è. Tuttavia,
per tutta una parte del campo progressista, l’opportunità di tale messa in
discussione rimane poco evidente. Mettere in discussione la necessità di
innovazione permanente, o anche mettere in discussione l’uso delle tecnologie
già esistenti, non è vano o secondario, finché viviamo sotto un regime di
proprietà lucrativa, di concorrenza e profitto privato? Ciò non rischia persino
di confondere il dibattito politico, distogliendo energie preziose dalla lotta
prioritaria per la ridistribuzione economica e il cambiamento delle relazioni
sociali? A queste classiche obiezioni rispondiamo che la tecnologia fa parte
delle relazioni sociali: aiuta a modellarle; incide sul grado di sfruttamento
dei lavoratori, sulla forma che assume la vita quotidiana, sulle possibilità di
rivolta lasciate ai dominati. Voler cambiare le tecniche in uso nella direzione
di una maggiore autonomia e democrazia[22] rientra quindi del tutto
legittimamente in un progetto di emancipazione sociale, come sottolineava
Herbert Marcuse nel 1964:
Il capitalismo avanzato introduce la razionalità tecnica nel suo
apparato produttivo, nonostante l’uso irrazionale che ne viene fatto. Ciò vale
per gli strumenti meccanizzati, per le fabbriche, per lo sfruttamento delle
risorse, vale anche per la forma del lavoro, (…) “sfruttato scientificamente”.
Né la nazionalizzazione né la socializzazione di per sé modificano questo
aspetto materiale della razionalità tecnologica (…). Certamente Marx sosteneva
che se i “produttori immediati” organizzassero e dirigessero l'apparato
produttivo, ci sarebbe un cambiamento qualitativo nella continuità tecnica,
cioè la produzione mirerebbe a soddisfare i bisogni individuali che si
svilupperebbero liberamente. Tuttavia, nella misura in cui l'esistenza privata
e pubblica in tutte le sfere della società viene fagocitata dall'apparato tecnico
costituito (...), il cambiamento qualitativo implica un cambiamento della
struttura tecnologica stessa.
Herbert Marcuse, L’uomo a
una dimensione, Minuit, Paris 1968 [1964], p. 48-49.
È un tale cambiamento di orizzonte quello che suggeriscono le
recenti scaramucce intorno ai progetti per la completa informatizzazione del
mondo: non più aspettare un ipotetico rovesciamento o indebolimento del
capitalismo per discutere di tecnologie desiderabili o accettabili; ma cercare
di prevenire qui e ora il peggioramento delle disuguaglianze, l’aumento del
potere dei gruppi dirigenti e il declino della libertà, mettendo in panne degli
ingranaggi essenziali del sistema attraverso strategie di disobbedienza civile.
La proposta di ridurre massicciamente l’uso delle tecnologie avanzate e di
lottare contro le politiche pubbliche che le promuovono non riguarda
semplicemente una questione morale (morale sanitaria, morale ecologica, morale
“esistenziale”, ecc.); è anche una proposta strategica, che scommette che
opporsi individualmente e collettivamente all’informatizzazione delle nostre
vite può permetterci di uscire dall’impotenza, di riconquistare una presa sul
mondo, una leva per nuocere finalmente ai potenti.
Matthieu Amiech
contact@terrestres.org
[1]
Il rapporto intitolato “De materializzazione e disuguaglianze di
accesso ai servizi pubblici” è consultabile all'indirizzo https://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-demat-num-21.12.18.pdf.
[2]
Vedi l'articolo di Gaspard d'Allens sull'azione del 31 gennaio
alla stazione di Matabiau, contro questa politica: https://reporterre.net/Des-humains-plutot-que-des-machines-usagers-et-cheminots-contestent-la-numerisation-des[
[3]
Penso in particolare alle inchieste di Tomjo, Pieces and main d’oeuvre, e alla rivista
annuale Z; ma anche alle rubriche fisse di Alain Gras, François Jarrige e
Pierre Thiesset sul mensile La Décroissance.
[4]
Per una critica all’informatizzazione del mondo che vada oltre
questi quattro punti, possiamo fare riferimento a Hervé Krief, Internet ou le retour à la bougie (Internet o il ritorno alla candela), Quartz, 2018; Pièces et main d’œuvre, Manifeste des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, 2017;
e ovviamente il libro del gruppo MARCUSE a cui ho partecipato: La Liberté dans le coma. Essai sur
l’identification électronique et les motifs de s’y opposer (La libertà in coma, saggio sull’identificazione elettronica
e sui motivi di opporsi ad essa), La
Lenteur, 2019.
[5] Estratto dal libro di Zuboff scritto in collaborazione con
James Maxmin, The Support Economy,
Penguin, 2002, citato da Frédéric Joignot, nel suo articolo “Sorveglianza, stadio supremo del
capitalismo?”, su Le Monde di sabato 15 giugno 2019, p. 24-25.
[6] Cfr. Shoshana Zuboff, “Un capitalisme de surveillance ”, in Le Monde
Diplomatique n° 778, gennaio 2019.
[7]
Dati forniti nel 2018 dall'agenzia media belga Space.
[8] Cfr. Michel Bauer e Elie Cohen, Qui
gouverne les groupes industriels ? Essai sur l’exercice du pouvoir du et
dans le groupe industriel (Chi governa i gruppi industriali? Saggio sull'esercizio del potere da parte e nel gruppo
industriale), Parigi, Le Seuil, 1981.
[9]
È così che il sindaco di Nizza, Christian Estrosi, ha chiesto a
Enedis di avere accesso ai dati dei contatori Linky per sapere se i proprietari
di seconde case si erano rifugiati nella sua città all'inizio del lockdown.
Enedis non sembra aver risposto a questa richiesta (fonte: L’Age de faire, n°151, maggio 2020, p. 18).
[10] Cédric Villani, Dare
un senso all'intelligenza artificiale. Per una strategia nazionale ed europea,
rapporto sulla missione parlamentare presentato al Primo Ministro nel 2018,
disponibile su https://www.vie-publique.fr/sites/default/files/rapport/pdf/184000159.pdf[↟]
[11] Si veda al riguardo la chiara affermazione di Julia Laïnae e
Nicolas Alep, Contre
l’alternumérisme. Pourquoi nous ne vous proposerons pas
d’« éco gestes numériques » ni de solutions pour une
« démocratie numérique » (Contro l’alternumérisme. Perché non vi proporremo “eco gesti digitali” né soluzioni per
una “democrazia digitale”), La Lenteur, 2020.
[12]
Un esempio di questo tipo del quadro interessante ma
fondamentalmente incompleto è fornito da Thomas Coutrot, in Contre l’organisation du travail (Contro l'organizzazione del lavoro), La Découverte (Repères),
1999.
[13]
Secondo un rapporto IBM citato da Alexandre Laumonnier, 6, Sensitive
Zones, 2013.
[14]
Cfr. Guillaume Duval, L’entreprise efficace à l’heure de
Swatch et McDonald’s. La seconde vie du taylorisme (L’azienda efficiente nell’era di Swatch e McDonald’s. La
seconda vita del taylorismo), Parigi, Syros-Alternatives économique, 2000;
Danièle Linhart e Aimée Moutet (dir.), Le Travail nous est compté. La
construction des normes temporelles du travail (Il lavoro ci è contato. La costruzione delle norme temporali del lavoro), Parigi, La
Découverte, 2005.
[15]
“Schermo totale, contro la gestione e l'informatizzazione delle
nostre vite” (maggio 2016), disponibile su https://sniadecki.wordpress.com/2016/09/13/plate-forme-ecran-total/.
[16]
Cfr. Anna Bednik, Estrattivismo. Sfruttamento industriale della
natura: logica, conseguenze, resistenza, Parigi, Le Passager clandestine, 2016,
p. 112.
[17] Célia Izoard, “Les bas-fonds du capital” (I bassifondi del capitale), in Guyane.
Trésors et conquêtes, revue Z, n°12, autunno
2018, p. 12-13-14.
[18] Proposto da Andrae Anders S.G. e Edler Tomas, in “On
Global Electricity Usage of Communication Technology: Trends to 2030”,
Challenges 6, 2015, p. 117-157. Nel
loro rapporto del 2019 per ADEME, L’impact social et énergétique des data centers sur les territoires (L'impatto
sociale ed energetico dei data center sui territori), Cécile Diguet e Fanny
Lopez situano queste proiezioni in una serie di scenari più o meno estremi.
[19]
Si veda il rapporto condotto da Hugues Ferreboeuf per il “think
tank” del progetto Shift: Lean ICT – For
digital sobriety (2018). Sottolineiamo che queste statistiche stabilite tre
o quattro anni fa rischiano di essere del tutto superate a seguito
dell’episodio di confinamento che abbiamo appena vissuto, e che ha colpito (o
preoccupa tuttora) diversi miliardi di persone in tutto il mondo.
[20]
Cfr. l'articolo del fisico belga (ed ex eurodeputato) Paul
Lannoye, “Con il 5G... tutte cavie? », in Kairos n° 37, dicembre 2018
(https://www.kairospresse.be/article/avec-la-5g-tous-cobayes/); e quello di
Laury-Anne Cholez, “Il 5G viene utilizzato mentre i suoi effetti sulla salute
non sono stati valutati”, del 25 febbraio 2020 per il quotidiano online Reporterre
(https://reporterre.net/La-5G-is-being
-utilizzato-mentre-i-suoi-effetti-sulla-salute-non-sono-valutati.
[21] Cornélius Castoriadis, Les Carrefours du labyrinthe, Parigi, Seuil, 2017 (prima edizione:
1978), p. 307.
[22] Cfr. la precisazione straordinariamente illuminante di
Lewis Mumford, in « Technique autoritaire, technique démocratique », publié dans Orwell et
Mumford, la mesure de l’homme, La Lenteur, 2014.
AU CŒUR DU
MONSTRE
Face à l'artificialisation de
la vie d'où disparaît l'intelligence sensible qui invente l'humain dans
l'animalité originaire, ce texte de Matthieu Amiech que j'ai traduit en italien
pose au centre de la question sociale le mythe du progrès technologique
incessant, remettant en cause l’industrialisation productiviste au service de
l’économie politique et dénonçant l’oxymore de l’intelligence artificielle qui
rend idiots. Cette zone à défendre radicalement apparaît désormais à beaucoup
d’entre nous comme une condition sine qua non de la survie qualitative de
l’espèce.
Sergio Ghirardi Sauvageon
Peut-on s’opposer à l’informatisation du monde ?
Le 13 mars 2019,
dans l’émission « Du grain à moudre » sur France Culture, Hervé
Gardette reçoit trois chercheurs pour répondre à une question a priori
peu subversive : « La 5G va-t-elle nous simplifier la
vie ? ». Après quelques échanges initiaux sur l’état actuel des
réseaux et les enjeux industriels de ce projet d’intensification des ondes de
téléphonie mobile, le journaliste donne un tour assez inattendu à
l’entretien : « Est-ce que selon vous la question de l’utilité est
suffisamment posée ? On nous vend une société qui va être structurée
différemment par ça, [du coup], est-ce qu’on a la possibilité de dire –
mettons, la société française – nous, on préfère ne pas faire le choix de la
5G, parce qu’au regard des gains et des pertes, on préfère rester là où on en
est ? ou bien, est-ce qu’une telle question est
inenvisageable ? »
Pierre-Jean
Benghouzi, professeur à l’École polytechnique (et ancien membre de l’Autorité
de régulation des communications et des postes, l’Arcep), légèrement surpris,
commence par répondre : « Non, elle n’est pas inenvisageable ».
Hervé Gardette insiste alors : « Donc, on peut dire : non, on
n’y va pas ». Benghouzi corrige le tir : « Non, on ne peut pas…
» Quelques instants plus tard, une autre intervenante, la sémiologue Laurence Allard,
répond de manière très différente : « La réponse peut être donnée par
la terre elle-même, par la planète, qui peut à sa façon dire non. Parce que ce
scénario sociotechnique, consistant à connecter tous les objets, à multiplier
les data centers, à extraire encore plus de métaux rares, est assez
improbable en termes environnementaux ». Et de souligner le lien entre
notre mode de vie hyper-connecté et le réchauffement climatique.
Quelques semaines
plus tôt, en plein mouvement des Gilets jaunes, le Défenseur des droits,
Jacques Toubon, plaçait au cœur de son rapport 2019 le problème de l’inégalité
d’accès aux services publics provoquée par les politiques systématiques de
« dématérialisation » de ces services1. Il estimait à 13
millions le nombre de personnes en France n’ayant pas un accès aisé aux
technologies de l’information et de la communication (TIC) : habitants de
communes rurales, retraités, citoyens d’origine étrangère en contacts fréquents
avec les préfectures – entre autres… Son rapport n’est pas à proprement parler
une prise de position contre la numérisation des services publics, il peut même
être lu comme un appel à accélérer l’effort de formation et de connexion de ces
populations aux technologies informatiques. Mais en attendant, il demande au
gouvernement et aux administrations que des guichets physiques soient partout
maintenus – que le passage par Internet ne devienne pas une obligation pour les
usagers. Dans un contexte où une institution aussi importante que la SNCF
supprime la très grande majorité de ses guichets de gare, pour ne laisser
d’autre choix aux voyageurs que d’acheter leurs billets en ligne, une telle
recommandation n’est pas négligeable2.
De manière moins
radicale que la question posée par Hervé Gardette plus haut, la recommandation
du Défenseur des droits s’inscrit en faux contre le déterminisme technologique.
Le premier met en doute le caractère inéluctable du déploiement de la 5G – ce n’est
pas parce qu’elle permet de faire plus de choses et plus vite que son adoption
est nécessaire et automatique. Le second met en cause l’imposition d’un usage
universel d’Internet – ce n’est pas parce que certains services peuvent être
rendus en ligne, que les autres modalités existant jusqu’ici doivent
disparaître. L’interrogation du premier et l’exigence du second entrent en
résonance avec un climat de scepticisme, voire d’inquiétude en France, devant
la poursuite incessante et effrénée du développement des TIC. La critique
explicite des effets sociaux et politiques des TIC était, jusqu’à il y a peu,
cantonnée aux partisans de la décroissance. Elle se diffuse désormais au-delà,
comme en témoigne le refus assez large des compteurs Linky dans la population,
et plus récemment la crispation autour de la 5G. On n’en est peut-être pas
encore au point de rejet suscité dans le passé par le programme électronucléaire
ou les OGM ; mais une conscience partagée que l’informatisation du monde
pose des problèmes politiques graves prend forme, malgré la puissance des
habitudes de chacun en matière de connexion à sa tribu et au réseau mondial.
Pour
que cette conscience diffuse et encore floue devienne un mouvement
d’opposition, il faut précisément que le développement de la technologie cesse
d’apparaître comme une fatalité. On ne peut pas s’opposer à quelque chose que
l’on perçoit comme un destin écrit d’avance : si l’informatisation est un
processus plus ou moins naturel, elle s’impose à tout le monde et personne ne
peut aller contre. Si par contre elle résulte de politiques volontaristes des
États, des entreprises, des grandes fondations, et d’efforts colossaux en
matière de recherche scientifique, alors elle a au moins une part de
contingence. Elle dépend de décisions ministérielles, de choix managériaux, de
financements publics et privés, qui peuvent être dénoncés, contestés, voire
empêchés. Malgré les enquêtes répétées de certains groupes ou journaux à ce
sujet3, le caractère
extrêmement volontariste, et donc évitable, du développement technologique
n’est pas encore assez perçu, même dans les fractions politisées ou révoltées
de la population.
S’opposer à
l’informatisation du monde suppose évidemment de considérer que c’est possible
– et même pensable. Cela suppose aussi de trouver que c’est sensé et même
souhaitable. Je vais ici m’attarder sur quelques raisons qui devraient faire
apparaître une telle opposition comme non seulement sensée, mais également
indispensable. Notre dépendance aux écrans, et la réduction concomitante de nos
vies à un stock d’informations, posent en effet au minimum quatre problèmes
politiques majeurs : les entreprises accroissent considérablement leur
emprise sur nous ; le pouvoir social a tendance à se concentrer de manière
extraordinaire ; le travail est plus facilement exploité par le
capital ; la catastrophe écologique en cours est nettement aggravée par la
croissance exponentielle des technologies prétendument
« immatérielles ». Comme on le voit, il ne s’agit pas de questions
esthétiques, de partis pris sensibles ou philosophiques, qui peuvent par
ailleurs légitimement entrer en ligne de compte pour juger d’un monde où les
machines, les algorithmes et les procédures impersonnelles prennent de plus en
plus de place4. Il s’agit de problèmes
politiques essentiels, auxquels aucun partisan du progrès social et humain – de
l’égalité et de la liberté – ne peut rester indifférent ; et auxquels
effectivement un nombre croissant de nos contemporains sont sensibles, même si
cela n’entraîne pas pour l’instant de rejet massif de la quincaillerie
électronique.
L’emprise accrue des entreprises sur nos existences
Au début des
années 2000, Internet devait être le vecteur d’une transformation considérable
des relations entre entreprises et consommateurs. On ne comptait pas les
articles, ouvrages, chroniques, annonçant la prise de pouvoir des
consommateurs, enfin en mesure de s’informer et de s’organiser grâce aux
nouvelles technologies. Celles-ci devaient mettre fin à l’asymétrie entre les
grandes organisations industrielles, avec leurs techniques de marketing, et
leur clientèle atomisée, aisément manipulable. La chercheuse américaine
Shoshana Zuboff, qui vient de publier L’Age du capitalisme de surveillance,
rejoignait alors les analyses très répandues prophétisant la naissance
d’« un monde d’individus informés cherchant à contrôler la qualité de leur
vie » et imposant leurs choix aux entreprises ; elle parlait
d’« un nouveau capitalisme distribué, où la création de valeur dépend
d’une nouvelle logique de distribution attentive aux besoins des personnes5 ».
Vingt ans plus
tard, prétendre qu’Internet a massivement émancipé les populations de la
société de consommation est devenu bien difficile. Le temps passé sur les
écrans nous expose de manière approfondie à la publicité et a permis un affinement
des techniques de marketing qui était difficilement imaginable au 20e siècle. Parler d’« encerclement du
consommateur » (John K. Galbraith, 1967) ou de « société
bureaucratique de consommation dirigée » (Henri Lefebvre, 1958) semble
bien insuffisant, pour décrire le type d’emprise que les acteurs de la grande
industrie exercent sur les citoyens d’aujourd’hui.
Dans son ouvrage
de 2019, Shoshana Zuboff tourne donc complètement casaque. Elle valide toutes
les alarmes lancées au fil des deux décennies écoulées par ceux qui ne voyaient
pas dans l’informatisation une promesse de liberté. Elle retrace par le menu
les évolutions qui ont fait du World Wide Web le terrain d’un
conditionnement sans précédent des individus : le tournant lucratif de
Google en 2003, qui intègre le profilage des utilisateurs du moteur de
recherche « à des fins de publicité ciblée » ; le passage d’une
cadre de haut niveau de Google, Sheryl Sandberg, chez Facebook, en 2008, où
elle importe les dites méthodes de profilage ; la mise en place de
dispositifs d’espionnage de nos habitudes sur les pages du web aussi
bien que dans l’électronique des voitures ; l’apparition des objets
connectés ; le lancement du jeu Pokemon Go en 2016 par un ancien
de Google Maps, où les chasseurs de Pokémon sont « téléguidés » dans
l’espace urbain pour les amener notamment dans des enseignes qui ont payé pour
faire partie du jeu6…
Pour compléter,
soulignons que les individus passant un temps important sur des interfaces
mises au point par les géants de l’informatique sont soumis à un rythme de
sollicitations publicitaires extrêmement intense, de la simple vision répétée
des logos de marque aux offres personnalisées en fonction des centres
d’intérêts décelés par les algorithmes, en passant par les spots qui se
déclenchent à tout bout de champ au cours de la navigation.
Internet a
systématisé et automatisé le principe de l’étude de marché, base du marketing.
Le marketing « traditionnel » s’appuyait sur des enquêtes
laborieuses, nécessitant la création et la réunion de panels de consommateurs
représentatifs de tel segment de population, puis la passation de questionnaires
ou l’observation des comportements dans des faux magasins. Depuis vingt ans, la
fréquentation de plus en plus massive et permanente du web a permis
d’épargner une grande partie de ce travail, qui se fait maintenant
spontanément, en ligne, 24 heures sur 24 et 365 jours par an. Les ordinateurs
n’ont plus qu’à analyser les immenses quantités de données recueillies – sur
l’apparition de telle tendance sociétale, le succès de telle offre auprès de
tel public, les progrès ou régressions de la notoriété de telle marque, etc.
Le mode de vie
connecté a renforcé les techniques d’influence, voire de contrôle des
comportements, apparus avec la société de consommation. Les annonceurs ne s’y
trompent pas puisque Internet pèse 41 % du marché européen de la publicité,
presque 60 % au Royaume-Uni7. Et ces techniques
risquent d’être encore renforcées par la captation permanente de données grâce
aux puces RFID, et autres dispositifs de reconnaissance faciale, en cours de
dissémination dans l’espace urbain et dans les foyers. On comprend pourquoi les
acteurs de la grande industrie parlent de « réalité augmentée » à ce
propos : c’est qu’elles en escomptent une augmentation de leur propre
emprise sur la subjectivité et les habitudes des masses humaines.
Une société plus centralisée
L’idée que le
pouvoir social a tendance à se concentrer grâce aux TIC découle bien sûr des
constats dressés dans le premier point, mais bien d’autres exemples viennent
l’étayer. Ce n’est certes pas la première fois dans l’histoire moderne qu’une
série d’innovations techniques rebat les cartes du jeu capitaliste et favorise
l’émergence de nouveaux empires. Pour autant, le « pouvoir
industriel » (pour reprendre les termes de Cohen et Bauer en 19818) acquis par les GAFAM
sur les citoyens du monde entier, en seulement vingt ans, a tout de même
quelque chose de remarquable.
On attendait de la
micro-informatique et de la société en réseaux une décentralisation du pouvoir
et de l’initiative. Vue d’aujourd’hui, l’informatisation de la vie quotidienne
a au contraire consacré le pouvoir des grandes organisations sur les individus,
les administrés, les consommateurs. À mesure qu’elles se
« dématérialisent », ces organisations sont plus opaques que jamais
aux yeux des citoyens de base, tandis qu’elles disposent de plus d’informations
sur eux. Pensons au prélèvement à la source, que permettent la prolifération et
l’interconnexion des fichiers du fisc, de l’Urssaf, de la Sécurité sociale, de
Pôle emploi, des banques, etc. Pensons bien sûr aux compteurs Linky,
prévus pour connaître à distance la consommation d’électricité des ménages,
recueillir des données sur la composition détaillée de cette consommation
(quels appareils sont utilisés ? combien de temps ? à quelle
heure ?), et pouvoir moduler l’intensité du courant en fonction des
besoins du réseau – voire, le couper quand l’usager est mauvais payeur9.
Pensons plus
généralement à la logique de l’intelligence artificielle : des robots ne
peuvent être mis au point, en médecine, en agriculture, en éducation, que grâce
au recueil de quantités prodigieuses de données qui « entraînent » le
programme informatique. Celui-ci affine sa capacité de réponse au fur et à
mesure qu’on lui présente de nouveaux cas de figure. La mise au point de tels
algorithmes nécessite techniquement que ces données (big data) soient
mises à disposition de certains acteurs industriels ; elle induit donc en
tant que telle des phénomènes de concentration, de centralisation,
considérables. C’est à accepter cette concentration, cette centralisation,
qu’invite le rapport Villani sur l’intelligence artificielle10: la « culture de
la donnée » qu’il appelle de ses vœux consiste à tout faire pour que les
entreprises engagées dans la robotique médicale puissent regrouper le plus de
données possibles sur les diagnostics et les prescriptions effectués par les
médecins, au mépris par exemple de l’engagement de ces derniers au secret
médical.
Que pèsent par
rapport à tout cela les blogs, les forums, les sites d’information
indépendants, dont les zélateurs du web du début des années 2000
espéraient qu’ils allaient changer le visage de la société ? Quel
contrepoids aux logiques centralisatrices représentent les réalisations de la
galaxie du logiciel « libre », tel Wikipédia ? Dire que cela ne
pèse rien dans le monde actuel serait injuste. Mais ne pas voir que ces
réalisations sont marginalisées par le fonctionnement dominant d’Internet, par
les logiques capitalistiques et bureaucratiques à l’œuvre derrière les écrans,
relève d’un certain aveuglement11. Et l’analyse des
effets de l’informatique sur le monde du travail devrait achever d’illustrer
combien il est délicat d’espérer combattre, au moyen de cette infrastructure
technologique, des tendances qui trouvent aujourd’hui largement leur ressort
dans la dite infrastructure.
Un facteur essentiel du déséquilibre capital/travail
depuis les années 1970
Pourquoi et
comment la classe des détenteurs de capital et des dirigeants d’entreprise
ont-ils pu à ce point inverser un rapport de forces qui leur était relativement
défavorable il y a cinquante ans ? On considère souvent que les
ingrédients décisifs de ce renversement sont le développement et
l’autonomisation des marchés financiers, la mondialisation de la concurrence,
le chômage de masse et la réorganisation des entreprises en réseaux, avec de
nouvelles formes de management à la clé. Le rôle des TIC dans ces évolutions
est vu à la fois comme évident et secondaire – c’est un élément important en
toile de fond, mais jamais une cause fondamentale de la grande régression
sociale en cours12.
Or, sans entrer
ici dans le débat délicat sur le lien entre progrès technologique et chômage,
il est clair que ni le formidable pouvoir acquis par la finance, ni
l’intensification de la concurrence dans de nombreux secteurs, ni le management
néolibéral dans la firme en réseaux ne peuvent être dissociés du développement
de l’informatique. Ainsi, c’est l’informatisation et la mise en réseau des
places boursières du monde entier qui a permis l’émergence à partir des années
1970 d’un marché planétaire unifié des capitaux, ouvert 24 heures sur 24, et
sur lequel les investisseurs peuvent déplacer leurs fonds d’un simple clic, des
milliers de fois par jours. L’explosion vertigineuse des transactions
financières, la montée en puissance des investisseurs institutionnels, ne sont
pas seulement le résultat de décisions politiques, elles sont sous-tendues par
une évolution technologique brutale et permanente. Qu’on en juge plutôt :
« après la Seconde Guerre mondiale, un titre appartenait à son propriétaire
pendant quatre ans. En 2000, ce délai était de huit mois. Puis de deux mois en
2008. En 2013, un titre boursier change de propriétaire toutes les 25
secondes en moyenne, mais il peut tout aussi bien changer de main en quelques
millisecondes13. » Cette vitesse
ne ressort plus simplement d’une informatisation des transactions mais d’une
véritable automatisation : ce sont désormais plus de 70 % des
échanges boursiers qui sont réalisés par des algorithmes ! Derrière les
programmes d’austérité budgétaire imposés aux gouvernements par les marchés,
derrière les exigences de rentabilité des actionnaires qui provoquent une mise
sous pression extrême des salariés, voire des licenciements boursiers, il y a
sans nul doute des acteurs qui défendent des intérêts ; mais il y a aussi
la puissance de calcul et de transmission des ordinateurs, des réseaux et des
logiciels, qui donnent concrètement leur (surplus de) pouvoir à ces acteurs.
De même, le rôle
des TIC dans la possibilité qu’ont les patrons, depuis la fin du XXe siècle, de
déplacer les différents segments de leur production à l’endroit du monde où les
coûts salariaux, le niveau de protection sociale et de combativité ouvrière,
sont optimaux pour eux – ce rôle est rarement souligné à sa juste mesure. De
nos jours, un groupe industriel peut avoir sa direction à Londres, des centres
de recherche à Munich et Sophia-Antipolis, des usines affiliées en Turquie ou
en Tunisie, des pièces de haute précision fabriquées par des PME mises en
concurrence entre elles dans le Nord de l’Italie, l’agence de marketing à
Chicago, le centre d’appels pour la hotline à Bombay et les fiches de
paie éditées en Pologne. Plus besoin de ces grandes concentrations de main
d’œuvre comme on en voyait fréquemment dans les années 1960-70, où la
conscience et l’organisation des travailleurs avaient un temps effrayé les
élites économiques d’Italie, de France ou d’Angleterre : aujourd’hui,
l’informatique permet de gérer de manière efficace une chaîne de production
décentralisée, faites d’établissements, de filiales ou de sous-traitants
dispersés aux quatre coins d’un pays et du monde. Dans cette firme néolibérale
du XXIe siècle, les TIC ont donné une nouvelle vie au taylorisme et à la
bureaucratie, comme permettaient de l’anticiper il y a vingt ans les travaux de
Guillaume Duval ou Danièle Linhart14. Elles jouent aussi un
rôle essentiel dans l’imposition des méthodes de gestion du privé au secteur
public, et dans la destruction de l’éthique du travail que ressentent de
nombreux salariés des hôpitaux, des services sociaux, de la SNCF ou de
l’Éducation nationale. « [L’informatique] prend du temps et de l’attention
au travail vivant, en démultipliant les tâches administratives, déclarent ainsi
dans leur plate-forme les travailleurs fédérés au sein du réseau de résistance
au management, Écran total. Elle nous oblige à saisir des données. Elle produit
ensuite des statistiques et des algorithmes pour découper, standardiser et
contrôler le travail. (…) Le savoir-faire est confisqué, le métier devient
application machinale de protocoles déposés dans des logiciels par des experts15 », et tout cela les empêche de traiter les
usagers de manière professionnelle, ou simplement, humaine.
Bientôt le cœur de la catastrophe écologique ?
Enfin, là encore
en totale contradiction avec ce que maints discours idéologiques sur la
« dématérialisation » ont prétendu depuis le début du siècle, les TIC
apportent une contribution majeure à la destruction des milieux de vie, aux
quatre coins de la planète Terre. La production exponentielle d’appareils
électroniques exige des quantités fantastiques de métaux enfouis dans les sols,
et constitue donc un facteur important de l’actuel boom minier, aux
conséquences écologiques catastrophiques. Si, comme le dit Anna Bednik, l’on
s’apprête à extraire plus de métaux de la croûte terrestre en une génération
que dans toute l’histoire de l’humanité16, la demande de
l’industrie du numérique en or, argent, cuivre, tungstène, lithium, et
« terres rares » (néodyme, yttrium, cérium, germanium…) y est pour
beaucoup. Or, l’industrie minière est terriblement polluante et énergivore.
« Comme leur
nom ne l’indique pas, les terres rares sont moins rares que difficiles à
extraire. (…) La séparation et le raffinage de ces éléments naturellement
agglomérés avec d’autres minerais, souvent radioactifs, impliquent une longue
série de procédés nécessitant une grande quantité d’énergie et de substances
chimiques : plusieurs phases de broyage, d’attaque aux acides, de
chloration, d’extraction par solvant, de précipitation sélective et de
dissolution. (…) Stockés à proximité des fosses minières, les stériles, ces
immenses volumes de roches extraits pour accéder aux zones plus concentrées en
minerais, génèrent souvent des dégagements sulfurés qui drainent les métaux
lourds contenus dans les roches, et les font migrer vers les cours d’eau (…) La
quantité d’énergie nécessaire pour extraire, broyer, traiter et raffiner les
métaux représenterait 8 à 10 % de l’énergie totale consommée dans le
monde, faisant de l’industrie minière un acteur majeur du réchauffement
climatique17. »
En plus de ce
qu’elle consomme et pollue pour la production de ses appareils, l’industrie du
numérique contribue aussi au réchauffement climatique par les quantités
faramineuses d’électricité qu’induit son fonctionnement ordinaire. L’ensemble
des équipements numériques consomme aujourd’hui entre 10 et 15 % de
l’électricité mondiale, selon les estimations. Mais cette consommation double
tous les quatre ans, ce qui pourrait porter la part du numérique à 50 % de
l’électricité mondiale en 2030 (!) – soit une quantité équivalente à que ce que
l’humanité consommait au total en… 2008, il y a simplement onze ans. Ces projections
vertigineuses18 sont en partie éclairées par les estimations
de plusieurs études récentes, sur la puissance électrique demandée par un Datacenter
(équivalente à celle d’une ville de 50.000 habitants), par les 10 milliards
d’e-mails envoyés chaque heure dans le monde (équivalente à la production
horaire de 15 centrales nucléaires, ou à 4000 allers-retours Paris-New York en
avion), par les 140 milliards de recherches sur Google chaque heure, etc19.
À cela s’ajoute la
pollution générée par les déchets de cette industrie, à la mesure de
l’obsolescence soigneusement entretenue de tous les produits qui nous passent
entre les mains. Mais aussi la pollution par les ondes, sur l’ampleur et les
conséquences desquelles aucun consensus n’existe mais sur lesquelles des
inquiétudes appuyées par un certain nombre de travaux scientifiques persistent20).
Il y a quelques
mois, lors d’une présentation publique de l’essai du groupe MARCUSE La
Liberté dans le coma, où je dressais une partie de ce tableau, une
personne dans l’assistance m’a demandé si, ce que nous voulions, c’était
« désinventer l’ordinateur » ! Bien évidemment, il ne s’agit pas
de ça. Désinventer une technologie qui existe n’est pas possible, quand bien
même on constate qu’elle provoque des dégâts sociaux et anthropologiques
supérieurs à ses avantages. La question est plutôt de savoir si les sociétés
humaines, qui se disent de nos jours si évoluées, sont capables de maîtriser
leurs inventions, d’en faire un usage raisonné qui intègre la possibilité d’une
limitation. Cornelius Castoriadis disait ainsi qu’une société qui « se
poserait explicitement la question de la transformation consciente de sa
technologie » connaîtrait une forme de liberté supérieure et « une
révolution totale, sans précédent dans l’histoire21 ».
Dans le cas de
l’informatique, compte tenu du déferlement que nous vivons depuis plusieurs
décennies, transformer consciemment les choses nécessite pour commencer un
freinage, une décélération. Il s’agirait d’introduire de la contingence et de
la délibération dans une trajectoire jusqu’ici exclusivement définie par
l’intérêt marchand et l’idéologie du « toujours plus, toujours plus vite ».
Il nous semble que c’est le sens de l’action des nombreux groupes opposés à la
pose des compteurs Linky à travers la France, dont toute une partie est
désormais en train d’englober la 5G dans leur périmètre de réflexion et de
contestation : ces milliers de citoyens sentent qu’il y a quelque chose de
problématique dans l’accumulation même des technologies, la vitesse à laquelle
elles transforment leurs vies sans qu’existe jamais le moindre espace sociopolitique
où leur nécessité, leurs effets à long terme, le rythme et les conditions de
leur développement puissent être discutés – réellement discutés. Tels des
zadistes, ils réclament donc que certains grands projets industriels soient mis
en pause, pour que l’ensemble de la société puisse s’informer et réfléchir à ce
qui est souhaitable et à ce qui ne l’est pas. Or, pour toute une partie du camp
progressiste, l’opportunité d’une telle mise en question reste peu évidente.
S’interroger sur la nécessité de l’innovation permanente, voire remettre en
cause l’usage de technologies déjà existantes, n’est-il pas vain ou secondaire,
tant que nous vivons sous un régime de propriété lucrative, de concurrence et
de profit privé ? Cela ne risque-t-il pas même de brouiller le débat
politique, de détourner de précieuses énergies de la lutte prioritaire pour la
redistribution économique et le changement des rapports sociaux ? À ces
objections classiques, nous répondons que la technologie fait partie des
rapports sociaux : elle contribue à les façonner ; elle a un impact
sur le degré d’exploitation des salariés, sur la forme que prend la vie
quotidienne, sur les possibilités de révolte qui sont laissées aux dominés.
Vouloir changer les techniques en usage dans le sens de plus d’autonomie et de
démocratie22 s’inscrit donc tout à fait légitimement dans
un projet d’émancipation sociale, comme le soulignait Herbert Marcuse dès 1964 :
Le capitalisme avancé fait
entrer la rationalité technique dans son appareil de production, malgré
l’emploi irrationnel qui en est fait. Cela vaut pour l’outillage mécanisé, pour
les usines, pour l’exploitation des ressources, cela vaut aussi pour la forme
du travail, (…) « exploité scientifiquement ». Ni la nationalisation,
ni la socialisation par elles-mêmes ne changent cet aspect matériel de la
rationalité technologique (…). Certes, Marx soutenait que si les
« producteurs immédiats » organisaient et dirigeaient l’appareil
productif, il y aurait un changement qualitatif dans la continuité technique,
c’est-à-dire que la production viserait à satisfaire les besoins individuels
qui se développeraient librement. Cependant, dans la mesure où l’existence privée
et publique dans toutes les sphères de la société est engloutie dans l’appareil
technique établi (…), un changement qualitatif implique un changement de la
structure technologique elle-même.
Herbert
Marcuse, L’Homme
unidimensionnel, Minuit, 1968 [1964], p. 48-49.
C’est
un tel changement d’horizon que suggèrent les escarmouches récentes autour des
projets d’informatisation complète du monde : ne plus attendre un
hypothétique renversement ou affaiblissement du capitalisme pour discuter des
technologies souhaitables ou acceptables ; mais tenter d’empêcher ici et
maintenant l’aggravation des inégalités, l’accroissement du pouvoir des couches
dirigeantes et le recul de la liberté, en grippant des rouages essentiels du
système par des stratégies de désobéissance civile. La proposition de réduire
massivement notre usage des technologies de pointe et d’entrer en lutte contre
les politiques publiques qui les promeuvent ne relève pas simplement de la
morale (morale sanitaire, morale écologique, morale « existentielle »
…) ; c’est aussi une proposition stratégique, qui fait le pari que
s’opposer individuellement et collectivement à l’informatisation de nos vies
peut nous permettre de sortir de l’impuissance, de retrouver une prise sur le
monde, un levier pour nuire enfin aux puissants.
Matthieu
Amiech
NOTES
1. rapport
intitulé « Dématérialisation et
inégalités d’accès aux services publics » est consultable à
l’adresse https://www.defenseurdesdroits.fr/sites/default/files/atoms/files/rapport-demat-num-21.12.18.pdf[↟]
2.
Voir l’article de Gaspard d’Allens sur l’action du 31 janvier en
gare de Matabiau, contre cette politique : https://reporterre.net/Des-humains-plutot-que-des-machines-usagers-et-cheminots-contestent-la-numerisation-des[↟]
3.
Je pense notamment aux enquêtes de Tomjo, de Pièces et main
d’œuvre, de la revue annuelle Z ; mais aussi aux chroniques
régulières d’Alain Gras, François Jarrige et Pierre Thiesset dans le
mensuel La Décroissance[↟]
4.
Pour une critique de l’informatisation du monde qui dépasse ces
quatre points, on peut se reporter à Hervé Krief, Internet ou le
retour à la bougie, Quartz, 2018 ; Pièces et main d’œuvre, Manifeste
des chimpanzés du futur. Contre le transhumanisme, 2017 ; et bien sûr
le livre du groupe MARCUSE auquel j’ai participé : La Liberté
dans le coma. Essai sur l’identification électronique et les motifs de s’y
opposer, La Lenteur, 2019.[↟]
5.
Extrait du livre de Zuboff co-écrit avec James Maxmin, The
Support Economy, Penguin, 2002, cité par Frédéric Joignot, dans son article
« La surveillance, stade suprême du capitalisme ? », dans Le
Monde du samedi 15 juin 2019, p. 24-25.[↟]
6.
Cf. Shoshana Zuboff, « Un
capitalisme de surveillance », in Le Monde diplomatique n°
778, janvier 2019.[↟]
7.
Chiffres donnés en 2018 par l’agence médias belge Space.[↟]
8.
Cf. Michel Bauer et Elie Cohen, Qui gouverne les
groupes industriels ? Essai sur l’exercice du pouvoir du et dans le groupe
industriel, Paris, Le Seuil, 1981.[↟]
9.
C’est ainsi que le maire de Nice, Christian Estrosi, a demandé à
Enedis d’avoir accès aux données des compteurs Linky pour savoir si les
propriétaires de résidences secondaires s’étaient réfugiés dans sa ville, au
début du confinement. Enedis ne semble pas avoir donné suite à cette demande
(source : L’Age de faire, n°151, mai 2020, p. 18).[↟]
10.
Cédric Villani, Donner un sens à l’intelligence
artificielle. Pour une stratégie nationale et européenne, rapport de
mission parlementaire remis au Premier ministre en 2018, disponible à
l’adresse https://www.vie-publique.fr/sites/default/files/rapport/pdf/184000159.pdf[↟]
11.
Voir à ce propos la mise au point tranchée de Julia Laïnae et
Nicolas Alep, Contre l’alternumérisme. Pourquoi nous ne vous
proposerons pas d’« éco gestes numériques » ni de solutions pour une
« démocratie numérique », La Lenteur, 2020.[↟]
12.
Un exemple de ce genre de tableau intéressant mais
fondamentalement lacunaire est fourni par Thomas Coutrot, dans Contre
l’organisation du travail, La Découverte (Repères), 1999.[↟]
13.
D’après un rapport d’IBM cité par Alexandre Laumonnier, 6,
Zones sensibles, 2013.[↟]
14.
Cf. Guillaume Duval, L’entreprise efficace à l’heure de
Swatch et McDonald’s. La seconde vie du taylorisme, Paris,
Syros-Alternatives économiques, 2000 ; Danièle Linhart et Aimée Moutet
(dir.), Le Travail nous est compté. La construction des normes
temporelles du travail, Paris, La Découverte, 2005.[↟]
15.
« Écran total, contre la gestion et l’informatisation de
nos vies » (mai 2016), disponible à l’adresse https://sniadecki.wordpress.com/2016/09/13/plate-forme-ecran-total/[↟]
16.
Cf. Anna Bednik, Extractivisme. Exploitation
industrielle de la nature : logiques, conséquences, résistances,
Paris, Le Passager clandestin, 2016, p. 112.[↟]
17.
Célia Izoard, « Les
bas-fonds du capital », in Guyane. Trésors et conquêtes,
revue Z, n°12, automne 2018, p. 12-13-14.[↟]
18.
Proposées par Andrae Anders S.G. et Edler Tomas, in « On
Global Electricity Usage of Communication Technology : Trends to
2030 », Challenges 6, 2015, p. 117-157. Dans leur
rapport de 2019 pour l’ADEME, L’impact social et énergétique des data
centers sur les territoires, Cécile Diguet et Fanny Lopez resituent
ces projections dans un ensemble de scénarios plus ou moins extrêmes.[↟]
19.
Voir le rapport dirigé par Hugues Ferreboeuf pour le
« think tank » Shift Project : Lean ICT- Pour une
sobriété numérique (2018). Soulignons que ces statistiques établies
il y a trois ou quatre ans ont toutes les chances d’être complètement dépassées
suite à l’épisode de confinement que nous venons de vivre, et qui a concerné
(ou concerne encore) plusieurs milliards de personnes dans le monde.[↟]
20.
Cf. l’article du physicien belge (et ancien eurodéputé) Paul
Lannoye, « Avec la 5G… tous cobayes ? », dans Kairos n°
37, décembre 2018 (https://www.kairospresse.be/article/avec-la-5g-tous-cobayes/) ; et
celui de Laury-Anne Cholez, « La 5G se déploie alors que ses effets sur la
santé ne sont pas évalués », en date du 25 février 2020 pour le quotidien
en ligne Reporterre (https://reporterre.net/La-5G-se-deploie-alors-que-ses-effets-sur-la-sante-ne-sont-pas-evalues[↟]
21.
Cornélius Castoriadis, Les Carrefours du labyrinthe,
Paris, Seuil, 2017 (première édition : 1978), p. 307.[↟]
22.
Voir la mise au point extraordinairement éclairante de Lewis
Mumford, dans « Technique
autoritaire, technique démocratique », publié dans Orwell et
Mumford, la mesure de l’homme, La Lenteur, 2014.[↟]
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