venerdì 14 marzo 2025

Notizie di Spagna: IL RITORNO PARSIMONIOSO ALLA NORMALITÀ INDECENTE di Miguel Amorós

 




Dopo tre mesi, le conseguenze disastrose della goccia fredda (DANA) continuano a essere presenti nella metropoli valenciana: gli aiuti ufficiali sono arrivati con sorprendente lentezza, i sotterranei degli edifici sono rimasti pieni di fango, i canali dei torrenti e dei fiumi hanno accumulato immondizia, i campi hanno continuato a essere melmosi, i detriti non hanno disertato le strade, né i mucchi di auto sinistrate. Le luci pubbliche e gli ascensori continuano a non funzionare (gli invalidi; gli anziani gli handicappati vivono reclusi), il commercio di quartiere non è riapparso, le scuole restano in uno stato pietoso, i trasporti pubblici funzionano male. Una polvere morbosa che provoca congestioni polmonari e il cattivo odore delle acque stagnanti che i depuratori guasti non riescono a eliminare inquinano l'aria. La responsabilità dei burocrati incaricati della gestione dell’emergenza è stata diluita in un mare di caos politico. Sotto quest’aspetto oggi non è cambiato nulla. Per incanalare e placare l'indignazione popolare, proteggendo al contempo le altre autorità colpevoli dalla vendetta, è stato lanciato lo spettacolare linciaggio del principale responsabile, il presidente regionale. L'operazione sarà politicamente vantaggiosa per tutti i partiti, compreso il suo, ma inefficace come vero palliativo per le conseguenze delle alluvioni.

 

Le conseguenze peggiori del disastro sono state subite da un gruppo particolarmente vulnerabile, quello degli immigrati. La loro condizione di forza lavoro irregolare – e quindi invisibile – li aveva resi adatti al lavoro precario e al lavoro sommerso, forme estreme di sfruttamento che la giustizia statale ignora perché da loro dipende lo sviluppo economico. A ciò bisogna aggiungere la criminalizzazione che deriva dalle campagne xenofobe e razziste promosse sui “social” dalla destra cavernicola. Nella metropolitana Horta Sud sono annegati ventisei stranieri, il che non è strano visto che si tratta di oltre quarantamila lavoratori 'senza documenti' e, di conseguenza, senza diritto a cure mediche, aiuti economici e risarcimenti. Il fatto di non esistere per lo Stato condannava gli immigrati a una miseria estrema, cosa così ripugnante da suscitare una forte indignazione popolare e promuovere le prime azioni di solidarietà “dal basso” a favore della loro regolarizzazione. La situazione è stata parzialmente alleviata lo scorso febbraio con la disponibilità del governo a concedere permessi di soggiorno e di lavoro a 25.000 immigrati per un anno.

 

Di fronte alle vittime si è alzato il muro dell’immobilismo istituzionale, mentre era evidente l’inefficacia dei consigli comunali ed erano minacciate le conclusioni illuminate delle commissioni di esperti governativi, che prevedevano un “ritorno alla normalità” tanto insoddisfacente quanto indecente. I piani di ricostruzione che i consulenti tecnici preparavano in isolamento nelle loro sedi lontane suscitavano diffidenza e sospetto. Che tipo di normalità cercavano? Più urbanismo selvaggio? Più metropolitanizzazione? Se una cosa era chiara alle persone colpite, è che nulla doveva tornare come prima. La paralisi delle amministrazioni ha offerto una nuova opportunità alla società civile – alle classi popolari – di organizzarsi. La ricostruzione era una questione in cui la volontà popolare doveva pesare molto più degli interessi spuri, fossero essi di natura burocratica, finanziaria o politica. A metà gennaio è stata creata nel quartiere di Los Alfafares l'Associazione dei Danneggiati dalla Dana/Horta Sud. Il compito era di accelerare le procedure legali per ottenere aiuti e, in generale, consigliare e difendere i diritti di tutte le persone colpite dalla frana, compresa una denuncia civile contro i responsabili della gestione omicida della catastrofe.

 

Da un momento all'altro, data l'irritante apatia amministrativa, il bicchiere della pazienza si andava riempiendo, mettendo in moto l'iniziativa popolare. Alla fine di gennaio è stato istituito il primo Comitato locale di Emergenza e Ricostruzione nel quartiere Parque Alcosa, sempre ad Alfafar. Si è trattato di un vero e proprio atto di disobbedienza civile, dal momento che le autorità avevano ordinato che la gente del quartiere restasse alla larga. Nella sede della Coordinazione di Collettivi del Parke si è tenuta un'assemblea in cui è diventato chiaro che la ricostruzione era troppo importante per essere lasciata nelle mani di funzionari e politici. La ricostruzione doveva essere un lavoro collettivo, “dal basso verso l’alto”. In pochi giorni sono comparsi con le stesse intenzioni una dozzina di comitati locali di emergenza, ai quali si sono aggiunti i comitati dei quattro quartieri allagati della città di Valencia. Non era il momento di mostrare un inutile eccesso di belligeranza, per cui i consigli comunali sono stati invitati alle loro riunioni e a comparire nei loro gruppi di lavoro, mentre allo stesso tempo proclamavano la volontà di coordinarsi con le amministrazioni per discutere le proposte “dall’alto” e partecipare alle decisioni. “Non c’è ricostruzione senza partecipazione”, sarebbe il nuovo slogan. La gente delle periferie ha acquisito importanza, dotandosi di uno spazio di autocontrollo per dare voce e potere di risoluzione alle persone coinvolte, rifiutando qualsiasi appartenenza politica. In qualche modo si voleva colmare il divario creatosi tra la società civile e l'amministrazione, trascurando la posizione dei partiti politici sulla questione, fenomeno considerato superficiale e poco pertinente.

 

È vero che nelle assemblee hanno prevalso l'efficacia immediata e il pragmatismo, ma nelle stesse comunicazioni è chiara la volontà che la ricostruzione non si concluda con una “normalizzazione” favorevole agli interessi immobiliari e bancari. Alcuni delegati e delegate hanno affermato che il modello di ricostruzione proposto è insufficiente, poiché persegue la semplice stabilizzazione delle periferie e non tiene conto del tessuto sociale danneggiato. Nel desiderio, bene o male formulato dai portavoce dei comitati, che i comuni dell’area metropolitana di Valencia siano trattati come parti integranti della città, sta il rifiuto dei centri abitati di essere semplici dormitori sovraffollati per la forza lavoro di cui ha bisogno il capitalismo locale. Un modello alternativo a misura d’uomo non può basarsi sull’accumulazione di capitale, ma sulla gestione controllata dell’attività sociale da parte della popolazione che la svolge. Le misure urgenti sono “Salvare la Huerta”[1], rimboschire i bacini idrografici, ripristinare i cicli idrologici, ridurre le emissioni di gas serra, cioè rinunciare all’uso di combustibili fossili. Minimizzare l’impatto dei danni recuperando i sistemi di drenaggio naturale, de urbanizzare la periferia suburbana, de motorizzare la città, dare dignità al lavoro, promuovere l’autonomia della popolazione. Non si tratta di un programma massimo, ma piuttosto di un insieme di suggerimenti con cui orientarsi in un’azione collettiva realmente trasformatrice.



[1] La campagna ortofrutticola attorno a Valence.

 

Miguel Amorós, 24 febbraio 2025, Per le reti libertarie.

 

 



[1] La campagna ortofrutticola attorno a Valence.


LA PARSIMONIOSA VUELTA A LA INDECENTE NORMALIDAD

 





Pasados tres meses, las consecuencias desastrosas de la gota fría han seguido presentes en la metrópolis valenciana: las ayudas oficiales llegaban con pasmosa lentitud, los bajos de los edificios permanecían llenos de lodo, los cauces de los barrancos y ríos acumulaban basura, los campos continuaban embarrados, los escombros no habían abandonado las calles, ni tampoco los montones de coches siniestrados. El comercio de barrio no reaparecía, las escuelas estaban en lastimoso estado, el trasporte público funcionaba mal, mientras flotaba en el aire un polvo mórbido causante de congestiones pulmonares y el mal olor de las aguas residuales que las depuradoras estropeadas no podían eliminar. La responsabilidad de los burócratas al frente de la gestión de emergencias se diluía en un mar de barullo político. En ese aspecto, hoy nada ha cambiado.

 

Las peores secuelas del desastre las ha sufrido un colectivo particularmente vulnerable, el de los inmigrantes. Su condición de fuerza de trabajo irregular -y por lo tanto, invisible- les había hecho idóneos para el trabajo precario y el empleo sumergido, formas extremas de explotación que la justicia estatal ignora porque el desarrollo económico depende de ellas. A esto hay que añadir la criminalización que resulta de las campañas xenófobas y racistas promovidas en las redes “sociales” por la derecha cavernícola. En la Horta Sud metropolitana hubo 26 ahogados extranjeros, lo cual no es extraño puesto que hay más de cuarenta mil trabajadores ‘sin papeles’, y por consiguiente, sin derecho a la asistencia médica, a las ayudas económicas y a las indemnizaciones. El hecho de no existir para el Estado condenaba a los inmigrantes a la miseria extrema, algo tan repugnante que despertó una fuerte indignación popular e impulsó las primeras acciones solidarias “desde abajo” en pro de su regularización. La situación se ha podido paliar parcialmente este mismo febrero con la disposición del Gobierno de conceder permisos de residencia y trabajo a 25.000 inmigrantes durante un año.

 

Contras las víctimas se levantaba el muro de la inacción institucional, mientras se evidenciaba la inoperancia de los ayuntamientos y amenazaban las conclusiones iluminadas de los comités de expertos gubernamentales augurando una “vuelta a la normalidad” tan insatisfactoria como indecente. Los planes de reconstrucción que los técnicos asesores elaboraban aislados en sus distantes despachos provocaban desconfianza y recelo. ¿Qué tipo de normalidad buscaban? ¿más urbanismo salvaje? ¿más metropolitanización? Si algo tenían claro los afectados, es que nada tenía que volver a ser como antes. La parálisis de las administraciones brindaba una nueva ocasión a la sociedad civil -a las clases populares- para autoorganizarse. La reconstrucción era un asunto en el que debía pesar mucho más la voluntad popular que los intereses espurios, fuesen de índole burocrática, financiera o política. A mediados de enero pasado se creó en la barriada de Los Alfafares la Asociación de los Damnificados por la Dana/Horta Sud. Se imponía la tarea de acelerar los trámites legales para la obtención de ayudas y, en general, para asesorar y defender los derechos de todos los afectados por la barrancada, cosa que incluía una querella por lo civil contra los cargos culpables de la gestión homicida de las emergencias.

 

De un momento a otro, dada la irritante desidia administrativa, el vaso de la paciencia tenía que colmarse, y la iniciativa popular, ponerse manos a la obra. A finales de enero, se constituyó en el barrio de Parque Alcosa, también de Alfafar, el primer Comité Local de Emergencia y Reconstrucción. Fue un verdadero acto de desobediencia civil, pues las autoridades habían ordenado que el vecindario se mantuvieran al margen. En el local de la Koordinadora de Kolectivos del Parke se celebró una asamblea donde se puso de manifiesto que la reconstrucción era demasiado importante para quedar en manos de funcionarios y políticos. La reconstrucción había de ser una obra colectiva, “de abajo arriba”. En pocos días aparecieron una docena de comités locales de emergencia con las mismas intenciones, a los que se añadieron los comités de las cuatro pedanías inundadas de la ciudad de Valencia. No era el momento de mostrar un exceso inútil de beligerancia, por lo que invitaban a los ayuntamientos a sus reuniones y a figurar en sus grupos de trabajo, a la vez que proclamaban el deseo de coordinarse con las administraciones para así poder discutir las propuestas “de arriba” y participar en las decisiones. “No hay reconstrucción sin participación”, sería el nuevo eslogan. La gente del extrarradio cobraba protagonismo dotándose de un espacio autocontrolado para dar voz y poder de resolución a los implicados, rechazando cualquier adscripción política. De alguna forma, se quería colmar el vacío creado entre la sociedad civil y la administración, pasando por encima de la posición de los partidos políticos al respecto, fenómeno tenido por superficial y de escasa relevancia.

 

Cierto es que en las asambleas ha primado la eficacia inmediata y el pragmatismo, pero en los mismos comunicados se trasluce el anhelo de que la reconstrucción no acabe en una “normalización” favorable a los intereses inmobiliarios y a la Banca. Algunos delegados y delegadas han manifestado que el modelo de reconstrucción propuesto es insuficiente, ya que persigue la simple estabilización de los suburbios y no tiene en cuenta el dañado tejido social. En el deseo bien o mal formulado por los portavoces de los comités de que los municipios del área metropolitana de Valencia sean tratados como partes integrantes de la ciudad, reside la negativa de los pueblos a ser simples dormitorios hacinados de la fuerza de trabajo que necesita el capitalismo local. Un modelo alternativo a escala humana no puede estar basado en la acumulación de capitales, sino en la gestión controlada de la actividad social por la población que la realiza. Medidas urgentes son “Salvar la Huerta”, reforestar las cuencas hidrográficas, restaurar los ciclos hidrológicos, reducir las emisiones de gases de efecto invernadero, o sea, renunciar al uso de combustibles fósiles. Minimizar los impactos de las danas recuperando sistemas naturales de drenaje, desurbanizar la periferia suburbial, desmotorizar la urbe, dignificar el trabajo, fomentar la autonomía de la población. No es un programa máximo, sino más bien un conjunto de sugerencias con las que orientarse en una acción colectiva realmente trasformadora.

 

Miguel Amorós, 24 de febrero de 2025, Para Redes Libertarias.

 


 LE RETOUR PARCIMONIEUX À LA NORMALITÉ INDÉCENTE


 

Après trois mois, les conséquences désastreuses de la goutte froide (DANA) sont toujours palpables dans la métropole valencienne : l'aide officielle s’est déployée avec une grande et surprenante lenteur : sous-sols des bâtiments remplis de boue, les lits des ravins et des rivières accumulant les ordures, les champs encore boueux ; les débris n’ont pas quitté les rues, ni les tas de voitures accidentées. L'éclairage public et les ascenseurs ne fonctionnent toujours pas (les invalides, les personnes âgées, les handicapés vivent cloitrés), les commerces de quartier sont en grande partie fermés, les écoles sont dans un état pitoyable, les transports en commun fonctionnent mal. Une poussière morbide cause de congestion pulmonaire et la mauvaise odeur des eaux usées que les stations d'épuration endommagées n'ont pas pu éliminer polluent l'air. La responsabilité des bureaucrates en charge de la gestion des urgences a été diluée dans un océan de turbulences politiques. À cet égard, rien n'a changé aujourd'hui. Afin de canaliser et d'apaiser l'indignation populaire, tout en protégeant de la vindicte les autres instances coupables, le lynchage spectaculaire du principal responsable, le président régional, a été lancé. L’opération sera politiquement profitable pour tous les partis, y compris le sien, mais inefficace comme véritable palliatif des conséquences des inondations.

 

Les pires conséquences de la catastrophe ont été subies par un groupe particulièrement vulnérable, celui des immigrants. Leur condition de main-d'œuvre irrégulière – et donc invisible – les a condamnés au travail précaire et à l'emploi clandestin, des formes extrêmes d'exploitation que la justice d'État ignore parce que le développement économique dépend d'eux. À cela s'ajoute la criminalisation qui résulte des campagnes xénophobes et racistes balancées sur les réseaux « sociaux » par une droite des cavernes. Dans la métropole d'Horta Sud, il y a eu 26 noyades d’étrangers, ce qui n'est pas surprenant puisqu'il y a plus de quarante mille travailleurs « sans-papiers », et donc sans droit à l'assistance médicale, à l'aide économique et à l'indemnisation. Le fait qu'ils n'existent pas pour l'État relèguent les immigrés dans une situation de misère extrême que la catastrophe mit au vu et au su de tous. Cela souleva une forte indignation populaire et suscita les premières actions de solidarité « d'en bas » en faveur de leur régularisation. La situation s'est partiellement atténuée ce mois de février avec la volonté du gouvernement d'accorder des permis de séjour et de travail à 25 000 immigrants pour un an.

 

Face aux victimes, le mur de l'inaction institutionnelle se dressait en même temps que l'inefficacité des conseils municipaux se déployait rendant les conclusions éclairées des comités d'experts gouvernementaux prédisant un « retour à la normale » aussi inepte qu'indécent. Les plans de reconstruction que les conseillers techniques élaboraient isolément dans leurs bureaux éloignés provoquaient méfiance et suspicion. Quel genre de normalité recherchaient-ils ? Plus d'urbanisme sauvage ? Plus de métropolisation ? S'il y a une chose claire pour les sinistrés, c'est que rien ne doit redevenir comme avant. La paralysie des administrations offre, si l’on peut dire, une occasion à la société civile – aux classes populaires – de s'auto-organiser. La reconstruction est une question dans laquelle la volonté populaire doit peser beaucoup plus que les intérêts fallacieux de la bureaucratie, de la finance ou de la politique. À la mi-janvier, l'Association des victimes de la Dana/Horta Sud a été créée dans le quartier de Los Alfafares. Sa mission serait d’agir pour accélérer les procédures juridiques d'obtention d'aide et, de manière générale, de conseiller et de défendre les droits de toutes les personnes touchées par l’inondation (barrancada), ce qui comprenait une poursuite civile contre les responsables de la gestion meurtrière de la catastrophe.

 

Au bout d’un moment, face à l’agaçante apathie administrative , la patience s’épuisa, et l'initiative populaire se mit en branle. À la fin du mois de janvier, le premier Comité local d'urgence et de reconstruction a été constitué dans le quartier du Parque Alcosa, également à Alfafar. Il s'agissait d'un véritable acte de désobéissance civile, car les autorités avaient ordonné au quartier de rester en dehors de cela. Une assemblée s'est tenue dans les locaux de la Koordinadora de Kolectivos del Parke où il a été clairement indiqué que la reconstruction était chose trop importante pour être laissée entre les mains de fonctionnaires et de politiciens. La reconstruction devait être un travail collectif, « de bas en haut ». En quelques jours, une douzaine de comités locaux d'urgence sont apparus avec les mêmes intentions, auxquels se sont ajoutés les comités des quatre quartiers inondés de la ville de Valence. Mais ce n'était pas le moment de faire preuve d'un excès inutile de belligérance, ils ont donc invité les conseils municipaux à leurs réunions et à faire partie de leurs groupes de travail, tout en proclamant le désir de se coordonner avec les administrations afin de discuter des propositions « d'en haut » et de participer aux décisions. « Il n'y a pas de reconstruction sans participation », est le nouveau slogan. Les habitants de la périphérie ont occupé le devant de la scène en se dotant d'un espace autocontrôlé pour donner une voix et un pouvoir de décision aux personnes impliquées, en rejetant toute affiliation politique. D'une certaine manière, il s'agissait de combler le vide créé entre la société civile et l'administration, en contournant la position des partis politiques sur le sujet, position considérée comme superficielle et peu pertinente.

 

Il est vrai que dans les assemblées l'efficacité immédiate et le pragmatisme ont prévalu, mais dans les mêmes communiqués on exprime clairement la volonté que la reconstruction ne se termine pas par une « normalisation » favorable aux intérêts immobiliers et aux banques. Certains délégués ont déclaré que le modèle de reconstruction proposé est insuffisant, car il ne vise qu’à stabiliser les banlieues et ne tient pas compte du tissu social endommagé. Dans le désir, plus ou moins bien formulé des porte-parole des comités de voir les municipalités de la zone métropolitaine de Valence traitées comme faisant partie intégrante de la ville, réside le refus des villages d'être de simples dortoirs entassés dans la main-d'œuvre dont le capitalisme local a besoin. Un modèle alternatif à l'échelle humaine ne peut pas être basé sur l'accumulation du capital, mais sur la gestion contrôlée de l'activité sociale par la population qui l'exerce. Les mesures urgentes sont « Sauver le jardin », reboiser les bassins versants, restaurer les cycles hydrologiques, réduire les émissions de gaz à effet de serre, c'est-à-dire renoncer à l'utilisation de combustibles fossiles. Minimiser les impacts des dommages en récupérant les systèmes de drainage naturels, désurbaniser la périphérie périurbaine, dé motoriser la ville, donner de la dignité au travail, promouvoir l'autonomie de la population. Il ne s’agit pas d’un programme maximum, mais plutôt d’un ensemble de suggestions pour se guider dans une action collective véritablement transformatrice.

 

Miguel Amorós

24 février 2025