sabato 1 marzo 2025

Sull’ideologia della decrescita nell’ambito libertario di Miguel Amorós

 



Per evitare gli inconvenienti dell'incoscienza e della confusione, le organizzazioni libertarie più accreditate cercano di orientare la propria azione verso una diagnosi veritiera dell’epoca, spesso proposta da intellettuali vicini. La collaborazione sarà più o meno efficace a seconda che le analisi fornite si basino sulle reali contraddizioni che strutturano la società attuale, oppure derivino da riflessioni ideologicamente ristrette, o peggio, da mode importate. Quest’ultima ipotesi sembra aver prevalso, da cui il credito – a mio avviso sproporzionato – che la decrescita, ideologia di origine accademica francese inizialmente incentrata sulla classe dirigente, ha ricevuto in ambito libertario, in particolare anarco-sindacalista. Il fatto non rivela assolutamente una consapevolezza diffusa della riattivazione “verde” del capitalismo come pensa Anselm Jappe; semplicemente, la promozione quasi incondizionata della dottrina viene a colmare una lacuna, quella dell’assenza di una valutazione storica convincente dell’attuale crisi del capitalismo da parte della critica sindacale-anarchica. Tuttavia, non si colma un vuoto teorico con un torrente lessicografico di concetti superflui, o meglio, con formule ideologiche di evasione che mascherano la vera natura della situazione attuale, poiché queste, per essenza, non cercano di cambiarla, ma piuttosto di stabilizzarla.

 

Nei primi due decenni del secolo scorso, quando gli effetti dannosi del cambiamento climatico, dell’inquinamento ambientale e dell’esaurimento delle risorse sono venuti alla luce, i bluff dello “sviluppo sostenibile” capitalista, della liberazione delle tecnologie e della “de carbonizzazione” dell’economia sono diventati fin troppo evidenti. Lo sviluppo globale non solo ha creato maggiori disuguaglianze nella società, con il suo corollario di tensioni geopolitiche e guerre, ma ha anche seriamente minacciato la vita sul pianeta. Di conseguenza, gli interessi di classe e quelli della specie umana hanno trovato un terreno in cui fondersi nella lotta contro lo sviluppo. L’anarchico Murray Bookchin è stato colui che si è impegnato maggiormente nel teorizzare l’unificazione della questione sociale con quella ecologica. Tuttavia, la coscienza di classe è andata oscurandosi con le disfatte. Quando il dinamismo autonomo del vecchio movimento operaio fu sostituito dall’attività limitata di classi medie in declino, le contraddizioni sociali e ambientali non si sono risolte in forti lotte di rottura, dissimulandosi grazie a strategie “duali” e tattiche “interstiziali” che postulavano un accoppiamento con il capitale e una strumentalizzazione dello Stato. Se cedessero a queste pratiche di capitolazione, gli anarchici dimenticherebbero le vie che un tempo hanno portato al comunismo libertario, cioè lo sciopero generale, l’insurrezione rivoluzionaria, l’esproprio, la collettivizzazione della produzione e dei servizi, l’abolizione del denaro, la dissoluzione dello Stato, ecc. La paralisi e il degrado del movimento operaio hanno reso impraticabili queste strade, affogando qualsiasi iniziativa radicale in un oceano di acque morte. Così, di fronte a un problema così arduo, alcuni libertari hanno pensato a una terza via di transizione, quella della decrescita.

 

A ben vedere, la decrescita è un’ideologia, come la teoria del collasso, cui spesso è associata, cioè un’interpretazione fantasiosa della realtà, portatrice di falsa coscienza, in linea con gli interessi di chi la usa, a favore o contro il sistema. Una caratteristica tipica di tutte le ideologie è prendere la parte per il tutto. Negli ambiti ideologici nessuna questione si pone storicamente. Si separa arbitrariamente un aspetto della vita sociale facendone una realtà assoluta. Isolata da ogni altro fattore con cui è in relazione, la parte diventa il principio esplicativo di tutto ciò che accade in ogni momento e in ogni luogo. Nella decrescita, ovviamente, la parte – origine di tutti i mali – è la crescita economica. E perché no, piuttosto, l’accumulazione di capitali? Obbiettiamo. Il problema, proposto semplicemente, ha una soluzione ovvia, decrescere, ma ci chiediamo subito: In che cosa? Come? Con quali supporti? Con quali fini? Chi s’incarica di farlo? Come si organizza l’azione che i postmodernisti chiamano di “decostruzione”? Con quale programma? Che cosa accadrà ai settori colpiti? Come saranno superate le resistenze? Che fare con l’economia di mercato? Dove finiranno le banche, i fondi d’investimento e le multinazionali? La letteratura della decrescita è ricca di risposte, consegne, esempi e dettagli, ma quando si tratta di specificare le procedure da utilizzare, le misure da adottare, i meccanismi da seguire, le scadenze da stabilire e gli obiettivi economico-sociali da raggiungere, l’ambiguità e l’imprecisione prevalgono sulla chiarezza e sul rigore. L’idea della decrescita attirò Tiri e Troiani, sia coloro che aspiravano a essere mediatori tra potere e natura, sia coloro che volevano liquidare il potere per salvare la natura. Di conseguenza, si potrebbero distinguere due diversi tipi di decrescita: una come alternativa capitalista e una come alternativa al capitalismo. Il primo tipo era un semplice programma di snellimento economico da applicare da parte delle autorità costituite, degli imprenditori e dei dirigenti a livello economico, dei mediatori ambientali e dei governi a livello politico. Una sorta di progetto keynesiano dipinto di verde i cui dettagli si possono leggere nelle opere di Latouche o Martínez Alier, e registrarli nelle prediche dei portavoce del New Green Deal. I suoi sostenitori si trovano nella socialdemocrazia, nella cittadinanza di sinistra, tra gli accademici, nel movimento ecologista istituzionalizzato, nelle organizzazioni ambientaliste e conservatrici e nelle altre associazioni che vivono di sovvenzioni. Il secondo tipo ha accoliti tra i difensori radicali del territorio, tra coloro che promuovono la sovranità alimentare, nei neorurali che perseguono l’autosufficienza e tra gli anarchici.

 

La varietà delle posizioni politiche non significa che i punti comuni siano scarsi. Al contrario, tutti, statalisti e libertari, sono d’accordo sul mantenimento dell’equilibrio dei cicli della biosfera, sulla necessità di un cambio di mentalità che chiamano “decolonizzazione dell’immaginario”, sulla riorganizzazione della società basata su valori di solidarietà, sulla “crescita relazionale” e sulla “decomplessificazione” qualunque cosa essa sia; sulla creazione di economie informali su scala locale (soprattutto rurali), sull’austerità volontaria, sul riciclaggio, sulla promozione dell’energia pulita, sulla fede in un inevitabile collasso della civiltà, ecc. Inutile dire che le misure che derivano da tali attitudini e convinzioni – e altre come il reddito di base, le tasse verdi, le imposte, le leggi protezionistiche e i ministeri della transizione ecologica – non servono nemmeno lontanamente a regolare razionalmente il metabolismo con la natura, rompere con il produttivismo, sopprimere le disuguaglianze, spostare i mercati, porre fine alle lobby e dare al capitalismo un volto più umano. A maggior ragione saranno inutili per “uscire” dal capitalismo. A questo punto, gli anarchici della decrescita prendono le distanze dagli altri, poiché non credono che la riduzione drastica della produzione e del consumo – la decrescita pura – sia possibile in un regime capitalista, né che lo Stato sia l’organismo adeguato per facilitare l’“auto-trasformazione” della società in questa direzione. Tuttavia, il triviale catastrofismo, la debolezza delle alternative, il moralismo e la pusillanimità di molte proposte ci costringono a dubitare della decrescita libertaria e a supporre che in essa manchi una critica coerente di un tardo capitalismo disorientato. Pertanto, parafrasando Walter Benjamin, per una tale prassi libertaria sarebbe un’ardua impresa esprimere in modo concludente il punto di vista degli oppressi.

 

In effetti, le proposte operative che possiamo trovare nell'ambiente anarchico non si discostano molto da quelle elencate nel magazzino socialdemocratico: redistribuzione del lavoro, riduzione dell'orario lavorativo, adeguamento salariale, mediazione sindacale... Non risulta nemmeno strano ricorrere a termini di correttezza politica come per esempio "cittadinanza", "sindacati" (termine che comprende quelli "maggioritari"), "non violenza" o "democrazia", prova che tra gli anarchici c'è anche chi ha un piede in ogni lato. Pertanto, il rifiuto dello Stato e del dominio della finanza non è reso chiaro da raccomandazioni di buona volontà come “ridurre le dimensioni della burocrazia” ed “evitare il sistema bancario”. L’anticapitalismo non appare da nessuna parte, ma attenzione!: la decrescita crea posti di lavoro. I sindacalisti professionisti, i ministri delle finanze e i lavoratori disoccupati saranno confortati dalle promesse di nuovi posti di lavoro creati nei settori dell’economia verde, della sanità, della cultura e dell’assistenza sociale, precedentemente ignorati o trascurati, che senza dubbio compenseranno quelli persi nello smantellamento di grandi infrastrutture inutili e d’industrie come quella militare, automobilistica, petrolchimica o agroalimentare. Lo sfruttamento lavorativo propriamente detto non è attaccato, né è criticato il ruolo della tecnologia, né è fatto alcun riferimento ai condizionamenti del mercato. La rinascita della vita comunitaria, l'apertura di reti autonome di aiuto, distribuzione e scambio, il cooperativismo, le banche del tempo, le monete sociali e il recupero delle tradizioni completeranno il quadro, in attesa di un collasso morbido e pacifico. Lo auspichiamo sinceramente, ma vale la pena chiedersi come mettere in pratica tutto questo pacchetto paradisiaco di fronte alla prevedibile opposizione delle potenti forze dominanti nell’economia e nella politica. Molti – e non mi riferisco al sindacalismo alternativo – rifuggono dal sabotaggio, dall’autodifesa e dallo scontro, privilegiando forme di accordo “conviviali”, pacifiche, di dialogo, in qualche modo “democraticamente” consensuali. Nonostante tutto, lo spesso velo dell’indeterminatezza e della negoziazione non può nascondere il semplice fatto che nel mondo della decrescita pochi scommettono su una rivoluzione sociale che emerga attraverso l’intensificazione del conflitto urbano e territoriale, cioè della lotta di classe contemporanea, poiché il modello da imitare non è preferibilmente quello dei soviet machnovisti, o quello dei collettivi operai e contadini della guerra civile spagnola, o quello delle comuni della recente rivolta del popolo curdo, ma gli eco villaggi, le “Città in transizione” o i comuni medievali.

 

Non tutti dalla parte libertaria sembrano distaccarsi dal latouchismo. Poiché non è stata sufficientemente denunciata o combattuta, l’opera dell’ecologismo canagliesco e di altri “esperti” al soldo del potere ha avuto una certa efficacia. In ogni caso, per concludere: la crescita non è una condizione sine qua non del capitalismo. Negli ultimi trent’anni, le bolle immobiliari, tecnologiche e finanziarie, accompagnate da crisi sanitarie, climatiche ed energetiche, hanno continuato a ostacolare la crescita, a mettere in discussione la produttività e a portare all’estremo ogni tipo di pratica estrattivista. In realtà, il capitalismo è in un vicolo cieco, stagnante, mostrando segni palpabili di esaurimento e, paradossalmente, di declino. Un analista competente, Alfredo Apilánez, ci suggerisce moderatamente che “non è la crescita la caratteristica distintiva né il punto di partenza appropriato di un’analisi critica ma, al contrario, il marcato degrado del capitale, dove si intensifica l’extralimitazione ecologica. Tale è la trappola 'discorsiva', tesa dal mantra dominante, in cui cade, forse inavvertitamente, il movimento per la decrescita." (I vizi dell'ecologismo). Aggiungeremo che ciò che costringe il capitalismo a forzare la macchina contro il benessere, il lavoro, i salari, la salute, l’alloggio, l'ambiente, ecc., è appunto la tendenza al declino dei profitti e non la crescita. La diminuzione della redditività, le grandi difficoltà nella produzione, o meglio, nell'accumulazione di capitale, sono state finora evocate con martingale finanziarie (massicce emissioni di debito, rifinanziamento dello stesso, cartolarizzazioni, rivalutazioni di beni), costringendo, da un lato, alla diminuzione del reddito diretto e indiretto di una parte sempre più ampia della popolazione e, dall'altro, alla più grande depredazione del territorio mai vista. Le barriere imposte dalle risorse limitate o dai problemi causati dalle contraddizioni interne non saranno un freno, né l’inizio della fine; troppo spesso si dimentica la straordinaria adattabilità del capitalismo alle catastrofi, la sua capacità di renderle redditizie. La scarsità causata dalla disfunzione capitalista è il più grande stimolo alla mercificazione. In questo senso, la decrescita, e ancora di più la teoria del collasso, apportano materiale ideologico al discorso del potere. Nell’attuale fase di malattia, il capitalismo userà il rimedio di decrescere o non sarà.

 

Non intendiamo condannare con uno sguardo disfattista tutte le pratiche marginali di sopravvivenza che abbiamo citato; sottolineiamo semplicemente la necessità di contestualizzarle. A condizione di non essere considerate fini a se stesse, avranno la loro funzione pedagogica e logistica nell’ambito della lotta anticapitalista. Secondo i casi, possono servire da una parte o dall'altra. Semplice questione di prospettiva dirompente. Ad esempio, qualsiasi mercenario pseudo-ecologista può riscuotere il compenso per la sua viltà andando in bicicletta, ma ci vorrà molto impegno per raggiungere quello che chiamano “post-capitalismo” invece che socialismo. Il capitalismo non crollerà da solo. Ci vorrà, come direbbe Bakunin, “lo scoppio incontrollato delle passioni popolari che superino gli ostacoli dell’ignoranza, della sottomissione e dello sfruttamento”, sarà cioè necessario un movimento sociale antagonista abbastanza potente da rovesciarlo e abbastanza intelligente da non farsi ingannare da opportunisti, scrocconi e lacchè del sistema disposti a gestire la fine pacifica della civiltà. È una fauna che nei momenti critici parassita i mezzi e le proteste dell’opposizione.

  

Miguel Amorós Per “Estudios”, rivista di pensiero libertario, 6 febbraio 2025.


De la ideología del decrecimiento en el medio libertario


A fin de soslayar los inconvenientes de la inconsciencia y la confusión, las organizaciones libertarias más solventes procuran orientar su acción según un veraz diagnóstico de la época, a menudo proporcionado por intelectuales cercanos. La colaboración resultará más o menos efectiva según si los análisis suministrados partan de las contradicciones reales que estructuran la sociedad actual, o se deriven de reflexiones ideológicamente encorsetadas, o peor, de modas importadas. Esto último parece haber predominado, de ahí el crédito -en mi opinión desproporcionado- que ha recibido en el ámbito libertario, mayormente anarcosindicalista, el decrecentismo, ideología de origen francés académico inicialmente enfocada hacia la clase dirigente. El hecho en absoluto revela una toma de conciencia difusa ante la reactivación “verde” del capitalismo como piensa Anselm Jappe; simplemente, la promoción casi incondicional de la doctrina viene a rellenar un hueco, el de la ausencia de una evaluación histórica convincente de la crisis actual del capitalismo por parte de la crítica sindical-anarquista. No obstante, no se colma un vacío teórico con un torrente lexicográfico de conceptos innecesarios, o mejor, con fórmulas ideológicas escapistas que disfrazan la verdadera naturaleza de la situación actual, ya que estas, por esencia, no pretenden cambiarla, sino estabilizarla.

En las dos primeras décadas del siglo reciente, a medida en que los efectos nocivos del cambio climático, la contaminación ambiental y el agotamiento de los recursos salían plenamente a la luz, se hacían demasiado evidentes los bluffs del “desarrollo sostenible” capitalista, de las tecnologías liberadoras y de la “descarbonización” de la economía. El desarrollismo global no solo creaba mayores desigualdades en la sociedad, con su corolario de tensiones geopolíticas y guerras, sino que amenazaba seriamente la vida en el planeta. En consecuencia, los intereses de clase y los de la especie humana encontraban en la lucha antidesarrollista un terreno donde fusionarse. El anarquista Murray Bookchin fue quien mayor empeño puso en teorizar la unificación de la cuestión social con la ecológica. Sin embargo, la conciencia de clase fue oscureciéndose con las derrotas. Al ser sustituido el dinamismo autónomo del viejo movimiento obrero por la actividad contenida de unas clases medias en descenso, las contradicciones sociales y ambientales no se resolvieron en fuertes combates rupturistas, sino que se disimularon gracias a estrategias “duales” y tácticas “intersticiales”, las cuales postulaban un acoplamiento con el capital y una instrumentalización del Estado. Si sucumbían a esas prácticas capituladoras, los anarquistas olvidarían los caminos que llevaban antaño al comunismo libertario, a saber, la huelga general, la insurrección revolucionaria, la expropiación, la colectivización de la producción y los servicios, la abolición del dinero, la disolución del Estado, etc. La parálisis y degradación del movimiento obrero volvía dichos caminos impracticables, ahogando cualquier iniciativa radical en un océano de aguas muertas. Así que, ante tal arduo problema, algunos libertarios pensaron en una tercera vía transicionista, la del decrecimiento.

Mirándolo bien, el decrecentismo es una ideología, como el colapsismo, con el que frecuentemente se asocia, es decir, es una interpretación fantasiosa de la realidad, portadora de falsa conciencia, en consonancia con los intereses de quienes se sirven de ella, bien sea a favor o en contra del sistema. Una característica típica de todas las ideologías es la toma de la parte por el todo. En las esferas ideológicas ninguna cuestión se plantea históricamente. Se separa arbitrariamente un aspecto de la vida social y se hace de él una realidad absoluta. Alejada de cualquier otro factor con el que se relacione, la parte se convierte en el principio explicativo de todo lo que pasa en cualquier momento y en todo lugar. En el decrecentismo, claro está, la parte -el origen de todo mal- es el crecimiento económico. ¿Y por qué no mejor la acumulación de capitales? Objetamos. El problema, planteado con simplicidad, tiene una solución obvia, decrecer, pero inmediatamente preguntamos: ¿En qué? ¿cómo? ¿con que apoyos? ¿con qué finalidad? ¿quién se encarga de la tarea? ¿cómo se organiza la acción que los posmodernos llaman “deconstructora”? ¿con cuál programa? ¿qué pasará con los sectores afectados? ¿cómo se superarán las resistencias? ¿qué hacer con la economía de mercado? ¿a dónde irán a parar los bancos, los fondos de inversión y las multinacionales? La literatura decrecentista abunda en respuestas, consignas, ejemplos y detalles, pero a la hora de concretar los procedimientos a emplear, las medidas a tomar, los mecanismos a seguir, los plazos a establecer y los objetivos económico-sociales a conseguir, la ambigüedad y la imprecisión se imponen sobre la claridad y el rigor. La idea decrecentista atrajo a tirios y a troyanos, tanto a quienes aspiraban a ser los mediadores entre el poder y la naturaleza, como a quienes querían liquidar el poder para salvar la naturaleza. Consecuentemente, se podían distinguir dos tipos diferenciados de decrecimiento: el decrecimiento como alternativa capitalista y el decrecimiento como alternativa al capitalismo. El primero era un simple programa de adelgazamiento económico a aplicar por las autoridades constituidas, los empresarios y altos ejecutivos a nivel económico, los mediadores ecologistas y los gobiernos a nivel político. Una especie de keynesianismo pintado de verde cuyos pormenores pueden leerse en las obras de Latouche o Martínez Alier, y registrarse en las prédicas de los voceros del New Green Deal. Sus partidarios se encuentran en la socialdemocracia, en el ciudadanismo de izquierdas, entre los académicos, en el movimiento ecologista institucionalizado, en las organizaciones ambientalistas y conservacionistas, y en las demás asociaciones que viven de las subvenciones. El segundo tiene acólitos entre los defensores radicales del territorio, en los que promueven la soberanía alimentaria, en los neorrurales que persiguen la autosuficiencia y entre los anarquistas.

La variedad de posiciones políticas no significa que los puntos en común sean escasos. Al contrario, todos, tanto estatistas como libertarios, comulgan en mantener equilibrados los ciclos de la biosfera, en la necesidad de un cambio de mentalidad al que llaman “descolonización del imaginario”, en la reorganización de la sociedad en base a valores solidarios, en el “crecimiento relacional” y en la “descomplejización” sea lo que sea; en la creación de economías informales a escala local (sobre todo rural), en la austeridad voluntaria, en el reciclaje, en el fomento de las energía limpias, en la fe en un inevitable colapso civilizatorio, etc. Ni qué decir tiene que las medidas que derivan de tales actitudes y convicciones -y otras como la renta básica, los impuestos verdes, las tasas, las leyes proteccionistas y los ministerios de transición ecológica- no sirven ni por asomo para regular racionalmente el metabolismo con la naturaleza, romper con el productivismo, suprimir la desigualdad, desplazar a los mercados, acabar con los lobbies y darle capitalismo un rostro más humano. Con mayor razón serán inútiles para “salir” del capitalismo. Llegados a ese punto, los anarquistas decrecentistas toman distancias del resto, pues no creen que la reducción drástica de la producción y el consumo -el puro decrecimiento- sea posible en un régimen capitalista, ni que el Estado sea el organismo adecuado para facilitar la “autotransformación” de la sociedad en esa dirección. Sin embargo, el trivial catastrofismo, la endeblez de las alternativas, la moralina y la pusilanimidad de muchas propuestas nos obligan a dudar del decrecentismo libertario y a suponerlo falto de una crítica coherente del trastornado capitalismo tardío. Por consiguiente, parafraseando a Walter Benjamin, a tal modalidad libertaria le costaría expresar de forma concluyente el punto de vista de los oprimidos.

En efecto, las propuestas laborales que podemos encontrar en el medio anarquista no difieren demasiado de las guardadas en el almacén socialdemócrata: reparto del trabajo, disminución de la jornada, ajuste salarial igualitario, mediación sindical... Incluso no resulta nada raro que se recurra a términos de corrección política como por ejemplo “ciudadanía”, “sindicatos” (término que incluye a los “mayoritarios”), “no violencia” o “democracia”, prueba de que también entre los anarquistas hay quien tiene un pie en cada lado. Así pues, el rechazo del Estado y del dominio de las finanzas no queda claro con recomendaciones de buena voluntad tales como “reducir el tamaño de la burocracia” y “rehuir el sistema bancario.” El anticapitalismo no aparece por ninguna parte, pero, ¡alto ahí!: El decrecimiento crea puestos de trabajo. Los sindicalistas profesionales, los ministros de hacienda y los obreros en paro se sentirán aliviados ante las promesas de nuevos empleos creados en los sectores de la economía verde, la salud, la cultura y la asistencia social, antaño ignorados o descuidados, que compensarán, qué duda cabe, a los perdidos en el desmantelamiento de grandes infraestructuras inútiles y industrias como la militar, automovilística, petroquímica o agroalimentaria. No se ataca la explotación laboral propiamente dicha, ni se critica el papel de la tecnología, ni se alude a los condicionantes del mercado. El renacer de la vida comunal, la apertura de redes autónomas de ayuda, distribución e intercambio, el cooperativismo, los bancos de tiempo, las monedas sociales y la recuperación de las tradiciones, completarán el panorama, a la espera de un colapso suave y apacible. Lo deseamos de corazón, pero cabe preguntarse por la manera de llevar a la práctica todo ese paquete paradisiaco ante la previsible oposición de las poderosas fuerzas dominantes en la economía y la política. Muchos -y no me refiero al sindicalismo alternativo- rehuyen el sabotaje, la autodefensa y el enfrentamiento, dando preferencia a formas “convivenciales” de concertación, pacíficas, dialogantes, de alguna manera consensuadas “democráticamente.” A pesar de todo, el túpido velo de la indeterminación y el trapicheo no puede ocultar el simple hecho de que en el mundillo decrecentista pocos apuestan por una revolución social emergiendo a través de la intensificación de la conflictividad urbana y territorial, o sea, de la lucha de clases contemporánea, pues el modelo a imitar no es preferentemente el de los soviets makhnovistas, o el de las colectividades obreras y campesinas de la guerra civil española, o el de las comunas de la reciente revuelta del pueblo kurdo, sino las ecoaldeas, las “Ciudades en transición” o los concejos medievales.

No todos en el lado libertario parecen desprenderse del latouchismo. La labor del ecologismo canalla y otros “expertos” a sueldo del poder, al no ser suficientemente denunciado ni combatido, ha tenido alguna eficacia. En fin, acabando: el crecimiento no es una condición sine qua non del capitalismo. En los últimos treinta años, las burbujas inmobiliarias, tecnológicas y financieras, acompañadas de crisis sanitarias, climáticas y energéticas, no han dejado de trabar el crecimiento, poner entre interrogantes la productividad y llevar al extremo toda clase de prácticas extractivistas. En realidad, el capitalismo se encuentra en un impasse, estancado, dando signos palpables de agotamiento y, valga la paradoja, de decrecimiento. Un analista competente, Alfredo Apilánez, moderadamente nos sugiere que “no es el ‘crecimiento’ el rasgo definitorio ni el punto de partida adecuado de un análisis crítico sino, bien al contrario, la acusada degradación del capital, que es la que recrudece la extralimitación ecológica. He aquí la trampa ‘discursiva’, tendida por el mantra dominante, en la que cae, quizás inadvertidamente, el movimiento decrecentista” (Los vicios del ecologismo.) Nosotros añadiríamos que quien obliga al capitalismo a forzar la máquina contra el bienestar, el trabajo, los salarios, la salud, la vivienda, el medio ambiente, etc., es justamente la tendencia declinante de los beneficios y no el crecimiento. La decreciente rentabilidad, las grandes dificultades en la producción, o mejor dicho, en la acumulación de capitales, hasta ahora se han conjurado con martingalas financieras (emisiones masivas de deuda, refinanciación de la misma, titularizaciones, revalorizaciones de activos), forzando, por un lado, el decrecimiento de las rentas directas e indirectas de una parte cada vez más grande de la población y, por el otro, la mayor depredación del territorio que se haya visto jamás. Las barreras que imponen los recursos limitados o los problemas ocasionados por contradicciones internas no supondrán un freno, ni el principio del fin; con demasiada frecuencia se olvida la extraordinaria adaptabilidad del capitalismo a las catástrofes, su habilidad en rentabilizarlas. La escasez que provoca el disfuncionamiento capitalista es el mayor estímulo para la mercantilización. En ese sentido el decrecentismo, y más aún el colapsismo, aportan material ideológico al discurso del poder. En la actual fase de capitalismo enfermo, este no tendrá más remedio que ser decrecentista, o no será.

No pretendemos sentenciar con una mirada derrotista cuantas prácticas de supervivencia marginal hemos mencionado; simplemente subrayamos la necesidad de contextualizarlas. A condición de no ser consideradas fines en sí, tendrán su función pedagógica y logística en el marco de la lucha anticapitalista. Según cómo, pueden servir a un bando o a otro. Mera cuestión de perspectiva disruptiva. Por ejemplo, cualquier mercenario seudoecologista puede ir a cobrar la paga de su vileza en bicicleta, pero hará falta mucho alboroto para alcanzar lo que aquellos denominan “post capitalismo”  en lugar de socialismo. El capitalismo no se derrumbará solo. Se necesitará, como diría Bakunin, “el estallido sin control de las pasiones populares superando los obstáculos de la ignorancia, la sumisión y la explotación”, es decir, será necesario un movimiento social antagónico lo suficientemente potente para derribarlo y lo suficientemente inteligente para no dejarse embaucar por oportunistas, vividores y lacayos del sistema dispuestos a administrar el final tranquilo de la civilización. Es fauna que en tiempos críticos parasita los medios contestatarios y las protestas.

Miguel Amorós                   

Para “Estudios”, revista de pensamiento libertario, 6 de febrero de 2025.