Per
evitare gli inconvenienti dell'incoscienza e della confusione, le
organizzazioni libertarie più accreditate cercano di orientare la propria
azione verso una diagnosi veritiera dell’epoca, spesso proposta da
intellettuali vicini. La collaborazione sarà più o meno efficace a seconda che
le analisi fornite si basino sulle reali contraddizioni che strutturano la
società attuale, oppure derivino da riflessioni ideologicamente ristrette, o
peggio, da mode importate. Quest’ultima ipotesi sembra aver prevalso, da cui il
credito – a mio avviso sproporzionato – che la decrescita, ideologia di origine
accademica francese inizialmente incentrata sulla classe dirigente, ha ricevuto
in ambito libertario, in particolare anarco-sindacalista. Il fatto non rivela assolutamente
una consapevolezza diffusa della riattivazione “verde” del
capitalismo come pensa Anselm
Jappe; semplicemente, la promozione quasi incondizionata della dottrina viene a
colmare una lacuna, quella dell’assenza di una valutazione storica convincente
dell’attuale crisi del capitalismo da parte della critica sindacale-anarchica.
Tuttavia, non si colma un vuoto teorico con un torrente lessicografico di
concetti superflui, o meglio, con formule ideologiche di evasione che
mascherano la vera natura della situazione attuale, poiché queste, per essenza,
non cercano di cambiarla, ma piuttosto di stabilizzarla.
Nei
primi due decenni del secolo scorso, quando gli effetti dannosi del cambiamento
climatico, dell’inquinamento ambientale e dell’esaurimento delle risorse sono
venuti alla luce, i bluff dello “sviluppo sostenibile” capitalista, della
liberazione delle tecnologie e della “de carbonizzazione” dell’economia sono
diventati fin troppo evidenti. Lo sviluppo globale non solo ha creato maggiori
disuguaglianze nella società, con il suo corollario di tensioni geopolitiche e
guerre, ma ha anche seriamente minacciato la vita sul pianeta. Di conseguenza,
gli interessi di classe e quelli della specie umana hanno trovato un terreno in
cui fondersi nella lotta contro lo sviluppo. L’anarchico Murray Bookchin è
stato colui che si è impegnato maggiormente nel teorizzare l’unificazione della
questione sociale con quella ecologica. Tuttavia, la coscienza di classe è
andata oscurandosi con le disfatte. Quando il dinamismo autonomo del vecchio
movimento operaio fu sostituito dall’attività limitata di classi medie in
declino, le contraddizioni sociali e ambientali non si sono risolte in forti lotte
di rottura, dissimulandosi grazie a strategie “duali” e tattiche
“interstiziali” che postulavano un accoppiamento con il capitale e una
strumentalizzazione dello Stato. Se cedessero a queste pratiche di capitolazione,
gli anarchici dimenticherebbero le vie che un tempo hanno portato al comunismo
libertario, cioè lo sciopero generale, l’insurrezione rivoluzionaria,
l’esproprio, la collettivizzazione della produzione e dei servizi, l’abolizione
del denaro, la dissoluzione dello Stato, ecc. La paralisi e il degrado del
movimento operaio hanno reso impraticabili queste strade, affogando qualsiasi
iniziativa radicale in un oceano di acque morte. Così, di fronte a un problema
così arduo, alcuni libertari hanno pensato a una terza via di transizione,
quella della decrescita.
A
ben vedere, la decrescita è un’ideologia, come la teoria del collasso, cui spesso è associata, cioè un’interpretazione
fantasiosa della realtà, portatrice di falsa coscienza, in linea con gli
interessi di chi la usa, a favore o contro il sistema. Una caratteristica
tipica di tutte le ideologie è prendere la parte per il tutto. Negli ambiti
ideologici nessuna questione si pone storicamente. Si separa arbitrariamente un
aspetto della vita sociale facendone una realtà assoluta. Isolata da ogni altro
fattore con cui è in relazione, la parte diventa il principio esplicativo di
tutto ciò che accade in ogni momento e in ogni luogo. Nella decrescita,
ovviamente, la parte – origine di tutti i mali – è la crescita economica. E
perché no, piuttosto, l’accumulazione di capitali? Obbiettiamo. Il problema, proposto
semplicemente, ha una soluzione ovvia, decrescere, ma ci chiediamo subito: In che
cosa? Come? Con quali supporti? Con quali fini? Chi s’incarica di farlo? Come si
organizza l’azione che i postmodernisti chiamano di “decostruzione”? Con quale
programma? Che cosa accadrà ai settori colpiti? Come saranno superate le
resistenze? Che fare con l’economia di mercato? Dove finiranno le banche, i
fondi d’investimento e le multinazionali? La letteratura della decrescita è
ricca di risposte, consegne, esempi e dettagli, ma quando si tratta di
specificare le procedure da utilizzare, le misure da adottare, i meccanismi da
seguire, le scadenze da stabilire e gli obiettivi economico-sociali da
raggiungere, l’ambiguità e l’imprecisione prevalgono sulla chiarezza e sul
rigore. L’idea della decrescita attirò Tiri e Troiani, sia coloro che
aspiravano a essere mediatori tra potere e natura, sia coloro che volevano
liquidare il potere per salvare la natura. Di conseguenza, si potrebbero
distinguere due diversi tipi di decrescita: una come alternativa capitalista e una
come alternativa al capitalismo. Il primo tipo era un semplice programma di snellimento economico
da applicare da parte delle autorità costituite, degli imprenditori e dei
dirigenti a livello economico, dei mediatori ambientali e dei governi a livello
politico. Una sorta di progetto keynesiano dipinto di verde i cui dettagli si
possono leggere nelle opere di Latouche o Martínez Alier, e registrarli nelle
prediche dei portavoce del New Green Deal. I suoi sostenitori si trovano nella
socialdemocrazia, nella cittadinanza di sinistra, tra gli accademici, nel
movimento ecologista istituzionalizzato, nelle organizzazioni ambientaliste e
conservatrici e nelle altre associazioni che vivono di sovvenzioni. Il secondo
tipo ha accoliti tra i difensori radicali del territorio, tra coloro che
promuovono la sovranità alimentare, nei neorurali che perseguono
l’autosufficienza e tra gli anarchici.
La
varietà delle posizioni politiche non significa che i punti comuni siano
scarsi. Al contrario, tutti, statalisti e libertari, sono d’accordo sul
mantenimento dell’equilibrio dei cicli della biosfera, sulla necessità di un
cambio di mentalità che chiamano “decolonizzazione dell’immaginario”, sulla
riorganizzazione della società basata su valori di solidarietà, sulla “crescita
relazionale” e sulla “decomplessificazione” qualunque cosa essa sia; sulla
creazione di economie informali su scala locale (soprattutto rurali),
sull’austerità volontaria, sul riciclaggio, sulla promozione dell’energia
pulita, sulla fede in un inevitabile collasso della civiltà, ecc. Inutile dire
che le misure che derivano da tali attitudini e convinzioni – e altre come il
reddito di base, le tasse verdi, le imposte, le leggi protezionistiche e i
ministeri della transizione ecologica – non servono nemmeno lontanamente a
regolare razionalmente il metabolismo con la natura, rompere con il
produttivismo, sopprimere le disuguaglianze, spostare i mercati, porre fine
alle lobby e dare al capitalismo un volto più umano. A maggior ragione
saranno inutili per “uscire” dal capitalismo. A questo punto, gli anarchici
della decrescita prendono le distanze dagli altri, poiché non credono che la
riduzione drastica della produzione e del consumo – la decrescita pura – sia
possibile in un regime capitalista, né che lo Stato sia l’organismo adeguato
per facilitare l’“auto-trasformazione” della società in questa direzione.
Tuttavia, il triviale catastrofismo, la debolezza delle alternative, il
moralismo e la pusillanimità di molte proposte ci costringono a dubitare della
decrescita libertaria e a supporre che in essa manchi una critica coerente di
un tardo capitalismo disorientato. Pertanto, parafrasando Walter Benjamin, per una
tale prassi libertaria sarebbe un’ardua impresa esprimere in modo concludente
il punto di vista degli oppressi.
In
effetti, le proposte operative che possiamo trovare nell'ambiente anarchico non
si discostano molto da quelle elencate nel magazzino socialdemocratico: redistribuzione
del lavoro, riduzione dell'orario lavorativo, adeguamento salariale, mediazione
sindacale... Non risulta nemmeno strano ricorrere a termini di correttezza
politica come per esempio "cittadinanza", "sindacati"
(termine che comprende quelli "maggioritari"), "non
violenza" o "democrazia", prova che tra gli anarchici c'è anche
chi ha un piede in ogni lato. Pertanto,
il rifiuto dello Stato e del dominio della finanza non è reso chiaro da
raccomandazioni di buona volontà come “ridurre le dimensioni della burocrazia”
ed “evitare il sistema bancario”. L’anticapitalismo non appare da nessuna
parte, ma attenzione!: la decrescita crea posti di lavoro. I sindacalisti
professionisti, i ministri delle finanze e i lavoratori disoccupati saranno confortati
dalle promesse di nuovi posti di lavoro creati nei settori dell’economia verde,
della sanità, della cultura e dell’assistenza sociale, precedentemente ignorati
o trascurati, che senza dubbio compenseranno quelli persi nello smantellamento
di grandi infrastrutture inutili e d’industrie come quella militare,
automobilistica, petrolchimica o agroalimentare. Lo sfruttamento lavorativo propriamente
detto non è attaccato, né è criticato il ruolo della tecnologia, né è fatto
alcun riferimento ai condizionamenti del mercato. La rinascita della vita
comunitaria, l'apertura di reti autonome di aiuto, distribuzione e scambio, il
cooperativismo, le banche del tempo, le monete sociali e il recupero delle
tradizioni completeranno il quadro, in attesa di un collasso morbido e
pacifico. Lo auspichiamo sinceramente, ma vale la pena chiedersi come mettere
in pratica tutto questo pacchetto paradisiaco di fronte alla prevedibile
opposizione delle potenti forze dominanti nell’economia e nella politica. Molti – e non mi riferisco al sindacalismo alternativo –
rifuggono dal sabotaggio, dall’autodifesa e dallo scontro, privilegiando forme
di accordo “conviviali”, pacifiche, di dialogo, in qualche modo
“democraticamente” consensuali. Nonostante tutto, lo spesso velo
dell’indeterminatezza e della negoziazione non può nascondere il semplice fatto
che nel mondo della decrescita pochi scommettono su una rivoluzione sociale che
emerga attraverso l’intensificazione del conflitto urbano e territoriale, cioè
della lotta di classe contemporanea, poiché il modello da imitare non è
preferibilmente quello dei soviet machnovisti, o quello dei collettivi operai e
contadini della guerra civile spagnola, o quello delle comuni della recente
rivolta del popolo curdo, ma gli eco villaggi, le “Città in transizione” o i
comuni medievali.
Non
tutti dalla parte libertaria sembrano distaccarsi dal latouchismo. Poiché non è
stata sufficientemente denunciata o combattuta, l’opera dell’ecologismo
canagliesco e di altri “esperti” al soldo del potere ha avuto una certa
efficacia. In ogni caso, per concludere: la crescita non è una condizione sine qua non del capitalismo. Negli
ultimi trent’anni, le bolle immobiliari, tecnologiche e finanziarie,
accompagnate da crisi sanitarie, climatiche ed energetiche, hanno continuato a
ostacolare la crescita, a mettere in discussione la produttività e a portare
all’estremo ogni tipo di pratica estrattivista. In realtà, il capitalismo è in
un vicolo cieco, stagnante, mostrando segni palpabili di esaurimento e,
paradossalmente, di declino. Un analista competente, Alfredo Apilánez, ci suggerisce
moderatamente che “non è la crescita la
caratteristica distintiva né il punto di partenza appropriato di un’analisi
critica ma, al contrario, il marcato degrado del capitale, dove si intensifica l’extralimitazione
ecologica. Tale è la trappola 'discorsiva', tesa dal mantra dominante, in
cui cade, forse inavvertitamente, il movimento per la decrescita." (I vizi dell'ecologismo). Aggiungeremo
che ciò che costringe il capitalismo a forzare la macchina contro il benessere,
il lavoro, i salari, la salute, l’alloggio, l'ambiente, ecc., è appunto la
tendenza al declino dei profitti e non la crescita. La diminuzione della
redditività, le grandi difficoltà nella produzione, o meglio,
nell'accumulazione di capitale, sono state finora evocate con martingale
finanziarie (massicce emissioni di debito, rifinanziamento dello stesso,
cartolarizzazioni, rivalutazioni di beni), costringendo, da un lato, alla
diminuzione del reddito diretto e indiretto di una parte sempre più ampia della
popolazione e, dall'altro, alla più grande depredazione del territorio mai
vista. Le barriere imposte dalle risorse limitate o dai problemi causati dalle
contraddizioni interne non saranno un freno, né l’inizio della fine; troppo
spesso si dimentica la straordinaria adattabilità del capitalismo alle
catastrofi, la sua capacità di renderle redditizie. La scarsità causata dalla
disfunzione capitalista è il più grande stimolo alla mercificazione. In questo
senso, la decrescita, e ancora di più la teoria del collasso, apportano
materiale ideologico al discorso del potere. Nell’attuale fase di malattia, il
capitalismo userà il rimedio di decrescere o non sarà.
Non
intendiamo condannare con uno sguardo disfattista tutte le pratiche marginali
di sopravvivenza che abbiamo citato; sottolineiamo semplicemente la necessità
di contestualizzarle. A condizione di non essere considerate fini a se stesse,
avranno la loro funzione pedagogica e logistica nell’ambito della lotta
anticapitalista. Secondo i casi, possono servire da una parte o dall'altra.
Semplice questione di prospettiva dirompente. Ad esempio, qualsiasi mercenario
pseudo-ecologista può riscuotere il compenso per la sua viltà andando in
bicicletta, ma ci vorrà molto impegno per raggiungere quello che chiamano
“post-capitalismo” invece che socialismo. Il capitalismo non crollerà da solo.
Ci vorrà, come direbbe Bakunin, “lo scoppio incontrollato delle passioni
popolari che superino gli ostacoli dell’ignoranza, della sottomissione e dello
sfruttamento”, sarà cioè necessario un movimento sociale antagonista abbastanza
potente da rovesciarlo e abbastanza intelligente da non farsi ingannare da
opportunisti, scrocconi e lacchè del sistema disposti a gestire la fine
pacifica della civiltà. È una fauna che nei momenti critici parassita i mezzi e
le proteste dell’opposizione.
Miguel
Amorós Per “Estudios”, rivista di pensiero libertario, 6 febbraio 2025.
De la ideología del decrecimiento en el medio libertario
A fin de soslayar los inconvenientes de la inconsciencia y la confusión, las organizaciones libertarias más solventes procuran orientar su acción según un veraz diagnóstico de la época, a menudo proporcionado por intelectuales cercanos. La colaboración resultará más o menos efectiva según si los análisis suministrados partan de las contradicciones reales que estructuran la sociedad actual, o se deriven de reflexiones ideológicamente encorsetadas, o peor, de modas importadas. Esto último parece haber predominado, de ahí el crédito -en mi opinión desproporcionado- que ha recibido en el ámbito libertario, mayormente anarcosindicalista, el decrecentismo, ideología de origen francés académico inicialmente enfocada hacia la clase dirigente. El hecho en absoluto revela una toma de conciencia difusa ante la reactivación “verde” del capitalismo como piensa Anselm Jappe; simplemente, la promoción casi incondicional de la doctrina viene a rellenar un hueco, el de la ausencia de una evaluación histórica convincente de la crisis actual del capitalismo por parte de la crítica sindical-anarquista. No obstante, no se colma un vacío teórico con un torrente lexicográfico de conceptos innecesarios, o mejor, con fórmulas ideológicas escapistas que disfrazan la verdadera naturaleza de la situación actual, ya que estas, por esencia, no pretenden cambiarla, sino estabilizarla.
En las dos primeras décadas del siglo reciente, a
medida en que los efectos nocivos del cambio climático, la contaminación
ambiental y el agotamiento de los recursos salían plenamente a la luz, se
hacían demasiado evidentes los bluffs del “desarrollo sostenible” capitalista,
de las tecnologías liberadoras y de la “descarbonización” de la economía. El
desarrollismo global no solo creaba mayores desigualdades en la sociedad, con
su corolario de tensiones geopolíticas y guerras, sino que amenazaba seriamente
la vida en el planeta. En consecuencia, los intereses de clase y los de la
especie humana encontraban en la lucha antidesarrollista un terreno donde
fusionarse. El anarquista Murray Bookchin fue quien mayor empeño puso en
teorizar la unificación de la cuestión social con la ecológica. Sin embargo, la
conciencia de clase fue oscureciéndose con las derrotas. Al ser sustituido el
dinamismo autónomo del viejo movimiento obrero por la actividad contenida de
unas clases medias en descenso, las contradicciones sociales y ambientales no
se resolvieron en fuertes combates rupturistas, sino que se disimularon gracias
a estrategias “duales” y tácticas “intersticiales”, las cuales postulaban un
acoplamiento con el capital y una instrumentalización del Estado. Si sucumbían
a esas prácticas capituladoras, los anarquistas olvidarían los caminos que
llevaban antaño al comunismo libertario, a saber, la huelga general, la
insurrección revolucionaria, la expropiación, la colectivización de la
producción y los servicios, la abolición del dinero, la disolución del Estado,
etc. La parálisis y degradación del movimiento obrero volvía dichos caminos
impracticables, ahogando cualquier iniciativa radical en un océano de aguas
muertas. Así que, ante tal arduo problema, algunos libertarios pensaron en una
tercera vía transicionista, la del decrecimiento.
Mirándolo bien, el decrecentismo es una
ideología, como el colapsismo, con el que frecuentemente se asocia, es decir,
es una interpretación fantasiosa de la realidad, portadora de falsa conciencia,
en consonancia con los intereses de quienes se sirven de ella, bien sea a favor
o en contra del sistema. Una característica típica de todas las ideologías es
la toma de la parte por el todo. En las esferas ideológicas ninguna cuestión se
plantea históricamente. Se separa arbitrariamente un aspecto de la vida social
y se hace de él una realidad absoluta. Alejada de cualquier otro factor con el
que se relacione, la parte se convierte en el principio explicativo de todo lo
que pasa en cualquier momento y en todo lugar. En el decrecentismo, claro está,
la parte -el origen de todo mal- es el crecimiento económico. ¿Y por qué no
mejor la acumulación de capitales? Objetamos. El problema, planteado con
simplicidad, tiene una solución obvia, decrecer, pero inmediatamente
preguntamos: ¿En qué? ¿cómo? ¿con que apoyos? ¿con qué finalidad? ¿quién se
encarga de la tarea? ¿cómo se organiza la acción que los posmodernos llaman
“deconstructora”? ¿con cuál programa? ¿qué pasará con los sectores afectados?
¿cómo se superarán las resistencias? ¿qué hacer con la economía de mercado? ¿a
dónde irán a parar los bancos, los fondos de inversión y las multinacionales?
La literatura decrecentista abunda en respuestas, consignas, ejemplos y
detalles, pero a la hora de concretar los procedimientos a emplear, las medidas
a tomar, los mecanismos a seguir, los plazos a establecer y los objetivos
económico-sociales a conseguir, la ambigüedad y la imprecisión se imponen sobre
la claridad y el rigor. La idea decrecentista atrajo a tirios y a troyanos,
tanto a quienes aspiraban a ser los mediadores entre el poder y la naturaleza,
como a quienes querían liquidar el poder para salvar la naturaleza.
Consecuentemente, se podían distinguir dos tipos diferenciados de
decrecimiento: el decrecimiento como alternativa capitalista y el decrecimiento
como alternativa al capitalismo. El primero era un simple programa de
adelgazamiento económico a aplicar por las autoridades constituidas, los
empresarios y altos ejecutivos a nivel económico, los mediadores ecologistas y
los gobiernos a nivel político. Una especie de keynesianismo pintado de verde
cuyos pormenores pueden leerse en las obras de Latouche o Martínez Alier, y
registrarse en las prédicas de los voceros del New Green Deal. Sus partidarios
se encuentran en la socialdemocracia, en el ciudadanismo de izquierdas, entre
los académicos, en el movimiento ecologista institucionalizado, en las
organizaciones ambientalistas y conservacionistas, y en las demás asociaciones
que viven de las subvenciones. El segundo tiene acólitos entre los defensores
radicales del territorio, en los que promueven la soberanía alimentaria, en los
neorrurales que persiguen la autosuficiencia y entre los anarquistas.
La variedad de posiciones políticas no significa
que los puntos en común sean escasos. Al contrario, todos, tanto estatistas
como libertarios, comulgan en mantener equilibrados los ciclos de la biosfera,
en la necesidad de un cambio de mentalidad al que llaman “descolonización del
imaginario”, en la reorganización de la sociedad en base a valores solidarios,
en el “crecimiento relacional” y en la “descomplejización” sea lo que sea; en
la creación de economías informales a escala local (sobre todo rural), en la
austeridad voluntaria, en el reciclaje, en el fomento de las energía limpias,
en la fe en un inevitable colapso civilizatorio, etc. Ni qué decir tiene que
las medidas que derivan de tales actitudes y convicciones -y otras como la
renta básica, los impuestos verdes, las tasas, las leyes proteccionistas y los
ministerios de transición ecológica- no sirven ni por asomo para regular
racionalmente el metabolismo con la naturaleza, romper con el productivismo,
suprimir la desigualdad, desplazar a los mercados, acabar con los lobbies y
darle capitalismo un rostro más humano. Con mayor razón serán inútiles para
“salir” del capitalismo. Llegados a ese punto, los anarquistas decrecentistas
toman distancias del resto, pues no creen que la reducción drástica de la
producción y el consumo -el puro decrecimiento- sea posible en un régimen
capitalista, ni que el Estado sea el organismo adecuado para facilitar la
“autotransformación” de la sociedad en esa dirección. Sin embargo, el trivial
catastrofismo, la endeblez de las alternativas, la moralina y la pusilanimidad
de muchas propuestas nos obligan a dudar del decrecentismo libertario y a
suponerlo falto de una crítica coherente del trastornado capitalismo tardío.
Por consiguiente, parafraseando a Walter Benjamin, a tal modalidad libertaria
le costaría expresar de forma concluyente el punto de vista de los oprimidos.
En efecto, las propuestas laborales que podemos
encontrar en el medio anarquista no difieren demasiado de las guardadas en el
almacén socialdemócrata: reparto del trabajo, disminución de la jornada, ajuste
salarial igualitario, mediación sindical... Incluso no resulta nada raro que se
recurra a términos de corrección política como por ejemplo “ciudadanía”,
“sindicatos” (término que incluye a los “mayoritarios”), “no violencia” o
“democracia”, prueba de que también entre los anarquistas hay quien tiene un pie
en cada lado. Así pues, el rechazo del Estado y del dominio de las finanzas no
queda claro con recomendaciones de buena voluntad tales como “reducir el tamaño
de la burocracia” y “rehuir el sistema bancario.” El anticapitalismo no aparece
por ninguna parte, pero, ¡alto ahí!: El decrecimiento crea puestos de trabajo.
Los sindicalistas profesionales, los ministros de hacienda y los obreros en
paro se sentirán aliviados ante las promesas de nuevos empleos creados en los
sectores de la economía verde, la salud, la cultura y la asistencia social,
antaño ignorados o descuidados, que compensarán, qué duda cabe, a los perdidos
en el desmantelamiento de grandes infraestructuras inútiles y industrias como
la militar, automovilística, petroquímica o agroalimentaria. No se ataca la
explotación laboral propiamente dicha, ni se critica el papel de la tecnología,
ni se alude a los condicionantes del mercado. El renacer de la vida comunal, la
apertura de redes autónomas de ayuda, distribución e intercambio, el cooperativismo,
los bancos de tiempo, las monedas sociales y la recuperación de las
tradiciones, completarán el panorama, a la espera de un colapso suave y
apacible. Lo deseamos de corazón, pero cabe preguntarse por la manera de llevar
a la práctica todo ese paquete paradisiaco ante la previsible oposición de las
poderosas fuerzas dominantes en la economía y la política. Muchos -y no me
refiero al sindicalismo alternativo- rehuyen el sabotaje, la autodefensa y el
enfrentamiento, dando preferencia a formas “convivenciales” de concertación,
pacíficas, dialogantes, de alguna manera consensuadas “democráticamente.” A
pesar de todo, el túpido velo de la indeterminación y el trapicheo no puede
ocultar el simple hecho de que en el mundillo decrecentista pocos apuestan por
una revolución social emergiendo a través de la intensificación de la
conflictividad urbana y territorial, o sea, de la lucha de clases
contemporánea, pues el modelo a imitar no es preferentemente el de los soviets
makhnovistas, o el de las colectividades obreras y campesinas de la guerra
civil española, o el de las comunas de la reciente
revuelta del pueblo kurdo, sino las ecoaldeas, las “Ciudades en transición” o
los concejos medievales.
No todos en el lado libertario parecen
desprenderse del latouchismo. La labor del ecologismo canalla y otros
“expertos” a sueldo del poder, al no ser suficientemente denunciado ni
combatido, ha tenido alguna eficacia. En fin, acabando: el crecimiento no es
una condición sine qua non del
capitalismo. En los últimos treinta años, las burbujas inmobiliarias,
tecnológicas y financieras, acompañadas de crisis sanitarias, climáticas y
energéticas, no han dejado de trabar el crecimiento, poner entre interrogantes la
productividad y llevar al extremo toda clase de prácticas extractivistas. En
realidad, el capitalismo se encuentra en un impasse,
estancado, dando signos palpables de agotamiento y, valga la paradoja, de
decrecimiento. Un analista competente, Alfredo Apilánez, moderadamente nos
sugiere que “no es el ‘crecimiento’ el rasgo definitorio ni el punto de partida
adecuado de un análisis crítico sino, bien al contrario, la acusada degradación
del capital, que es la que recrudece la extralimitación ecológica. He aquí la
trampa ‘discursiva’, tendida por el mantra dominante, en la que cae, quizás
inadvertidamente, el movimiento decrecentista” (Los vicios del ecologismo.) Nosotros añadiríamos que quien obliga
al capitalismo a forzar la máquina contra el bienestar, el trabajo, los
salarios, la salud, la vivienda, el medio ambiente, etc., es justamente la
tendencia declinante de los beneficios y no el crecimiento. La decreciente
rentabilidad, las grandes dificultades en la producción, o mejor dicho, en la
acumulación de capitales, hasta ahora se han conjurado con martingalas
financieras (emisiones masivas de deuda, refinanciación de la misma,
titularizaciones, revalorizaciones de activos), forzando, por un lado, el
decrecimiento de las rentas directas e indirectas de una parte cada vez más
grande de la población y, por el otro, la mayor depredación del territorio que
se haya visto jamás. Las barreras que imponen los recursos limitados o los
problemas ocasionados por contradicciones internas no supondrán un freno, ni el
principio del fin; con demasiada frecuencia se olvida la extraordinaria
adaptabilidad del capitalismo a las catástrofes, su habilidad en
rentabilizarlas. La escasez que provoca el disfuncionamiento capitalista es el
mayor estímulo para la mercantilización. En ese sentido el decrecentismo, y más
aún el colapsismo, aportan material ideológico al discurso del poder. En la
actual fase de capitalismo enfermo, este no tendrá más remedio que ser
decrecentista, o no será.
No pretendemos sentenciar con una mirada
derrotista cuantas prácticas de supervivencia marginal hemos mencionado;
simplemente subrayamos la necesidad de contextualizarlas. A condición de no ser
consideradas fines en sí, tendrán su función pedagógica y logística en el marco
de la lucha anticapitalista. Según cómo, pueden servir a un bando o a otro.
Mera cuestión de perspectiva disruptiva. Por ejemplo, cualquier mercenario
seudoecologista puede ir a cobrar la paga de su vileza en bicicleta, pero hará
falta mucho alboroto para alcanzar lo que aquellos denominan “post
capitalismo” en lugar de socialismo. El
capitalismo no se derrumbará solo. Se necesitará, como diría Bakunin, “el
estallido sin control de las pasiones populares superando los obstáculos de la
ignorancia, la sumisión y la explotación”, es decir, será necesario un
movimiento social antagónico lo suficientemente potente para derribarlo y lo
suficientemente inteligente para no dejarse embaucar por oportunistas,
vividores y lacayos del sistema dispuestos a administrar el final tranquilo de
la civilización. Es fauna que en tiempos críticos parasita los medios
contestatarios y las protestas.
Miguel Amorós
Para “Estudios”, revista de pensamiento
libertario, 6 de febrero de 2025.