mercoledì 6 aprile 2011

La fine della sovranità nazionale


Leggo e commento il pingpong insopportabile tra pacifisti e guerrafondai da salotto:

Il fini massimo ha molte radici comuni col fini minimo.

Coincidentia oppositorum? Uno fascista l’altro repubblicano, anche se in Italia la repubblica non ha la storia pregnante di quella francese.

L’amore sviscerato per lo Stato e per l’autorità (per quanto la si dipinga diversa e anticonformista) emerge prepotente e ripetutamente dietro la preoccupazione della perdita della sovranità nazionale, mentre i popoli non sono mai stati sovrani.

La democrazia spettacolare ha spostato dal Re dell’ancien regime al popolo sfruttato e alienato della società dello spettacolo una sovranità fittizia.

Chi non decide nulla della propria vita non ha acquisito alcuna sovranità reale né sotto il totalitarismo del mercato (liberalismo occidentale) né sotto quello dello Stato comunista (Cina).

Il Fini massimo è bravo a denunciare molte mostruosità e la logica assurda di un sistema sociale e di una cultura occidentale che effettivamente stanno distruggendo il mondo e certo non è maoista. Troppo spesso, però, dietro un primo strato di critica radicale, emergono dalla sua penna logiche e sentimenti oggettivamente reazionari.

Colpevoli e innocenti cambiano campo ma esistono più che mai in una visione moralistica dell’immoralità dominante. Così, dal massimo al minimo, i fini giustificano i mezzucci. Come non condividere l’obbrobrio per un battista che fin dal nome fa maggiordomo, ma non posso scordare che è imbarazzante fare gli eroi con il petto degli altri. In Libia come altrove.

Sergio Ghirardi


La fine della sovranità nazionale

Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2011

Che a Londra si sia discusso se fornire di armi gli insorti libici è la conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che in Libia non si è intervenuti per “salvaguardare le vite dei civili”, che era la motivazione ufficiale della risoluzione Onu, ma a favore di una delle due fazioni in campo. Tuttavia la notizia più inquietante che viene dal summit di Londra è un’altra: la decisione di costituire ‘un Gruppo di contatto permanente con il compito di coordinamento fra gli organismi internazionali per interventi umanitari e di supporto delle opposizioni’. È la fine della sovranità nazionale. Nessuno Stato potrà più essere padrone a casa sua, dipenderà da un Superstato che sarà arbitro di decidere se si comporta in modo sufficientemente virtuoso con le opposizioni interne, tale da non meritare una punizione, a suon di bombe, come quella che sta subendo la Libia. Ma chi sono costoro che si arrogano questi diritti? Sono 36 Paesi, fra cui alcuni dei più importanti Stati democratici, o presunti tali, che hanno deciso di identificarsi con la ‘comunità internazionale’, concetto fumoso ma che viene regolarmente tirato fuori quando si vuole far rigar dritto qualcuno che non è ‘democratically correct’. Ma nel mondo ne esistono altri 140.

Naturalmente nessuno si sognerà mai di far decollare dei Mirage verso Mosca. L’attività del ‘Gruppo di contatto’ si dirigerà verso gli stracci che, per una ragione o per l’altra, non vanno a sangue all’Occidente. In qualsiasi paese è relativamente facile fomentare un’opposizione per avere poi il pretesto di intervenire. Gli americani lo hanno fatto in Kosovo, armando gli indipendentisti albanesi, e tentano di farlo quotidianamente in Iran. Gli inglesi lo hanno fatto in Libia. All’inizio della crisi libica stavo dalla parte degli insorti. Si simpatizza istintivamente con chi si rivolta contro un dittatore. Mi convinceva che affermassero che “in ogni caso la questione deve essere risolta fra noi libici, senza interventi stranieri”. Ma è bastato che Gheddafi reagisse perché si mettessero a invocare Papà Sarkozy e Mamma Nato. Fermati davanti a Sirte dalle truppe di Gheddafi gridavano: “Attendiamo i raid della Nato. Sarkozy pensaci tu. Arriva presto, che così poi noi possiamo avanzare”. È un modo molto comodo, questo, di fare gli insorti, di fare gli eroi con la mutua. Gli insorti afghani, che rappresentano un’opposizione direi piuttosto consistente visto che occupano l’80% del Paese, subiscono da dieci anni il trattamento che i rivoltosi libici hanno assaggiato per pochi giorni dagli aerei di Gheddafi. Non si lamentano. Si battono, disprezzando gli americani che usano quasi esclusivamente i caccia e i droni, aerei senza equipaggio, e facendo strame di civili (persino Karzai, di fronte all’ennesima strage, è stato costretto a dire ai suoi padroni americani: “Ma combattete almeno un po’ all’afghana!”).

È molto facile fare i muscolari quando si sa che si può colpire senza essere colpiti. È il caso di Pierluigi Battista che ha innescato una polemica contro i ‘pacifisti di destra’, in particolare Feltri. Ho conosciuto Battista quando facevamo Pagina. Era, con Aldo Piro, uno dei nostri ‘giovani di bottega’. Bravissimi entrambi. Ma Battista è uno che se gli scoppia un petardo a dieci metri sviene. Fa parte di quella schiera di “ammiratori dell’eroismo altrui, dei monopolizzatori del patriottismo delle retrovie, degli snob della guerra” così splendidamente descritti da Curzio Malaparte ne ‘La rivolta dei santi maledetti’ dopo Caporetto. Se ci fosse una sola possibilità che un missile di Gheddafi colpisse le nostre città, le nostre case e magari la sua, Pierluigi Battista diventerebbe più pacifista di Feltri.