Riporto e
propongo questo articolo di Marica Di
Pierri su A SUD
del 9 dicembre 2012 per
contribuire all’informazione e alla denuncia dei misfatti del
produttivismo. Sergio Ghirardi
Salvata
l’apparenza prorogando solo formalmente Kyoto, il documento venuto fuori dalla
18° Cop sul clima di Doha non ha alcuna possibilità di contribuire a ridurre le
emissioni, l’unico risultato che invece conta per frenare la catastrofe
climatica.
La Conferenza delle Parti sul Clima delle Nazioni Unite
è arrivata alla maggiore età celebrando ieri a Doha, in Qatar, la chiusura
della sua 18° edizione. Ma di maturità neppure l’ombra.
Dopo i risultati
deludenti delle ultime tre Cop (Copenaghen 2009, Cancun 2010 e Durban 2011) sul
tavolo a Doha erano tre le questioni centrali. La prosecuzione del Protocollo
di Kyoto, in scadenza a fine anno cioè tra meno di un mese. L’istituzione del
Fondo Verde promesso a Copenaghen attraverso lo stanziamento di 30 miliardi nel
periodo 2010-12 per arrivare a 100 mld entro il 2020. Infine, l’avanzamento
delle negoziazioni per la stipula del nuovo accordo globale sulle emissioni che
dovrebbe entrare in vigore nel 2020.
Purtroppo però il Doha Climate Gateway,
documento finale delle due settimane di negoziazioni, è la solita scatola
vuota.
Le premesse - Ai negoziatori arrivati
a Doha – delegazioni di 194 paesi – la situazione globale non può non essere
chiara. Gli allarmi degli scienziati e i contenuti dei documenti stilati dalle
diverse organizzazioni e centri studi sono univoci e il rischio rappresentato
dai cambiamenti climatici per i popoli e per il territorio è palese e
innegabile. I rapporti presentati a Doha non lasciano adito a dubbi né spazio a
interpretazioni.
La Banca Mondiale – non certo un gruppo
di ecologisti – ha commissionato al Potsdam Institute for Climate Impact
Research and Climate Analytics uno studio titolato Turn Down the Heat dal
quale emerge che di questo passo il pianeta raggiungerà un aumento medio di
temperatura di 4° entro la fine del secolo, con conseguenze nefaste:
inondazione di vaste zone costiere, stagioni torride, siccità, eventi
metereologici estremi, penuria di alimenti in ampie regioni, etc. Secondo il
Rapporto della BM nessun paese è al sicuro dagli effetti dei cambiamenti
climatici e c’è il concreto rischio che le situazioni straordinarie che sempre
più spesso il cambiamento climatico produce divengano in pochi decenni la
normalità. Le particelle di co2 nell’atmosfera, da contenere entro i 350 ppm,
sono già attualmente oltre i 390. Continuando di questo passo, a fine secolo
sarebbero 880 e i gradi in più, appunto, 4.
Il report The Third Emission Gap Report 2012
dell’Unep rincara la dose avvertendo che in mancanza di azioni efficaci per la
riduzione immediata delle emissioni la temperatura potrebbe salire fino a 5°.
E’ sempre la Unep
, nel report Policy
Implication of warming Permafrost, a lanciare un allarme
ulteriore. Il rapidissimo processo di scioglimento nella zona artica sta
interessando anche il permafrost, cioè la parte di suolo perennemente
ghiacciata formatasi a seguito dell’ultima era glaciale. Il permafrost è così
esteso e contiene tali quantità di materiale organico che il suo disgelo, e la
decomposizione dei resti in esso contenuti libererebbero in atmosfera una
quantità di co2 che secondo le stime potrebbe raggiungere le 1.700
gigatonnellate, accentuando drasticamente il processo di riscaldamento globale
già in atto. La Unep
avverte che questa evenienza, che potrebbe in breve tempo divenire una delle
maggiori fonti di emissioni clima alteranti, non è tenuta in considerazione
negli attuali modelli di lotta al cambiamento climatico e sottolinea la
necessità di una attenzione e di un monitoraggio speciali sullo stato del
permafrost.
La WMO – World Metereological Organization, ha stimato che la
co2 sia aumentata per cause riconducibili all’attività umana di circa il 30%
nel periodo 1990- 2011. Nel rapporto Provisional annual statement of the state of the global
climate avverte che il 2012 sarà uno degli anni più caldi della
storia. Passando in rassegna i principali eventi climatici dell’anno in corso,
risulta tra l’altro che nell’emisfero nord c’è stato un aumento dei fenomeni
estremi (ondate di calore e di gelo), che le temperature sono state al di sopra
della media quasi ovunque e la siccità e la mancanza di precipitazioni hanno
colpito diverse regioni (Cina, Brasile, Est Europa, Usa etc.).
Nonostante l’entità
delle minacce, le emissioni non accennano a diminuire. Secondo il rapportoTrends in global Co2 Emission
(del Joint Research Centre Commissione UE) nel 2011 le emissioni di Co2 sono
cresciute su scala globale di circa il 3% raggiungendo i 34 mld di tonnellate.
Aumenti di emissioni che anno per anno contribuiscono a costituire il
cosiddetto gigaton Gap, la
differenza tra quanto si dovrebbe ridurre secondo gli accordi attuali e il
livello reale di emissione, stimato in 6-15 gigaton.
I risultati – Gli ultimissimi Report
fin qui passati in rassegna non fanno che confermare un quadro allarmante. La
minaccia è divenuta emergenza. Tuttavia i risultati delle negoziazioni sembrano
tutt’altro che consapevoli della posta in gioco.
Il documento finale,
il Doha Climate Gateway
estende la vigenza del Protocollo di Kyoto, salvando la facciata dell’unico
protocollo vincolante esistente, ma non indica impegni puntuali o obiettivi di
riduzione quantificabili. Anzi, allunga la data per la fissazione degli
obiettivi quantitativi all’aprile 2014, rimandando ancor più l’assunzione di
responsabilità concrete. Inoltre la disponibilità alla firma dell’accordo non
include la totalità dei paesi firmatari, ma soltanto i paesi Ue, Svizzera,
Australia e Norvegia, paesi che tutti assieme raggiungono appena il 15% circa
delle emissioni globali di gas clima alteranti. Resta fuori dal Kyoto bis
la gigantesca fetta dell’85% del totale, che passa il turno e si dirige come se
nulla fosse verso il round negoziale che entrerebbe in vigore nel 2020. Cioè
tra 8 anni. E’ evidente che la sostanziale continuità legale del protocollo del
‘97 è destinata ad avere un’efficacia pari a zero.
Sul processo negoziale
di lungo termine, del resto, che secondo quanto definito nella piattaforma di
Durban dovrebbe essere negoziato entro il 2015 per entrare in vigore nel 2020,
è stata confermata a Doha l’intenzione dei governi di prendere tempo e di far
slittare le decisioni all’ultimo minuto utile. A nulla valgono gli allarmi
degli scienziati sulla necessità di raggiungere il picco di emissioni proprio
nel 2015, e da lì iniziare a decrescere, per evitare la catastrofe climatica e
mantenere l’aumento della temperatura mondiale entro i 2° centigradi entro il
2100.
È vero che il documento
include al suo interno il riconoscimento sulla carta del risarcimento per danni
dovuti ai cambiamenti climatici e vincola i paesi industrializzati allo
stanziamento di una quantità di fondi pari alla media della somma stanziata per
aiuti climatici negli ultimi tre anni, ma entrambe queste previsioni, in
assenza di un regime legale vincolante capace di agire concretamente sui livelli
di emissione sono poco più che lustrini messi lì per abbellire la pochezza dei
risultati.
Del resto era emerso già
a Durban che la direzione dei negoziati delle Conferenze delle Parti stava
spostandosi dall’adozione di accordi multilaterali vincolanti per gli Stati a
un sistema basato sull’assunzione di impegni sostanzialmente unilaterali e
perlopiù volontari, che spetterebbe poi alla comunità internazionale, con gli
scarsi strumenti coercitivi a sua disposizione, rendere coerenti e coordinati
tra loro.
E l'anno prossimo dal
Qatar, paese che per inciso detiene il record delle emissioni pro capire, il
baraccone della Cop si sposterà in Polonia, regina del carbone e strenuo
oppositore di ogni tentativo europeo di contenimento dei gas serra entro
il 2020. Dalla padella alla brace. O viceversa.
Il fallimento delle Cop
Confrontando le premesse
e i risultati ottenuti il fallimento degli strumenti negoziali per far fronte
concretamente alla minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici è chiaro. E
a Doha, come al solito, il mantra della crisi è servito ai governi per
mascherare la mancanza di volontà politica di agire globalmente. Le
negoziazioni si sono svolte più nei tavoli “laterali” che nelle sessioni
ufficiali: incontri bilaterali e meeting di lavoro tra funzionari governativi,
rappresentanti di imprese, lobbisti.
Esempio di questa
voragine tra decisioni politiche e esigenze fisiche del pianeta è del resto la Strategia Energetica
Nazionale italiana, varata ad agosto dal governo e impostata su un ritorno
massicio al petrolio e al gas nel nostro paese. O la diffusione, ad esempio
negli Usa, o nella vicina Francia, della tecnica devastante del fracking per lo
sfruttamento di giacimenti diversamente non accessibili. O ancora le intenzioni
di perforazioni dell’artico, lo sfruttamento delle sabbie bituminose in Canada,
l’implementazione ovunque di nuove centrali a carbone che fanno a pugni con la
dichiarata volontà di far fronte alla riduzione necessaria delle emissioni.
Eppure le tecnologie per
impostare un profondo processo di trasformazione del settore produttivo ci
sarebbero. E le proposte sono sul tavolo da anni, rappresentate dalle reti
sociali, da intellettuali, scienziati e tecnici di tutti i continenti. L'unica
a mancare, dolosamente e pericolosamente, resta la volontà politica dei
governi. Le parole d'ordine della ricetta di cui avremmo bisogno sono note:
riconversione in chiave ecologica della produzione e dei consumi a partire da
un processo di partecipazione ampio; passaggio ad un modello energetico basato
sulle rinnovabili, sull’efficienza e sulla sostenibilità; transizione da un
modello alimentare industriale ad uno agroecologico; utilizzo sostenibile
delle risorse; tutela integrale del territorio. In una parola: misure in grado
di aumentare la resilienza del pianeta, la sua capacità di rigenerarsi e di
salvare tutti noi da un futuro a tinte fosche.
Marica Di Pierri www.asud.net