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Ho seguito il corteo autorizzato, come
dire che non abbiamo camminato molto poiché la maggior parte del percorso
dichiarato in prefettura era stato vietato. Per la prima volta una
manifestazione è stata vietata in tutto il centro di Nantes fino al Corso
des Cinquante-Otages. Come ultima
provocazione, le immense barricate fatte dai CRS e dai poliziotti in numero
smisurato. Tutto era fatto apposta per suscitare il fastidio generale e far
montare la tensione. Anch’io mi sono innervosita di fronte a questa
dimostrazione di forza e di numero volta a impressionare o irritare i
manifestanti inizialmente molto gioiosi e festanti. Sono stata sorpresa anche dal
vedere uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi
poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali.»
Nantes, 22 febbraio 2014, testimonianza di Milou
raccolta da http://www.lavoiedujaguar.net
Sono risolutamente a
favore dei difensori della zona[1]
confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e
sostengo a fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto
insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del
resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il
nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione
capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le
ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita
quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento
ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia
coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con metodi
alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano
totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.
Ho letto sul giornale
padronale[2] Libération del 17 aprile 2014, un
articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc.
Redatto da attivisti in lotta contro il
progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in quest’ultima
definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di
appartenere alla tendenza Black Bloc
definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei
militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso
del 22 febbraio scorso a Nantes”[3].
Leggendo l’articolo
si capisce bene che “il Black Bloc non è
un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia potente
perché diffusa”[4].
Ne consegue,
coerentemente, che “tutti quelli che
prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5].
Eppure, almeno a
posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta effettivamente
come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica e di una
strategia e, se non di capi, almeno di attivisti
che parlano a nome di tutti gli altri.
Certamente questi
rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò
non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle
conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda
piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle
sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore
specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare.
Tutti i servitori
volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle
volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti
danneggiamenti e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano
addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro
schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza,
una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a
salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che
impediscono alla democrazia di funzionare normalmente.
Ecco perché si vedono
talvolta uomini in jeans, tute e
cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro
caschi e i loro bracciali !
Mica si tratta
d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di
infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che
difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero. La
mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo
che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare
con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare
del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano
militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le
possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6].
A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione
pedagogica portata dall’esterno?
Se lo scopo di una
manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti
ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che
un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova
nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è
ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno. Questi Zorro rivoluzionari
agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia
senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti,
mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il
sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile,
l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani
potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono
quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di
fronte al disordine.
Io continuo a pensare
con Debord che bisogna fare il disordine
senza amarlo, sapendo che nelle
condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere. Non
c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse
usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale,
rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo
contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un
comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa
tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma
noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio
totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di
una gioiosa rivolta incompiuta.
Bisognerebbe
che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa anziché ispirarsi alle tigri
nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di prendersi per
un’avanguardia senza nome che giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il
movimento sociale non appartiene a nessuno e tanto meglio, poiché nessuna
levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è
destinato ad arrivare.
Lasciamo
dunque la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene.
Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei
rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando
ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società
produttivistica, o “nel 2014, quando, con
i due piedi nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia
in se stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7].
Nemmeno io, come gli
autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni settanta,
ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie
di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra
in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio
costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della violenza che
s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi dal fascismo
legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un diritto ma una
necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più
fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci
abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma
della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire nello
spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando l’auto
costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico, non
inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di ruoli
dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante.
Condivido
assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per
l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione
sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece chiaramente
a meno della società e dell’economia, come affermato con facilità semplicistica
nell’articolo qui commentato, non è questione di una frase o di un gioco di prestigio,
neanche se sostenuto da una macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è
effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo,
è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da
nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario,
indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato.
Gestire bene la casa
(questo significa economia) è
un’esigenza strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e
forse non la più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga
concretamente la questione del come passare da un’economia della catastrofe a
un’economia del dono.
Negare ciò con il
rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa mentre lo
facciamo[8] non
supera il problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla
spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici
dell’apocalisse.
“C’è
l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose.
Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la
condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le
cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della
nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una
tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile,
accessoriamente, di sopravviverle”[9].
Io dico che le cose
sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta
un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non
commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo,
che il suo passaggio all’atto[10]
presuppone un confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e
non solo tra adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi
di restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza dimenticare che
il superamento di una civiltà è un’altra civiltà, il principio di piacere resta
sempre l'obiettivo, ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e
materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale
al fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi collettivamente,
e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per rivoluzione.
Sergio
Ghirardi, attorno al 1 maggio 2014
[1] Per i partigiani del sistema affaristico dominante
ZAD significa Zone dAmenagement Differé
(zona di ricostruzione differita), per
quelli che a Nantes, come in Val di Susa o nella penisola Calcidica, lottano
contro il sistema, ZAD significa Zone A Défendre
(zona da difendere).
[2] Tutti i giornali sono padronali quando vivono
all’ombra della cappella pubblicitaria mercantile.
[3]
Citazione dall’articolo
in questione che ci ricorda anche come, a causa di qualche danneggiamento
commesso durante la manifestazione contro il progetto d’aeroporto, quattro persone
sono state condannate a inizio aprile.
[4]
Citazione dall’articolo in questione.
[5]
Citazione dall’articolo in questione.
[6] Citazione dall’articolo in
questione.
[7] Citazione dall’articolo in
questione.
[8] Durante il G8 di Genova, nel
2001, diversi compagni sono stati incriminati perché trovati in possesso di
foto che li immortalavano mentre spaccavano una vetrina o nell’esercizio di altre
piccole vendette di classe.
[9] Citazione dall’articolo in
questione.
[10] Poesia,
dal greco ποιέω
(poiéo = io faccio) significa letteralmente passaggio all’atto.
il dibattito è aperto:
il dibattito è aperto:
In rosso
alcune considerazioni, non nuove, anzi un po’ ripetitive: ma purtroppo accade
che gli anni avanzano ritornando inesorabilmente sui loro passi…
Paolo Ranieri
SBLOCCARE
IL BLACK BLOC
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Ho seguito il corteo autorizzato, come
dire che non abbiamo camminato molto poiché la maggior parte del percorso dichiarato
in prefettura era stato vietato. Per la prima volta una manifestazione è stata
vietata in tutto il centro di Nantes fino al Corso des Cinquante-Otages. Come ultima provocazione, le immense
barricate fatte dai CRS e dai poliziotti in numero smisurato. Tutto era fatto
apposta per suscitare il fastidio generale e far montare la tensione. Anch’io
mi sono innervosita di fronte a questa dimostrazione di forza e di numero volta
a impressionare o irritare i manifestanti inizialmente molto gioiosi e festivi.
Sono stata sorpresa anche dal vedere uomini in jeans, tute e cappuccio
“cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i
loro bracciali.»
Nantes, 22 febbraio 2014, testimonianza di Milou
raccolta da http://www.lavoiedujaguar.net
Sono risolutamente a
favore dei difensori della zona[1]
confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e
sostengo a fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto
insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del
resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il
nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione
capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le ZAD, dalla Val
di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento
ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia
coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con metodi
alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano
totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.(Non combattere l’alienazione con mezzi alienati, è di
sicuro un obiettivo, per il quale ci battiamo da numerosi decenni, e che resta
grandemente attuale: ma a condizione che si consideri che il potere separato,
finché si mantiene
in sella, aliena inesorabilmente
ogni attività umana. E che quindi è possibile affrancarsene solo per
brevi momenti, per poi scivolare altrove, in quegli spazi dove la società non è
ancora arrivata. In altre parole ciò che non è alienato mentre viene vissuto,
si ripresenta come alienato mentre viene fissato e reificato, elevando la sua
inerzia potente contro i suoi medesimi autori)
Ho letto sul giornale
padronale[2]
Libération del 17 aprile 2014, un
articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc.
Redatto da attivisti in lotta contro il
progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in quest’ultima
definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di
appartenere alla tendenza Black Bloc
definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei
militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso
del 22 febbraio scorso a Nantes”[3].
Leggendo l’articolo
si capisce bene che “il Black Bloc non è
un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia potente
perché diffusa”[4].
Ne consegue,
coerentemente, che “tutti quelli che
prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5].
Eppure, almeno a
posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta effettivamente
come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica e di una
strategia e, se non di capi, almeno di attivisti
che parlano a nome di tutti gli altri. (Più che altro,
non si tratta di un gruppo in possesso di una tattica e di una strategia, ma
precisamente di una tattica e di una strategia, praticate da alcuni. Chiaro che
se si è in molti che ricorrentemente si
impiegano le medesime tattiche e si perseguono le medesime strategie, per
molti aspetti ci si può percepire e si può essere percepiti come un gruppo: ma
questo sta nelle cose stesse.
Che poi gli
attivisti parlino a nome di molti, sarà sicuramente vero, ma su quale base
affermare che parlano a nome di “tutti gli altri”?)
Certamente questi
rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò
non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle
conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda
piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle
sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore
specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare. (Indiscutibile, ma questo accade perché NULLA, MAI garantisce un simile
obiettivo: a ben rifletterci, il concetto medesimo di garanzia è estraneo alla
prospettiva di quel perpetuo divenire cui la rivoluzione mira ed aspira)
Tutti i servitori
volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle
volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti
degradazioni e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano
addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro
schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza,
una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a
salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che
impediscono alla democrazia di funzionare normalmente. (Chiaro che questo è l’obiettivo dei difensori
dell’esistente: l’obiettivo dei vandali è in sostanza quello di proporre una
scelta fra la sicurezza nell’obbedienza e nella noia e il piacere di disporre a
piacimento dell’arredo urbano. In sostanza si tratta di dimostrare che la
sicurezza è morte, e non solo non va
perseguita, ma va sbriciolata in ogni occasione possibile)
Ecco perché si vedono
talvolta uomini in jeans, tute e
cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro
caschi e i loro bracciali ! (In realtà si vedono
per due motivi: in parte per avere un controllo capillare, da vicino,
dell’azione dei sovversivi; ma soprattutto per farsi vedere e filmare e
dimostrare in tal modo che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un
poliziotto, LA QUAL COSA
DIMOSTRA CHE TUTTI I VANDALI SONO OGGETTIVAMENTE ASSIMILABILI CON I POLIZIOTTI)
Mica si tratta
d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di
infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che
difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero. La
mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo
che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare
con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare
del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano
militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le
possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6].
A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione
pedagogica portata dall’esterno? (Molti: li hai citati
tu prima, quelli che si fanno attrarre dalle chimere della sicurezza o, ed è
quasi peggio, della legalità; quelli che in fondo il poliziotto fa quello che
fa perché è il suo lavoro, e ha una famiglia da mantenere)
Se lo scopo di una
manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti
ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che
un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova
nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è
ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno.
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.) Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine. (a me francamente tutti questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i coglioni: cioè, chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non turbare l’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.) Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine. (a me francamente tutti questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i coglioni: cioè, chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non turbare l’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
Io continuo a pensare
con Debord che bisogna fare il disordine
senza amarlo, sapendo che nelle
condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere.
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre) Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta. (Non ci siamo: invertendo l’ordine degli eventi si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio perché la rivolta, essendo incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che molti si sono orientati verso la scorciatoia armata, alcuni precisamente perché si erano stufati di attendere il gong della critica radicale)
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre) Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta. (Non ci siamo: invertendo l’ordine degli eventi si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio perché la rivolta, essendo incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che molti si sono orientati verso la scorciatoia armata, alcuni precisamente perché si erano stufati di attendere il gong della critica radicale)
Bisognerebbe
che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa (Posso
dirlo? A me quella della vecchia talpa è sempre apparsa una cazzata: il
movimento di liberazione umana ha bisogno di luce e non di cunicoli, deve
scavare sì, ma dall’alto e non dal basso) anziché ispirarsi alle tigri
nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di prendersi per un’avanguardia
senza nome che giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il movimento
sociale non appartiene a nessuno (perché appartiene a
ciascuno che si muova qui ed ora) e tanto meglio, poiché nessuna
levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è
destinato ad arrivare. (e se non dovesse arrivare?
Ciascuno vive il tempo della propria vita e non quello della storia: se non
insorge oggi, quando?)
Lasciamo
dunque la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene.
Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei
rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando
ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società produttivistica,
o “nel 2014, quando, con i due piedi
nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia in se
stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7].
Nemmeno io, come gli
autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni settanta,
ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie
di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra
in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio
costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della violenza che
s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi dal fascismo
legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un diritto ma una
necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più
fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci
abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma
della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire nello
spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando l’auto
costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico, non
inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di ruoli
dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante. (Come
di consueto, contrapponi costruzione e distruzione quasi fossero due processi
differenti, mentre si tratta di un unico processo, semplicemente guardato da
opposti punti di vista: il vandalo che scalfisce l’arredo urbano e sociale, costruisce al tempo stesso relazioni e ambientazioni
diverse e opposte. Negli anni Settanta, per segnalare la nostra solidarietà con
Ulrike Meinhof uccisa in carcere, fu data alle fiamme la sede di Lufthansa a
Milano. Che rimase per anni così, inerte e nera, non si trattava di una
costruzione? Distruggere prigioni per farne piazze dove adunarsi e discutere e
praticare la libertà, non è forse costruire? Oppure chiese, fabbriche, tribunali,
borse valori, caserme? Il vero problema semmai è che le distruzioni operate da
questi nostri compagni, rimangono troppo al di qua per costruire qualcosa che
non rimanga un semplice SOS nel buio dello spettacolo. E’ perché la distruzione
è troppo poco diffusa e radicale che la si può far passare per un incubo da cui
cercare il risveglio nella sicurezza del lavoro, della famiglia, dello Stato. I
compagni dei Black Bloc ci appaiono sovente come avanguardie, perché è l’armata
che dovrebbe seguirli a fare difetto , lasciandoli isolati sotto i riflettori
del nemico)
Condivido
assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per
l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione
sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece chiaramente
a meno della società e dell’economia, come affermato con facilità semplicistica
nell’articolo qui commentato, non è questione di una frase o di un gioco di prestigio,
neanche se sostenuto da una macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è
effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo,
è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da
nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario,
indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato. (Cioè, sosterresti che la maledizione per cui le comunità
sono state degradate e impastate nella società, non è più reversibile? Che la
società ce la dovremo tenere nei secoli dei secoli?)
Gestire bene la casa
(questo significa economia) è un’esigenza
strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e forse non la
più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga concretamente la
questione del come passare da un’economia della catastrofe a un’economia del
dono. (Il dono è un atto che lega individui separati in
quanto separati: le questioni che oggi sono ammassate nel concetto di economia,
vanno tolte alla dimensione sociale che ne costituisce insieme la causa e
l’effetto, e restituite all’ambito delle relazioni libere fra individui, più o
meno federati fra loro)
Negare ciò con il
rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa mentre
lo facciamo[8]
non supera il problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla
spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici
dell’apocalisse. (In realtà, si tratta banalmente di
momenti diversi: chi lancia il sasso oggi, negli altri momenti fa mille altre
cose, che in parte conosciamo benissimo, visto che questi compagni li
incontriamo tutti i giorni, e in parte possiamo figurarci con la forza del
buonsenso, visto che nessuno fa il vandalo in servizio permanente effettivo:
case occupate, coltivazioni autogestite, stesura e traduzione di testi,
dibattiti, corrispondenza e solidarietà
con i compagni carcerati…etc)
“C’è
l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose.
Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la
condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le
cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della
nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una
tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile,
accessoriamente, di sopravviverle”[9].
Io dico che le cose
sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta
un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non
commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo,
che il suo passaggio all’atto[10]
presuppone un confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e
non solo tra adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi
di restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza dimenticare che
il superamento di una civiltà è un’altra civiltà,(come un
ergastolo, dunque? Nessuna via d’uscita prevista per chi non volesse ALCUNA
CIVILTA’?) il principio di piacere resta sempre l'obiettivo, (ma il piacere di devastare la galera sociale, non riesci a
inserirlo nella tua panoplia di piaceri possibili?) ma bisogna saper
essere anche abbastanza laici e materialisti dialettici per confrontarsi
davvero con la complessità del reale al fine di smuoverlo fino a un orgasmo
della storia che realizzi collettivamente, e non in un’illusione settaria, quel
che intendiamo per rivoluzione.
Sergio
Ghirardi, attorno al 1 maggio 2014
[1] Per i partigiani del sistema affaristico dominante
ZAD significa Zone dAmenagement Differé
(zona di ricostruzione differita), per
quelli che a Nantes, come in Val di Susa o nella penisola Calcidica, lottano
contro il sistema, ZAD significa Zone A Défendre
(zona da difendere).
[2] Tutti i giornali sono padronali quando vivono
all’ombra della cappella pubblicitaria mercantile.
[3]
Citazione dall’articolo
in questione che ci ricorda anche come, a causa di qualche degradazione
commessa durante la manifestazione contro il progetto d’aeroporto, quattro
persone sono state condannate a inizio aprile.
[4]
Citazione dall’articolo in questione.
[5]
Citazione dall’articolo in questione.
[6]
Citazione dall’articolo
in questione.
[7]
Citazione dall’articolo
in questione.
[8] Durante il G8 di Genova, nel
2001, diversi compagni sono stati incriminati perché trovati in possesso di
foto che li immortalavano mentre spaccavano una vetrina o nell’esercizio di altre
piccole vendette di classe.
[9] Citazione dall’articolo in
questione.
[10]
Poesia, dal greco ποιέω
(poiéo = io faccio) significa letteralmente passaggio all’atto.
e continua:
e si continua, finché ci saranno colori....(per ora Paolo rosso e verde, Sergio nero e poi blu):
e continua:
Caro Paolo,
per rispetto del dialogo che intratteniamo proverò a
risponderti parzialmente nel merito anche se non ho la minima volontà di
convincerti. Sono convinto che le differenze sostanziali nel nostro porci di
fronte al mondo e alla rivoluzione tanto nella vita che qui alla tastiera
risalgono ben più alla nostra diversa struttura caratteriale e al nostro
vissuto che al mondo delle idee che arrivano sempre dopo, come mutande, a
coprire le diverse nudità di ciascuno. Confido sulle nostre reciproche
intelligenze sensibili e su un’amicizia sincera per continuare a tessere le
identità al di là delle esplicite e forti differenze. E se son
rose...pungeranno.
Sono risolutamente a favore dei difensori della zona[1][1] confiscata a
Notre Dame des Landes dai servitori volontari del produttivismo e sostengo a
fondo gli auto costruttori che si battono contro l’orribile progetto insensato
di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa, del resto quale impalcatura ideologica
motivi quanti si battono contro il nichilismo totalitario della società
produttivistica e del modo di produzione capitalistico che la sfrutta senza
ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas,
dalla penisola Calcidica alla vita quotidiana di ciascuno.
Un solo atteggiamento ideologico non è assolutamente
accettabile né dalla mia rabbia né dalla mia coscienza. Non posso ammettere che
si combatta l’alienazione con metodi alienati perché ciò riproduce come meglio
non si potrebbe il Leviatano totalitario che si vorrebbe indebolire per
riuscire a vincerlo.(Non combattere l’alienazione con mezzi alienati, è di sicuro un obiettivo
per il quale ci battiamo da numerosi decenni e che resta grandemente attuale:
ma a condizione che si consideri che il potere separato, finché si mantiene in sella, aliena inesorabilmente ogni
attività umana. E che quindi è possibile affrancarsene solo per brevi momenti,
per poi scivolare altrove, in quegli spazi dove la società non è ancora
arrivata. In altre parole ciò che non è alienato mentre viene vissuto, si
ripresenta come alienato mentre viene fissato e reificato, elevando la sua
inerzia potente contro i suoi medesimi autori.)
Dunque l’obiettivo è condiviso, mentre il fallimento
sarebbe dovuto al potere del sistema reificante. Io sostengo che noi siamo
spesso complici della reificazione e che ciò è evitabile non solo per brevi
momenti e anche nell’ambito della “maledetta società” si può rifiutare di usare
metodi alienati che sono palesemente tali.
Ho letto sul giornale padronale[2][2] Libération del 17 aprile 2014, un
articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black Bloc.
Redatto da attivisti in lotta contro il
progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto ha in
quest’ultima definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo rivendica di appartenere alla tendenza Black Bloc definita (non so se dagli
autori stessi o da Libération) “quella dei militanti che rivendicano l’uso
della violenza a fini politici, come nel caso del 22 febbraio scorso a Nantes”[3][3].
Leggendo l’articolo si capisce bene che “il Black Bloc non è un’organizzazione ma una
strategia d’azione in strada, una strategia potente perché diffusa”[4][4].
Ne consegue, coerentemente, che “tutti quelli che prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il
Black Bloc”[5][5].
Eppure, almeno a posteriori, come in questo articolo,
il Black Bloc si manifesta effettivamente come un gruppo, informale, certo, ma
in possesso di una tattica e di una strategia e, se non di capi, almeno di attivisti che parlano a nome di tutti
gli altri. (Più che altro, non si tratta di un gruppo in possesso di una tattica e di
una strategia, ma precisamente di una tattica e di una strategia, praticate da
alcuni. Chiaro che se si è in molti che ricorrentemente si impiegano le
medesime tattiche e si perseguono le medesime strategie, per molti aspetti ci
si può percepire e si può essere percepiti come un gruppo: ma questo sta nelle
cose stesse.
Che poi gli attivisti parlino a nome di molti, sarà sicuramente vero, ma su
quale base affermare che parlano a nome di “tutti gli altri”?)
Che alcuni usino tattiche e strategie riguarda solo
loro ma che parlino a nome di tutti gli altri è dato semplicemente dal fatto
che sono gli unici a farlo. Mica è colpa loro se gli altri stanno zitti, ma
resta il fatto che il loro parlare assurge a unica verità espressa che io ho
commentato perché non mi convince per niente. Niente di più.
Certamente questi rivoltosi sinceri non sono né di
destra né di sinistra. Tanto meglio, ma ciò non garantisce affatto che gli
effetti della loro guerriglia - dalle conseguenze sul movimento sociale più
teoriche che pratiche, del resto - prenda piede altrove che nello spettacolo
manipolato a piacimento dalle destre, dalle sinistre, dalla Polizia e dallo
Stato, ognuno di loro nel proprio settore specifico del supermercato
dell’ideologia spettacolare. (Indiscutibile, ma questo accade perché NULLA, MAI garantisce un simile
obiettivo: a ben rifletterci, il concetto medesimo di garanzia è estraneo alla
prospettiva di quel perpetuo divenire cui la rivoluzione mira ed aspira)
Far passare per mio l’elogio della garanzia è una
forzatura. Io constato che la guerriglia serve solo come spot pubblicitario per
narcisisti o per recuperatori.
Tutti i servitori volontari specializzati del
capitalismo di Stato o di Mercato (il più delle volte tutti e due insieme) se
ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti degradazioni e danni (le banche,
per esempio, sono assicurate e rischiano addirittura di guadagnarci qualcosa).
Il loro unico scopo è vendere ai loro schiavi spettatori, il cui consenso li fa
vivere e ne giustifica l’esistenza, una protezione ispirata all’ideologia della
sicurezza dedita a salvare i poveri cittadini in pericolo dai
diavoli cattivi e sovversivi che impediscono alla democrazia di funzionare
normalmente. (Chiaro che questo è l’obiettivo dei difensori dell’esistente: l’obiettivo
dei vandali è in sostanza quello di proporre un a scelta fra la sicurezza
nell’obbedienza e nella noia e il piacere di disporre a piacimento dell’arredo
urbano. In sostanza si tratta di dimostrare che la sicurezza è morte, e non
solo non va perseguita, ma va sbriciolata in ogni occasione possibile)
Troppi doveri nel tuo commento. Io non sono un vandalo
e non odio né adoro la sicurezza ma non aborro il principio di precauzione e
capisco quanti hanno paura. Non avere mai paura è uno stupido bluff. Gli eroi
della distruzione si accontentano poi spesso di piaceri miserabili da turisti
della rivoluzione contro i quali non insorgo ma non per questo mi attraggono.
Ecco perché si vedono talvolta uomini in jeans, tute e cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi
coi poliziotti rimettendo i loro caschi e i loro bracciali ! (In
realtà si vedono per due motivi: in parte per avere un controllo capillare, da
vicino, dell’azione dei sovversivi; ma soprattutto per farsi vedere e filmare e
dimostrare in tal modo che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un
poliziotto, LA QUAL COSA DIMOSTRA CHE TUTTI I VANDALI SONO OGGETTIVAMENTE
ASSIMILABILI CON I POLIZIOTTI)
Tutto vero, ma insufficiente. Dunque il potere
userebbe la tattica solo per dimostrare che il vandalo potrebbe essere
soggettivamente un poliziotto ma è escluso che il potere fomenti il conflitto
per ridurre la rivolta a uno scontro militare. Dialettica naif o nichilista, a
dispiacere.
Mica si tratta d’insinuare - che sia ben chiaro ! -
che il Black Bloc sia un nido di infiltrati. Lasciamo un tale sospetto
calunnioso ai militanti di sinistra che difendono le loro messe elettorali
contro questi spontaneisti vestiti di nero. La mia critica, piuttosto, già dal
G8 del 2001, è che partecipano allo spettacolo che pretendono di criticare
senza indebolirlo; che si preoccupano di dialogare con i poliziotti spiegando
loro che “«spaccare del poliziotto» non
significa voler fare concorrenza alla polizia sul piano militare ma
semplicemente che è naturale dare la prova che tra tutte le possibilità
esistenziali, alcune sono intollerabili”[6][6]. A parte i
poliziotti e i loro amici, chi altro ha bisogno di una tale lezione pedagogica
portata dall’esterno? (Molti: li hai citati tu prima, quelli che si fanno attrarre dalle chimere
della sicurezza o, ed è quasi peggio, della legalità; quelli che in fondo il
poliziotto fa quello che fa perché è il suo lavoro, e ha una famiglia da
mantenere)
E allora? Pensi che li si debba convincere a diventare
dei rivoluzionari?
Se lo scopo di una manifestazione è quello di
manifestare le buone ragioni di una lotta a quanti ne dubitano ancora,
l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che un’occasione per mostrarsi
belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova nello spettacolo patetico e
irritante di fantasmi esibizionisti. The
show must go on, ma la vita non è ancora incominciata e la rivoluzione
nemmeno.
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.)
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.)
Appunto: è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti
della rivoluzione che monta e della vita che senza dubbio è già cominciata da
un pezzo e per noi soprattutto, come giustamente ricordi, scongiuri inclusi.
Questi Zorro rivoluzionari agiscono come un corpo
separato che si pretende oggettivamente avanguardia senza chiamarsi tale ma
facendolo sapere per via di stampa. Volenti o nolenti, mostrano di consentire
ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai quali il sistema invita per meglio
separare la rabbia dall’intelligenza sensibile, l’auto costruzione di un altro
mondo possibile da un gran numero di partigiani potenziali di un rovesciamento
di prospettiva radicale. Numerosi, infatti, sono quelli che titubano
lasciandosi bloccare dalla paura e dalla diffidenza di fronte al disordine. (a me
francamente tutti questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i coglioni: cioè,
chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non turbare l’animo
tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
Darmi del trotskista è poco simpatico ma insisto
coraggiosamente nel considerare che definire contemplativo un atteggiamento
critico e di negazione è di un misticismo nichilista speculare e opposto all’animo
tremulo dei titubanti e dei cagoni che io comunque non disprezzo più degli
avanguardisti.
Io continuo a pensare con Debord che bisogna fare il disordine senza amarlo,
sapendo che nelle condizioni spettacolari
la critica radicale deve saper attendere.
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre)
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre)
Non temo nulla su questo punto. Sono vaccinato da
entrambe le fissazioni. Mi piacerebbe che fosse altrettanto vero per molti che
sintetizzano il superamento spettacolare in un disordine sempre nuovo.
Non c’entrano l’opportunismo, l’attendismo o che so io
di altre calunniose accuse usate dal militantismo fanatico - alla maniera di
qualunque morale, rivoluzionaria o no - per giudicare la critica radicale come
un astensionismo contemplativo e assillare la lucidità di chi osa negare come
fosse un comportamento da rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa
odiosa tendenza dello spirito religioso infiltrato nella classe della
coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto abbondantemente sperimentata durante i
deliranti “anni di piombo”, quando
l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le
reni di una gioiosa rivolta incompiuta. (Non ci siamo: invertendo l’ordine degli eventi
si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio perché la rivolta, essendo
incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che molti si sono orientati verso
la scorciatoia armata, alcuni
precisamente perché si erano stufati di attendere il gong della critica
radicale)
Condivido la precisazione che non cambia, tuttavia, il
senso del mio parlare dei deliranti “anni
di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto contribuito a
spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta incompiuta.
Bisognerebbe che il Black Bloc si sbloccasse un po’.
Che si ricordasse della vecchia talpa
(Posso
dirlo? A me quella della vecchia talpa è sempre apparsa una cazzata: il
movimento di liberazione umana ha bisogno di luce e non di cunicoli, deve
scavare sì, ma dall’alto e non dal basso) Niente
da dire: a ognuno il suo sguardo sul mondo animale, luci e ombre incluse.
anziché ispirarsi alle tigri nello zoo. Bisognerebbe,
soprattutto che smettesse di prendersi per un’avanguardia senza nome che
giustifica i suoi atti a nome del movimento. Il movimento sociale non
appartiene a nessuno (perché appartiene a ciascuno che si muova
qui ed ora) e tanto meglio, poiché nessuna levatrice specializzata
lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è destinato ad arrivare. (e se
non dovesse arrivare? Ciascuno vive il tempo della propria vita e non quello
della storia: se non insorge oggi, quando?)
Ma se si è appena detto che la vita è cominciata da un
pezzo siamo d’accordo nel dire che il problema non si pone e che si tratta di
scegliere come partecipare al movimento così come ci si sente e non intruppati
da nessun eroico cowboy della rivoluzione.
Lasciamo dunque la distruzione al capitalismo e ai
suoi sgherri che lo fanno così bene. Pazienza se i poliziotti non avranno
accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure no, dei rivoluzionari indipendentemente
dall’epoca che si attraversa. Nel 1968, quando ci si è ribellati per la prima
volta nella storia contro la società produttivistica, o “nel 2014, quando, con i due piedi nella catastrofe, basta non staccare
gli occhi da un po’ di fiducia in se stessi e serbare qualche amico, per diventare
rivoluzionar”i[7][7].
Nemmeno io, come gli autori dell’articolo, vivo nel
sogno del Larzac francese degli anni settanta, ma non sogno neppure di Black
Bloc perché la fiducia in se stessi e le amicizie di cui sopra sono ben lontane
dall’essere acquisite e non sarà certo una pietra in faccia a un poliziotto che
ce le accorderà. Esse si nutrono dell’esempio costruttivista in tutte le ZAD
del mondo piuttosto che della violenza che s’oppone alla violenza di Stato. Il
che non toglie che difendersi dal fascismo legale dello Stato, come da ogni
altro fascismo, non è solo un diritto ma una necessità anch’essa “legale” come
ogni legittima difesa.
Quel che mi dà più fastidio in ogni militantismo
offensivo è che s’illudano i potenziali seguaci abbacinandoli con una rivolta
affidata alla critica delle armi ben oltre l’arma della critica. Si tratta di
un esorcismo che fa di fatto regredire nello spettacolo perché l’arma della
critica la si supera solo praticando l’auto costruzione e l’auto organizzazione
di un nuovo mondo psicogeografico, non inviando messaggi conflittuali agli
avversari mercenari di un gioco di ruoli dove il solo vincitore è sempre il
sistema dominante. (Come di consueto, contrapponi costruzione e distruzione quasi fossero due
processi differenti, mentre si tratta di un unico processo, semplicemente
guardato da opposti punti di vista: il vandalo che scalfisce l’arredo urbano e sociale, costruisce al tempo stesso relazioni e ambientazioni
diverse e opposte. Negli anni Settanta, per segnalare la nostra solidarietà con
Ulrike Meinhof uccisa in carcere, fu data alle fiamme la sede di Lufthansa a
Milano. Che rimase per anni così, inerte e nera, non si trattava di una
costruzione? Distruggere prigioni per farne piazze dove adunarsi e discutere e
praticare la libertà, non è forse costruire? Oppure chiese, fabbriche,
tribunali, borse valori, caserme? Il vero problema semmai è che le distruzioni
operate da questi nostri compagni, rimangono troppo al di qua per costruire
qualcosa che non rimanga un semplice SOS nel buio dello spettacolo. E’ perché
la distruzione è troppo poco diffusa e radicale che la si può far passare per
un incubo da cui cercare il risveglio nella sicurezza del lavoro, della
famiglia, dello Stato. I compagni dei Black Bloc ci appaiono sovente come
avanguardie, perché è l’armata che dovrebbe seguirli a fare difetto,
lasciandoli isolati sotto i riflettori del nemico)
Come di consueto, costruzione e distruzione sono due
processi differenti, di un'unica dialettica e scegliere liberamente il costruttivismo
è legato al momento storico in questione. A me di distruggere non me ne fotte
una mazza e la panoplia dei miei piaceri la scelgo io e non me la lascio certo
imporre dai fantasmi altrui.
Condivido assolutamente l’idea che fare a meno dello
Stato sia una necessità evidente per l’autogestione generalizzata della vita
quotidiana alla quale la rivoluzione sociale, incompiuta o tradita, aspira da
un buon secolo. Fare invece chiaramente a meno della società e dell’economia,
come affermato con facilità semplicistica nell’articolo qui commentato, non è
questione di una frase o di un gioco di prestigio, neanche se sostenuto da una
macchina che brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine società è effettivamente un’invenzione
della borghesia trionfante sull’Ancien
Régime, ma la comunità umana,
diventata società con il capitalismo, è un’identità collettiva che non può
essere confiscata né messa da parte da nessuna avanguardia senza perdersi in un
universo totalitario, indipendentemente dal colore delle bandiere o
dell’abbigliamento usato. (Cioè, sosterresti che la maledizione per cui le comunità sono state
degradate e impastate nella società, non è più reversibile? Che la società ce
le dovremo nei secoli dei secoli?) La questione per me non si pone e in
questi termini non ha senso.
Gestire bene la casa (questo significa economia) è un’esigenza strutturale
degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e forse non la più
importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga concretamente la
questione del come passare da un’economia della catastrofe a un’economia del
dono. (Il
dono è un atto che lega individui separati in quanto separati: le questioni che
oggi sono ammassate nel concetto di economia, vanno tolte alla dimensione
sociale che ne costituisce insieme la causa e l’effetto, e restituite all’ambito
delle relazioni libere fra individui, più o meno federati fra loro)
Il tema merita altro sviluppo ma comincio a faticare
in quest’esercizio di botta e risposta. Dunque qui mi fermo, pronto come sempre
a riprendere il dialogo a un prossimo incontro conviviale tra amici che se la
dicono e se la cantano gioiosamente. Ora la panoplia nella quale esercito la
mia voglia di vivere mi spinge al riposo, né del guerriero né del martire,
perché entrambi mi annoiano inesorabilmente.
Negare ciò con il rovescio di una mano che lancia una
pietra mentre l’altra ci fotografa mentre lo facciamo[8][8] non supera il
problema dell’organizzazione sociale ma meramente lo ignora sulla spinta di una
mistica rivoluzionaria millenarista da gentili fanatici dell’apocalisse. (In
realtà, si tratta banalmente di momenti diversi: chi lancia il sasso oggi,
negli altri momenti fa mille altre cose, che in parte conosciamo benissimo,
visto che questi compagni li incontriamo tutti i giorni, e in parte possiamo
figurarci con la forza del buonsenso, visto che nessuno fa il vandalo in
servizio permanente effettivo: case occupate, coltivazioni autogestite, stesura
e traduzione di testi, dibattiti, corrispondenza e solidarietà con i compagni
carcerati…etc)
“C’è
l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i compartimenti, tra le cose.
Passare oltre. Tessere legami e non funzionare. Tutto per l’amicizia, la
condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale, di una sensibilità. Le
cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è che l’indice della
nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si sa comune. Una
tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende suscettibile,
accessoriamente, di sopravviverle”[9][9].
Io dico che le cose sono solo cose e che una
reificazione alternativa a quella dominante resta un’alienazione che non apre
nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non commuoversi di fronte a un
tale slancio poetico e come non notare, al contempo, che il suo passaggio
all’atto[10][10] presuppone un
confronto aperto e generalizzato con tutta la comunità reale e non solo tra
adepti mascherati di una stessa ideologia; a meno di accontentarsi di
restaurare l’odiosa ipotesi di una dittatura sul proletariato mascherata da
riscatto.
Senza dimenticare che il superamento di una civiltà è
un’altra civiltà,(come un ergastolo, dunque? Nessuna via d’uscita prevista per chi non
volesse ALCUNA CIVILTA’?) il principio di piacere resta sempre in linea di
mira, (ma
il piacere di devastare la galera sociale, non riesci a inserirlo nella tua
panoplia di piaceri possibili?) ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e
materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale al
fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi collettivamente,
e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per rivoluzione.
e si continua, finché ci saranno colori....(per ora Paolo rosso e verde, Sergio nero e poi blu):
Caro Paolo,
per rispetto del
dialogo che intratteniamo proverò a risponderti parzialmente nel merito anche
se non ho la minima volontà di convincerti. Sono convinto che le differenze
sostanziali nel nostro porci di fronte al mondo e alla rivoluzione tanto nella
vita che qui alla tastiera risalgono ben più alla nostra diversa struttura
caratteriale e al nostro vissuto che al mondo delle idee che arrivano sempre
dopo, come mutande, a coprire le diverse nudità di ciascuno. Confido sulle
nostre reciproche intelligenze sensibili e su un’amicizia sincera per
continuare a tessere le identità al di là delle esplicite e forti differenze. E
se son rose...pungeranno.
Sono
risolutamente a favore dei difensori della zona[1][1] confiscata a Notre Dame des Landes dai servitori
volontari del produttivismo e sostengo a fondo gli auto costruttori che si
battono contro l’orribile progetto insensato di un nuovo aeroporto a Nantes.
Poco importa,
del resto quale impalcatura ideologica motivi quanti si battono contro il
nichilismo totalitario della società produttivistica e del modo di produzione
capitalistico che la sfrutta senza ritegno. L’importante è la ZAD, tutte le
ZAD, dalla Val di Susa al Chiapas, dalla penisola Calcidica alla vita
quotidiana di ciascuno.
Un solo
atteggiamento ideologico non è assolutamente accettabile né dalla mia rabbia né
dalla mia coscienza. Non posso ammettere che si combatta l’alienazione con
metodi alienati perché ciò riproduce come meglio non si potrebbe il Leviatano
totalitario che si vorrebbe indebolire per riuscire a vincerlo.(Non combattere l’alienazione con mezzi alienati, è
di sicuro un obiettivo per il quale ci battiamo da numerosi decenni e che resta
grandemente attuale: ma a condizione che si consideri che il potere separato, finché si mantiene in sella, aliena inesorabilmente
ogni attività umana. E che quindi è possibile affrancarsene solo per brevi
momenti, per poi scivolare altrove, in quegli spazi dove la società non è
ancora arrivata. In altre parole ciò che non è alienato mentre viene vissuto,
si ripresenta come alienato mentre viene fissato e reificato, elevando la sua
inerzia potente contro i suoi medesimi autori.)
Dunque l’obiettivo è
condiviso, mentre il fallimento sarebbe dovuto al potere del sistema
reificante. Io sostengo che noi siamo spesso complici della reificazione e che
ciò è evitabile non solo per brevi momenti e anche nell’ambito della “maledetta
società” si può rifiutare di usare metodi alienati che sono palesemente tali.
A parte che non per tutti magari è altrettanto palese (e fin qui bene fai a
praticare l’arte della persuasione), per rifiutare i metodi alienati, occorre
averne disponibili di non alienati: perché occorre vigilare a che, per evitare
di insorgere in forme alienate, non ci si riduca a condurre esistenze che il
potere può tollerare perfettamente. Perché nulla esiste di più alienato
dell’inerzia critica critica e moralista, espertissima del passato e
ipercreativa quanto a un indeterminato futuro, ma rigorosamente ostile a
qualsiasi scossone che abbia luogo qui e ora
Ho letto sul
giornale padronale[2][2] Libération
del 17 aprile 2014, un articolo intitolato: A Nantes, la strategia del Black
Bloc. Redatto da attivisti in
lotta contro il progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes, lo scritto
ha in quest’ultima definizione anche la sola firma dell’articolo.
Il testo
rivendica di appartenere alla tendenza Black
Bloc definita (non so se dagli autori stessi o da Libération) “quella dei
militanti che rivendicano l’uso della violenza a fini politici, come nel caso
del 22 febbraio scorso a Nantes”[3][3].
Leggendo
l’articolo si capisce bene che “il Black
Bloc non è un’organizzazione ma una strategia d’azione in strada, una strategia
potente perché diffusa”[4][4].
Ne consegue,
coerentemente, che “tutti quelli che
prendono il Black Bloc per un gruppo sono contro il Black Bloc”[5][5].
Eppure, almeno
a posteriori, come in questo articolo, il Black Bloc si manifesta
effettivamente come un gruppo, informale, certo, ma in possesso di una tattica
e di una strategia e, se non di capi, almeno di attivisti che parlano a nome di tutti gli altri. (Più che altro, non si tratta di un gruppo in possesso
di una tattica e di una strategia, ma precisamente di una tattica e di una
strategia, praticate da alcuni. Chiaro che se si è in molti che ricorrentemente
si impiegano le medesime tattiche e si perseguono le medesime strategie, per
molti aspetti ci si può percepire e si può essere percepiti come un gruppo: ma
questo sta nelle cose stesse.
Che poi gli attivisti
parlino a nome di molti, sarà sicuramente vero, ma su quale base affermare che
parlano a nome di “tutti gli altri”?)
Che alcuni usino
tattiche e strategie riguarda solo loro ma che parlino a nome di tutti gli
altri è dato semplicemente dal fatto che sono gli unici a farlo. Mica è colpa
loro se gli altri stanno zitti, ma resta il fatto che il loro parlare assurge a
unica verità espressa che io ho commentato perché non mi convince per niente.
Niente di più.
Da che cosa desumi che esisterebbero degli altri, e che questi che parlano
non lo farebbero a nome di tutti gli altri, ma semplicemente perché si tratta
di un sentire comune? Fra l’altro i brani che riporti mi paiono ormai parte di
un ragionamento che coloro i quali impiegano le tattiche Black, sviluppano con
coerenza da anni: se non corrispondesse a un sentire condiviso, sarebbe emerso
da un pezzo, non credi?
Certamente
questi rivoltosi sinceri non sono né di destra né di sinistra. Tanto meglio, ma
ciò non garantisce affatto che gli effetti della loro guerriglia - dalle
conseguenze sul movimento sociale più teoriche che pratiche, del resto - prenda
piede altrove che nello spettacolo manipolato a piacimento dalle destre, dalle
sinistre, dalla Polizia e dallo Stato, ognuno di loro nel proprio settore
specifico del supermercato dell’ideologia spettacolare. (Indiscutibile, ma questo accade perché NULLA, MAI
garantisce un simile obiettivo: a ben rifletterci, il concetto medesimo di
garanzia è estraneo alla prospettiva di quel perpetuo divenire cui la
rivoluzione mira ed aspira)
Far passare per mio
l’elogio della garanzia è una forzatura. Io constato che la guerriglia serve
solo come spot pubblicitario per narcisisti o per recuperatori.
Che la guerriglia sia, come proposto da Vaneigem fin dal 1969, una forma di espressione poetica (e il poeta è sempre anche narcisista, che poi non è sto gran male), è un’ipotesi che non ti sfiora? E in particolare che la guerriglia è un gioco, assai piacevole per chi lo pratica?
Che la guerriglia sia, come proposto da Vaneigem fin dal 1969, una forma di espressione poetica (e il poeta è sempre anche narcisista, che poi non è sto gran male), è un’ipotesi che non ti sfiora? E in particolare che la guerriglia è un gioco, assai piacevole per chi lo pratica?
Tutti i
servitori volontari specializzati del capitalismo di Stato o di Mercato (il più
delle volte tutti e due insieme) se ne fottono del Black Bloc e delle sedicenti
degradazioni e danni (le banche, per esempio, sono assicurate e rischiano
addirittura di guadagnarci qualcosa). Il loro unico scopo è vendere ai loro
schiavi spettatori, il cui consenso li fa vivere e ne giustifica l’esistenza,
una protezione ispirata all’ideologia della sicurezza dedita a
salvare i poveri cittadini in pericolo dai diavoli cattivi e sovversivi che
impediscono alla democrazia di funzionare normalmente. (Chiaro che questo è l’obiettivo dei difensori
dell’esistente: l’obiettivo dei vandali è in sostanza quello di proporre un a
scelta fra la sicurezza nell’obbedienza e nella noia e il piacere di disporre a
piacimento dell’arredo urbano. In sostanza si tratta di dimostrare che la sicurezza
è morte, e non solo non va perseguita, ma va sbriciolata in ogni occasione
possibile)
Troppi doveri nel tuo
commento. Io non sono un vandalo e non odio né adoro la sicurezza ma non aborro
il principio di precauzione e capisco quanti hanno paura. Non avere mai paura è
uno stupido bluff. Gli eroi della distruzione si accontentano poi spesso di
piaceri miserabili da turisti della rivoluzione contro i quali non insorgo ma
non per questo mi attraggono.
I piaceri degli altri hanno sempre qualcosa magari non di miserabile, ma comunque di straordinariamente futile. E opererei un profondo distinguo fra chi saggiamente ha paura di pigliarsi un mattone nel cervello e chi invece vuole imporre una società di pusillanimi, da cui il rischio sia bandito con la forza dell’obbedienza sociale
I piaceri degli altri hanno sempre qualcosa magari non di miserabile, ma comunque di straordinariamente futile. E opererei un profondo distinguo fra chi saggiamente ha paura di pigliarsi un mattone nel cervello e chi invece vuole imporre una società di pusillanimi, da cui il rischio sia bandito con la forza dell’obbedienza sociale
Ecco perché si
vedono talvolta uomini in jeans, tute e
cappuccio “cambiare campo” e ricongiungersi coi poliziotti rimettendo i loro
caschi e i loro bracciali ! (In realtà si vedono per
due motivi: in parte per avere un controllo capillare, da vicino, dell’azione
dei sovversivi; ma soprattutto per farsi vedere e filmare e dimostrare in tal
modo che il vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto, LA QUAL COSA
DIMOSTRA CHE TUTTI I VANDALI SONO OGGETTIVAMENTE ASSIMILABILI CON I POLIZIOTTI)
Tutto vero, ma
insufficiente. Dunque il potere userebbe la tattica solo per dimostrare che il
vandalo potrebbe essere soggettivamente un poliziotto ma è escluso che il
potere fomenti il conflitto per ridurre la rivolta a uno scontro militare.
Dialettica naif o nichilista, a dispiacere.
Non escludo che lo Stato fomenterebbe il conflitto in direzione militare,
se ce ne fosse la necessità, perché è vero che si tratta di un piano in cui gli
oppressori godono di significativi vantaggi: ma credo che al momento si rendano
conto di non averne necessità. Infatti, dovunque ci sono scontri, verifichiamo
che ad alimentarli erano persone reali e ben note ( e spessissimo non
militanti: guarda la composizione degli arrestati del G8 di Genova o lo stesso
Carlo Giuliani): e dove nessuno per qualche motivo pratica soggettivamente la
guerriglia, non mi risulta di casi in cui siano stati i poliziotti a fomentare
alcunché.
Mica si tratta
d’insinuare - che sia ben chiaro ! - che il Black Bloc sia un nido di
infiltrati. Lasciamo un tale sospetto calunnioso ai militanti di sinistra che
difendono le loro messe elettorali contro questi spontaneisti vestiti di nero.
La mia critica, piuttosto, già dal G8 del 2001, è che partecipano allo
spettacolo che pretendono di criticare senza indebolirlo; che si preoccupano di
dialogare con i poliziotti spiegando loro che “«spaccare del poliziotto» non significa voler fare concorrenza alla
polizia sul piano militare ma semplicemente che è naturale dare la prova che
tra tutte le possibilità esistenziali, alcune sono intollerabili”[6][6]. A parte i poliziotti e i loro amici, chi altro ha
bisogno di una tale lezione pedagogica portata dall’esterno? (Molti: li hai citati tu prima, quelli che si fanno
attrarre dalle chimere della sicurezza o, ed è quasi peggio, della legalità;
quelli che in fondo il poliziotto fa quello che fa perché è il suo lavoro, e ha
una famiglia da mantenere)
E allora? Pensi che li
si debba convincere a diventare dei rivoluzionari?
Dura, eh? Eppure, storicamente, la diserzione e la sollevazione di parte delle forze repressive è stato un passaggio efficacissimo delle rivoluzioni: Howard Zinn per esempio, non l’ultimo dei fessi, riteneva che proprio la rivolta dei pretoriani sociali, sarà ciò che scatenerà la dissoluzione della presente società statunitense
Dura, eh? Eppure, storicamente, la diserzione e la sollevazione di parte delle forze repressive è stato un passaggio efficacissimo delle rivoluzioni: Howard Zinn per esempio, non l’ultimo dei fessi, riteneva che proprio la rivolta dei pretoriani sociali, sarà ciò che scatenerà la dissoluzione della presente società statunitense
Se lo scopo di
una manifestazione è quello di manifestare le buone ragioni di una lotta a
quanti ne dubitano ancora, l’obiettivo è decisamente fallito. Se non è che
un’occasione per mostrarsi belli come i rivoluzionari di una volta ci si trova
nello spettacolo patetico e irritante di fantasmi esibizionisti. The show must go on, ma la vita non è
ancora incominciata e la rivoluzione nemmeno.
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.)
(In realtà la vita è talmente già incominciata che per molti di noi già volge al tramonto, fatti i debiti scongiuri. E anche la rivoluzione è già incominciata, per chi vi si è disposto: che le manifestazioni siano un luogo secondarissimo di tale processo, è vero, ben altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta.)
Appunto: è vero, ben
altri sono i luoghi e i fatti della rivoluzione che monta e della vita che
senza dubbio è già cominciata da un pezzo e per noi soprattutto, come
giustamente ricordi, scongiuri inclusi.
Questi Zorro
rivoluzionari agiscono come un corpo separato che si pretende oggettivamente
avanguardia senza chiamarsi tale ma facendolo sapere per via di stampa. Volenti
o nolenti, mostrano di consentire ai giochi di ruoli con il potere; giochi ai
quali il sistema invita per meglio separare la rabbia dall’intelligenza
sensibile, l’auto costruzione di un altro mondo possibile da un gran numero di
partigiani potenziali di un rovesciamento di prospettiva radicale. Numerosi,
infatti, sono quelli che titubano lasciandosi bloccare dalla paura e dalla
diffidenza di fronte al disordine. (a me francamente tutti
questi trotskismi dialettici – volenti o nolenti, oggettivamente…- fanno girare potentemente i
coglioni: cioè, chi vuole agire dovrebbe ridursi alla contemplazione per non
turbare l’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni?)
Darmi del trotskista è
poco simpatico ma insisto coraggiosamente nel considerare che definire
contemplativo un atteggiamento critico e di negazione è di un misticismo
nichilista speculare e opposto all’animo tremulo dei titubanti e dei cagoni che
io comunque non disprezzo più degli avanguardisti.
Molto spesso uno si ritrova avanguardista, perché ha seguito le sue passioni con tanta intensità da scordare di voltarsi indietro, e così scoprire che pochi lo stanno accompagnando, e perfino nessuno
Molto spesso uno si ritrova avanguardista, perché ha seguito le sue passioni con tanta intensità da scordare di voltarsi indietro, e così scoprire che pochi lo stanno accompagnando, e perfino nessuno
Io continuo a
pensare con Debord che bisogna fare il
disordine senza amarlo, sapendo che nelle
condizioni spettacolari la critica radicale deve saper attendere.
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre)
(Attenzione che, a furia di non amare il disordine, non si finisca, come molti anarchici hanno fatto e fanno, per amare l’”ordine nuovo” di una futura società. E consideriamo che la critica radicale attende da un pezzo e non si capisce bene che cosa, visto che le condizioni spettacolari non si estingueranno certo da sé, ma precisamente grazie a coloro che avranno scelto di non attendere oltre)
Non temo nulla su
questo punto. Sono vaccinato da entrambe le fissazioni. Mi piacerebbe che fosse
altrettanto vero per molti che sintetizzano il superamento spettacolare in un
disordine sempre nuovo.
Non c’entrano
l’opportunismo, l’attendismo o che so io di altre calunniose accuse usate dal
militantismo fanatico - alla maniera di qualunque morale, rivoluzionaria o no -
per giudicare la critica radicale come un astensionismo contemplativo e
assillare la lucidità di chi osa negare come fosse un comportamento da
rinnegati. Già Marx, ai suoi tempi, notò questa odiosa tendenza dello spirito
religioso infiltrato nella classe della coscienza, ma noi l’abbiamo soprattutto
abbondantemente sperimentata durante i deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio totemico del fucile ha tanto
contribuito a spezzare definitivamente le reni di una gioiosa rivolta
incompiuta. (Non ci siamo: invertendo
l’ordine degli eventi si perviene a una falsificazione totale. E’ proprio
perché la rivolta, essendo incompiuta, aveva cessato di essere gioiosa, che
molti si sono orientati verso la scorciatoia armata, alcuni precisamente perché si erano stufati
di attendere il gong della critica radicale)
Condivido la
precisazione che non cambia, tuttavia, il senso del mio parlare dei deliranti “anni di piombo”, quando l’elogio
totemico del fucile ha tanto contribuito a spezzare definitivamente le reni di una
gioiosa rivolta incompiuta.
Bisognerebbe
che il Black Bloc si sbloccasse un po’. Che si ricordasse della vecchia talpa (Posso dirlo? A me quella della vecchia talpa è sempre
apparsa una cazzata: il movimento di liberazione umana ha bisogno di luce e non
di cunicoli, deve scavare sì, ma dall’alto e non dal basso) Niente da dire: a
ognuno il suo sguardo sul mondo animale, luci e ombre incluse.
anziché
ispirarsi alle tigri nello zoo. Bisognerebbe, soprattutto che smettesse di
prendersi per un’avanguardia senza nome che giustifica i suoi atti a nome del
movimento. Il movimento sociale non appartiene a nessuno (perché appartiene a ciascuno che si muova qui ed ora)
e tanto meglio, poiché nessuna
levatrice specializzata lo farà alzare prima del tempo, semmai questo tempo è
destinato ad arrivare. (e se non dovesse
arrivare? Ciascuno vive il tempo della propria vita e non quello della storia:
se non insorge oggi, quando?)
Ma se si è appena
detto che la vita è cominciata da un pezzo siamo d’accordo nel dire che il
problema non si pone e che si tratta di scegliere come partecipare al movimento
così come ci si sente e non intruppati da nessun eroico cowboy della
rivoluzione.
Ma dove lo vedi questo intruppamento? Uno può fare il vandalo e il
guerrigliero esattamente come crede e con chi crede, non esiste alcun superclan
che lo indirizzi e lo inquadri
Lasciamo dunque
la distruzione al capitalismo e ai suoi sgherri che lo fanno così bene.
Pazienza se i poliziotti non avranno accesso a una coscienza di classe.
Si è, oppure
no, dei rivoluzionari indipendentemente dall’epoca che si attraversa. Nel 1968,
quando ci si è ribellati per la prima volta nella storia contro la società
produttivistica, o “nel 2014, quando, con
i due piedi nella catastrofe, basta non staccare gli occhi da un po’ di fiducia
in se stessi e serbare qualche amico, per diventare rivoluzionar”i[7][7].
Nemmeno io,
come gli autori dell’articolo, vivo nel sogno del Larzac francese degli anni
settanta, ma non sogno neppure di Black Bloc perché la fiducia in se stessi e
le amicizie di cui sopra sono ben lontane dall’essere acquisite e non sarà
certo una pietra in faccia a un poliziotto che ce le accorderà. Esse si nutrono
dell’esempio costruttivista in tutte le ZAD del mondo piuttosto che della
violenza che s’oppone alla violenza di Stato. Il che non toglie che difendersi
dal fascismo legale dello Stato, come da ogni altro fascismo, non è solo un
diritto ma una necessità anch’essa “legale” come ogni legittima difesa.
Quel che mi dà
più fastidio in ogni militantismo offensivo è che s’illudano i potenziali
seguaci abbacinandoli con una rivolta affidata alla critica delle armi ben
oltre l’arma della critica. Si tratta di un esorcismo che fa di fatto regredire
nello spettacolo perché l’arma della critica la si supera solo praticando
l’auto costruzione e l’auto organizzazione di un nuovo mondo psicogeografico,
non inviando messaggi conflittuali agli avversari mercenari di un gioco di
ruoli dove il solo vincitore è sempre il sistema dominante. (Come di consueto, contrapponi costruzione e
distruzione quasi fossero due processi differenti, mentre si tratta di un unico
processo, semplicemente guardato da opposti punti di vista: il vandalo che
scalfisce l’arredo urbano e sociale,
costruisce al tempo stesso relazioni e ambientazioni diverse e opposte. Negli
anni Settanta, per segnalare la nostra solidarietà con Ulrike Meinhof uccisa in
carcere, fu data alle fiamme la sede di Lufthansa a Milano. Che rimase per anni
così, inerte e nera, non si trattava di una costruzione? Distruggere prigioni
per farne piazze dove adunarsi e discutere e praticare la libertà, non è forse
costruire? Oppure chiese, fabbriche, tribunali, borse valori, caserme? Il vero
problema semmai è che le distruzioni operate da questi nostri compagni,
rimangono troppo al di qua per costruire qualcosa che non rimanga un semplice
SOS nel buio dello spettacolo. E’ perché la distruzione è troppo poco diffusa e
radicale che la si può far passare per un incubo da cui cercare il risveglio
nella sicurezza del lavoro, della famiglia, dello Stato. I compagni dei Black
Bloc ci appaiono sovente come avanguardie, perché è l’armata che dovrebbe
seguirli a fare difetto, lasciandoli isolati sotto i riflettori del nemico)
Come di consueto, costruzione
e distruzione sono due processi differenti, di un'unica dialettica e scegliere
liberamente il costruttivismo è legato al momento storico in questione. A me di
distruggere non me ne fotte una mazza e la panoplia dei miei piaceri la scelgo
io e non me la lascio certo imporre dai fantasmi altrui.
Non sono due processi differenti: la medesima azione che costruisce, che ne
so? Una ferrovia distrugge una valle. E chi spiana una città, dà luogo a una
foresta o a un campo arato o a una palude o a una base nucleare. A te preme
costruire e la distruzione necessaria di ciò che stava lì prima che arrivassi
tu, e delle infinite potenzialità che la tua costruzione accantona, nemmeno le vedi,
ma non per questo sono meno vere. Alla fine è la solita storia che nulla si
crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. I vandali trasformano, così
come i costruttori: spesso fra l’altro si tratta precisamente delle stesse
persone in due diversi momenti della loro vita
Condivido
assolutamente l’idea che fare a meno dello Stato sia una necessità evidente per
l’autogestione generalizzata della vita quotidiana alla quale la rivoluzione
sociale, incompiuta o tradita, aspira da un buon secolo. Fare invece
chiaramente a meno della società e
dell’economia, come affermato con
facilità semplicistica nell’articolo qui commentato, non è questione di una
frase o di un gioco di prestigio, neanche se sostenuto da una macchina che
brucia o da una vetrina in frantumi.
Il termine
società è effettivamente un’invenzione della borghesia trionfante sull’Ancien Régime, ma la comunità umana, diventata società con il capitalismo,
è un’identità collettiva che non può essere confiscata né messa da parte da
nessuna avanguardia senza perdersi in un universo totalitario,
indipendentemente dal colore delle bandiere o dell’abbigliamento usato. (Cioè, sosterresti che la maledizione per cui le
comunità sono state degradate e impastate nella società, non è più reversibile?
Che la società ce le dovremo nei secoli dei secoli?) La questione per me non si pone e in questi termini non
ha senso.
Gestire bene la
casa (questo significa economia) è
un’esigenza strutturale degli esseri umani che siamo. Certamente non la sola e
forse non la più importante, ma pur sempre abbastanza perché ci si ponga
concretamente la questione del come passare da un’economia della catastrofe a
un’economia del dono. (Il dono è un atto che
lega individui separati in quanto separati: le questioni che oggi sono
ammassate nel concetto di economia, vanno tolte alla dimensione sociale che ne
costituisce insieme la causa e l’effetto, e restituite all’ambito delle
relazioni libere fra individui, più o meno federati fra loro)
Il tema merita altro
sviluppo ma comincio a faticare in quest’esercizio di botta e risposta. Dunque
qui mi fermo, pronto come sempre a riprendere il dialogo a un prossimo incontro
conviviale tra amici che se la dicono e se la cantano gioiosamente. Ora la
panoplia nella quale esercito la mia voglia di vivere mi spinge al riposo, né
del guerriero né del martire, perché entrambi mi annoiano inesorabilmente.
E’ vero, il botta e risposta stanca (e probabilmente molto più che noi, stancherebbe quei poveretti che si sforzassero
di leggerci): e d’altronde, occorre ogni tanto ripercorrere le strade che ci
hanno condotto a imbatterci gli uni negli altri, e capire come mai le persone
sono come sono, incominciando con noi stessi
Negare ciò con
il rovescio di una mano che lancia una pietra mentre l’altra ci fotografa
mentre lo facciamo[8][8] non supera il problema dell’organizzazione sociale ma
meramente lo ignora sulla spinta di una mistica rivoluzionaria millenarista da
gentili fanatici dell’apocalisse. (In realtà, si tratta
banalmente di momenti diversi: chi lancia il sasso oggi, negli altri momenti fa
mille altre cose, che in parte conosciamo benissimo, visto che questi compagni
li incontriamo tutti i giorni, e in parte possiamo figurarci con la forza del
buonsenso, visto che nessuno fa il vandalo in servizio permanente effettivo:
case occupate, coltivazioni autogestite, stesura e traduzione di testi,
dibattiti, corrispondenza e solidarietà con i compagni carcerati…etc)
“C’è l’atteggiamento rivoluzionario. Vivere oltre i
compartimenti, tra le cose. Passare oltre. Tessere legami e non funzionare.
Tutto per l’amicizia, la condivisione, l’elaborazione infinita, infinitesimale,
di una sensibilità. Le cose sono delle porte e non più dei muri. La norma non è
che l’indice della nostra debolezza. Quel che è nulla diventa potente appena si
sa comune. Una tale attitudine è incompatibile con la civiltà. Il che la rende
suscettibile, accessoriamente, di sopravviverle”[9][9].
Io dico che le
cose sono solo cose e che una reificazione alternativa a quella dominante resta
un’alienazione che non apre nessuna porta all’emancipazione. Tuttavia, come non
commuoversi di fronte a un tale slancio poetico e come non notare, al contempo,
che il suo passaggio all’atto[10][10] presuppone un confronto aperto e generalizzato con
tutta la comunità reale e non solo tra adepti mascherati di una stessa
ideologia; a meno di accontentarsi di restaurare l’odiosa ipotesi di una
dittatura sul proletariato mascherata da riscatto.
Senza
dimenticare che il superamento di una civiltà è un’altra civiltà,(come un ergastolo, dunque? Nessuna via d’uscita
prevista per chi non volesse ALCUNA CIVILTA’?) il principio di piacere resta sempre in linea di
mira, (ma il piacere di devastare la galera
sociale, non riesci a inserirlo nella tua panoplia di piaceri possibili?) ma bisogna saper essere anche abbastanza laici e
materialisti dialettici per confrontarsi davvero con la complessità del reale
al fine di smuoverlo fino a un orgasmo della storia che realizzi
collettivamente, e non in un’illusione settaria, quel che intendiamo per
rivoluzione.