martedì 7 gennaio 2020

Contro e oltre le commemorazioni di Charlie Hebdo, 5 anni dopo il massacro




Cinque anni fa avevo già proposto questa lettura presentandola così: Eccovi, con un piccolo décalage di tempo, la traduzione di uno scritto inviatomi dal mio grande amico Raoul di cui condivido appieno i sentimenti di rabbia contro tutte le “bestialità” e d’amore per la vita.
Oggi nulla è veramente cambiato se non che la sensibilità che queste parole difendono è apparsa sempre più prepotentemente e resiste sempre meglio alla peste emozionale diffusa dalle gerarchie dominanti, un po’ dovunque nel mondo.
Non si può che gioire, contro ogni recupero e oltre la tristezza che percorre il ridere e la rabbia, del risorgere di una soggettività che rifugge da tutti gli oscurantismi, cosciente che la lotta sarà lunga e senza certezze, se non quella di voler continuare a difendere la vita contro tutti i suoi nemici, sempre e comunque, per il piacere di vivere che se ne ricava, per il bene di tutti.
La situazione presente invita a riprendere queste parole nella loro attualità.

Sergio Ghirardi

L’oscurantismo è sempre stato il modo di far luce usato dal potere

Ci sono cose di cui non si ride. Non abbastanza!                Scutenaire

La stupidità è una bomba a frammentazione che non colpisce soltanto l’intelligenza, suo bersaglio di predilezione, ma si propaga sforando le coscienze che perdono dappertutto. Quelle essenzialmente gestionali del mondo statale e politico hanno celebrato la loro incontinenza attraverso azioni di grazia a loro doppiamente profittevoli. I notabili hanno potuto, in tutta immunità, ringraziare il cielo – fosse anche quello di Allah – per averli sbarazzati di un pugno d’irriverenti. Nello stesso tempo, si sono offerti con una pompa nazionale alla francese, clerico-laica e repubblicana, il lusso di santificare come martiri del libero pensiero degli eredi di Daumier e di Steinlen[1] che praticavano il diritto riconosciuto a ciascuno di farsi beffe senza eccezioni delle bandiere, delle religioni, dei trafficanti politici e burocratici, dei vanagloriosi al potere (tra cui quelli che hanno sgomitato nella manifestazione ubuesca seguita al massacro). Gli irriverenti in questione, del resto, facevano mostra di molta moderazione se si compara Charlie Hebdo a L’Assiette au beurre, al Père Peinard, a La Feuille di Zo d’Axa.
Senza dubbio non si è riso abbastanza di questa messa ecumenica che celebrava le virtù di una civiltà esemplare che non finisce più di distruggere i valori umani a favore del valore mercantile (Nella sfilata dei manichini mancava solo Lehman Brothers, la cui presenza avrebbe fatto piacere a Bernard Maris[2]).

Passata l’onda di choc, perfettamente recuperata dalla gente di potere, che cosa resta tra le macerie?
Lo stesso caos psicologico e sociale, così utile alle imprese multinazionali e alle mafie bancarie.
Il rafforzamento della sola funzione ancora esercitata dallo Stato: la repressione (di chi, di che cosa? Circolate, non c’è niente da vedere!).
Il clientelismo di sinistra e di destra.
L’ipocrisia umanitaria e le vittime in cerca di colpevoli.
La strategia del capro espiatorio (Non è il sistema che mi schiaccia, è il mio vicino).
L’ideologia, infine, sistema fognario dell’egotismo degli intellettuali, nella quale proliferano delle idee che, separate dalla vita, la svuotano della sua sostanza e non ne sono che i simulacri.
Dal XIX° secolo fino a poco tempo fa, ci si è battuti, torturati, massacrati per qualche ideologia, come nel XVI° secolo, quando un pelo di culo biblico bastava per finire sul rogo.
Ieri la buona parola comunista mascherava i gulag, le prediche nazionaliste spedivano milioni di esseri umani alla morte, l’eloquenza socialista occultava la solidarietà dei corrotti; dovunque, sotto il tavolo dei valori evangelici, si applicava l’“uccidetevi gli uni con gli altri” (regola alla quale i Ruandesi e gli Iugoslavi hanno del resto ottemperato senza l’ausilio della religione).
Le idee passano, la trippa resta. È quanto Lautréamont chiamava la macchia di sangue intellettuale. Nell’emozione creata dall'’assassinio di Charlie, non ho sentito il grido della vita. In realtà, non è la Repubblica, La Francia, la libertà di pensiero che sono state aggredite, è il nostro diritto di vivere come vogliamo (parlo di vivere, non di quella sopravvivenza in cui ciascuno la fa dove gli si dice di farla). Non dico che questo grido non abbia risuonato. Milioni di esseri hanno percepito che a subire offesa era la loro stessa umanità. Penso soltanto che la coscienza non sia ancora riuscita a partorire, mentre l’oscurantismo emozionale trova impiego dappertutto.
Si tratta di ritornare alla base, a quel che viviamo e vogliamo vivere, senza cadere nella trappola dei simboli e delle astrazioni. Non è così facile. I grandi palloni gonfiati politici si sono afflosciati, ma noi continuiamo a sguazzare tra i loro avanzi.
Che cosa resta delle ideologie, ancora ieri così influenti? Il clientelismo le ha sviscerate. Le dichiarazioni programmatiche hanno solo la risonanza di una scoreggia mediatica. Per contro, siamo circondati da queste parole che Rabelais evoca così: esse ruotano inquiete nell’aria perché la gola che le ha profferite e alla quale vogliono ritornare, è stata tranciata.
Si assassina la vita e le parole girano in tondo.
Che cosa vale la libertà di pensiero senza la libertà di vivere? Un “parla pure, intanto chi ti ascolta” al servizio di qualsiasi cosa. Il potere se ne fotte chiaramente del popolo, lo schiaccia con delle parole che sembrano stivaletti. Gli scarponi militari non sono nemmeno più indispensabili.
Sotto il peso dell’enormità della menzogna che l’economia diffonde da mane a sera, ci sono quelli che piegano la schiena, quelli indotti a ingoiare l’amarezza del presente per paura del domani, quelli che s’impoveriscono, si arrabbiano e si disperano sotto il tallone di ferro del profitto. Tutto si svolge sotto la menzogna delle parole.
La vita è oggi la posta di una vera lotta che si combatte in ciascuno. Gli effetti della sbornia di quell’alcol adulterato che è la disperazione, fanno facilmente vacillare e passare da un comportamento al suo opposto. Sarebbe auspicabile che la frontiera tra resistenza e passività fosse netta, ma non lo è. Eppure la posta in gioco è chiara. La rassegnazione e la sua impotenza astiosa fabbricano con desolante facilità dei paurosi ordinari, dei suicidi, degli assassini, dei terroristi (così chiamati per distinguerli dalle sbavature poliziesche, dalle milizie delle multinazionali, dai promotori immobiliari che sbattono in strada famiglie intere, dagli aggiotatori che moltiplicano il numero di disoccupati, dai devastatori dell’ambiente, dagli avvelenatori dell’industria agroalimentare, dai giuristi del Mercato transatlantico le cui leggi avranno il sopravvento su quelle delle nazioni).
Voler vivere a qualunque costo è l’altra scelta, più appassionante, più difficile: si è soli e c’è tutto da creare. Si tratta di preferire questa opzione oppure precipitare nella violenza rivolgendola contro di sé e i propri simili.
Non è vero che le parole uccidono. Esse servono soltanto da alibi agli assassini. Quando l’energia non nutre la gioia di vivere, s’investe nell’odio, nel risentimento, nel regolamento di conti, nella vendetta.
Con la sua paura del desiderio, della natura, della donna, della vita libera, la religione è un grande serbatoio di frustrazioni. Non è un caso che i disperati vi peschino le parole che permettono di soddisfare il loro gusto della morte, parole la cui sacralità inventa contemporaneamente quel che la urta e quello di cui ha bisogno, il blasfemo.
Poiché il blasfemo esiste solo per il credente, basta far scivolare le parole come conchiglie vuote e riempirle a piacere: attaccare la politica del governo israeliano, vuole dunque dire essere antisemita, scrivere “né padrone né Allah”, essere islamofobico, denunciare i preti pedofili, ferire il cristiano nella sua fede. Non so più chi diceva: datemi una frase di un autore e lo farò impiccare.
La violenza endemica è dappertutto, prodotta e stimolata da un sistema economico che rovina le risorse del pianeta, impoverisce la vita quotidiana, minaccia persino la semplice sopravvivenza delle popolazioni. Le multinazionali hanno interesse a favorire i conflitti locali e la guerra di tutti contro tutti. Quali migliori condizioni che il caos per saccheggiare impunemente il pianeta, avvelenare regioni intere col gas di scisto o lo sfruttamento dei filoni auriferi? Arruolare in conflitti assurdi gente che, con un po’ di riflessione, rischierebbe di denunciare le manovre degli sfruttatori, finendo per allearsi contro di loro, è una strategia a basso costo. Dare più importanza ad alcune categorie di assassini che ad altre significa fare il gioco dei finanziatori. Sotto quale etichetta mettereste il tarato che in Norvegia ha massacrato un centinaio di persone in nome della purezza etnica? E lo studente che un bel mattino uccide freddamente i suoi compagni di scuola?
Incoraggiata o no da fazioni religiose o ideologiche, la stupidità ha la stessa origine: la noia, la frustrazione, l’abbrutimento, la disperazione, la sensazione di essere finito in una trappola dalla quale può soltanto liberare un gran salto verso il nulla.
Questa è la trappola che bisogna eludere, eliminando l’economia mercantile. Sul suo passaggio, essa non lascia alcuna possibilità alla vita.
Bisognerà pure che sull’altro versante della disperazione si levi una gran risata, un ridere universale che non lasci alcuna speranza al commercio che fa di un uomo una cosa.
Il ridere della gioia di vivere ritrovata.

Raoul Vaneigem, 19 gennaio 2015


 


Di seguito l’originale in francese:

L’obscurantisme a toujours été le mode d’éclairage du pouvoir
Il y a des choses avec lesquelles on ne rit pas. Pas assez !                      Scutenaire
La bêtise est une bombe à fragmentation. Elle ne frappe pas seulement l’intelligence, sa cible de prédilection, elle se propage en trouant les consciences qui se mettent à pisser de partout. Celles — essentiellement gestionnaires — du monde étatique et politique ont célébré leur incontinence par des actions de grâce, qui leur étaient doublement profitables. Les notables ont pu, en toute immunité, remercier le ciel — fût-il celui d’Allah — de les avoir débarrassés d’une poignée d’irrévérencieux. Dans le même temps, ils se sont offert, avec une pompe nationale française, clérical-laïque et républicaine, le luxe de sanctifier en martyrs de la libre pensée des héritiers de Daumier et de Steinlen usant du droit, reconnu à chacun, de conchier en leur totalité les drapeaux, les religions, les margoulins politiques et bureaucratiques, les palotins au pouvoir (dont ceux qui jouèrent des coudes dans la manifestation ubuesque). Ils faisaient montre au demeurant de beaucoup de modération, si l’on compare Charlie à l’Assiette au beurre, au Père Peinard, à la Feuille de Zo d’Axa.
Sans doute n’a-t-on pas assez ri de cette messe œcuménique, célébrant les vertus d’une civilisation exemplaire, qui n’en finit pas de détruire les valeurs humaines au profit de la valeur marchande (il ne manquait au défilé de mannequins que Lehman Brothers, qui eût fait plaisir à Bernard Maris).
Passé l’onde de choc, si bien récupérée par les gens de pouvoir, que reste-t-il dans les décombres ?
Le même chaos psychologique et social, si profitable aux entreprises multinationales et aux mafias bancaires.
Le renforcement de la seule fonction encore assumée par l’État : la répression (de qui, de quoi ? Circulez il n’y a rien à voir !).
Le clientélisme de gauche et de droite.
L’hypocrisie humanitaire et les victimes en quête de coupables.
La stratégie du bouc émissaire (ce n’est pas le système qui m’écrase, c’est mon voisin).
L’idéologie enfin, ce tout à l’égout et à l’ego des intellectuels. L’idéologie où prolifèrent des idées qui, séparées de la vie, la vident de sa substance et n’en sont que les simulacres.
Du XIXe siècle à il n’y a pas si longtemps, on s’est battu, torturé, massacré pour des idéologies, comme au XVIe siècle, où un poil de cul biblique envoyait au bûcher.
Hier la bonne parole communiste masquait les goulags, les prêches nationalistes envoyaient des millions d’hommes au casse-pipe, l’éloquence socialiste occultait la solidarité des corrompus, partout, sous la table des valeurs évangéliques s’appliquait le « tuez-vous les uns les autres » (à quoi les Rwandais et les Yougoslaves ont au reste obtempéré sans avoir besoin de la religion).
Les idées passent, la tripaille reste. C’est ce que Lautréamont appelait la tache de sang intellectuelle.
Dans l’émotion provoquée par l’assassinat de Charlie, je n’ai pas entendu le cri de la vie. Or ce n’est pas la République, la France, la liberté de pensée qui ont été agressées, c’est notre droit de vivre comme nous voulons (je parle de vivre, non de cette survie où chacun fait où on lui dit de faire). Je ne dis pas que ce cri n’a pas retenti. Des millions d’êtres ont pressenti que ce qui était offensé, c’était leur humanité même. Je pense seulement que la conscience n’a pas encore fait son travail d’accouchement. Alors que l’obscurantisme émotionnel trouve partout des emplois.
Il faut en revenir à la base, à ce que nous vivons et voulons vivre, sans nous prendre au piège des symboles et des abstractions. Ce n’est pas si facile. Les grandes baudruches politiques ont crevé mais nous continuons à patauger dans leurs détritus.
Que reste-t-il de ces idéologies hier encore si puissantes ? Le clientélisme les a éviscérées. Les déclarations programmatiques n’ont que des résonances de pet médiatique. En revanche nous sommes environnés de ces paroles qu’évoque Rabelais : elles tournent affolées dans l’air parce que la gorge qui les a proférées, et où elles veulent retourner, a été tranchée.
On assassine la vie et les mots tournent en rond.
Qu’est-ce que la liberté de pensée sans la liberté de vivre ? Un « cause toujours » à l’usage du n’importe quoi. Le pouvoir se fout bien du peuple, il le piétine avec des mots en guise de bottines. Les bottes militaires ne sont même plus nécessaires.
Sous l’énormité du mensonge que l’économie diffuse à longueur de journée, il y a ceux qui courbent le dos, ceux que la peur du lendemain persuade d’avaler l’amertume du présent, ceux qui s’appauvrissent, s’enragent et se désespèrent sous le talon de fer du profit. Tout se joue sous le mensonge des mots.
La vie est aujourd’hui l’enjeu d’un véritable combat. Il se livre en chacun. La gueule de bois du désespoir, cet alcool frelaté, fait facilement vaciller et passer d’un comportement à son contraire. Entre résistance et passivité, on souhaiterait que la frontière fût nette. Elle ne l’est pas. Pourtant les enjeux sont clairs. La résignation et son impuissance hargneuse fabriquent avec une désolante facilité des apeurés ordinaires, des suicidaires, des tueurs, des terroristes (ainsi baptisés pour les distinguer des policiers en bavure, des milices des compagnies multinationales, des promoteurs immobiliers jetant les familles à la rue, des agioteurs multipliant le nombre de chômeurs, des ravageurs de l’environnement, des empoisonneurs de l’industrie agroalimentaire, des juristes du Marché transatlantique dont les lois l’emporteront sur celles des nations.
Vouloir vivre envers et contre tout est l’autre choix, plus passionnant, plus difficile : on est seul et il y a tout à créer. C’est cela ou sombrer dans la violence en la tournant contre soi et contre ses semblables.
Il n’est pas vrai que les mots tuent. Les mots servent seulement d’alibi aux tueurs. Quand l’énergie ne nourrit pas la joie de vivre, elle s’investit dans la haine, le ressentiment, le règlement de compte, la vengeance.
Avec sa peur du désir, de la nature, de la femme, de la vie libre, la religion est un grand réservoir de frustrations. Ce n’est pas un hasard si les désespérés y puisent les mots qui leur permettront d’assouvir leur goût de la mort, des mots dont la sacralité invente du même coup ce qui la heurte et dont elle a besoin, le blasphème.
Le blasphème n’existant que pour le croyant, il suffit de faire glisser les mots comme des coquilles vides et de les remplir : attaquer la politique du gouvernement israélien, c’est être antisémite, écrire « ni maître ni Allah », c’est être islamophobe, dénoncer les curés pédophiles c’est blesser le chrétien dans sa foi. Je ne sais plus qui disait : donnez-moi une phrase d’un auteur, et je le ferai pendre.
La violence endémique est partout, produite et stimulée par un système économique qui ruine les ressources de la planète, appauvrit la vie quotidienne, menace jusqu’à la simple survie des populations. Les multinationales ont intérêt à favoriser les conflits locaux et la guerre de tous contre tous. Quelles meilleures conditions que le chaos pour piller impunément la planète, empoisonner des régions entières avec le gaz de schiste ou l’exploitation des filons aurifères ? C’est une stratégie peu coûteuse que d’enrôler dans des affrontements absurdes des gens qui, avec un peu de réflexion, risqueraient de dénoncer les manœuvres des exploiteurs et de se liguer contre eux.
Allez donc jouer le jeu des commanditaires en accordant plus d’importance à certaines catégories d’assassins qu’à d’autres. Sous quel label rangerez-vous le taré qui en Norvège a massacré une centaine de personnes au nom de la pureté ethnique ? Et l’écolier qui un beau matin tue froidement ses compagnons de classe ?
Encouragée ou non par des factions religieuses ou idéologiques, la bêtise a la même origine : l’ennui, la frustration, l’abrutissement, le désespoir, la sensation d’être pris au piège dont seul peut libérer un grand bond vers le néant.
C’est ce piège qu’il s’agit de briser en brisant l’économie marchande. Sur son passage, elle ne laisse aucune chance à la vie.
Il faudra bien que sur l’autre versant de la désespérance un grand rire se lève, un rire universel ne laissant aucune chance au commerce qui d’un homme fait une chose.
Le rire de la joie de vivre retrouvée.
Raoul Vaneigem, 19 janvier 2015



[1] Entrambi figure centrali della cultura visiva del XIX secolo (NdT).
[2] Maris, membro degli economisti atterriti è stato una delle vittime del massacro del gennaio 2015 (NdT).