Cinque anni fa avevo già proposto
questa lettura presentandola così: Eccovi, con un piccolo décalage di tempo, la traduzione di uno scritto
inviatomi dal mio grande amico Raoul di cui condivido appieno i sentimenti di
rabbia contro tutte le “bestialità” e d’amore per la vita.
Oggi nulla è veramente
cambiato se non che la sensibilità che queste parole difendono è apparsa sempre
più prepotentemente e resiste sempre meglio alla peste emozionale diffusa dalle
gerarchie dominanti, un po’ dovunque nel mondo.
Non si può che gioire, contro
ogni recupero e oltre la tristezza che percorre il ridere e la rabbia, del
risorgere di una soggettività che rifugge da tutti gli oscurantismi, cosciente
che la lotta sarà lunga e senza certezze, se non quella di voler continuare a difendere
la vita contro tutti i suoi nemici, sempre e comunque, per il piacere di vivere
che se ne ricava, per il bene di tutti.
La situazione presente
invita a riprendere queste parole nella loro attualità.
Sergio Ghirardi
L’oscurantismo
è sempre stato il modo di far luce usato dal potere
Ci
sono cose di cui non si ride. Non abbastanza! Scutenaire
La stupidità è una bomba
a frammentazione che non colpisce soltanto l’intelligenza, suo bersaglio di
predilezione, ma si propaga sforando le coscienze che perdono dappertutto.
Quelle essenzialmente gestionali del mondo statale e politico hanno celebrato
la loro incontinenza attraverso azioni di grazia a loro doppiamente
profittevoli. I notabili hanno potuto, in tutta immunità, ringraziare il cielo
– fosse anche quello di Allah – per averli sbarazzati di un pugno
d’irriverenti. Nello stesso tempo, si sono offerti con una pompa nazionale alla
francese, clerico-laica e repubblicana, il lusso di santificare come martiri
del libero pensiero degli eredi di Daumier e di Steinlen[1] che praticavano il diritto
riconosciuto a ciascuno di farsi beffe senza eccezioni delle bandiere, delle religioni,
dei trafficanti politici e burocratici, dei vanagloriosi al potere (tra cui
quelli che hanno sgomitato nella manifestazione ubuesca seguita al massacro).
Gli irriverenti in questione, del resto, facevano mostra di molta moderazione
se si compara Charlie Hebdo a L’Assiette au beurre, al Père Peinard, a La Feuille di Zo d’Axa.
Senza dubbio non si è
riso abbastanza di questa messa ecumenica che celebrava le virtù di una civiltà
esemplare che non finisce più di distruggere i valori umani a favore del valore
mercantile (Nella sfilata dei manichini mancava solo Lehman Brothers, la cui
presenza avrebbe fatto piacere a Bernard Maris[2]).
Passata l’onda di choc,
perfettamente recuperata dalla gente di potere, che cosa resta tra le macerie?
Lo stesso caos
psicologico e sociale, così utile alle imprese multinazionali e alle mafie
bancarie.
Il rafforzamento della
sola funzione ancora esercitata dallo Stato: la repressione (di chi, di che
cosa? Circolate, non c’è niente da vedere!).
Il clientelismo di
sinistra e di destra.
L’ipocrisia umanitaria e
le vittime in cerca di colpevoli.
La strategia del capro
espiatorio (Non è il sistema che mi schiaccia, è il mio vicino).
L’ideologia, infine,
sistema fognario dell’egotismo degli intellettuali, nella quale proliferano
delle idee che, separate dalla vita, la svuotano della sua sostanza e non ne
sono che i simulacri.
Dal XIX° secolo fino a
poco tempo fa, ci si è battuti, torturati, massacrati per qualche ideologia,
come nel XVI° secolo, quando un pelo di culo biblico bastava per finire sul
rogo.
Ieri la buona parola
comunista mascherava i gulag, le prediche nazionaliste spedivano milioni di
esseri umani alla morte, l’eloquenza socialista occultava la solidarietà dei
corrotti; dovunque, sotto il tavolo dei valori evangelici, si applicava
l’“uccidetevi gli uni con gli altri” (regola alla quale i Ruandesi e gli
Iugoslavi hanno del resto ottemperato senza l’ausilio della religione).
Le idee passano, la
trippa resta. È quanto Lautréamont chiamava la macchia di sangue intellettuale.
Nell’emozione creata dall'’assassinio di Charlie,
non ho sentito il grido della vita. In realtà, non è la Repubblica, La Francia,
la libertà di pensiero che sono state aggredite, è il nostro diritto di vivere
come vogliamo (parlo di vivere, non di quella sopravvivenza in cui ciascuno la
fa dove gli si dice di farla). Non dico che questo grido non abbia risuonato.
Milioni di esseri hanno percepito che a subire offesa era la loro stessa
umanità. Penso soltanto che la coscienza non sia ancora riuscita a partorire,
mentre l’oscurantismo emozionale trova impiego dappertutto.
Si tratta di ritornare
alla base, a quel che viviamo e vogliamo vivere, senza cadere nella trappola
dei simboli e delle astrazioni. Non è così facile. I grandi palloni gonfiati
politici si sono afflosciati, ma noi continuiamo a sguazzare tra i loro avanzi.
Che cosa resta delle
ideologie, ancora ieri così influenti? Il clientelismo le ha sviscerate. Le
dichiarazioni programmatiche hanno solo la risonanza di una scoreggia
mediatica. Per contro, siamo circondati da queste parole che Rabelais evoca
così: esse ruotano inquiete nell’aria perché la gola che le ha profferite e
alla quale vogliono ritornare, è stata tranciata.
Si assassina la vita e le
parole girano in tondo.
Che cosa vale la libertà
di pensiero senza la libertà di vivere? Un “parla pure, intanto chi ti ascolta”
al servizio di qualsiasi cosa. Il potere se ne fotte chiaramente del popolo, lo
schiaccia con delle parole che sembrano stivaletti. Gli scarponi militari non
sono nemmeno più indispensabili.
Sotto il peso dell’enormità
della menzogna che l’economia diffonde da mane a sera, ci sono quelli che
piegano la schiena, quelli indotti a ingoiare l’amarezza del presente per paura
del domani, quelli che s’impoveriscono, si arrabbiano e si disperano sotto il tallone
di ferro del profitto. Tutto si svolge sotto la menzogna delle parole.
La vita è oggi la posta
di una vera lotta che si combatte in ciascuno. Gli effetti della sbornia di
quell’alcol adulterato che è la disperazione, fanno facilmente vacillare e
passare da un comportamento al suo opposto. Sarebbe auspicabile che la
frontiera tra resistenza e passività fosse netta, ma non lo è. Eppure la posta
in gioco è chiara. La rassegnazione e la sua impotenza astiosa fabbricano con
desolante facilità dei paurosi ordinari, dei suicidi, degli assassini, dei
terroristi (così chiamati per distinguerli dalle sbavature poliziesche, dalle
milizie delle multinazionali, dai promotori immobiliari che sbattono in strada
famiglie intere, dagli aggiotatori che moltiplicano il numero di disoccupati,
dai devastatori dell’ambiente, dagli avvelenatori dell’industria
agroalimentare, dai giuristi del Mercato transatlantico le cui leggi avranno il
sopravvento su quelle delle nazioni).
Voler vivere a qualunque
costo è l’altra scelta, più appassionante, più difficile: si è soli e c’è tutto
da creare. Si tratta di preferire questa opzione oppure precipitare nella
violenza rivolgendola contro di sé e i propri simili.
Non è vero che le parole
uccidono. Esse servono soltanto da alibi agli assassini. Quando l’energia non
nutre la gioia di vivere, s’investe nell’odio, nel risentimento, nel
regolamento di conti, nella vendetta.
Con la sua paura del
desiderio, della natura, della donna, della vita libera, la religione è un
grande serbatoio di frustrazioni. Non è un caso che i disperati vi peschino le
parole che permettono di soddisfare il loro gusto della morte, parole la cui
sacralità inventa contemporaneamente quel che la urta e quello di cui ha
bisogno, il blasfemo.
Poiché il blasfemo esiste
solo per il credente, basta far scivolare le parole come conchiglie vuote e
riempirle a piacere: attaccare la politica del governo israeliano, vuole dunque
dire essere antisemita, scrivere “né padrone né Allah”, essere islamofobico,
denunciare i preti pedofili, ferire il cristiano nella sua fede. Non so più chi
diceva: datemi una frase di un autore e lo farò impiccare.
La violenza endemica è
dappertutto, prodotta e stimolata da un sistema economico che rovina le risorse
del pianeta, impoverisce la vita quotidiana, minaccia persino la semplice
sopravvivenza delle popolazioni. Le multinazionali hanno interesse a favorire i
conflitti locali e la guerra di tutti contro tutti. Quali migliori condizioni
che il caos per saccheggiare impunemente il pianeta, avvelenare regioni intere
col gas di scisto o lo sfruttamento dei filoni auriferi? Arruolare in conflitti
assurdi gente che, con un po’ di riflessione, rischierebbe di denunciare le manovre
degli sfruttatori, finendo per allearsi contro di loro, è una strategia a basso
costo. Dare più importanza ad alcune categorie di assassini che ad altre
significa fare il gioco dei finanziatori. Sotto quale etichetta mettereste il tarato
che in Norvegia ha massacrato un centinaio di persone in nome della purezza
etnica? E lo studente che un bel mattino uccide freddamente i suoi compagni di
scuola?
Incoraggiata o no da
fazioni religiose o ideologiche, la stupidità ha la stessa origine: la noia, la
frustrazione, l’abbrutimento, la disperazione, la sensazione di essere finito
in una trappola dalla quale può soltanto liberare un gran salto verso il nulla.
Questa è la trappola che
bisogna eludere, eliminando l’economia mercantile. Sul suo passaggio, essa non
lascia alcuna possibilità alla vita.
Bisognerà pure che
sull’altro versante della disperazione si levi una gran risata, un ridere
universale che non lasci alcuna speranza al commercio che fa di un uomo una
cosa.
Il ridere della gioia di
vivere ritrovata.
Raoul Vaneigem, 19
gennaio 2015
Di seguito l’originale in
francese:
L’obscurantisme a toujours été le mode d’éclairage du pouvoir
Il y a des
choses avec lesquelles on ne rit pas. Pas assez ! Scutenaire
La bêtise est une bombe à fragmentation. Elle ne
frappe pas seulement l’intelligence, sa cible de prédilection, elle se propage
en trouant les consciences qui se mettent à pisser de partout. Celles —
essentiellement gestionnaires — du monde étatique et politique ont célébré leur
incontinence par des actions de grâce, qui leur étaient doublement profitables.
Les notables ont pu, en toute immunité, remercier le ciel — fût-il celui
d’Allah — de les avoir débarrassés d’une poignée d’irrévérencieux. Dans le même
temps, ils se sont offert, avec une pompe nationale française, clérical-laïque
et républicaine, le luxe de sanctifier en martyrs de la libre pensée des
héritiers de Daumier et de Steinlen usant du droit, reconnu à chacun, de
conchier en leur totalité les drapeaux, les religions, les margoulins
politiques et bureaucratiques, les palotins au pouvoir (dont ceux qui jouèrent
des coudes dans la manifestation ubuesque). Ils faisaient montre au demeurant
de beaucoup de modération, si l’on compare Charlie à l’Assiette au
beurre, au Père Peinard, à la Feuille de Zo d’Axa.
Sans doute n’a-t-on pas assez ri de cette messe
œcuménique, célébrant les vertus d’une civilisation exemplaire, qui n’en finit
pas de détruire les valeurs humaines au profit de la valeur marchande (il ne
manquait au défilé de mannequins que Lehman Brothers, qui eût fait plaisir à
Bernard Maris).
Passé l’onde de choc, si bien récupérée par les
gens de pouvoir, que reste-t-il dans les décombres ?
Le même chaos psychologique et social, si
profitable aux entreprises multinationales et aux mafias bancaires.
Le renforcement de la seule fonction encore assumée
par l’État : la répression (de qui, de quoi ? Circulez il n’y a rien
à voir !).
Le clientélisme de gauche et de droite.
L’hypocrisie humanitaire et les victimes en quête
de coupables.
La stratégie du bouc émissaire (ce n’est pas le
système qui m’écrase, c’est mon voisin).
L’idéologie enfin, ce tout à l’égout et à l’ego des
intellectuels. L’idéologie où prolifèrent des idées qui, séparées de la vie, la
vident de sa substance et n’en sont que les simulacres.
Du XIXe siècle à il n’y a pas si
longtemps, on s’est battu, torturé, massacré pour des idéologies, comme au XVIe
siècle, où un poil de cul biblique envoyait au bûcher.
Hier la bonne parole communiste masquait les
goulags, les prêches nationalistes envoyaient des millions d’hommes au
casse-pipe, l’éloquence socialiste occultait la solidarité des corrompus,
partout, sous la table des valeurs évangéliques s’appliquait le
« tuez-vous les uns les autres » (à quoi les Rwandais et les
Yougoslaves ont au reste obtempéré sans avoir besoin de la religion).
Les idées passent, la tripaille reste. C’est ce que
Lautréamont appelait la tache de sang intellectuelle.
Dans l’émotion provoquée par l’assassinat de Charlie,
je n’ai pas entendu le cri de la vie. Or ce n’est pas la République, la France,
la liberté de pensée qui ont été agressées, c’est notre droit de vivre comme
nous voulons (je parle de vivre, non de cette survie où chacun fait où on lui
dit de faire). Je ne dis pas que ce cri n’a pas retenti. Des millions d’êtres
ont pressenti que ce qui était offensé, c’était leur humanité même. Je pense
seulement que la conscience n’a pas encore fait son travail d’accouchement.
Alors que l’obscurantisme émotionnel trouve partout des emplois.
Il faut en revenir à la base, à ce que nous vivons
et voulons vivre, sans nous prendre au piège des symboles et des abstractions.
Ce n’est pas si facile. Les grandes baudruches politiques ont crevé mais nous
continuons à patauger dans leurs détritus.
Que reste-t-il de ces idéologies hier encore si
puissantes ? Le clientélisme les a éviscérées. Les déclarations
programmatiques n’ont que des résonances de pet médiatique. En revanche nous
sommes environnés de ces paroles qu’évoque Rabelais : elles tournent
affolées dans l’air parce que la gorge qui les a proférées, et où elles veulent
retourner, a été tranchée.
On assassine la vie et les mots tournent en rond.
Qu’est-ce que la liberté de pensée sans la liberté
de vivre ? Un « cause toujours » à l’usage du n’importe quoi. Le
pouvoir se fout bien du peuple, il le piétine avec des mots en guise de
bottines. Les bottes militaires ne sont même plus nécessaires.
Sous l’énormité du mensonge que l’économie diffuse
à longueur de journée, il y a ceux qui courbent le dos, ceux que la peur du
lendemain persuade d’avaler l’amertume du présent, ceux qui s’appauvrissent,
s’enragent et se désespèrent sous le talon de fer du profit. Tout se joue sous
le mensonge des mots.
La vie est aujourd’hui l’enjeu d’un véritable
combat. Il se livre en chacun. La gueule de bois du désespoir, cet alcool
frelaté, fait facilement vaciller et passer d’un comportement à son contraire.
Entre résistance et passivité, on souhaiterait que la frontière fût nette. Elle
ne l’est pas. Pourtant les enjeux sont clairs. La résignation et son
impuissance hargneuse fabriquent avec une désolante facilité des apeurés
ordinaires, des suicidaires, des tueurs, des terroristes (ainsi baptisés pour
les distinguer des policiers en bavure, des milices des compagnies
multinationales, des promoteurs immobiliers jetant les familles à la rue, des
agioteurs multipliant le nombre de chômeurs, des ravageurs de l’environnement,
des empoisonneurs de l’industrie agroalimentaire, des juristes du Marché transatlantique
dont les lois l’emporteront sur celles des nations.
Vouloir vivre envers et contre tout est l’autre
choix, plus passionnant, plus difficile : on est seul et il y a tout à
créer. C’est cela ou sombrer dans la violence en la tournant contre soi et contre
ses semblables.
Il n’est pas vrai que les mots tuent. Les mots
servent seulement d’alibi aux tueurs. Quand l’énergie ne nourrit pas la joie de
vivre, elle s’investit dans la haine, le ressentiment, le règlement de compte,
la vengeance.
Avec sa peur du désir, de la nature, de la femme,
de la vie libre, la religion est un grand réservoir de frustrations. Ce n’est
pas un hasard si les désespérés y puisent les mots qui leur permettront
d’assouvir leur goût de la mort, des mots dont la sacralité invente du même
coup ce qui la heurte et dont elle a besoin, le blasphème.
Le blasphème n’existant que pour le croyant, il
suffit de faire glisser les mots comme des coquilles vides et de les
remplir : attaquer la politique du gouvernement israélien, c’est être antisémite,
écrire « ni maître ni Allah », c’est être islamophobe, dénoncer les
curés pédophiles c’est blesser le chrétien dans sa foi. Je ne sais plus qui
disait : donnez-moi une phrase d’un auteur, et je le ferai pendre.
La violence endémique est partout, produite et
stimulée par un système économique qui ruine les ressources de la planète,
appauvrit la vie quotidienne, menace jusqu’à la simple survie des populations.
Les multinationales ont intérêt à favoriser les conflits locaux et la guerre de
tous contre tous. Quelles meilleures conditions que le chaos pour piller
impunément la planète, empoisonner des régions entières avec le gaz de schiste
ou l’exploitation des filons aurifères ? C’est une stratégie peu coûteuse
que d’enrôler dans des affrontements absurdes des gens qui, avec un peu de
réflexion, risqueraient de dénoncer les manœuvres des exploiteurs et de se
liguer contre eux.
Allez donc jouer le jeu des commanditaires en
accordant plus d’importance à certaines catégories d’assassins qu’à d’autres. Sous
quel label rangerez-vous le taré qui en Norvège a massacré une centaine de
personnes au nom de la pureté ethnique ? Et l’écolier qui un beau matin
tue froidement ses compagnons de classe ?
Encouragée ou non par des factions religieuses ou
idéologiques, la bêtise a la même origine : l’ennui, la frustration,
l’abrutissement, le désespoir, la sensation d’être pris au piège dont seul peut
libérer un grand bond vers le néant.
C’est ce piège qu’il s’agit de briser en brisant
l’économie marchande. Sur son passage, elle ne laisse aucune chance à la vie.
Il faudra bien que sur l’autre versant de la
désespérance un grand rire se lève, un rire universel ne laissant aucune chance
au commerce qui d’un homme fait une chose.
Le rire de la joie de vivre retrouvée.
Raoul Vaneigem, 19 janvier 2015
[1] Entrambi figure centrali della
cultura visiva del XIX secolo (NdT).
[2] Maris, membro degli economisti atterriti è stato una delle
vittime del massacro del gennaio 2015 (NdT).