Come spesso, mi sveglio alle cinque del mattino con un sacco
d’idee in testa. Più ho ben dormito tutto solo qualche ora, più penso e di
conseguenza scrivo. Così, una quindicina di anni fa era scaturito dalla mia
modesta profondità l’insieme di riflessioni che hanno prodotto Non abbiamo paura delle rovine, mio
omaggio sincero, indipendente e critico della poesia situazionista.
Pensare liberamente – il più liberamente possibile – è come
respirare, mangiare, far l’amore: ciò nutre il corpo vivente di una dinamica
orgastica complessa che chiamiamo vita.
La spiritualità naturale è l’insieme dei segni di una
coscienza animale che l’uomo ha spinto fino alla coscienza della sua mortalità
nella durata sempre effimera del vivente. Realizzare e accettare di essere
mortali è – volenti o nolenti – la
sorgente alla quale si abbeverano tutte le visioni poetiche, tutte le
sensibilità, tutti i fervori, tutti gli erotismi, tutte le dottrine politiche,
tutte le filosofie.
Tuttavia, le parole sono dei veicoli altrettanto ambigui che
necessari. Molte di esse sono passate sotto le forche Caudine della cattività
loro imposta dalla cultura dominante; quella che, ormai da secoli, sappiamo
essere ineluttabilmente la cultura della classe dominante.
Questo fenomeno è vecchio come il potere gerarchico; rimonta
alle radici del produttivismo, dunque del patriarcato; è all’origine dei primi
capi, re, patriarchi. Appunto, una delle prime parole prigioniere fu, forse, monarchia, nella quale si è consegnato a
un unico privilegiato – il monarca – il potere assoluto che i maschi si erano
già accaparrati col patriarcato. Da lì, da questo unico (mono) che s’impone a tutti gli altri mitizzando il suo statuto arcaico, ma che è sostenuto, in verità,
da una corte e da un esercito che ne materializzano il temibile potere, nasce
la casta degli sciamani religiosi che hanno trasformato la spiritualità naturale
in credenza religiosa: la madre – o piuttosto il padre – di tutte le ideologie.
Il recupero della spiritualità naturale per un uso ideologico
da parte delle religioni è al cuore del crescente potere dell’uomo sull’uomo,
sulla donna e sul bambino. Da esso derivano la gerontocrazia, il patriarcato e
la lotta di classe.
L’ideologia, infatti, in tutte le sue variazioni possibili,
dal politico allo psicologico, passando per l’erotico e il mistico, non è che
la multiforme versione opportunista della teoria. Essa utilizza a vantaggio
delle dominazioni diverse, la riflessione umana prodotta dalla sua intelligenza
sensibile, piegandola al buon volere interessato dei dominanti attraverso la
manipolazione dell’ignoranza e delle paure, ma soprattutto della paura naturale
della morte.
A partire da questa paura ancestrale, da questo timore di un’alienazione
naturale che viene a chiudere ineluttabilmente il viaggio di ogni vita,
l’ideologia coltiva la servitù volontaria che rode tra le paure umane come una
sindrome di Stoccolma. L’ideologia religiosa è il ricatto della paura
trasudante di un amore perverso che trasforma la stretta orgastica, amorosa,
solidale e spontanea tra diversi diseguali (ma simili e dunque uguali in
diritti e liberi desideri reciproci) in perversioni sadomaso punitive incluse
la genuflessione, la prostrazione, la colpevolezza e l’autoflagellazione.
Questa liturgia parzialmente autogestita, ma sempre diretta dall'alto di una
gerarchia autoproclamata, è la madre – o piuttosto il padre – di tutte le umiliazioni,
di tutti gli accecamenti di cui le figure sacralizzate del potere, i suoi
preti, i suoi domestici politici, i suoi missionari, i suoi generali e i suoi
esperti in comunicazione si servono da sempre per addomesticare i dominati allo
sfruttamento, alla sottomissione, alla schiavitù.
Monarchia, democrazia, anarchia, aristocrazia... tutte parole
prigioniere, ideologiche fra mille altre.
Archè e kratos sono una manifestazione arcaica esemplare dell’uso
ideologico delle parole prigioniere:
ἀρχή, arkhê, parola femminile:
principio, fondamento, origine, punto di partenza. Il termine matricentrico
evoca la benevolenza, l’orizzontalità, la reciprocità.
κράτος, krátos, parola neutra: forza, dominio, potere, padronanza,
sovranità. Il termine neutro ha una connotazione gerarchizzante, aggressiva,
bellicosa.
A partire da queste etimologie e
significati, io sono chiaramente e decisamente acratico e non mi sento
particolarmente attirato dall’anarchia, anche se so bene che i compagni
anarchici sono prima di tutto e soprattutto (ma non sempre, non tutte e non
tutti) acratici. A questo proposito ripenso alla frase di Elisée Reclus che
definiva l’anarchia la più alta forma dell’ordine. Sarebbe forse meglio
passare dalla critica del femminile archè a quella del neutro
patriarcale kratos, preferendo radicalmente l’acrazia all’anarchia.
Laddove il monarca e il patriarca
si dicono e si pretendono benevoli, l’origine della parola democrazia è al
contrario caricata di una volontà aggressiva. In Atene furono i loro nemici a
definire democratici quelli del popolo che rifiutavano il dominio
dell’oligarchia (ancora una parola prigioniera) al potere. Come sempre, in
seguito, nella cultura borghese dei tempi moderni fino allo spettacolo
mediatico odierno, il popolo (demos) che rivendica l’emancipazione è descritto
come una folla riottosa, una masnada di violenti e di selvaggi incivili in
cerca di prevaricazione. Così il colonialismo all’origine del capitalismo ha
chiamato indistintamente selvaggi tutti i popoli sottomessi, sfruttati e
genocidizzati. Così, ancora oggi, sono svalutati tutti quelli che si battono per
l’autogestione generalizzata della vita quotidiana contro una “democrazia” che
non è tale.
Siamo a un tornante unico della
storia fatta e soprattutto da fare. Non c’è più continuità possibile né
transizione pacifica ipotizzabile tra il vecchio mondo predatore e un altro
mondo acratico da costruire. Ancora una volta non sono i selvaggi, gli
incivili, i rivoltosi a innescare il motore della violenza ma i detentori del
potere e i loro eserciti, i loro mass media e i loro apparati giuridici che
violentano quanti domandano un’emancipazione per tutti: libertà, uguaglianza, sororità.
Il conflitto di classe e di genere
dura da un sacco di tempo, ma c’è una novità portata a questo quadro dalla
natura in movimento: con l’Antropocene siamo arrivati oggi a un punto di
rottura biologico, ecologico e sociale che corrisponde materialmente (e pure
magicamente, se ci si riferisce a quella magia naturale della vita che non ha
niente di miracoloso) agli ideali politici di emancipazione sostenuti durante
secoli, in forme ancora arcaiche ma già lucide, da minoranze radicali.
È la fine dei sogni utopici e il
risveglio alla necessità d’inventare un luogo reale dove realizzare lo slancio
emancipatore che solo ormai può salvarci la pelle, liberandoci allo stesso
tempo. Non è, infatti, più questione di socialismo o barbarie, ma di società
umana acratica e solidale o di sparizione prossima dell’umanità.
Certo il potere suicida del
capitalismo punterà fino all’ultimo sulla carta putrida ma redditizia dello
scetticismo ottimista opposto stupidamente a un pessimismo paranoico, oppure
sulle sue messe ambientaliste e climatiche come alibi patetici della sua
volontà di continuare a destabilizzare gli equilibri delicati della biosfera; tuttavia,
il realismo della natura marcherà la pedagogia inevitabile di un crollo
programmato che a ogni nuova catastrofe educherà un po’ di più i sopravvissuti
alla loro umanità residua.
Quanti miliardi di esseri umani
dovranno scomparire prima che la rivolta dei viventi vinca, se non è già troppo
tardi?
Niente è sicuro, se non che non ci
sono altre questioni plausibili al riguardo. Rispondervi positivamente, con una
coscienza che di classe sta trasformandosi in specifica, è la sola scelta che
ci resta per evitare quel che è già evidente e che lo diventerà sempre di più:
in linea di mira della società produttivista, nella fase terminale capitalista
del suo tumore tecno industriale, c’è solo la morte degli individui e della specie,
alla fine di una sopravvivenza sempre più invivibile.
In un tale contesto, continuare a
consumare, lavorare, subire senza fiatare, magari votando ogni tanto qualche
pagliaccio politico di ogni bordo e di ogni ideologia, rileva ormai, a seconda
dell’età, di una demenza precoce immortalata su selfie o di un delirio senile.
Siamo alla fine di una civiltà
plurimillenaria mentre si avvertono le scosse del parto di un nuovo mondo
possibile. L’aiuteremo o no, ma non dimentichiamoci che questa nascita è la nostra.
Sergio Ghirardi, 30 gennaio
2020
De quelques mots
captifs,
de l’origine du pouvoir hiérarchique
et du peu de
temps qui nous reste
Comme souvent, je me réveille à cinq heures du matin avec plein d’idées en tête.
Mieux j’ai dormi tout seul quelques heures, plus je pense et par conséquence j’écris.
Ainsi, il y a une quinzaine d’années, avait jailli de ma modeste profondeur
l’ensemble de réflexions qui ont produit Nous
n’avons pas peur des ruines, mon hommage sincère, indépendant et critique à
la poésie situationniste.
Penser librement – le plus librement possible – c’est comme respirer,
manger et faire l’amour : cela nourrit le corps vivant d’une dynamique
orgastique complexe qu’on appelle la vie.
La spiritualité naturelle est l’ensemble des signes d’une conscience
animale que l’homme a poussé jusqu’à la conscience de sa mortalité dans la
durée toujours éphémère du vivant. Réaliser et accepter d’être mortels est – qu’on le veuille ou non – la source à
laquelle s’abreuvent toutes les visions poétiques, toutes les sensibilités,
toutes les ferveurs, tous les érotismes, toutes les doctrines politiques,
toutes les philosophies.
Néanmoins, les mots sont des véhicules aussi ambigus que nécessaires. Un
bon nombre d’eux sont passés par les fourches caudines de la captivité qui est leurs
imposée par la culture dominante ; celle que, depuis des siècles, nous
savons être inéluctablement la culture de la classe dominante.
Ce phénomène est vieux comme le pouvoir hiérarchique ; il remonte aux
racines du productivisme, donc du patriarcat ; il est à l’origine des
premiers chefs, rois, patriarches. Justement, un des premiers mots captifs fut,
peut-être, monarchie où on a consigné
à un seul privilégié – le monarque – le pouvoir absolu que les mâles s’étaient
déjà accaparé par le patriarcat. De là, de cet unique (mono) qui s’impose à tous les autres en mythifiant son statut archaïque, alors qu’en fait il est soutenu
par une cour et par une armée qui en matérialisent le pouvoir redoutable, nait
la caste des chamanes religieux qui ont transformé la spiritualité naturelle en
croyance religieuse : la mère – ou plutôt le père – de toutes les idéologies.
La récupération de la spiritualité naturelle pour une utilisation
idéologique par les religions est au cœur du pouvoir croissant de l’homme sur l’homme,
sur la femme et sur l’enfant. D’elle découlent la gérontocratie, le patriarcat
et la lutte des classes.
Car l’idéologie, dans toutes ses variations possibles, du politique au
psychologique, en passant par l’érotique et le mystique, n’est que la version multiforme
et opportuniste de la théorie. Elle utilise à l’avantage des dominations
diverses la réflexion humaine produite par son intelligence sensible en la
pliant aux bons vouloirs intéressés des dominants par la manipulation de
l’ignorance et des peurs, mais surtout de la peur naturelle de la mort.
A partir de cette peur ancestrale, de cette crainte d’une aliénation
naturelle qui vient inéluctablement clore le voyage de chaque vie, l’idéologie cultive
la servitude volontaire qui rôde entre les peurs des humains comme un syndrome
de Stockholm. L’idéologie religieuse est le chantage à la peur dégoulinant d’un
amour pervers qui transforme l’étreinte orgastique, amoureuse, solidaire et spontanée,
entre divers inégaux (mais semblables et donc égaux en droit et en libres
désirs réciproques) en perversions sadomasos punitives incluant génuflexion,
prostration, culpabilité et auto flagellation. Cette liturgie partiellement autogérée,
mais toujours dirigée par le haut d’une hiérarchie autoproclamée, est la mère –
ou plutôt le père – de toutes les humiliations, de tous les aveuglements dont
les figures sacralisées du pouvoir, ses prêtres, ses galopins politiques, ses
missionnaires, ses généraux et ses experts en communication, se servent depuis
toujours pour domestiquer les dominés à l’exploitation, à la soumission, à l’esclavage.
Monarchie, démocratie, anarchie, aristocratie….que des mots captifs,
idéologiques entre milliers d’autres.
Arkhê et krátos
sont une manifestation archaïque exemplaire de l’utilisation idéologique des
mots captifs :
ἀρχή, arkhê, mot féminin : principe, fondement, origine, point de départ. Le terme matri
centrique évoque la bienveillance, l’horizontalité, la réciprocité.
κράτος, krátos, mot neutre : force, domination, pouvoir, maîtrise, souveraineté. Le terme neutre
a une connotation hiérarchisant, agressive, belliqueuse.
A partir de ces étymologies et
significations, je suis clairement et résolument acratique alors que je ne suis
pas particulièrement attiré par l’anarchie, même si je sais bien que les
camarades anarchistes sont avant tout et surtout (mais pas toujours, pas toutes
ni tous) acratiques. Je repense, à ce propos, à la phrase d’Elisée Reclus qui
définissait l’anarchie la plus haute
forme de l’ordre. Peut-être qu’on ferait mieux de passer de la critique du
féminin arkhê à celle du neutre patriarcal krátos en préférant
radicalement l’acratie à l’anarchie.
Là où le monarque et le patriarche se disent et se prétendent bienveillants,
l’origine du mot démocratie est au contraire chargé d’une volonté agressive. A
Athènes ce furent leurs ennemis à définir démocrates ceux du peuple qui
refusaient la domination de l’oligarchie (encore un mot captif) au pouvoir.
Comme toujours depuis, dans la culture bourgeoise des temps modernes jusqu’au
spectacle médiatique actuel, le peuple (demos)
qui revendique l’émancipation est décrit comme une populace, un troupeau de
violents et des sauvages non civilisés en cherche de prévarication. Ainsi le
colonialisme à l’origine du capitalisme a appelé indistinctement sauvages tous
les peuples soumis, exploités et génocidés. Ainsi, aujourd’hui encore, sont
déconsidérés tous ceux qui se battent pour l’autogestion généralisée de la vie
quotidienne contre une « démocratie » qui non n’est pas une.
Nous sommes à un tournant unique de
l’histoire faite et surtout à faire. Il n’y a plus de continuité possible ni de
transition pacifique envisageable entre le vieux monde prédateur et un autre
monde acratique à construire. Encore une fois, ce ne sont pas les sauvages, les
non civilisés, les révoltés à mettre en marche le moteur de la violence mais
les détenteurs du pouvoir et leurs armées, leurs medias et leurs apparats
judiciaires qui violentent tous ceux qui demandent une émancipation pour tous.
Liberté, égalité, sororité.
Le conflit de classe et de genre dure depuis belle lurette, mais il y a une
nouveauté portée à ce tableau par la nature en mouvement : avec l’Anthropocène, nous sommes arrivés aujourd’hui
à un point de rupture biologique, écologique et sociale qui correspond matériellement
(et magiquement aussi, si on se réfère à cette magie naturelle de la vie qui
n’a rien de miraculeux) aux idéaux politiques d’émancipation soutenus, en
formes encore archaïques mais déjà lucides, par des minorités radicales pendant
des siècles.
C’est la fin des rêves utopiques et le réveil à la nécessité d’inventer un
lieu réel où réaliser l’élan émancipateur que seul peut désormais nous sauver
la peau, tout en nous libérant. Car il n’est plus question de socialisme ou
barbarie, mais de societé humaine acratique et solidaire ou de disparition prochaine
de l’humanité.
Certes, le pouvoir suicidaire du capitalisme jouera jusqu’au bout la carte
pourrie mais rentable du scepticisme optimiste opposé bêtement à un pessimisme paranoïaque,
ou celle de ses messes environnementalistes et climatiques, alibis pathétiques
de sa volonté de continuer à déstabiliser les équilibres délicats de la
biosphère ; toutefois, le réalisme de la nature marquera de sa pédagogie incontournable
un effondrement programmé. Chaque nouvelle catastrophe éduquera un peu plus les
survivants à leur humanité résiduelle.
Combien de milliards d’humains devront passer à la trappe avant que la
révolte des vivants gagne, si ce n’est pas déjà trop tard ?
Rien n’est sûr, sinon qu’il n’y a pas d’autres questions plausibles à cet
égard. Il faut y répondre positivement par une conscience de classe en train de
devenir une conscience d’espèce. Cette mutation est le seul choix qui nous
reste pour éviter ce qui est déjà évident, et qui va de plus en plus le devenir :
l’écroulement de la société productiviste qui, dans sa phase terminale
capitaliste, malade de son cancer techno industriel, s’achèvera par la mort des
individus et de l’espèce après une survie de plus en plus invivable.
Dans un tel contexte, continuer à consommer, travailler, subir sans rien
dire, voter, peut-être, parfois, pour des clowns politiciens de tout bord et de
toute idéologie, relève désormais, selon l’age, d’une démence précoce immortalisée
par selfie ou d’un délire grabataire.
Nous sommes à la fin d’une civilisation plurimillénaire où on entend les secousses
d’accouchement d’un nouveau monde possible. On l’aidera ou pas, mais sachons
que cette naissance est la nôtre.
Sergio Ghirardi, 30 janvier 2020