venerdì 31 gennaio 2020

Di qualche parola prigioniera, dell’origine del potere gerarchico e del poco tempo che ci resta


File:Hans Rottenhammer 001.jpg


Come spesso, mi sveglio alle cinque del mattino con un sacco d’idee in testa. Più ho ben dormito tutto solo qualche ora, più penso e di conseguenza scrivo. Così, una quindicina di anni fa era scaturito dalla mia modesta profondità l’insieme di riflessioni che hanno prodotto Non abbiamo paura delle rovine, mio omaggio sincero, indipendente e critico della poesia situazionista.
Pensare liberamente – il più liberamente possibile – è come respirare, mangiare, far l’amore: ciò nutre il corpo vivente di una dinamica orgastica complessa che chiamiamo vita.
La spiritualità naturale è l’insieme dei segni di una coscienza animale che l’uomo ha spinto fino alla coscienza della sua mortalità nella durata sempre effimera del vivente. Realizzare e accettare di essere mortali è – volenti o nolenti – la sorgente alla quale si abbeverano tutte le visioni poetiche, tutte le sensibilità, tutti i fervori, tutti gli erotismi, tutte le dottrine politiche, tutte le filosofie.
Tuttavia, le parole sono dei veicoli altrettanto ambigui che necessari. Molte di esse sono passate sotto le forche Caudine della cattività loro imposta dalla cultura dominante; quella che, ormai da secoli, sappiamo essere ineluttabilmente la cultura della classe dominante.
Questo fenomeno è vecchio come il potere gerarchico; rimonta alle radici del produttivismo, dunque del patriarcato; è all’origine dei primi capi, re, patriarchi. Appunto, una delle prime parole prigioniere fu, forse, monarchia, nella quale si è consegnato a un unico privilegiato – il monarca – il potere assoluto che i maschi si erano già accaparrati col patriarcato. Da lì, da questo unico (mono) che s’impone a tutti gli altri mitizzando il suo statuto arcaico, ma che è sostenuto, in verità, da una corte e da un esercito che ne materializzano il temibile potere, nasce la casta degli sciamani religiosi che hanno trasformato la spiritualità naturale in credenza religiosa: la madre – o piuttosto il padre – di tutte le ideologie.
Il recupero della spiritualità naturale per un uso ideologico da parte delle religioni è al cuore del crescente potere dell’uomo sull’uomo, sulla donna e sul bambino. Da esso derivano la gerontocrazia, il patriarcato e la lotta di classe.
L’ideologia, infatti, in tutte le sue variazioni possibili, dal politico allo psicologico, passando per l’erotico e il mistico, non è che la multiforme versione opportunista della teoria. Essa utilizza a vantaggio delle dominazioni diverse, la riflessione umana prodotta dalla sua intelligenza sensibile, piegandola al buon volere interessato dei dominanti attraverso la manipolazione dell’ignoranza e delle paure, ma soprattutto della paura naturale della morte.
A partire da questa paura ancestrale, da questo timore di un’alienazione naturale che viene a chiudere ineluttabilmente il viaggio di ogni vita, l’ideologia coltiva la servitù volontaria che rode tra le paure umane come una sindrome di Stoccolma. L’ideologia religiosa è il ricatto della paura trasudante di un amore perverso che trasforma la stretta orgastica, amorosa, solidale e spontanea tra diversi diseguali (ma simili e dunque uguali in diritti e liberi desideri reciproci) in perversioni sadomaso punitive incluse la genuflessione, la prostrazione, la colpevolezza e l’autoflagellazione. Questa liturgia parzialmente autogestita, ma sempre diretta dall'alto di una gerarchia autoproclamata, è la madre – o piuttosto il padre – di tutte le umiliazioni, di tutti gli accecamenti di cui le figure sacralizzate del potere, i suoi preti, i suoi domestici politici, i suoi missionari, i suoi generali e i suoi esperti in comunicazione si servono da sempre per addomesticare i dominati allo sfruttamento, alla sottomissione, alla schiavitù.
Monarchia, democrazia, anarchia, aristocrazia... tutte parole prigioniere, ideologiche fra mille altre.
Archè e kratos sono una manifestazione arcaica esemplare dell’uso ideologico delle parole prigioniere:
ἀρχή, arkhê, parola femminile: principio, fondamento, origine, punto di partenza. Il termine matricentrico evoca la benevolenza, l’orizzontalità, la reciprocità.
κράτος, krátos, parola neutra: forza, dominio, potere, padronanza, sovranità. Il termine neutro ha una connotazione gerarchizzante, aggressiva, bellicosa.
A partire da queste etimologie e significati, io sono chiaramente e decisamente acratico e non mi sento particolarmente attirato dall’anarchia, anche se so bene che i compagni anarchici sono prima di tutto e soprattutto (ma non sempre, non tutte e non tutti) acratici. A questo proposito ripenso alla frase di Elisée Reclus che definiva l’anarchia la più alta forma dell’ordine. Sarebbe forse meglio passare dalla critica del femminile archè a quella del neutro patriarcale kratos, preferendo radicalmente l’acrazia all’anarchia.
Laddove il monarca e il patriarca si dicono e si pretendono benevoli, l’origine della parola democrazia è al contrario caricata di una volontà aggressiva. In Atene furono i loro nemici a definire democratici quelli del popolo che rifiutavano il dominio dell’oligarchia (ancora una parola prigioniera) al potere. Come sempre, in seguito, nella cultura borghese dei tempi moderni fino allo spettacolo mediatico odierno, il popolo (demos) che rivendica l’emancipazione è descritto come una folla riottosa, una masnada di violenti e di selvaggi incivili in cerca di prevaricazione. Così il colonialismo all’origine del capitalismo ha chiamato indistintamente selvaggi tutti i popoli sottomessi, sfruttati e genocidizzati. Così, ancora oggi, sono svalutati tutti quelli che si battono per l’autogestione generalizzata della vita quotidiana contro una “democrazia” che non è tale.
Siamo a un tornante unico della storia fatta e soprattutto da fare. Non c’è più continuità possibile né transizione pacifica ipotizzabile tra il vecchio mondo predatore e un altro mondo acratico da costruire. Ancora una volta non sono i selvaggi, gli incivili, i rivoltosi a innescare il motore della violenza ma i detentori del potere e i loro eserciti, i loro mass media e i loro apparati giuridici che violentano quanti domandano un’emancipazione per tutti: libertà, uguaglianza, sororità.
Il conflitto di classe e di genere dura da un sacco di tempo, ma c’è una novità portata a questo quadro dalla natura in movimento: con l’Antropocene siamo arrivati oggi a un punto di rottura biologico, ecologico e sociale che corrisponde materialmente (e pure magicamente, se ci si riferisce a quella magia naturale della vita che non ha niente di miracoloso) agli ideali politici di emancipazione sostenuti durante secoli, in forme ancora arcaiche ma già lucide, da minoranze radicali.
È la fine dei sogni utopici e il risveglio alla necessità d’inventare un luogo reale dove realizzare lo slancio emancipatore che solo ormai può salvarci la pelle, liberandoci allo stesso tempo. Non è, infatti, più questione di socialismo o barbarie, ma di società umana acratica e solidale o di sparizione prossima dell’umanità.
Certo il potere suicida del capitalismo punterà fino all’ultimo sulla carta putrida ma redditizia dello scetticismo ottimista opposto stupidamente a un pessimismo paranoico, oppure sulle sue messe ambientaliste e climatiche come alibi patetici della sua volontà di continuare a destabilizzare gli equilibri delicati della biosfera; tuttavia, il realismo della natura marcherà la pedagogia inevitabile di un crollo programmato che a ogni nuova catastrofe educherà un po’ di più i sopravvissuti alla loro umanità residua.
Quanti miliardi di esseri umani dovranno scomparire prima che la rivolta dei viventi vinca, se non è già troppo tardi?
Niente è sicuro, se non che non ci sono altre questioni plausibili al riguardo. Rispondervi positivamente, con una coscienza che di classe sta trasformandosi in specifica, è la sola scelta che ci resta per evitare quel che è già evidente e che lo diventerà sempre di più: in linea di mira della società produttivista, nella fase terminale capitalista del suo tumore tecno industriale, c’è solo la morte degli individui e della specie, alla fine di una sopravvivenza sempre più invivibile.
In un tale contesto, continuare a consumare, lavorare, subire senza fiatare, magari votando ogni tanto qualche pagliaccio politico di ogni bordo e di ogni ideologia, rileva ormai, a seconda dell’età, di una demenza precoce immortalata su selfie o di un delirio senile.
Siamo alla fine di una civiltà plurimillenaria mentre si avvertono le scosse del parto di un nuovo mondo possibile. L’aiuteremo o no, ma non dimentichiamoci che questa nascita è la nostra.


Sergio Ghirardi, 30 gennaio 2020


Risultato immagini per amore e psiche"


De quelques mots captifs,
 de l’origine du pouvoir hiérarchique
et du peu de temps qui nous reste



Comme souvent, je me réveille à cinq heures du matin avec plein d’idées en tête. Mieux j’ai dormi tout seul quelques heures, plus je pense et par conséquence j’écris. Ainsi, il y a une quinzaine d’années, avait jailli de ma modeste profondeur l’ensemble de réflexions qui ont produit Nous n’avons pas peur des ruines, mon hommage sincère, indépendant et critique à la poésie situationniste.
Penser librement – le plus librement possible – c’est comme respirer, manger et faire l’amour : cela nourrit le corps vivant d’une dynamique orgastique complexe qu’on appelle la vie.
La spiritualité naturelle est l’ensemble des signes d’une conscience animale que l’homme a poussé jusqu’à la conscience de sa mortalité dans la durée toujours éphémère du vivant. Réaliser et accepter d’être mortels est – qu’on le veuille ou non – la source à laquelle s’abreuvent toutes les visions poétiques, toutes les sensibilités, toutes les ferveurs, tous les érotismes, toutes les doctrines politiques, toutes les philosophies.
Néanmoins, les mots sont des véhicules aussi ambigus que nécessaires. Un bon nombre d’eux sont passés par les fourches caudines de la captivité qui est leurs imposée par la culture dominante ; celle que, depuis des siècles, nous savons être inéluctablement la culture de la classe dominante.
Ce phénomène est vieux comme le pouvoir hiérarchique ; il remonte aux racines du productivisme, donc du patriarcat ; il est à l’origine des premiers chefs, rois, patriarches. Justement, un des premiers mots captifs fut, peut-être, monarchie où on a consigné à un seul privilégié – le monarque – le pouvoir absolu que les mâles s’étaient déjà accaparé par le patriarcat. De là, de cet unique (mono) qui s’impose à tous les autres en mythifiant son statut archaïque, alors qu’en fait il est soutenu par une cour et par une armée qui en matérialisent le pouvoir redoutable, nait la caste des chamanes religieux qui ont transformé la spiritualité naturelle en croyance religieuse : la mère – ou plutôt le père – de toutes les idéologies.
La récupération de la spiritualité naturelle pour une utilisation idéologique par les religions est au cœur du pouvoir croissant de l’homme sur l’homme, sur la femme et sur l’enfant. D’elle découlent la gérontocratie, le patriarcat et la lutte des classes.
Car l’idéologie, dans toutes ses variations possibles, du politique au psychologique, en passant par l’érotique et le mystique, n’est que la version multiforme et opportuniste de la théorie. Elle utilise à l’avantage des dominations diverses la réflexion humaine produite par son intelligence sensible en la pliant aux bons vouloirs intéressés des dominants par la manipulation de l’ignorance et des peurs, mais surtout de la peur naturelle de la mort.
A partir de cette peur ancestrale, de cette crainte d’une aliénation naturelle qui vient inéluctablement clore le voyage de chaque vie, l’idéologie cultive la servitude volontaire qui rôde entre les peurs des humains comme un syndrome de Stockholm. L’idéologie religieuse est le chantage à la peur dégoulinant d’un amour pervers qui transforme l’étreinte orgastique, amoureuse, solidaire et spontanée, entre divers inégaux (mais semblables et donc égaux en droit et en libres désirs réciproques) en perversions sadomasos punitives incluant génuflexion, prostration, culpabilité et auto flagellation. Cette liturgie partiellement autogérée, mais toujours dirigée par le haut d’une hiérarchie autoproclamée, est la mère – ou plutôt le père – de toutes les humiliations, de tous les aveuglements dont les figures sacralisées du pouvoir, ses prêtres, ses galopins politiques, ses missionnaires, ses généraux et ses experts en communication, se servent depuis toujours pour domestiquer les dominés à l’exploitation, à la soumission, à l’esclavage.
Monarchie, démocratie, anarchie, aristocratie….que des mots captifs, idéologiques entre milliers d’autres.
Arkhê et krátos sont une manifestation archaïque exemplaire de l’utilisation idéologique des mots captifs :
ἀρχή, arkhê, mot féminin : principe, fondement, origine, point de départ. Le terme matri centrique évoque la bienveillance, l’horizontalité, la réciprocité.
κράτος, krátos, mot neutre : force, domination, pouvoir, maîtrise, souveraineté. Le terme neutre a une connotation hiérarchisant, agressive, belliqueuse.

A partir de ces étymologies et significations, je suis clairement et résolument acratique alors que je ne suis pas particulièrement attiré par l’anarchie, même si je sais bien que les camarades anarchistes sont avant tout et surtout (mais pas toujours, pas toutes ni tous) acratiques. Je repense, à ce propos, à la phrase d’Elisée Reclus qui définissait l’anarchie la plus haute forme de l’ordre. Peut-être qu’on ferait mieux de passer de la critique du féminin arkhê à celle du neutre patriarcal krátos en préférant radicalement l’acratie à l’anarchie.
Là où le monarque et le patriarche se disent et se prétendent bienveillants, l’origine du mot démocratie est au contraire chargé d’une volonté agressive. A Athènes ce furent leurs ennemis à définir démocrates ceux du peuple qui refusaient la domination de l’oligarchie (encore un mot captif) au pouvoir. Comme toujours depuis, dans la culture bourgeoise des temps modernes jusqu’au spectacle médiatique actuel, le peuple (demos) qui revendique l’émancipation est décrit comme une populace, un troupeau de violents et des sauvages non civilisés en cherche de prévarication. Ainsi le colonialisme à l’origine du capitalisme a appelé indistinctement sauvages tous les peuples soumis, exploités et génocidés. Ainsi, aujourd’hui encore, sont déconsidérés tous ceux qui se battent pour l’autogestion généralisée de la vie quotidienne contre une « démocratie » qui non n’est pas une.
Nous sommes à un  tournant unique de l’histoire faite et surtout à faire. Il n’y a plus de continuité possible ni de transition pacifique envisageable entre le vieux monde prédateur et un autre monde acratique à construire. Encore une fois, ce ne sont pas les sauvages, les non civilisés, les révoltés à mettre en marche le moteur de la violence mais les détenteurs du pouvoir et leurs armées, leurs medias et leurs apparats judiciaires qui violentent tous ceux qui demandent une émancipation pour tous. Liberté, égalité, sororité.
Le conflit de classe et de genre dure depuis belle lurette, mais il y a une nouveauté portée à ce tableau par la nature en mouvement : avec l’Anthropocène, nous sommes arrivés aujourd’hui à un point de rupture biologique, écologique et sociale qui correspond matériellement (et magiquement aussi, si on se réfère à cette magie naturelle de la vie qui n’a rien de miraculeux) aux idéaux politiques d’émancipation soutenus, en formes encore archaïques mais déjà lucides, par des minorités radicales pendant des siècles.
C’est la fin des rêves utopiques et le réveil à la nécessité d’inventer un lieu réel où réaliser l’élan émancipateur que seul peut désormais nous sauver la peau, tout en nous libérant. Car il n’est plus question de socialisme ou barbarie, mais de societé humaine acratique et solidaire ou de disparition prochaine de l’humanité.
Certes, le pouvoir suicidaire du capitalisme jouera jusqu’au bout la carte pourrie mais rentable du scepticisme optimiste opposé bêtement à un pessimisme paranoïaque, ou celle de ses messes environnementalistes et climatiques, alibis pathétiques de sa volonté de continuer à déstabiliser les équilibres délicats de la biosphère ; toutefois, le réalisme de la nature marquera de sa pédagogie incontournable un effondrement programmé. Chaque nouvelle catastrophe éduquera un peu plus les survivants à leur humanité résiduelle.
Combien de milliards d’humains devront passer à la trappe avant que la révolte des vivants gagne, si ce n’est pas déjà trop tard ?
Rien n’est sûr, sinon qu’il n’y a pas d’autres questions plausibles à cet égard. Il faut y répondre positivement par une conscience de classe en train de devenir une conscience d’espèce. Cette mutation est le seul choix qui nous reste pour éviter ce qui est déjà évident, et qui va de plus en plus le devenir : l’écroulement de la société productiviste qui, dans sa phase terminale capitaliste, malade de son cancer techno industriel, s’achèvera par la mort des individus et de l’espèce après une survie de plus en plus invivable.
Dans un tel contexte, continuer à consommer, travailler, subir sans rien dire, voter, peut-être, parfois, pour des clowns politiciens de tout bord et de toute idéologie, relève désormais, selon l’age, d’une démence précoce immortalisée par selfie ou d’un délire grabataire.
Nous sommes à la fin d’une civilisation plurimillénaire où on entend les secousses d’accouchement d’un nouveau monde possible. On l’aidera ou pas, mais sachons que cette naissance est la nôtre.

Sergio Ghirardi, 30 janvier 2020