martedì 31 marzo 2020

Non ho febbre e ho dato solo due colpi di tosse, tutto normale




Il disegno di Milo Manara in omaggio ai medici che combattono il ...
Milo Manara 


Finalmente, a causa del coronavirus non si può più aspettare la morte come dei consumatori miserabili, arricchendo ogni giorno l’infima minoranza sempre più ricca e spogliando ogni minuto i poveri sempre più poveri. O meglio, non si potrà più come prima, perché l’esercito di servitori volontari che lavorano per mantenere sedati gli schiavi moderni, sempre più umiliati e malati, si sforzerà di inventarne delle belle pur di continuare a tener prigionieri gli animali domestici sopravvissuti nel circo della società dello spettacolo. Non sarà così facile, ma ci proveranno e ci stanno già provando, per esempio facendo applaudire per il loro spirito di sacrificio le prime vittime del virus – il personale medico – dalle seconde vittime, le più numerose, chiuse in casa, impotenti, sotto la spada di Damocle di un’angosciante roulette russa.
Tutto ciò è gentilmente lugubre e i primi a viverlo male sono molti dottori, dottoresse e personale curante che si dedica con passione umanitaria, rischio della vita e amore all’aiuto reciproco e alla solidarietà, valori che il produttivismo sfrutta e deride sistematicamente.
“Dobbiamo sostenere la crescita economica, arricchirci, essere dei vincenti”, ci hanno ripetuto come un mantra i domestici politici e mediatici dello spettacolo. Idioti! Per avere qualche vincente ci vogliono molti perdenti, per qualche furbo opportunista, molti coglioni sfruttati e sottomessi. È questo che volevate e lo abbiamo. Perché questo è il produttivismo: un’ideologia economico politica plurimillenaria che ha progressivamente trasformato (eccolo, per l’essenziale, il vostro progresso tanto sacralizzato) la capacità umana di produrre ciò che è utile e necessario per rendere possibile la felicità di vivere, in una macchina di guerra che permette di dominare, di violentare, di avere sempre di più spogliando gli altri.
L’essere al mondo e goderne al meglio possibile si è ridotto a un avere che si accumula, inquinando tutto e tutti, persino loro, i dominanti pur vergognosamente privilegiati. Non è, però, bastato, e con il materializzarsi del potere capitalista, l’avere si è ridotto ancora di più diventando apparire (nella passione amorosa, nel mangiare, nella comunicazione, nel lavorare, nelle cure di salute, nel tempo libero, nei viaggi, nella cultura, nella vita insomma) tramite un movimento convulso e monomaniaco che ha ridotto tutto alla redditività, rendendo artificiale ogni gesto, ogni emozione. Questo è stato lo sviluppo progressivo, da millenni, del Leviatano produttivista con la sua schiavitù strutturale, il suo patriarcato, le sue stragi di Stato e di mercato, il suo moderno modo di produzione capitalista ormai in fase terminale, nichilista come ogni patologia cancerogena.
Siamo, infatti, alla fine di una civiltà, anzi di tutta la civiltà preistorica che pone l’umanità sopravvissuta alla porta della storia. Una storia non ancora mai realizzata ma sempre sognata da molti di noi, gli umani decisi a restare esseri. Per questa specie nella specie e per la sua coscienza, è un’occasione unica di passare questa porta che abbiamo più volte intravvisto ma che non abbiamo mai ancora attraversato. E sottolineo unica perché se non la sapremo cogliere, le condizioni di sopravvivenza sul pianeta sono destinate a degradarsi con la stessa rapidità improvvisa che ha imposto a molti miliardi di umani la dittatura del coronavirus.
Da un lato, ormai da anni, le catastrofi annunciate con sempre maggiore enfasi per meglio continuare a non fare nulla che alteri il meccanismo letale del produttivismo capitalista, se non delle messe di regime officiate dal clero sociologico e mediatico; dall'altro la voglia di vivere che urge ma non trova abbastanza spesso forme politiche che sfuggano alle via crucis ripetitive in cui dei burocrati sindacali e dei politicanti di destra o sinistra si mescolano alla rabbia autentica di una popolazione ridotta ai margini della sopravvivenza, ma in cerca di vita. Accerchiata da troppi parassiti, la rabbia del popolo si manifesta lucidamente ma difficilmente, orfana di una coscienza di classe non ancora completamente rivitalizzata in coscienza di specie. Essa dimostra tuttavia una resistenza gagliarda, mentre i più sottomessi non hanno nemmeno bisogno del virus per chiudersi in casa per paura dei rivoltosi senza rivoluzione che scendono in strada per distruggere un po’ di più quel che è già in demolizione, imbambolati da un militarismo becero e accecati da una rabbia impotente.
La vita pulsa ma non si sa più dove metterla. Già prima del virus, gli individui erano ridotti, nella loro vita quotidiana, al godimento di plastica del consumismo e accumulavano nei corpi, negli oceani e sulle vette del mondo la spazzatura che resta a imperituro simbolo della nostra unica miserabile ricchezza: ricchezza di cose che circolano impazzite in un feticismo patologico che fa da specchio alla povertà dell’essere ridotto a merce in individui la cui sola COSA che conta è la forza lavoro. Lavoro di produzione di cose e lavoro di consumo di cose entrambi eseguiti da soggetti ridotti a cose: il famoso capitale umano così brillantemente e cinicamente definito, ai suoi tempi, da Stalin e praticato industrialmente da sempre dalla società liberale e dalla sua sempre più grottesca e invasiva pubblicità della merce.
Provate a guardare oggi uno degli spot che continuano a imperversare tra un proclama tragico e l’altro dei domestici dei mass media sul coronavirus. Emerge prepotente un effetto psichedelico di fronte all’artificialità della seduzione mercantile che vuol vendere un’assicurazione sulla vita o una crema da barba a chi l’ascolta a metà, chiedendosi se non ha i primi sintomi di un’insufficienza respiratoria. Il giocattolo, già malridotto s’è rotto. La normalità che è sempre servita da alibi all’insopportabilità, mostra la sua anormalità strutturale e intollerabile perché la morte che rode rende immediatamente ridicola e macabra la minima idiozia ottimista del linguaggio pubblicitario.
Il virus ha un effetto di lente d’ingrandimento di quello che è sempre stato vero: la pubblicità della merce è il Frankenstein visibile della felicità che ti vende delle cose per farti dimenticare che hai venduto il tuo essere sul mercato del lavoro salariato, forma moderna dell’intramontabile schiavitù su cui si fonda il produttivismo. In ritardo, come sempre, qualche esperto finirà forse per far confinare anche gli spot perché annunciano ormai soltanto che questo mondo è finito per sempre.
Ma a noi non basterà, non può più bastare. A quanti sopravvivranno, non resta ormai che prendere in mano le proprie vite per restituirle alla loro autenticità. Un rapido sguardo indietro ci farà fare un balzo in avanti. Troveremo mescolati gli Spartaco dell’antichità, i Fratelli e le sorelle del libero spirito, i falansteriani di Fourier, i comunardi, i marinai di Cronstadt, i libertari spagnoli e tutti quelli che avevano già fatto, in tempi impossibili, l’eterna scelta della libertà.
Di fronte a noi nel fracasso del crollo di tutte le istituzioni, di tutti i valori della società produttivista, il progetto antico e eminentemente moderno di una comunità planetaria di infinitamente diversi resi uguali dall'’aiuto reciproco, dalla solidarietà e dall'’amore sensuale e amichevole che la scimmia cosiddetta sapiens ha condiviso da sempre contro l’istinto predatore che tetanizza la sua potenziale umanità inquinandola di peste emozionale.
Non si tratterà di una nuova morale, ma di un’etica del godimento reciproco, di una socialità orgastica dove donne e uomini potranno coltivare le loro differenze meravigliose eliminando le conflittualità derisorie che il produttivismo ha moltiplicato all’infinito e messo al centro della socialità. Si tratterà di azzerare tutte le istituzioni passate per quanto necessario e dare tutto il potere all’autogestione generalizzata della vita quotidiana, solidali nella diversità e nell’autonomia, con il Chiapas, con il Rojava, con il Cile, con i gilets jaunes francesi, con tutti quelli che hanno capito e deciso che basta così. Ya basta!
Una sola idea da sviluppare insieme per cominciare: unire i gruppi di affinità locali (i più piccoli sono i confinati in una stessa casa) federandoli attraverso il dialogo e le assemblee nei quartieri, nei villaggi, nelle città, nelle regioni, nelle nazioni finalmente liberate della peste statale e mercantile, per dare vita, tutti insieme e tutti diversi, a quella Comune d’Europa che sarà il superamento radicale dell’europeismo mondialista e dell’antieuropeismo di stampo fascista. Poiché la nostra sola patria è il mondo intero, quel mondo di cui il virus ci ha improvvisamente privati.
Non sta a me, piccolo uomo sopravvissuto al ventesimo secolo, descrivere come si farà. Sarà la scommessa di tutti o di nessuno, l’opposto del confinamento, senza lo Stato che ci spia. Mi limito a dire che si può e si deve fare per non morire, certo, ma soprattutto per vivere. Perché la vita è bella, ma non dura molto, solo qualche momento, tra un bacio sensuale, un abbraccio affettuoso, un sorriso, un po’ di musica e una buona cena con chi si ama.
Sergio Ghirardi 30 marzo 2020


Fanciulle greche raccolgono ciottoli sulla riva del mare | Il ...


Je n’ai pas de fièvre et je n’ai toussé que deux fois, tout est normal

Finalement, à cause du coronavirus, on ne peut plus attendre la mort en consommateurs misérables, en enrichissant chaque jour l’infime minorité toujours plus riche et dépouillant à chaque minute les pauvres toujours plus pauvres. Ou plutôt, on ne pourra plus comme avant, car l’armée de serviteurs volontaires qui travaillent pour tenir sous sédation les esclaves modernes, toujours plus humiliés et malades, s’efforcera d’inventer des nouvelles sornettes pour continuer la captivité des animaux domestiques de la société du spectacle. Ce ne sera pas si facile, mais ils essaieront et ils essaient déjà. Par exemple, en faisant applaudir pour leur esprit de sacrifice les premières victimes du virus – les soignants – par les deuxièmes victimes, les plus nombreuses, enfermés à la maison, impuissantes, sous l’épée de Damoclès d’une angoissante roulette russe.
Tout cela est gentiment lugubre et les premiers à le vivre mal sont un bon nombre de docteurs et soignants, femmes et hommes qui se dédient avec passion humanitaire et amour, au risque de leur vie, à l’entraide et à la solidarité, valeurs que le productivisme exploite et dont il se moque systématiquement.
« On doit soutenir la croissance économique, s’enrichir, être des gagnants » nous ont répété comme un mantra les domestiques politiques et médiatiques du spectacle. Idiots ! Pour avoir quelques gagnants, il faut beaucoup de perdants, pour quelques fourbes opportunistes, beaucoup de cons exploités et soumis. C’est cela que vous vouliez, nous l’avons. Parce que le productivisme c’est ça : une idéologie économico-politique plurimillénaire qui a progressivement transformé (le voilà, pour l’essentiel, votre progrès tant sacralisé) la capacité humaine à produire ce qui est utile et nécessaire pour rendre possible le bonheur de vivre, en une machine de guerre qui permet de dominer, violer et avoir toujours plus en dépouillant les autres.
Etre au monde et en jouir le mieux possible, s’est réduit à un avoir qui s’accumule, polluant tout et tous, même eux, les dominants pourtant honteusement privilégiés. Toutefois, cela n’a pas suffi, et avec la matérialisation du pouvoir capitaliste, l’avoir s’est encore réduit en devenant le paraître (dans la passion amoureuse, en mangeant, dans la communication, le travail, les soins de santé, le temps libre, les voyages, la culture, la vie en somme) par un mouvement convulsif et monomaniaque qui a tout réduit à la rentabilité en rendant artificiel chaque geste, chaque émotion. Voilà le développement progressif, depuis des millénaires, du Léviathan productiviste avec son esclavagisme structurel, son patriarcat, ses massacres d’Etat et de marché, son moderne mode de production capitaliste, désormais en phase terminale, nihiliste comme toute pathologie cancérigène.
Car nous sommes à la fin d’une civilisation, je dirais même de toute la civilisation préhistorique qui met l’humanité survécue à la porte de l’histoire. Une histoire jamais réalisée, mais toujours rêvée par beaucoup de nous, les humains décidés à rester des êtres. Pour cette espèce dans l’espèce et pour sa conscience, c’est une occasion unique de dépasser cette porte qu’on a souvent entrevue mais qu’on n’a encore jamais franchie. Et je souligne unique car si on ne saura pas la saisir, les conditions de survie sur la planète sont destinées à se dégrader avec la même rapidité soudaine qui a imposé à milliards d’êtres humains la dictature du coronavirus.
D’un côté, depuis des années, les catastrophes annoncées avec une accentuation croissante pour mieux continuer à ne rien faire qui altère le mécanisme létal du productivisme capitaliste, sinon des messes de régime officiées par le clergé sociologique et médiatique ; de l’autre l’envie de vivre qui urge, mais qui ne trouve pas assez des formes politiques qui échappent aux via crucis répétitives où des bureaucrates syndicaux et des politiciens de droite ou de gauche se mêlent à la rage authentique d’une population réduite aux marges de la survie, mais en quête de vie. Entourée de beaucoup trop de parasites, la rage du peuple se manifeste avec lucidité mais difficilement, orpheline d’une conscience de classe pas encore complètement revitalisée en conscience d’espèce. Elle marque, néanmoins, une gaillarde résistance, alors que les plus soumis n’ont même pas besoin du virus pour s’enfermer à la maison par peur des révoltés sans révolution qui descendent dans la rue pour détruire un peu plus ce qui est déjà en démolition, hébétés par un militarisme minable et aveuglés par une rage impuissante.
La vie pulse mais on ne sait plus où la mettre. Déjà avant le virus, les individus étaient réduits, dans leur vie quotidienne, à la jouissance en plastique du consumérisme et il accumulaient dans les corps, dans les océans et sur les montagnes les plus hautes, la poubelle qui est l’impérissable symbole de notre unique misérable richesse : une richesse de choses qui circulent en folie dans un fétichisme pathologique qui fonctionne de miroir pour la pauvreté de l’être, réduit à marchandise dans des individus dont la seule CHOSE qui compte est leur force de travail. Travail de production de choses et travail de consommation de choses exécutés par des sujets réduits à des choses : le fameux capital humain si brillamment et cyniquement défini, à son temps, par Staline et pratiqué de façon industrielle, depuis toujours, par la société libérale et sa publicité de la marchandise, de plus en plus invasive et grotesque.
Essayez, donc de regarder aujourd’hui un des spots qui continuent de sévir, entre une proclamation tragique et l’autre à propos du coronavirus de la part des domestiques des médias. Jaillit, puissant, un effet psychédélique face à l’artificialité de la séduction marchande qui veut vendre une assurance sur la vie ou une crème de rasage à qui l’écoute à moitié, en se demandant s’il n’a pas les premiers symptômes d’une insuffisance respiratoire. Le jouet, déjà mal en point, s’est rompu. La normalité qui a toujours servi d’alibi à l’insupportable, montre son anormalité structurelle et intolérable car la mort qui rode rend immédiatement ridicule et macabre la moindre idiotie optimiste du langage publicitaire.
Le virus a un effet de loupe sur ce qui a toujours été vrai : la publicité de la marchandise est le Frankenstein visible du bonheur qui te vend des choses pour te faire oublier que tu as vendu ton être sur le marché du travail salarié, forme moderne de l’indémodable esclavagisme sur lequel se base le productivisme. En retard, comme toujours, un quelque expert finira, peut-être, par confiner aussi les spots publicitaires, car ils annoncent uniquement, désormais, que ce monde est fini pour toujours.
Cela, toutefois, ne nous suffira pas, ça ne peut pas suffire. A ceux qui survivront ne reste, désormais, que prendre en main ses propres vies pour les restituer à leur authenticité. Un regard rapide en arrière nous fera faire un bond en avant. On trouvera mélangés les Spartacus d’antan, les Frères et les sœurs du libre esprit, les Phalanstériens de Fourier, les communards, les marins de Kronstadt, les libertaires espagnols avec tous ceux qui avaient déjà fait, à des époques impossibles, l’eternel choix de la liberté.
Face à nous, dans le fracas de l’écroulement de toutes les institutions, de toutes les valeurs de la société productiviste, le projet ancien et éminemment moderne d’une communauté planétaire d’infiniment differents, rendus égaux par l’aide réciproque, la solidarité et l’amour sensuel et amical que le singe soi-disant sapiens a partagé depuis toujours contre l’instinct prédateur qui tétanise sa potentialité humaine en la polluant de peste émotionnelle.
Ce ne sera pas une nouvelle morale, mais une étique de la jouissance réciproque, d’une socialité orgastique où les femmes et les hommes pourront entretenir leurs merveilleuses différences, en éliminant les conflictualités dérisoires que le productivisme a multiplié à l’infini et mis au centre de la socialité. Il sera question d’abroger toutes les institutions passées autant que nécessaire, et donner tout le pouvoir à l’autogestion généralisée de la vie quotidienne, solidaires dans la diversité et l’autonomie, avec le Chiapas, le Rojava, le Chili, les Gilets jaunes français et tous ceux qui ont compris et décidé que ça suffit. Ya Basta !
Une seule idée à développer tout de suite, pour commencer : unir les groupes d’affinité locaux (à partir des plus petits, les confinés dans une même maison) el les fédérant par le dialogue et les assemblées dans les quartiers, les villages les villes, les régions, les nations finalement libérées de la peste étatique et marchande, pour donner vie, tous ensemble et tous differents, à cette commune d’Europe qui sera le dépassement radical de l’européisme mondialiste et de l’anti européisme fascisant. Notre seule patrie étant le monde entier, ce monde dont le virus nous a soudainement privés.
Ce n’est pas à moi, petit homme rescapé du vingtième siècle, de décrire comment on fera. C’e sera le pari de tous ou de personne, l’opposé du confinement, sans l’Etat qui nous guette. Je me limite à dire qu’on peut et on doit le faire pour ne pas mourir, bien sûr, mais surtout pour vivre. Parce que la vie est belle mais elle ne dure pas longtemps, quelques moments à peine, entre une bise sensuelle, une étreinte affectueuse, un sourire, un peu de musique et un bon repas avec ceux qu’on aime.

Sergio Ghirardi  30 mars 2020