Milo Manara |
Finalmente, a causa del coronavirus non si può più aspettare la morte
come dei consumatori miserabili, arricchendo ogni giorno l’infima minoranza
sempre più ricca e spogliando ogni minuto i poveri sempre più poveri. O meglio,
non si potrà più come prima, perché l’esercito di servitori volontari che
lavorano per mantenere sedati gli schiavi moderni, sempre più umiliati e malati,
si sforzerà di inventarne delle belle pur di continuare a tener prigionieri gli
animali domestici sopravvissuti nel circo della società dello spettacolo. Non
sarà così facile, ma ci proveranno e ci stanno già provando, per esempio facendo
applaudire per il loro spirito di sacrificio le prime vittime del virus – il
personale medico – dalle seconde vittime, le più numerose, chiuse in casa,
impotenti, sotto la spada di Damocle di un’angosciante roulette russa.
Tutto ciò è gentilmente
lugubre e i primi a viverlo male sono molti dottori, dottoresse e personale
curante che si dedica con passione umanitaria, rischio della vita e amore
all’aiuto reciproco e alla solidarietà, valori che il produttivismo sfrutta e
deride sistematicamente.
“Dobbiamo sostenere
la crescita economica, arricchirci, essere dei vincenti”, ci hanno ripetuto
come un mantra i domestici politici e mediatici dello spettacolo. Idioti! Per
avere qualche vincente ci vogliono molti perdenti, per qualche furbo
opportunista, molti coglioni sfruttati e sottomessi. È questo che volevate e lo
abbiamo. Perché questo è il produttivismo: un’ideologia economico politica
plurimillenaria che ha progressivamente trasformato (eccolo, per l’essenziale,
il vostro progresso tanto sacralizzato) la capacità umana di produrre ciò che è
utile e necessario per rendere possibile la felicità di vivere, in una macchina
di guerra che permette di dominare, di violentare, di avere sempre di più
spogliando gli altri.
L’essere al
mondo e goderne al meglio possibile si è ridotto a un avere che si accumula,
inquinando tutto e tutti, persino loro, i dominanti pur vergognosamente
privilegiati. Non è, però, bastato, e con il materializzarsi del potere
capitalista, l’avere si è ridotto ancora di più diventando apparire (nella
passione amorosa, nel mangiare, nella comunicazione, nel lavorare, nelle cure
di salute, nel tempo libero, nei viaggi, nella cultura, nella vita insomma) tramite
un movimento convulso e monomaniaco che ha ridotto tutto alla redditività,
rendendo artificiale ogni gesto, ogni emozione. Questo è stato lo sviluppo progressivo,
da millenni, del Leviatano produttivista con la sua schiavitù strutturale, il
suo patriarcato, le sue stragi di Stato e di mercato, il suo moderno modo di
produzione capitalista ormai in fase terminale, nichilista come ogni patologia
cancerogena.
Siamo,
infatti, alla fine di una civiltà, anzi di tutta la civiltà preistorica che
pone l’umanità sopravvissuta alla porta della storia. Una storia non ancora mai
realizzata ma sempre sognata da molti di noi, gli umani decisi a restare
esseri. Per questa specie nella specie e per la sua coscienza, è un’occasione
unica di passare questa porta che abbiamo più volte intravvisto ma che non
abbiamo mai ancora attraversato. E sottolineo unica perché se non la sapremo
cogliere, le condizioni di sopravvivenza sul pianeta sono destinate a
degradarsi con la stessa rapidità improvvisa che ha imposto a molti miliardi di
umani la dittatura del coronavirus.
Da un lato,
ormai da anni, le catastrofi annunciate con sempre maggiore enfasi per meglio continuare
a non fare nulla che alteri il meccanismo letale del produttivismo capitalista,
se non delle messe di regime officiate dal clero sociologico e mediatico;
dall'altro la voglia di vivere che urge ma non trova abbastanza spesso forme
politiche che sfuggano alle via crucis
ripetitive in cui dei burocrati sindacali e dei politicanti di destra o
sinistra si mescolano alla rabbia autentica di una popolazione ridotta ai
margini della sopravvivenza, ma in cerca di vita. Accerchiata da troppi
parassiti, la rabbia del popolo si manifesta lucidamente ma difficilmente,
orfana di una coscienza di classe non ancora completamente rivitalizzata in
coscienza di specie. Essa dimostra tuttavia una resistenza gagliarda, mentre i più
sottomessi non hanno nemmeno bisogno del virus per chiudersi in casa per paura
dei rivoltosi senza rivoluzione che scendono in strada per distruggere un po’
di più quel che è già in demolizione, imbambolati da un militarismo becero e accecati
da una rabbia impotente.
La vita pulsa
ma non si sa più dove metterla. Già prima del virus, gli individui erano
ridotti, nella loro vita quotidiana, al godimento di plastica del consumismo e
accumulavano nei corpi, negli oceani e sulle vette del mondo la spazzatura che
resta a imperituro simbolo della nostra unica miserabile ricchezza: ricchezza
di cose che circolano impazzite in un feticismo patologico che fa da specchio
alla povertà dell’essere ridotto a merce in individui la cui sola COSA che
conta è la forza lavoro. Lavoro di produzione di cose e lavoro di consumo di
cose entrambi eseguiti da soggetti ridotti a cose: il famoso capitale umano
così brillantemente e cinicamente definito, ai suoi tempi, da Stalin e
praticato industrialmente da sempre dalla società liberale e dalla sua sempre
più grottesca e invasiva pubblicità della merce.
Provate a
guardare oggi uno degli spot che continuano a imperversare tra un proclama
tragico e l’altro dei domestici dei mass media sul coronavirus. Emerge
prepotente un effetto psichedelico di fronte all’artificialità della seduzione
mercantile che vuol vendere un’assicurazione sulla vita o una crema da barba a
chi l’ascolta a metà, chiedendosi se non ha i primi sintomi di un’insufficienza
respiratoria. Il giocattolo, già malridotto s’è rotto. La normalità che è sempre
servita da alibi all’insopportabilità, mostra la sua anormalità strutturale e
intollerabile perché la morte che rode rende immediatamente ridicola e macabra
la minima idiozia ottimista del linguaggio pubblicitario.
Il virus ha
un effetto di lente d’ingrandimento di quello che è sempre stato vero: la
pubblicità della merce è il Frankenstein visibile della felicità che ti vende
delle cose per farti dimenticare che hai venduto il tuo essere sul mercato del
lavoro salariato, forma moderna dell’intramontabile schiavitù su cui si fonda
il produttivismo. In ritardo, come sempre, qualche esperto finirà forse per far
confinare anche gli spot perché annunciano ormai soltanto che questo mondo è finito
per sempre.
Ma a noi non
basterà, non può più bastare. A quanti sopravvivranno, non resta ormai che prendere
in mano le proprie vite per restituirle alla loro autenticità. Un rapido
sguardo indietro ci farà fare un balzo in avanti. Troveremo mescolati gli
Spartaco dell’antichità, i Fratelli e le sorelle del libero spirito, i
falansteriani di Fourier, i comunardi, i marinai di Cronstadt, i libertari
spagnoli e tutti quelli che avevano già fatto, in tempi impossibili, l’eterna
scelta della libertà.
Di fronte a
noi nel fracasso del crollo di tutte le istituzioni, di tutti i valori della
società produttivista, il progetto antico e eminentemente moderno di una comunità
planetaria di infinitamente diversi resi uguali dall'’aiuto reciproco, dalla
solidarietà e dall'’amore sensuale e amichevole che la scimmia cosiddetta sapiens
ha condiviso da sempre contro l’istinto predatore che tetanizza la sua
potenziale umanità inquinandola di peste emozionale.
Non si
tratterà di una nuova morale, ma di un’etica del godimento reciproco, di una
socialità orgastica dove donne e uomini potranno coltivare le loro differenze
meravigliose eliminando le conflittualità derisorie che il produttivismo ha moltiplicato
all’infinito e messo al centro della socialità. Si tratterà di azzerare tutte
le istituzioni passate per quanto necessario e dare tutto il potere
all’autogestione generalizzata della vita quotidiana, solidali nella diversità
e nell’autonomia, con il Chiapas, con il Rojava, con il Cile, con i gilets
jaunes francesi, con tutti quelli che hanno capito e deciso che basta così. Ya
basta!
Una sola idea
da sviluppare insieme per cominciare: unire i gruppi di affinità locali (i più
piccoli sono i confinati in una stessa casa) federandoli attraverso il dialogo
e le assemblee nei quartieri, nei villaggi, nelle città, nelle regioni, nelle
nazioni finalmente liberate della peste statale e mercantile, per dare vita, tutti
insieme e tutti diversi, a quella Comune d’Europa che sarà il superamento
radicale dell’europeismo mondialista e dell’antieuropeismo di stampo fascista.
Poiché la nostra sola patria è il mondo intero, quel mondo di cui il virus ci
ha improvvisamente privati.
Non sta a me,
piccolo uomo sopravvissuto al ventesimo secolo, descrivere come si farà. Sarà
la scommessa di tutti o di nessuno, l’opposto del confinamento, senza lo Stato
che ci spia. Mi limito a dire che si può e si deve fare per non morire, certo,
ma soprattutto per vivere. Perché la vita è bella, ma non dura molto, solo
qualche momento, tra un bacio sensuale, un abbraccio affettuoso, un sorriso, un
po’ di musica e una buona cena con chi si ama.
Sergio
Ghirardi 30 marzo 2020
Je n’ai pas de fièvre et je n’ai toussé que deux fois, tout est normal
Finalement, à cause du coronavirus,
on ne peut plus attendre la mort en consommateurs misérables, en enrichissant
chaque jour l’infime minorité toujours plus riche et dépouillant à chaque
minute les pauvres toujours plus pauvres. Ou plutôt, on ne pourra plus comme
avant, car l’armée de serviteurs volontaires qui travaillent pour tenir sous
sédation les esclaves modernes, toujours plus humiliés et malades, s’efforcera
d’inventer des nouvelles sornettes pour continuer la captivité des animaux
domestiques de la société du spectacle. Ce ne sera pas si facile, mais ils
essaieront et ils essaient déjà. Par exemple, en faisant applaudir pour leur
esprit de sacrifice les premières victimes du virus – les soignants – par les
deuxièmes victimes, les plus nombreuses, enfermés à la maison, impuissantes,
sous l’épée de Damoclès d’une angoissante roulette russe.
Tout cela est gentiment lugubre et les premiers à le vivre mal sont un bon
nombre de docteurs et soignants, femmes et hommes qui se dédient avec passion
humanitaire et amour, au risque de leur vie, à l’entraide et à la solidarité,
valeurs que le productivisme exploite et dont il se moque systématiquement.
« On doit soutenir la croissance économique, s’enrichir, être des
gagnants » nous ont répété comme un mantra les domestiques politiques et
médiatiques du spectacle. Idiots ! Pour avoir quelques gagnants, il faut
beaucoup de perdants, pour quelques fourbes opportunistes, beaucoup de cons
exploités et soumis. C’est cela que vous vouliez, nous l’avons. Parce que le
productivisme c’est ça : une idéologie économico-politique plurimillénaire
qui a progressivement transformé (le voilà, pour l’essentiel, votre progrès
tant sacralisé) la capacité humaine à produire ce qui est utile et nécessaire
pour rendre possible le bonheur de vivre, en une machine de guerre qui permet
de dominer, violer et avoir toujours plus en dépouillant les autres.
Etre au monde et en jouir le mieux possible, s’est réduit à un avoir qui
s’accumule, polluant tout et tous, même eux, les dominants pourtant honteusement
privilégiés. Toutefois, cela n’a pas suffi, et avec la matérialisation du
pouvoir capitaliste, l’avoir s’est encore réduit en devenant le paraître (dans
la passion amoureuse, en mangeant, dans la communication, le travail, les soins
de santé, le temps libre, les voyages, la culture, la vie en somme) par un
mouvement convulsif et monomaniaque qui a tout réduit à la rentabilité en
rendant artificiel chaque geste, chaque émotion. Voilà le développement
progressif, depuis des millénaires, du Léviathan productiviste avec son
esclavagisme structurel, son patriarcat, ses massacres d’Etat et de marché, son
moderne mode de production capitaliste, désormais en phase terminale, nihiliste
comme toute pathologie cancérigène.
Car nous sommes à la fin d’une civilisation, je dirais même de toute la
civilisation préhistorique qui met l’humanité survécue à la porte de
l’histoire. Une histoire jamais réalisée, mais toujours rêvée par beaucoup de
nous, les humains décidés à rester des êtres. Pour cette espèce dans l’espèce
et pour sa conscience, c’est une occasion unique de dépasser cette porte qu’on
a souvent entrevue mais qu’on n’a encore jamais franchie. Et je souligne unique
car si on ne saura pas la saisir, les conditions de survie sur la planète sont
destinées à se dégrader avec la même rapidité soudaine qui a imposé à milliards
d’êtres humains la dictature du coronavirus.
D’un côté, depuis des années, les catastrophes annoncées avec une
accentuation croissante pour mieux continuer à ne rien faire qui altère le
mécanisme létal du productivisme capitaliste, sinon des messes de régime
officiées par le clergé sociologique et médiatique ; de l’autre l’envie de
vivre qui urge, mais qui ne trouve pas assez des formes politiques qui
échappent aux via crucis répétitives
où des bureaucrates syndicaux et des politiciens de droite ou de gauche se
mêlent à la rage authentique d’une population réduite aux marges de la survie,
mais en quête de vie. Entourée de beaucoup trop de parasites, la rage du peuple
se manifeste avec lucidité mais difficilement, orpheline d’une conscience de
classe pas encore complètement revitalisée en conscience d’espèce. Elle marque,
néanmoins, une gaillarde résistance, alors que les plus soumis n’ont même pas
besoin du virus pour s’enfermer à la maison par peur des révoltés sans
révolution qui descendent dans la rue pour détruire un peu plus ce qui est déjà
en démolition, hébétés par un militarisme minable et aveuglés par une rage
impuissante.
La vie pulse mais on ne sait plus où la mettre. Déjà avant le virus, les individus
étaient réduits, dans leur vie quotidienne, à la jouissance en plastique du
consumérisme et il accumulaient dans les corps, dans les océans et sur les montagnes
les plus hautes, la poubelle qui est l’impérissable symbole de notre unique misérable
richesse : une richesse de choses qui circulent en folie dans un
fétichisme pathologique qui fonctionne de miroir pour la pauvreté de l’être,
réduit à marchandise dans des individus dont la seule CHOSE qui compte est leur
force de travail. Travail de production de choses et travail de consommation de
choses exécutés par des sujets réduits à des choses : le fameux capital
humain si brillamment et cyniquement défini, à son temps, par Staline et
pratiqué de façon industrielle, depuis toujours, par la société libérale et sa
publicité de la marchandise, de plus en plus invasive et grotesque.
Essayez, donc de regarder aujourd’hui un des spots qui continuent de sévir,
entre une proclamation tragique et l’autre à propos du coronavirus de la part
des domestiques des médias. Jaillit, puissant, un effet psychédélique face à
l’artificialité de la séduction marchande qui veut vendre une assurance sur la
vie ou une crème de rasage à qui l’écoute à moitié, en se demandant s’il n’a
pas les premiers symptômes d’une insuffisance respiratoire. Le jouet, déjà mal
en point, s’est rompu. La normalité qui a toujours servi d’alibi à
l’insupportable, montre son anormalité structurelle et intolérable car la mort
qui rode rend immédiatement ridicule et macabre la moindre idiotie optimiste du
langage publicitaire.
Le virus a un effet de loupe sur ce qui a toujours été vrai : la
publicité de la marchandise est le Frankenstein visible du bonheur qui te vend
des choses pour te faire oublier que tu as vendu ton être sur le marché du
travail salarié, forme moderne de l’indémodable esclavagisme sur lequel se base
le productivisme. En retard, comme toujours, un quelque expert finira,
peut-être, par confiner aussi les spots publicitaires, car ils annoncent
uniquement, désormais, que ce monde est fini pour toujours.
Cela, toutefois, ne nous suffira pas, ça ne peut pas suffire. A ceux qui
survivront ne reste, désormais, que prendre en main ses propres vies pour les
restituer à leur authenticité. Un regard rapide en arrière nous fera faire un
bond en avant. On trouvera mélangés les Spartacus d’antan, les Frères et les
sœurs du libre esprit, les Phalanstériens de Fourier, les communards, les
marins de Kronstadt, les libertaires espagnols avec tous ceux qui avaient déjà
fait, à des époques impossibles, l’eternel choix de la liberté.
Face à nous, dans le fracas de
l’écroulement de toutes les institutions, de toutes les valeurs de la société
productiviste, le projet ancien et éminemment moderne d’une communauté
planétaire d’infiniment differents, rendus égaux par l’aide réciproque, la
solidarité et l’amour sensuel et amical que le singe soi-disant sapiens a
partagé depuis toujours contre l’instinct prédateur qui tétanise sa
potentialité humaine en la polluant de peste émotionnelle.
Ce ne sera pas une nouvelle morale, mais
une étique de la jouissance réciproque, d’une socialité orgastique où les femmes
et les hommes pourront entretenir leurs merveilleuses différences, en éliminant
les conflictualités dérisoires que le productivisme a multiplié à l’infini et
mis au centre de la socialité. Il sera question d’abroger toutes les
institutions passées autant que nécessaire, et donner tout le pouvoir à
l’autogestion généralisée de la vie quotidienne, solidaires dans la diversité
et l’autonomie, avec le Chiapas, le Rojava, le Chili, les Gilets jaunes
français et tous ceux qui ont compris et décidé que ça suffit. Ya Basta !
Une seule idée à développer tout de suite,
pour commencer : unir les groupes d’affinité locaux (à partir des plus
petits, les confinés dans une même maison) el les fédérant par le dialogue et
les assemblées dans les quartiers, les villages les villes, les régions, les
nations finalement libérées de la peste étatique et marchande, pour donner vie,
tous ensemble et tous differents, à cette commune d’Europe qui sera le
dépassement radical de l’européisme mondialiste et de l’anti européisme
fascisant. Notre seule patrie étant le monde entier, ce monde dont le virus
nous a soudainement privés.
Ce n’est pas à moi, petit homme rescapé du vingtième siècle, de décrire comment
on fera. C’e sera le pari de tous ou de personne, l’opposé du confinement, sans
l’Etat qui nous guette. Je me limite à dire qu’on peut et on doit le faire pour
ne pas mourir, bien sûr, mais surtout pour vivre. Parce que la vie est belle
mais elle ne dure pas longtemps, quelques moments à peine, entre une bise
sensuelle, une étreinte affectueuse, un sourire, un peu de musique et un bon
repas avec ceux qu’on aime.
Sergio Ghirardi
30 mars 2020