La comune non è morta!
Il confinamento ci lascia del tempo, ma io rifiuto ogni
intellettualismo, lacrimevole o arrabbiato, sarcastico o paternalista.
Il radicalismo non è che l’ideologia della radicalità.
Orbene, se “io odio tutti gli dei”come
scriveva un Marx ancora molto giovane, con l’età, io detesto anche sempre di
più tutte le ideologie, tutti gli -ismi e i loro preti, adepti e devoti.
In questo momento, il numero di malati gravi del coronavirus
(una minoranza ma importante) è superiore alle capacità di cura. Ciò è
tragicamente vero in Italia e in Spagna (sulla Cina evidentemente non si è
saputo nulla) e rischia di diventarlo in Francia e altrove. Per questo la
pratica spiacevole e insufficiente del confinamento è per me, per l’istante,
una scelta personale condivisa (e laboriosamente autogestita in questa società
totalitaria) con quelli che amo e mi amano, ma anche, idealmente, con tutti
quanti funzionano seguendo il principio dell’aiuto reciproco. Ciò è
prioritario: il sostegno reciproco e immediato, non l’esecuzione del diktat che
lo accompagna e lo impone. Qui e ora non posso fare di meglio né altrimenti,
purtroppo.
Evidentemente l’incubo in corso e la sua gestione delirante
sono in gran parte la responsabilità del sistema produttivista, del suo
capitalismo in fase terminale e del suo industrialismo cancerogeno diretto
dall'economia politica e dal suo cinismo cieco, ma è pur tuttavia prioritario
evitare che molti altri malati (un solo pugno sarebbe già stato inaccettabile
in relazione con le capacità potenziali della medicina attuale) muoiano
soffrendo come cani, senza aiuto respiratorio e in una solitudine tragica.
Amare la vita e voler dunque la fine di questa società malata
e nichilista può eccezionalmente obbligare a ingoiare antibiotici (ammesso che
servano ancora a qualcosa, ora che ne ingoiamo quotidianamente mangiando –
soprattutto i più poveri) anche se ciò è triste, disgraziato e carico di
evidenti effetti collaterali “contro la vita”. Ecco un tipo di contraddizione
da assumere per opporsi concretamente, non solo alla fascistizzazione
progressiva in corso dello spettacolo sociale, ma alla sua stessa esistenza.
Ecco il senso della mia scelta “prioritaria” che rivendico come un elemento
della coscienza di specie nascente, destinata a integrare la coscienza di
classe superandola, ora che il proletariato di un tempo è stato divorato dal
consumismo e gli intellettuali dallo spettacolo della critica.
Ebbene, diffidando più che mai delle elucubrazioni della
letteratura politica prodotta dall'’intellettualismo in stile prositu, sempre
all’avanguardia dello spettacolo dominante ma in ritardo di un’ideologia
nell’opporsi concretamente al potere economico-mediatico-militare statale, ho
utilizzato il termine di priorità per denunciare l’indecenza ideologica di una
rabbia impotente, cieca e cattedratica.
Se un poliziotto mi
sbarra l’accesso a un precipizio, non mi ci butto dentro apposta. Il che non
m’impedisce di lottare contro la repressione poliziesca.
Intendiamoci: prioritario non significa più importante, ma
“che viene per primo”. Oggi, di fronte al feticismo della merce trionfante
sulla carenza di maschere protettive, di gel disinfettante, di apparecchi per
la respirazione e, in conseguenza di cimiteri per seppellire i morti,
contabilizzati tra i profitti e le perdite del business ospedaliero, è finito
il tempo di tutte le ideologie della società produttivista: le antiche,
religiose (monoteiste o no), e le moderne, laiche (capitalismo liberale o di
Stato, neoliberale o pseudo comunista), reazionarie e conservatrici (fascismi,
nazionalismi, integralismi) o rivoluzionarie e utopiste (marxismi,anarchismi e
situazionismi).
La natura ci sta insegnando come riuscire uno sciopero
generale nella vita quotidiana, al riparo dalle burocrazie sindacali. A noi
essere dei buoni allievi facendo di ogni intuizione individuale un dono per
l’intelligenza collettiva. In questo punto zero della storia, il rifiuto di
confrontarsi con la realtà che abbiamo denunciato da mezzo secolo come
spettacolo è l’Aleph di tutte le alienazioni. La catastrofe in corso nel
laboratorio dell’attuale società planetaria per il condizionamento delle
intelligenze, ci sta liberando dell’ipnosi. Bisogna approfittarne in nome della
vita, perché una rivoluzione sociale si prepara, urgente e necessaria, per
quando il confinamento cesserà. È appunto riconoscendo lucidamente le priorità
del reale, pronti a ripartire, senza concessioni allo spettacolo né alla sua
critica spettacolare, che renderemo finalmente possibile la fine dell’incubo
sociale e la destituzione vivificante dei suoi responsabili di ogni bordo.
Più niente sarà come prima: la normalità produttivista morirà
del virus e sarà la sola morte che non piangeremo. Viva la Comune!
Documento 1)
Sono arrabbiato
Claude Baniam (pseudonimo), psicologo
all’Ospedale di Mulhouse — 24 marzo 2020 à 18h
Uno psicologo dell’ospedale di Mulhouse urla la sua rivolta
contro quanti hanno demolito il sistema sanitario in nome dei risparmi di
bilancio. Una volta debellata la pandemia, dovranno rendere conto.
Tribuna.
Sono in collera e arrabbiato, quando sfilano sui media,
mostrano il loro muso in televisione, fanno intendere la loro voce
perfettamente sotto controllo alla radio, pubblicano i loro discorsi nei
giornali. Sempre per parlarci di una situazione di cui sono un fattore aggravante,
sempre per perorare sulla cittadinanza, sul rischio di recessione, sulle
responsabilità degli abitanti, degli avversari politici, degli stranieri... mai
per presentarci le loro scuse, implorare il nostro perdono, poiché sono in
parte responsabili di quello che viviamo.
Sono in collera e arrabbiato, perché in quanto psicologo
nell’ospedale più colpito, quello di Mulhouse, vedo tutto il giorno decine di
persone arrivare in urgenza nei nostri locali e so che una buona parte di loro
non uscirà viva, sorridente, spensierata come poteva accadere ancora due
settimane fa.
Sono in collera e arrabbiato, perché so che queste persone,
questi esseri viventi, questi fratelli e sorelle, padri e madri, figli e
figlie, nonni e nonne moriranno soli, in un servizio sorpassato dagli
avvenimenti, nonostante il coraggioso sforzo del personale curante, soli, senza
lo sguardo o la mano di quanti li amano e che amano.
Sono in collera e arrabbiato, davanti questa folle situazione
che vuole che lasciamo i maggiori, i nostri vecchi, quelli che hanno permesso
che il nostro presente non sia un inferno, quelli che detengono un sapere e una
saggezza che nessun altro ha; che li lasciamo dunque, morire a grappoli nelle
pensioni per anziani che di pensioni non hanno che il nome, non potendo, ci
dicono, salvare tutti.
Il lutto impossibile delle famiglie.
Sono in collera e arrabbiato, pensando a tutte queste
famiglie che vivranno con il terribile dolore di un lutto impossibile, di un
addio impossibile, di una giustizia impossibile. Queste famiglie che non
possono accedere ai loro parenti, queste famiglie che chiamano continuamente i
servizi per avere notizie e alle quali nessuno del personale può rispondere
perché troppo occupato a tentare un intervento dell’ultima ora. Queste famiglie
che sono o potrebbero essere le nostre...
Sono in collera e arrabbiato, quando vedo i miei colleghi del
personale medico battersi tutti i giorni, tutti i minuti per tentare di portare
aiuto a tutte le persone che si ritrovano in difficoltà respiratoria, perdevi
un’energia folle, ma tornarvi tutti i giorni, tutti i minuti.
Sono in collera e arrabbiato, davanti le condizioni di lavoro
dei miei colleghi di entrambi i generi barellieri, agenti di servizio
ospedaliero (ASH), segretari, aiutanti di cura, infermieri, medici, psicologi,
assistenti sociali, fisioterapisti, ergoterapisti, dirigenti, specialisti in
psicomotricità, educatori, personale informatico e addetti alla sicurezza...
perché manchiamo di tutto, eppure bisogna rimboccarsi le maniche.
Sono in collera e arrabbiato, perché quando mi reco al lavoro
e quando ne riparto incrocio in qualche minuto tre o quattro veicoli del pronto
soccorso che trasportano una persona piena di speranze di essere salvata...
Come non avere fiducia nei nostri ospedali? Sono tra i migliori, perfettamente
in grado di funzionare, di proteggere, di guarire... eppure, quante di queste
ambulanze portano il loro passeggero verso l’ultima dimora? Quanti dei propri
cari usciranno dalla porta sani e salvi?
Sono in collera e arrabbiato, perché sono anni che gridiamo
la nostra inquietudine, la nostra incomprensione, il nostro disgusto, la nostra
insoddisfazione di fronte alle politiche della salute portate avanti dai
diversi governi che hanno pensato che l’ospedale fosse un’impresa come
un’altra, che la salute poteva essere un bene speculativo, che l’economia
doveva prevalere sulle cure, che le nostre vite avevano un valore mercantile.
Sono in collera e arrabbiato, quando costato che i nostri
servizi d’urgenza domandano dell’aiuto da un sacco di tempo, quando penso che lo
sguardo (spesso l’ultimo verso l’esterno) delle persone che arrivano con la
guardia medica si posa sugli striscioni che dicono “PRONTO SOCCORSO IN
SCIOPERO” per poi trovarsi di fronte a medici in pensione a causa della
partenza del personale dei pronto soccorso, questi specialisti delle urgenze
che sarebbero indispensabili in questi giorni tristi...
Sullo sfruttamento degli studenti infermieri.
Sono in collera e arrabbiato, di fronte alle maniere in cui
si sfruttano gli studenti infermieri e aiutanti di cura che si ritrovano a fare
lavori di una durezza che non augurerei al mio peggior nemico. Ragazze e
ragazzi di appena venti anni devono mettere i corpi dei morti in sacchi
mortuari, senza preparazione, senza sostegno, senza avere potuto dichiararsi
volontari. Perché chiedere? Ciò fa parte della loro formazione, insomma! E
dovrebbero stimarsi fortunati di ricevere una gratificazione di qualche
centinaia di euro, visto che intervengono come apprendisti.
Sono in collera e arrabbiato, perché la situazione attuale è
il frutto di quelle politiche, di quelle “chiusure di letti” come amano dire,
dimenticando che su quei letti c’erano degli esseri umani che ne avevano
bisogno, di quei cazzo di letti! È frutto delle soppressioni di posti perché un
infermiere costa caro, pesa sul bilancio preventivo; di quelle
esternalizzazioni di tutti i mestieri della salute perché un ASH in meno nelle
cifre del numero di funzionari è sempre un funzionario in meno di cui vantarsi.
Sono in collera e arrabbiato, perché quelle e quelli che sono
al lavoro tutti i giorni, malgrado la paura al ventre, paura di essere
contagiati, paura di trasmettere il virus ai parenti, paura di rifilarlo agli
altri pazienti, paura di vedere un collega sul letto della camera 10; tutti
loro si sono fatti sputare addosso per anni nei discorsi politici, si sono
ritrovati privati della loro dignità quando si è domandato loro di eseguire in
due e in pochi minuti tutte le cure di un servizio scossi nella loro etica e
deontologia professionale dalle domande contraddittorie e folli
dell’amministrazione. Oggi sono queste persone che in auto, in bicicletta o a
piedi vanno al lavoro tutti i giorni nonostante il rischio continuo di essere
contagiati dal virus, mentre quelli che li hanno malmenati sono tranquillamente
installati a casa loro o nei loro appartamenti di funzione.
Sono in collera e arrabbiato, perché oggi il mio ospedale è
confrontato a una crisi senza precedenti, mentre quelli che l’hanno svuotato
delle sue forze sono lontano. Perché il mio ospedale è stato preso per un cazzo
di trampolino da direttori altrettanto effimeri che incompetenti che non
miravano alla direzione di un CHU e che sono passati da Mulhouse giusto per
provare che sapevano esercitare una politica d’austerità stupida e cattiva...
Perché il mio ospedale è stato il bersaglio d’ingiunzioni insensate in nome di
un’oscura certificazione per la quale sembrava molto più importante mostrare
una tracciabilità perfetta piuttosto che una qualità di cure ai pazienti.
Perché in grosso, il mio ospedale non è stato nient’altro che una cavia per
amministratori per i quali solo l’auto valorizzazione egoista aveva
dell’importanza. Perché aldilà del mio ospedale, sono le persone che vi sono
accolte che sono considerate come dei valori trascurabili, delle cifre in mezzo
ad altre delle variabili sulla linea entrate/uscite. Perché nello spirito
stupidamente contabile della direzione generale dell’organizzazione delle cure,
pazienti e curanti sono tutti nello stesso paniere di una gestione alleggerita
- lean management- tra le più
disgustose...
I primi della cordata e il loro respiratore.
Sono in collera e arrabbiato, quando ripenso ai primi della
cordata (immagine utilizzata dall'’attuale presidente francese per giustificare
la sua politica, NdT) che dovrebbero dirigere il nostro paese, esserne la punta
di diamante, condurre noi, piccola gente, verso le cime; è, invece questa
piccola gente, queste cassiere di supermercato, questi spazzini nelle strade
questi agenti di servizio negli ospedali, questi agricoltori nei campi, questi
lavoratori di Amazon, questi camionisti nei loro veicoli, queste segretarie
nelle istituzioni e tanti altri, che permettono agli abitanti di continuare a
vivere, di nutrirsi, d’informarsi, di evitare altre epidemie... Nel frattempo,
i primi della cordata sbirciano il loro respiratore artificiale personale e i
depliant della clinica hi-tech ultimo grido che eventualmente li salverà,
mentre osservano le fluttuazioni della Borsa come altri contano i cadaveri nel
loro servizio.
Sono in collera e arrabbiato, verso quelle donne e quegli
uomini politici che non hanno smesso di demolire il nostro sistema sociale e di
salute, che non hanno smesso di spiegarci che bisognava fare uno sforzo
collettivo per raggiungere il sacrosanto equilibrio di bilancio (a che
prezzo?); che” i mestieri legati alla salute richiedono sacrificio,
vocazione”... Questi politici che oggi osano dirci che non è il momento delle
recriminazioni e delle accuse, ma quello dell’unione sacra e della
riconciliazione... Sul serio? Credete veramente che dimenticheremo chi ha
svuotato lo stock di maschere, di test, di occhiali di protezione, di soluzioni
idroalcoliche, di soprascarpe, di bluse, di guanti, di charlottes, di
respiratori (di quei cazzo di respiratori talmente primordiali adesso)? Che
dimenticheremo chi ci ha detto di non inquietarci, che era solo un’influenza,
che non arriverà mai in Francia, che non serviva a nulla proteggersi, che
persino per i professionisti le maschere erano un di più? Che dimenticheremo
l’indifferenza e il disprezzo per quel che è successo alle nostre sorelle e
fratelli cinesi, iraniani, italiani e che sta per arrivare alle nostre sorelle
e fratelli africani e latino americani? Non lo dimenticheremo. Siatene certi.
Sono in collera e arrabbiato, perché vivo da una settimana
con questo maledetto groppo in gola, questa voglia di prostrarmi, di piangere
tutte le lacrime che ho in corpo quando ascolto la difficoltà e la sofferenza
dei miei colleghi e colleghe, quando mi parlano del fatto di non poter
abbracciare i loro figli perché nessuno può essere certo di non portare il
virus, quando esplodono i momenti di crisi in auto, prima e dopo la giornata di
lavoro, quando penso alle devastazioni a venire, da un punto di vista psichico,
quando tutto sarà passato e ci sarà il tempo di pensare...
Sono in collera e arrabbiato, e per il momento non posso
lasciare uscire queste emozioni. Si acquattano in fondo alla mia anima,
consumandomi a fuoco basso. Presto, però, quando tornerà la calma, lascerò
venire fuori questa collera e questa rabbia come tutti quelli e quelle che le
hanno represse. E credetemi, questo momento verrà. La rabbia e la collera
s’infuocheranno ed esigeremo giustizia, domanderemo dei conti a tutti quelli
che ci hanno guidato contro questo muro terribile. Senza violenza. A che pro?
No, con un’umanità e una saggezza di cui sono sprovvisti Sentite questa
musichetta? Quella che si mormora sommessamente ma monta in potenza? Questo ritornello
dei Fugees: «Ready or not, here I come ! You can hide ! Gonna find you and
take it slowly!» Arriviamo ...
Document 2)
Applausi al personale
curante alle 20h: la falsa buona idea?
23 mars 2020 Par
Théo Portais - Mediapart.fr
Da una settimana tutte
le sere, alle venti, le finestre si aprono e degli applausi e degli hurrà
risuonano per celebrare il personale ospedaliero, in prima linea nella crisi
sanitaria. Un’intenzione forse lodevole ma che potrebbe avere delle conseguenze
nefaste se non è discussa almeno un po’. Sono dunque il solo a essere
imbarazzato da questi applausi, tutte le sere alle otto, per celebrare
l’impegno del personale curante nella lotta contro il coronavirus? Non che le
persone che agiscono per salvare delle vite in questo momento non meritino la nostra
ammirazione, lungi da questa idea. Tuttavia, che cosa indicano precisamente
questi applausi? Per quale ragione tutto questo settore professionale, ignorato
da anni dai poteri pubblici, si ritrova d’improvviso lodato
incondizionatamente? Perché salvano delle vite? A priori, no, poiché è quello
che fanno tutti i giorni in tempi normali. Perché fanno il loro lavoro in
condizioni deplorevoli? Nemmeno, poiché la situazione dura da anni e peggiora
mentre i loro numerosi appelli d’aiuto sono rimasti lettera morta. No, la
ragione è evidentemente la congiuntura attuale che rende le loro condizioni di
lavoro ancora più deplorevoli del solito: talmente deprecabili che salvano
ormai delle vite mettendo in pericolo la loro. Degli “eroi” ha detto Macron.
Ecco dunque quel che si applaude: il loro senso del sacrificio. Non voglio
parlare in loro nome, ma devono fregarsene non poco. La megalomania esiste in
ogni corpo di mestiere, ma dubito che molti di quanti sono mobilitati in questo
momento negli ospedali si considerino degli eroi. Quel che mi disturba,
soprattutto, è che il processo di eroizzazione
è innanzitutto il fatto di una classe politica che da anni non si cura delle
rivendicazioni di coloro che essa erige adesso in salvatori della nazione. Si
possono ricordare le cifre più recenti: più di otto mesi di sciopero e di
manifestazioni nel 2019, quasi 300 servizi di pronto soccorso in sciopero lo
scorso autunno, più di 1000 medici capiservizio dimissionari dalle loro
funzioni amministrative a gennaio, il tutto per denunciare la carenza di
personale, di materiale, la soppressione dei servizi d’urgenza di prossimità,
dei letti, in breve, tutto quel che l’insalata semantica di una gestione
manageriale dell’ospedale pubblico (“ristrutturazione”, “reimpiego”, “fusione”,
“modernizzazione” e altro) riesce a mascherare solo mediocremente. L’ironia
della storia è che proprio l’assenza di risposte adeguate alle loro
rivendicazioni fa oggi degli “eroi” del personale ospedaliero. Sarebbero stati
elevati a questo rango dal capo dello Stato se fossero in numero sufficiente?
Se ci fossero abbondanti stock di gel idroalcolico e di maschere? Del materiale
in buono stato? Il numero di letti necessari? Se i salari fossero attrattivi?
In breve, se i mezzi per far fronte a una crisi di tale ampiezza fossero a loro
disposizione? Probabilmente no. A difetto di avere risposto alle loro domande,
il governo tenta di potenziare un po’ il loro ego, sperando che ciò dia loro quel
pizzico in più di motivazione e di autostima necessarie a compensare le carenze
materiali. Quanto tempo bisogna attendere prima di dire quel che si pensa di un
tale atteggiamento? Se è evidente che gli applausi quotidiani partono da una
buona intenzione, essi comportano, tuttavia, il rischio di essere i garanti di
questa strategia assolutamente nauseabonda di gestione della crisi da parte del
governo.
Si continuerà ad applaudire queste donne e questi uomini
quando questo sinistro periodo sarà superato? Niente è meno sicuro. Tra
un’eroizzazione di circostanza e la validazione implicita delle loro condizioni
d’esercizio, la linea di demarcazione sembra davvero sottile. È sempre nei
momenti di tensione, di dramma, in situazioni estreme che appaiono gli eroi. E
ne appariranno sempre: si possono avere molte ragioni per non concedere più
fiducia all’umanità, tuttavia la nostra specie non è soltanto un mucchio di
spazzatura. Il problema è che gli eroi (in quanto costruzione sociale, non gli
individui) impediscono di porsi le buone questioni sulle ragioni che ne hanno
provocato l’apparizione: ci si gargarizza della loro attitudine esemplare,
eretta in valore morale universale di cui l’insieme del corpo sociale fa
l’elogio perché esso era già comunque il suo, evidentemente. E bisogna dire che
la Francia ne ha conosciuti di eroi, in questi ultimi tempi: i militari uccisi
in un’operazione antiterrorista nel Mali, Arnaud Beltrame (che si è consegnato
al posto di un ostaggio a un terrorista ed è stato ucciso, NdT), i pompieri in
lotta contro l’incendio di Notre-Dame, la redazione di Charlie Hebdo, tra gli
altri. Abbiamo forse messo minimamente in discussione i nostri modi di lotta
contro il terrorismo? No. Le nostre politiche di bilancio culturali? Neppure. Ci
siamo dedicati a difendere sempre di più la libertà d’espressione? Neanche per
sogno. Una società che ha bisogno di eroi per restare in piedi è una società
malata – è il caso di dirlo. L’esempio attuale è particolarmente clamoroso: lo
Stato s’impadronisce del personale ospedaliero che ha disprezzato e umiliato
per anni idolatrandolo subitamente per operare suo tramite una forma di
rivalorizzazione narcisista il cui unico scopo è mascherare le proprie
inconseguenze. Prendendo il rischio di fare della psicologia da bar, provate a
sostituire in quest’ultima frase il termine “individuo A” a Stato e “individuo
B” a personale ospedaliero; il caso mi sembra abbastanza serio. Aderire a uno
slancio di unità nazionale il cui fondamento mi pare prima di tutto rilevare
della sfera del patologico, mi convince assai poco. Soprattutto perché la
conseguenza di questo grande momento patriottico nel quale nessuna voce
discordante sarebbe tollerata, rischia di essere, le esperienze passate lo
provano, un’assenza totale di rimessa in questione del nostro funzionamento in
quanto società e dei cosiddetti valori che sono i nostri. Evidentemente, perché
rimettersi in questione quando abbiamo degli eroi per ricordarci qual è il vero
spirito della nazione? Se si avesse il coraggio di guardare le cose in faccia,
ci si renderebbe conto che il personale ospedaliero non è l’eroe di questa
crisi ma la vittima. E i loro eroi, Superbilancio, Spiderimpiego e Capitan
Salario, restano disperatamente dei personaggi di finzione. Allora sia, accetto
di uscire tutte le sere alle venti per applaudirli perché è vero che fanno un
lavoro notevole. Soltanto, però, se alle otto e un quarto, tutti quanti tornano
alla finestra per esecrare il governo e denunciare le condizioni di lavoro che
il personale ospedaliero subisce da anni. È lodevole e non ingiustificato,
considerare queste donne e questi uomini degli eroi, ma bisogna essere vigilanti
per evitare che con lo stesso movimento siano anche presi per degli imbecilli.
Documento 3)
L’anno 01* è
cominciato! François Ruffin
* L’anno 01 è un film francese del 1973
di Jacques Doillon, adattato dal fumetto omonimo di Gébé. Il film
racconta un festivo abbandono collettivo dell’economia di mercato e del
produttivismo sulle ali del maggio 68 appena passato ma ancora ben presente.
L’anno 01 è cominciato! “Fermiamo tutto, riflettiamo e non è
per niente triste”. Era questo il motto di Gébé nell’anno 01. Oggi siamo
decisamente obbligati a fermarci. Che cosa ne facciamo?
NOI SAPPIAMO
La pandemia che obbliga più di tre miliardi di esseri umani a
restare confinati a casa sembra essere arrivata di sorpresa, come un flagello
caduto dal cielo. La maggior parte dei dirigenti degli Stati che ci governano
giura con la mano sul cuore che questa pandemia è un avvenimento unico, mai
visto, di una portata inaspettata. Quindi, di fronte a questo imprevisto caso
di forza maggiore, i politici appoggiano necessariamente dei metodi più o meno
convalidati su reazioni più o meno razionali, ma predomina, in ogni caso, un
vago sentimento d’improvvisazione e di tentennamento; mentre il conteggio
macabro dei morti non cessa di scorrere, implacabile. Eppure questa emergenza
di un nuovo coronavirus era prevedibile e il campanello d’allarme aveva già
suonato parecchie volte. Invano. Come se fossimo colpiti da una strana sordità
quando una catastrofe è annunciata.
Lo spettacolo del mondo è molto strano: in qualche giorno,
tre miliardi di esseri umani hanno ricevuto l’ordine di restare confinati a
casa loro. Le economie di quasi tutti i paesi esistenti sul pianeta hanno messo
un ginocchio a terra, quando non sono colpite da un’embolia severa. Gli uccelli
cinguettano tra le fronde delle nostre città, le strade sono deserte di ogni
circolazione, l’aria diventerebbe straordinariamente respirabile se si potesse
passeggiare per dilettarsene. Le coppie confinate nei loro appartamenti
riapprendono a vivere insieme, i lavoratori hanno scoperto in un attimo che il
telelavoro non era un lusso per ecologisti da salotto. Dei miliardi caduti dal cielo
circolano a gogò per aiutare settori interi dell’economia. La nuova vita
sarebbe quasi bella se non ci fosse in questa primavera deliziosa un profumo di
morte, l’eco di ospedali sovraffollati, di bare ammucchiate e di centinaia di
migliaia di malati angosciati.
Sono diventati matti?
In questo paesaggio surrealista, i dirigenti degli Stati
sembrano avere completamente perduto i loro punti di riferimento. Si distingue
qui un presidente francese che martella con aria marziale che siamo in guerra
contro un nemico... microscopico, una cancelliera tedesca rinchiusa in una
comoda quarantena, un capo inglese che tergiversa per poi girare in tondo, un
leader americano twittomane che esita nella scelta del suo personaggio:
istrione oltraggioso davanti ai suoi elettori o comico soldato davanti ai suoi
eserciti sanitari.
I dirigenti del mondo sono forse diventati matti? Incapaci di
fare delle scelte in una situazione alla quale non erano preparati, si
trincerano seguendo alla giornata gli oracoli degli scienziati e sbirciano
altre curve di quelle dell’indice di gradimento della loro immagine, quelle dei
loro morti. Lusingano, stimolano, minacciano affinché i ricercatori si diano da
fare per trovare l’arma fatale contro il virus. Si gettano su tutto quello che
potrebbe servire il loro interesse dirottando dei prodotti urgenti destinati ad
altri paesi o tentando di appropriarsi sfrontatamente di brevetti e competenze.
Gli uni cercano maschere, gli altri dei respiratori o dei letti di
rianimazione. C’è panico a bordo. Il negozio chiude. Le frontiere chiudono. Ci
si barrica. La solidarietà fra Stati è ormai un lontano ricordo, mentre
l’Europa brilla per la sua assenza. In questo sconquasso del mondo si
distinguono battaglioni di nuovi eroi in blusa bianca ch fanno quel che possono
con quello che è loro dato. Sono in prima linea per salvare delle vite e la
popolazione lo sa e li applaude.
Una piccola bestiola di
cui non conoscevamo il nome ancora tre mesi fa. Una piccola cosa che ci da
scacco matto e rivela tutta l’ampiezza delle nostre fragilità.
Lo spettacolo si svolge davanti ai nostri occhi in un mondo
di alta intelligenza, in un mondo che vuole andare su Marte e che sa manipolare
i segreti della materia; in un mondo di grande tecnologia in cui si vuole far regredire
i limiti dell’età e sfondare quelli della natura. Questo mondo così sicuro di
sé, conquistatore e dominatore, è fracassato da un virus. Una piccola bestiola
di cui non si conosceva il nome ancora tre mesi fa. Una piccola cosa che ci da
scacco matto e rivela tutta l’ampiezza delle nostre fragilità.
La prima delle quali è la nostra incapacità atavica di
prendere in considerazione la catastrofe. Il filosofo Jean-Pierre Dupuy è uno dei
grandi pensatori della catastrofe. “La catastrofe ha questo di terribile –
scrive – che non solo non si crede che arriverà quando si hanno tutte le
ragioni di sapere che sopraggiungerà, ma anche che, una volta arrivata, essa
sembra far parte dell’ordine normale delle cose. La sua stessa realtà la rende
banale”.
Prima che la catastrofe si produca, nessuno ci crede, quando
arriva, essa entra senza imbarazzo nel registro del reale. È esattamente quel
che succede con questa pandemia del coronavirus. Essa era annunciata. Numerose
voci hanno dato l’allerta al mondo sull’imminenza di una pandemia. C’erano
tutti i dettagli. Sono rimasti inascoltati.
Cronaca di una
catastrofe annunciata
UP’ Magazine si è fatto l’eco più volte di queste previsioni
e di questa catastrofe pandemica annunciata. A forza anche di ripeterci, come
altri media, è stato persino fatto il processo per diffusione di cattive
notizie a fini di sensazionalismo. Tuttavia, gli scritti restano e questi
messaggi meritano di essere rivisti alla luce del giorno.
Il 12 febbraio 2018, il direttore generale dell’OMS prende la
parola dinanzi a un parterre scelto: quello del vertice dei governi che si
tiene a Dubai. In un silenzio glaciale, annuncia che l’apocalisse non è mai
stata così vicina. “Non si tratta di uno scenario da incubo del futuro”, ha
detto. “È quanto è successo esattamente cento anni fa durante l’epidemia
d’influenza spagnola”.
Su un tono terribilmente grave continua: “Un’epidemia
devastatrice potrebbe cominciare in qualunque paese, in ogni momento, e
uccidere milioni di persone perché non siamo ancora pronti. Il mondo resta
vulnerabile”.
Un’epidemia dalle
conseguenze disastrose tanto sulla vita umana che sull’economia.
Aggiunge: ”Quel che sappiamo è che avrà delle conseguenze
disastrose tanto sulla vita umana che sull’economia”. Termina invitando i capi
di Stato e di governo seduti davanti a lui a non lesinare i mezzi per evitare
che un agente patogeno prenda il controllo della situazione.
Risultato: nulla.
Altro messaggio, all’inizio di maggio del 2018, questa volta
da parte di un nome conosciutissimo dal grande pubblico: Bill Gates, fondatore
di Microsoft. Informato degli ultimi dati dell’organizzazione mondiale della
sanità (OMS), è persuaso che le probabilità dell’emergenza di una pandemia
continuino ad aumentare. Non si tratta di un personaggio incline a dilettarsi
di cattive notizie; è un ottimista che crede nell’intelligenza dell’uomo.
Eppure, il discorso che tiene nella prestigiosa tribuna del MIT, davanti a un
areopago di dottori dà i brividi. Afferma: “Se diceste ai governi del mondo
intero che delle armi capaci di uccidere 30 milioni di persone sono attualmente
in costruzione, ci sarebbe un sentimento d’urgenza di prepararsi alla
minaccia”.
Trovare dei mezzi per
lottare contro una malattia mortale emergente.
Siamo in apparenza meglio preparati di quanto lo fossimo per
le epidemie precedenti, spiega. Abbiamo delle medicine antivirali che possono,
in numerosi casi, aumentare il tasso di sopravvivenza. Abbiamo degli
antibiotici che possono trattare le infezioni secondarie come la polmonite
associata all’influenza. Tuttavia, dice in sostanza, non siamo ancora
abbastanza efficaci nell'identificare rapidamente la minaccia di una malattia e
coordinare una risposta. Termina con un appello ai governi affinché trovino dei
mezzi con l’aiuto del settore privato per mettere a punto delle tecnologie e
degli utensili in misura di lottare contro una malattia mortale emergente.
Risultato: nulla.
Terzo esempio, all’inizio di giugno 2018, una squadra di
scenziati del John Hopkins Center for
Health Security pubblica un rapporto intitolato « The Characteristics of Pandemic Pathogens » che stabilisce un
quadro per l’identificazione dei microorganismi naturali che creano un “rischio
biologico catastrofico globale” (GCBR nella terminologia degli esperti di
salute pubblica). Questi “GCBR” sono avvenimenti nei quali degli agenti
biologici potrebbero condurre a una catastrofe improvvisa, straordinaria e
generalizzata, oltre la capacità collettiva dei governi nazionali e
internazionali e del settore privato nel controllarla.
Secondo i ricercatori, la prossima pandemia non verrà da un
virus ad alto tasso di mortalità, ma da un virus banale, della famiglia di
quelli che ci attaccano in inverno come il rinovirus o il coronavirus, per
esempio. Sono poco mortali ma il loro potenziale pandemico è enorme. Gli autori
sottolineano, in effetti, che per destabilizzare i governi, l’economia, le
società e tutte le organizzazioni sanitarie, la mortalità importa meno del
tasso di persone malate nello stesso tempo. È provato che un virus scarsamente
mortale ma estremamente contagioso, in particolare per le vie aeree, può
finalmente provocare un’ecatombe.
Foto segnaletica del
futuro agente pandemico: un coronavirus a ARN d’origine respiratoria
I lavori della squadra di ricerca realizzano una foto
segnaletica del futuro agente pandemico. Il suo modo di trasmissione, conclude
l’equipe, sarà molto probabilmente respiratorio. Sarà contagioso durante il
periodo d’incubazione, prima dell’apparizione dei sintomi o quando le persone
contagiate presentano solo sintomi benigni. Infine, avrà bisogno di fattori
specifici della popolazione ospite (per esempio persone non immunizzate contro
di lui) e altre caratteristiche di patogenicità microbica intrinseca (per
esempio un tasso di mortalità debole ma significativo), altrettanti tratti che
insieme aumentano considerevolmente la propagazione della malattia e
l’infezione. Tanto più che tra i criteri, i ricercatori aggiungono che
quest’agente patogeno si distingue per il fatto che nessun trattamento diretto
né alcun metodo di prevenzione esistono, a tutt’oggi, contro di esso.
Dentro a tutto il bestiario di microbi che i ricercatori
hanno analizzato, ne distinguono una famiglia in particolare: quella dei virus
RNA come il coronavirus della SRAS per esempio. I ricercatori raccomandano
dunque di fissare come una grande priorità la sorveglianza delle infezioni
umane causate da virus RNA d’origine respiratoria. Dei programmi di ricerca
clinica volti a ottimizzare il trattamento di questi virus dovrebbero essere finanziati
meglio. Infine gli autori del rapporto reclamano un rafforzamento della
priorità della ricerca sui vaccini contro i virus respiratori RNA, compreso un
vaccino universale per l’influenza.
Risultato: nulla.
Sapevano. Questi messaggi datano del 2018.
Senza dubbio sono stati letti e visti da innumerevoli responsabili nel mondo. I
politici, i governanti, le autorità sanitarie degli Stati ne avevano
conoscenza. Ciò è incontestabile.
Hanno pur tuttavia preso le misure necessarie? Nello stesso
anno 2018, in Francia, il ministro della salute, Agnès Buzyn, ha verificato lo
stock di maschere di cui il paese ha bisogno? Si è chiesta se disponessimo di
letti sufficienti per la rianimazione e un numero sufficiente di respiratori o
di materiali per i test? Che cosa hanno fatto i suoi colleghi negli altri
paesi? Il p residente Trump ha preso le misure per proteggere i cittadini
americani dall'’onda epidemica che sta per travolgere il suo paese? Certo ha
una buona scusa: era troppo occupato a sparare cazzate su twitter. Quali misure
ha preso il mondo di fronte alla bomba epidemica a scoppio ritardato che
minaccia di esplodere in Africa?
Mentre gli annunci
della catastrofe si facevano più pressanti...
Mentre gli annunci della catastrofe si facevano più pressanti,
scrive il biologo Eric Muraille, il sottofinanziamento e la gestione
manageriale della ricerca fondamentale come dei servizi di sanità riducevano,
in Francia in particolare, la nostra capacità di anticipare e rispondere alle
epidemie. Ricercatori resi precari, reti cooperative tra squadre di ricerca
fragilizzate, una tale situazione non favorisce la conservazione delle
competenze e l’esplorazione di nuovi settori di ricerca in grado di contribuire
a conoscere meglio gli agenti d’infezione emergenti e a identificare le nuove
minacce. La pratica negli ospedali del JIT (Just
in time, in francese flux tendu,vale
a dire copertura alleggerita dei bisogni in ogni settore, NdT), è diventata la
norma che riduce la capacità di affrontare delle crisi sanitarie importanti. Le
riduzioni di finanziamento di questi servizi pubblici in corso da anni come la
gestione a corto termine del sistema di salute pubblica ha, di fatto, spento
ogni capacità d’anticipazione. Il presidente Macron ha ben giurato nella sua
allocuzione del 20 marzo: “Questa pandemia rivela che ci sono beni e servizi
che devono restare fuori dalle leggi del mercato”. Non è già troppo tardi?
Bisognerà pure, un giorno o l’altro, trarre le lezioni da
questa crisi sanitaria che scuote il mondo. Tanto più che le catastrofi non
mancheranno di riprodursi. Stavolta climatiche, anch’esse annunciate con
insistenza. Sappiamo che avremo già la prossima estate degli episodi di
canicola mortiferi, forse anche prima di esserci rimessi dall'’episodio del
coronavirus. Sappiamo che il mare invade le coste dovunque sul pianeta.
Sappiamo che milioni di rifugiati climatici si ammasseranno alle frontiere.
Sappiamo che il mondo diventerà irrespirabile, sappiamo che la nostra
alimentazione, la nostra acqua, i nostri figli sono in pericolo. Noi sappiamo.
La Commune, pas morte !
Le confinement nous donne du temps, mais je me refuse à tout
intellectualisme, larmoyant ou enragé, sarcastique ou paternaliste.
Le radicalisme n'est que l'idéologie de la radicalité. Or si "je hais tous les dieux", comme
écrivait un Marx encore très jeune, avec l'âge, je déteste aussi, de plus en
plus, toutes les idéologies, tous les -ismes et tous leurs prêtres, adeptes,
dévots.
En ce moment, le nombre des malades graves du coronavirus (une minorité,
mais importante) est supérieur aux capacités de soins. Cela est tragiquement
vrai en Italie et en Espagne (en Chine on a rien su, bien sûr) et risque de le
devenir en France, et ailleurs. Pour cela la pratique désagréable et insuffisante
du confinement est pour moi, pour l'instant, un choix personnel partagé (et laborieusement
autogéré, hélas, dans cette société totalitaire) avec ceux que j'aime et qui
m'aiment, mais aussi, idéalement, avec tous ceux qui fonctionnent selon le principe
de l’entraide. Cela est prioritaire:
le soutien réciproque et immédiat, non pas l'exécution du diktat qui
l'accompagne et l'impose. Ici et maintenant, je ne peux pas faire mieux, ni
autrement, hélas.
Evidemment le cauchemar en cours et sa gestion délirante sont en grand
partie la responsabilité du système productiviste, de son capitalisme en phase
terminal et de son industrialisme cancérigène dirigé par l'économie politique
et son cynisme aveugle, mais c'est pourtant prioritaire éviter que beaucoup d’autres
malades (une poignée aurait déjà été inacceptable en comparaison des capacités
potentielles de la médecine actuelle) meurent souffrant comme des chiens, sans
aide respiratoire et dans une solitude tragique.
Aimer la vie et vouloir donc la fin de cette société malade et nihiliste
peut exceptionnellement obliger à avaler des antibiotiques (s'ils servent
encore à quelque chose, maintenant qu'on les avale quotidiennement en mangeant
- surtout les plus pauvres), même si cela est triste, malheureux et chargé d’évidents
effets collatéraux « contre la vie ». Voilà un type de contradiction
à assumer pour s'opposer concrètement, non pas seulement à la fascistisation
progressive en cours du spectacle social, mais à son existence même. Voilà le
sens de mon choix "prioritaire" que je revendique comme un élément de
la conscience d'espèce naissante, destinée à intégrer la conscience de classe
en la dépassant, maintenant que le prolétariat d’antan à été dévoré par le consumérisme
et les intellectuels par le spectacle de la critique.
Or, plus
que jamais méfiant des élucubrations de la littérature politique produite par
l’intellectualisme au style prositu, toujours en avance sur le spectacle dominant
mais en retard d'une idéologie pour s’opposer concrètement au pouvoir économico-médiatico-militaire
étatiste, j'ai utilisé le terme de priorité pour dénoncer l’indécence idéologique
d’une rage impuissante, aveugle et donneuse de leçons.
Ce n'est pas parce qu'un flic me barre
le passage vers le précipice que je vais m'y jeter dedans. Ce qui ne
m’empêchera pas de lutter contre la répression policière.
Entendons-nous : prioritaire ne signifie pas plus important mais
"qui vient en premier". Aujourd’hui, face au fétichisme de la
marchandise triomphant sur le manque de masques de protection, de gel hydro
alcoolique, d’appareils de respiration, puis, en conséquence, de cimetières
pour enterrer les morts, comptabilisés dans les profits et les pertes du
business hospitalier, le temps est révolu pour toutes les idéologies de la
société productiviste: les anciennes, religieuses (monothéistes ou pas), et les
modernes, laïques (capitalisme libéral ou d'Etat, néolibérale ou pseudo
communiste), réactionnaires et conservatrices (fascismes, nationalismes,
intégrismes) ou révolutionnaires et utopistes (marxismes, anarchismes et
situationnismes).
La nature est en train de nous apprendre comment réussir la grève générale dans
la vie quotidienne, à l’abri des bureaucraties syndicales. A nous d’être de
bons élèves en faisant de toute intuition individuelle un don pour
l’intelligence collective. A ce point zéro de l’histoire, le déni de réalité
qu'on a dénoncé lucidement comme spectacle il y a un demi siècle, est l’aleph de
toutes les aliénations. La catastrophe en cours dans le laboratoire du
conditionnement de l’esprit de l’actuelle société planétaire vient de nous
sortir de l’hypnose. Il faut en profiter au nom de la vie, car une révolution
sociale gronde, urgente et nécessaire, pour quand le confinement finira. C'est,
justement, en reconnaissant lucidement les priorités du réel, prêts à rebondir,
sans concessions au spectacle ni à sa critique spectaculaire, qu'on va rendre finalement
possible la fin du cauchemar social et la destitution vivifiante de ses
responsables de tout bord. Plus rien ne sera comme avant : la normalité productiviste
va mourir du virus et c’est la seule mort qu’on ne pleurera pas. Vive la
Commune !
Sergio
Ghirardi, 28 3 2020
Document
1)
J'AI LA RAGE
Par
Claude Baniam (pseudonyme), psychologue à l'hôpital de Mulhouse — 24 mars 2020 à 18h
Un
psychologue de l'hôpital de Mulhouse crie sa révolte contre ceux qui ont
détruit le système de santé au nom des restrictions budgétaires. Une fois la
pandémie passée, ceux-là mêmes rendront des comptes.
Tribune.
Je suis
en colère et j’ai la rage, quand ils défilent dans les médias, montrent leur trogne
à la télévision, font entendre leur voix parfaitement maîtrisée à la radio,
livrent leur discours dans les journaux. Toujours pour nous parler d’une situation
dont ils sont un facteur aggravant, toujours pour pérorer sur la citoyenneté,
sur le risque de récession, sur les responsabilités des habitants, des
adversaires politiques, des étrangers… Jamais pour nous présenter leurs
excuses, implorer notre pardon, alors même qu’ils sont en partie responsables
de ce que nous vivons.
Je suis
en colère et j’ai la rage, car en tant que psychologue dans l’hôpital le plus
touché, celui de Mulhouse, je vois toute la journée des dizaines de personnes
arriver en urgence dans nos locaux, et je sais que pour une bonne partie
d’entre elles, elles n’en ressortiront pas vivantes, souriantes, insouciantes,
comme ce pouvait être le cas il y a encore deux semaines.
Je suis
en colère et j’ai la rage, car je sais que ces personnes, ces êtres vivants,
ces frères et sœurs, pères et mères, fils et filles, grand pères et grand mères,
mourront seules dans un service dépassé, malgré les courageux efforts des
soignants ; seules, sans le regard ou la main de ceux et celles qui les aiment,
et qu’ils aiment.
Je suis
en colère et j’ai la rage, devant cette situation folle qui veut que nous
laissions nos aînés, nos anciens, ceux et celles qui ont permis que notre présent
ne soit pas un enfer, ceux et celles qui détiennent un savoir et une sagesse
que nul autre n’a ; que nous les laissions donc mourir par grappes dans des
maisons qui n’ont de retraite que le nom, faute de pouvoir sauver tout le
monde, disent-ils.
Le deuil
impossible des familles.
Je suis
en colère et j’ai la rage, en pensant à toutes ces familles qui vivront avec la
terrible douleur d’un deuil impossible, d’un adieu impossible, d’une justice
impossible. Ces familles auxquelles on ne donne pas accès à leur proche, ces
familles qui appellent sans cesse les services pour avoir des nouvelles, et auxquelles
aucun soignant ne peut répondre, trop occupé à tenter une intervention de la
dernière chance. Ces familles qui sont ou pourraient être la nôtre…
Je suis
en colère et j’ai la rage, quand je vois mes collègues soignants se battre,
tous les jours, toutes les minutes, pour tenter d’apporter de l’aide à toutes
les personnes qui se retrouvent en détresse respiratoire, y perdre une énergie
folle, mais y retourner, tous les jours, toutes les minutes.
Je suis
en colère et j’ai la rage, devant les conditions de travail de mes collègues
brancardiers, ASH, secrétaires, aides-soignants, infirmiers, médecins, psychologues,
assistants sociaux, kinés, ergothérapeutes, cadres, psychomotriciens, éducateurs,
logiciens, professionnels de la sécurité… car nous manquons de tout, et pourtant,
il faut aller au charbon.
Je suis
en colère et j’ai la rage, car, lorsque je me rends à mon travail, et lorsque
j’en pars, je croise en quelques minutes trois ou quatre véhicules d’urgence,
transportant une personne pleine de l’espoir d’être sauvée… Comment ne pas
avoir confiance dans nos hôpitaux ? Ils sont à la pointe, ils sont parfaitement
en état de fonctionner, de protéger, de guérir… et pourtant, combien de ces
ambulances mènent leur passager vers leur dernier lieu ? Combien de ces parents
franchiront la porte sains et saufs ?
Je suis
en colère et j’ai la rage, car cela fait des années que nous crions notre
inquiétude, notre incompréhension, notre dégoût, notre mécontentement, devant
les politiques de santé menées par les différents gouvernements, qui ont pensé
que l’hôpital était une entreprise comme une autre, que la santé pouvait être
un bien spéculatif, que l’économie devait l’emporter sur le soin, que nos vies
avaient une valeur marchande.
Je suis
en colère et j’ai la rage quand je constate que nos services d’urgences
demandent de l’aide depuis si longtemps, quand je pense que les personnes qui
arrivent avec le Samu posent leur regard (souvent le dernier sur l’extérieur)
sur ces banderoles disant «URGENCES EN GRÈVE», qu’elles se trouvent face à des
médecins traitants à la retraite du fait du départ des urgentistes, ces
spécialistes de l’urgence qui seraient tant nécessaires en ces jours sombres…
De
l’exploitation des étudiants infirmiers.
Je suis
en colère et j’ai la rage devant la manière dont on exploite nos étudiants en
soins infirmiers ou aides-soignants, qui se retrouvent à faire des travaux
d’une dureté que je ne souhaiterais pas à mon pire ennemi, qui, a à peine 20
ans, doivent mettre les corps de nos morts dans des sacs mortuaires, sans
préparation, sans soutien, sans qu’ils et elles aient pu se dire volontaires.
Pourquoi demander ? Cela fait partie de leur formation, voyons ! Et ils devraient
s’estimer heureux, ils reçoivent une gratification de quelques centaines
d’euros, vu qu’ils interviennent en tant que stagiaires.
Je suis
en colère et j’ai la rage, car la situation actuelle est le fruit de ces
politiques, de ces « fermetures de lits » comme ils aiment le dire,
oubliant que sur ces lits, il y avait des humains qui en avaient besoin, de ces
putains de lits ! De ces suppressions de postes, parce qu’un infirmier, c’est
cher, ça prend de la place sur le budget prévisionnel ; de ces externalisations
de tous les métiers du soin, puisqu’un ASH en moins dans les chiffres du nombre
de fonctionnaires, c’est toujours un fonctionnaire en moins dont ils peuvent
s’enorgueillir.
Je suis
en colère et j’ai la rage, car celles et ceux qui sont au boulot tous les
jours, malgré la peur ancrée au ventre, peur d’être infecté, peur de transmettre
le virus aux proches, peur de le refiler aux autres patients, peur de voir un
collègue sur le lit de la chambre 10 ; celles-ci et ceux-là se sont fait
cracher dessus pendant des années dans les discours politiques, se sont retrouvés
privés de leur dignité lorsqu’on leur demandait d’enchaîner à deux
professionnels tous les soins d’un service en quelques minutes, bousculés dans
leur éthique et leur déontologie professionnelle par les demandes
contradictoires et folles de l’administration. Et aujourd’hui,
ce sont ces personnes qui prennent leur voiture, leur vélo, leurs pieds, tous
les jours pour travailler malgré le risque continu d’être frappées par le
virus, alors que ceux qui les ont malmenés sont tranquillement installés chez eux
ou dans leur appartement de fonction.
Je suis
en colère et j’ai la rage, parce qu’aujourd’hui, mon
hôpital fait face à une crise sans précédent, tandis que celles et ceux qui
l’ont vidé de ses forces sont loin. Parce que mon hôpital a été pris pour un
putain de tremplin pour des directeurs aussi éphémères qu’incompétents qui ne
visaient que la direction d’un CHU et qui sont passés par Mulhouse histoire de
prouver qu’ils savaient mener une politique d’austérité bête et méchante… Parce
que mon hôpital a été la cible d’injonctions insensées au nom d’une obscure
certification, pour laquelle il semblait bien plus important de montrer une traçabilité
sans faille plutôt qu’une qualité de soin humain. Parce qu’en gros, mon hôpital
ne fut rien de plus qu’un cobaye pour des administrateurs dont seule
l’auto-valorisation égoïste avait de l’importance. Parce qu’au-delà de mon hôpital,
ce sont les personnes qui y sont accueillies qui ont été considérées comme des valeurs
négligeables, des chiffres parmi d’autres, des variables sur la ligne recettes/dépenses.
Parce que dans l’esprit bêtement comptable de la direction générale de l’organisation
des soins, patients et soignants sont tous dans le même panier d’un lean management (gestion allégée) des
plus écœurants…
Les
premiers de cordée et leur respirateur.
Je suis
en colère et j’ai la rage, quand je me souviens des premiers de cordée censés
tenir notre pays, censés être le fer de lance de notre pays, censés nous
amener, nous, petites gens, vers des sommets ; et que ce sont ces petites gens,
ces caissières de supermarché, ces éboueurs dans nos rues, ces ASH dans nos
hôpitaux, ces agriculteurs dans les champs, ces manutentionnaires amazone, ces
routiers dans leurs camions, ces secrétaires à l’accueil des institutions, et
bien d’autres, qui permettent aux habitants de continuer de vivre, de se nourrir,
de s’informer, d’éviter d’autres épidémies… Pendant que les premiers de cordée lorgnent
leur respirateur artificiel personnel, le prospectus de la clinique hi-tech
dernier cri qui les sauvera au cas où, regardent les fluctuations de la Bourse
comme d’autres comptent les cadavres dans leur service.
Je suis
en colère et j’ai la rage envers ces hommes et ces femmes politiques qui n’ont
eu de cesse de détruire notre système social et de santé, qui n’ont eu de cesse
de nous expliquer qu’il fallait faire un effort collectif pour atteindre le
sacro-saint équilibre budgétaire (à quel prix ?) ; que «les métiers du soin, c’est
du sacrifice, de la vocation»… Ces politiques qui aujourd’hui
osent nous dire que ce n’est pas le temps des récriminations et des
accusations, mais celui de l’union sacrée et de l’apaisement… Sérieux ? Vous
croyez vraiment que nous allons oublier qui nous a mis dans cette situation ?
Que nous allons oublier qui a vidé les stocks de masques, de tests, de lunettes
de sécurité, de solutions hydro-alcooliques, de sur-chaussures, de blouses, de
gants, de charlottes, de respirateurs (de putain de respirateurs tellement
primordiaux aujourd’hui) ? Que nous allons oublier
qui nous a dit de ne pas nous inquiéter, que ce n’était qu’une grippe, que ça
ne passerait jamais en France, qu’il ne servait à rien de se protéger, que même
pour les professionnels, les masques, c’était too much ? Que nous allons
oublier l’indifférence et le mépris pour ce qui se passait chez nos sœurs et nos
frères chinois, chez nos sœurs et nos frères iraniens, chez nos sœurs et nos
frères italiens, et ce qui se passera sous peu chez nos sœurs et nos frères du
continent africain et chez nos sœurs et nos frères latino-américains ? Nous
n’oublierons pas ! Tenez-le-vous pour dit…
Je suis
en colère et j’ai la rage, car je vis depuis une semaine avec cette satanée
boule dans la gorge, cette envie de me prostrer, de pleurer toutes les larmes
de mon corps, quand j’écoute la détresse et la souffrance de mes collègues,
quand ils et elles me parlent du fait de ne pas pouvoir embrasser leurs enfants
parce que personne ne peut être sûr de ne pas ramener le virus, lorsque
s’expriment les moments de craquage dans la voiture avant et après la journée de
travail, quand je pense aux ravages à venir, psychiquement parlant, lorsque
tout ça sera derrière nous, et qu’il y aura le temps de penser…
Je suis
en colère et j’ai la rage, mais surtout un désespoir profond, une tristesse
infinie…
Je suis
en colère et j’ai la rage, et je ne peux pas les laisser sortir pour le moment.
Elles se tapissent au fond de mon âme, me consumant à petit feu. Mais sous peu,
une fois que ce sera calme, je les laisserai jaillir, cette colère et cette
rage, comme tous ceux et toutes celles qui les ont enfouies. Et croyez-moi, ce
moment viendra. Elles flamberont, et nous exigerons justice, nous demanderons
des comptes à tous ceux qui nous ont conduits dans ce mur terrible. Sans
violence. A quoi bon ? Non, avec une humanité et une sagesse dont ils sont dépourvus.
Entendez-vous cette petite musique ? Celle qui se murmure tout bas mais qui monte
en puissance ? Ce refrain des Fugees: «Ready or not, here I come ! You can hide ! Gonna find you and take it slowly!»
Nous arrivons…
Document 2)
Applaudissements
pour les soignants à 20h :
la fausse bonne
idée?
23 mars 2020 Par
Théo Portais - Mediapart.fr
Depuis une semaine, tous les
soirs à 20h, les fenêtres s'ouvrent, et des applaudissements et des hourras
résonnent pour célébrer les personnels hospitaliers, en première ligne dans la
crise sanitaire. Une intention peut-être louable, mais qui pourrait avoir des
conséquences néfastes si elle n'est pas un tant soit peu questionnée. Suis-je
le seul à être mal à l’aise avec ces applaudissements, tous les soirs à 20h,
pour célébrer l’engagement du personnel hospitalier dans la lutte contre le
coronavirus ? Non pas que les personnes qui œuvrent pour sauver des vies en ce
moment ne méritent pas notre admiration, loin de là. Mais de quoi ces
applaudissements sont-ils le signe exactement ? Pour quelle raison tout ce
secteur professionnel, ignoré depuis des années par les pouvoirs publics, se
retrouve soudainement porté au pinacle ? Parce qu’ils sauvent des vies ? A
priori pas, puisque c’est ce qu’ils font tous les jours en temps normal. Parce
qu’ils font leur travail dans des conditions déplorables ? Non plus, cela fait
des années que c’est ainsi, que la situation empire, et que leurs nombreux
appels au secours sont restés lettre morte. Non, la raison c’est évidemment la
conjoncture actuelle, qui rend leurs conditions de travail encore plus
déplorables que d’habitude : tellement déplorables qu’ils sauvent désormais des
vies au péril de la leur. Des « héros », a dit Macron. Voilà donc ce que l’on applaudit
: leur sens du sacrifice. Je ne veux pas parler en leur nom, mais ça doit leur
faire une belle jambe. La mégalomanie existe dans tous les corps de métiers,
mais je doute que beaucoup de celles et ceux qui sont mobilisés en ce moment
dans les hôpitaux se considèrent eux-mêmes comme des héros. Ce qui me dérange
surtout, c’est que ce processus d’héroïsation est d’abord le fait d’une classe
politique qui, depuis des années, n’a que faire des revendications de celles et
ceux qu’elle érige maintenant en sauveurs de la nation. On peut rappeler les
chiffres les plus récents : plus de 8 mois de grève et de manifestations en
2019, presque 300 services d’urgences en grève à l’automne dernier, plus de
1000 médecins chefs de services démissionnaires de leurs fonctions
administratives en janvier, le tout pour dénoncer le manque de personnel, de
matériel, la suppression des services d’urgences de proximité, des lits, bref,
tout ce que la salade sémantique d’une gestion managériale de l’hôpital public
(« restructuration », « redéploiement », « fusion », « modernisation », et j’en
passe) ne parvient que médiocrement à masquer. L’ironie de l’histoire, c’est
que c’est précisément l’absence de réponses adéquates à leurs revendications
qui fait aujourd’hui des personnels hospitaliers des « héros ». Auraient-ils
été élevés à ce rang par le chef de l’état s’ils étaient en nombre suffisant ?
S’il y avait de larges stocks de gel hydro alcoolique et de masques ? Du
matériel en bon état ? Le nombre de lits nécessaires ? Si les salaires étaient
attractifs ? Bref, si les moyens de faire face à une crise de cette ampleur
leur avaient été donnés ? Probablement pas. A défaut d’avoir répondu à leurs
demandes, le gouvernement tente de booster un peu leur égo en espérant que cela
leur donnera le petit surplus de motivation et d’estime de soi qui compensera
les carences matérielles. Combien de temps faut-il attendre avant de dire ce
que l’on pense d’une telle attitude ? S’il est évident qu’ils partent d’une
bonne intention, les applaudissements quotidiens portent toutefois en eux le risque
d’être les garants de cette stratégie gouvernementale de gestion de la crise
absolument nauséabonde. Continuera-t-on à les applaudir, ces femmes et ces
hommes, une fois cette sinistre période derrière nous ? Rien n’est moins sûr.
Entre une héroïsation de circonstance et la validation implicite de leurs
conditions d’exercice, la frontière semble sacrément ténue. C’est toujours dans
des moments de tension, de drame, dans des situations extrêmes qu’apparaissent
les héros. Et il en apparaîtra toujours : on peut avoir plein de raisons de ne
plus avoir foi en l’humanité, notre espèce n’est pas qu’un ramassis de déchets,
quand même. Le problème, c’est que le héros (en tant que construction sociale,
pas l’individu) empêche de se poser les bonnes questions sur ce qui a suscité
son apparition : on se gargarise de son attitude exemplaire, érigée en valeur
morale universelle dont l’ensemble du corps social fait l’éloge, puisqu’elle
était de toute façon déjà la sienne, bien évidemment. Et il faut dire que la
France en a connu, des héros, ces derniers temps : les militaires tués dans une
opération anti-terroriste au Mali, Arnaud Beltrame, les pompiers luttant contre
l’incendie de Notre-Dame, la rédaction de Charlie Hebdo, entre autres. Cela
nous a-t-il incité à questionner, au minimum, nos modes de lutte contre le
terrorisme ? Non. Nos politiques budgétaires culturelles ? Non plus. A défendre
toujours plus la liberté d’expression ? Big LOL. Une société qui a besoin de
héros pour rester debout est une société malade – c’est le cas de le dire.
L’exemple actuel est particulièrement frappant : l’Etat se saisit du personnel
hospitalier qu’il a méprisé et humilié pendant des années pour soudainement
l’idolâtrer et opérer à travers lui une forme de narcissisation dont l’unique
but est de masquer ses propres inconséquences. Au risque de faire de la
psychologie de comptoir, essayez donc de remplacer dans cette dernière phrase «
Etat » par « individu A » et « personnel hospitalier » par « individu B » ; le
cas me semble assez sérieux. Adhérer à un élan d’unité nationale dont le
fondement me semble avant tout relever du domaine du pathologique, très peu
pour moi. Surtout que la conséquence de ce grand moment patriotique, dans
lequel aucune voix discordante ne saurait être tolérée, risque d’être, les
expériences passées nous le prouvent, une absence totale de remise en question
de notre fonctionnement en tant que société et des soi-disant valeurs qui sont
les nôtres. Evidemment, pourquoi se remettre en question alors qu’on a des
héros pour nous rappeler quel est le véritable esprit de la nation ? Si l’on
avait le courage de regarder les choses en face, on se rendrait compte que les
personnels hospitaliers ne sont pas les héros de cette crise : ils en sont des
victimes. Et leurs héros à eux, Superbudget, Spiderembauche et Captain Salaire,
restent désespérément des personnages de fiction. Alors soit, je veux bien
sortir sur mon balcon tous les soirs à 20h pour les applaudir, parce que c’est
vrai qu’ils font un travail remarquable. Mais seulement si à 20h15, tout le
monde se remet à sa fenêtre pour conspuer le gouvernement et dénoncer les
conditions de travail qui sont les leurs depuis des années. Il est louable, et
pas injustifié, de prendre ces femmes et ces hommes pour des héros ; mais il
faut être vigilants à ce que, d’un même mouvement, ils ne soient pas aussi pris
pour des imbéciles.
Document 3)
Lan01.org, c'est parti ! – François
Ruffin
Lan01.org,
c'est parti ! « On arrête tout, on réfléchit, et ce n’est pas triste ». Telle
était la devise de Gébé dans L'An 01. Aujourd'hui, on
est bien obligés d'arrêter.
Qu'est
ce qu'on en fait...?
NOUS
SAVONS
La
pandémie qui oblige plus de trois milliards d’humains à rester confinés chez
eux semble être arrivée par surprise, comme un fléau tombé du ciel. La plupart
des dirigeants des États qui nous gouvernent jurent la main sur le cœur que
cette pandémie est un événement unique, jamais vu, d’une ampleur inattendue.
Dès lors, face à cet imprévu en forme de force majeure, les politiques reposent
nécessairement sur des réactions plus ou moins rationnelles, des méthodes plus
ou moins validées, mais dans tous les cas, un vague sentiment d’improvisation
et de tâtonnement prédomine ; alors que les décomptes macabres des morts ne
cessent de se dérouler, implacablement. Pourtant, cette émergence d’un nouveau
coronavirus était prévisible, et le tocsin avait été sonné à plusieurs
reprises. En vain. Comme si nous étions atteints d’une étrange surdité quand une
catastrophe est annoncée.
Le
spectacle du monde est très étrange : en quelques jours, trois milliards
d’humains ont reçu l’ordre de rester confinés chez eux. Les économies d’à peu
près tous les pays que compte la Terre mettent un genou à terre, quand elles ne
sont pas atteintes d’une embolie sévère. Les oiseaux gazouillent dans les
frondaisons de nos villes, les rues sont désertes de toute circulation, l’air
deviendrait extraordinairement respirable si l’on pouvait se promener pour nous
en délecter. Les couples confinés dans leurs appartements réapprennent à vivre
ensemble, les travailleurs ont découvert en quelques instants que le
télétravail n’était pas un luxe de bobo. Des milliards venus du ciel coulent à
gogo pour aider des secteurs entiers de l’économie. La vie nouvelle serait
presque belle s’il n’y avait en ce printemps délicieux ce parfum de mort, ces
échos d’hôpitaux bondés, de cercueils entassés et de centaines de milliers de
malades angoissés.
Sont-ils devenus fous ?
Dans ce
paysage surréaliste, les dirigeants des États semblent avoir complètement perdu
leurs repères. On distingue ici un président français martelant d’un air
martial que nous sommes en guerre contre un ennemi… microscopique, une
chancelière allemande claquemurée dans une quarantaine commode, un chef anglais
faisant des valses hésitations pour finalement tourner en rond, un leader
américain tweetomane hésitant dans le choix de son personnage : cabot
outrancier devant ses électeurs ou comique troupier devant ses armées
sanitaires.
Les
dirigeants du monde seraient-ils devenus fous ? Incapables de faire des choix
dans une situation à laquelle ils n’étaient pas préparés, ils se retranchent au
jour le jour derrière les oracles des scientifiques, ils guettent d’autres
courbes que celles de leur image, celles de leurs morts. Ils flattent, aiguillonnent,
menacent pour que les chercheurs s’activent à trouver l’arme fatale contre le
virus. Ils se jettent sur tout ce qui pourrait servir leur intérêt en
détournant des cargaisons de produits d’urgence destinés à d’autres pays ou en
tentant de s’approprier, à la hussarde, brevets et compétences. Les uns
cherchent des masques, les autres des respirateurs ou des lits de réanimation.
C’est panique à bord. On ferme boutique. On ferme les frontières. On se
claquemure. La solidarité entre États n’est devenue qu’un vieux souvenir, quant
à l’Europe, elle brille par son absence. Dans ce charivari du monde, on
distingue des bataillons de nouveaux héros en blouse blanche qui font ce qu’ils
peuvent avec ce qu’on leur donne. Ils sont en première ligne pour sauver des
vies et la population le sait et les applaudit.
Une petite bestiole dont on ne
connaissait pas le nom il y a encore trois mois. Une petite chose qui nous met
échec et mat et révèle toute l’étendue de nos fragilités.
Le
spectacle se déroule sous nos yeux dans un monde de haute intelligence, dans un
monde qui veut aller sur Mars et sait manipuler les secrets de la matière ;
dans un monde de grande technologie où l’on veut reculer les limites de l’âge
et enfoncer celles de la nature. Ce monde si sûr de lui, conquérant et
dominateur est fracassé par un virus. Une petite bestiole dont on ne
connaissait pas le nom il y a encore trois mois. Une petite chose qui nous met
échec et mat et révèle toute l’étendue de nos fragilités.
La
première d’entre elles est notre incapacité atavique à envisager la
catastrophe. Le philosophe Jean-Pierre Dupuy est un des grands penseurs de la
catastrophe. « La catastrophe a ceci de terrible, écrit-il, que non
seulement on ne croit pas qu’elle va se produire alors même qu’on a toutes les
raisons de savoir qu’elle va se produire, mais qu’une fois qu’elle s’est
produite elle apparaît comme relevant de l’ordre normal des choses. Sa réalité
même la rend banale ».
Avant
que la catastrophe ne se produise, personne n’y croit ; quand elle advient,
elle entre sans embarras dans le registre du réel. C’est exactement ce qui se
passe avec cette pandémie du coronavirus. Elle était annoncée. De nombreuses
voix ont alerté le monde sur l’imminence d’une pandémie. Tous les détails y
étaient. Ils sont restés « inouïs » au sens étymologique du terme :
non-entendus.
Chronique d’une catastrophe annoncée
UP’
Magazine s’est plusieurs fois fait l’écho de ces prévisions et de cette
catastrophe pandémique annoncée. À force même de nous répéter, comme d’autres
médias, le procès en diffuseur de mauvaises nouvelles à des fins de
sensationnalisme a parfois été fait. Pourtant les écrits restent et ces
messages méritent d’être revus à la lumière du jour.
Le 12 février 2018, le directeur général de l’OMS prend la parole
devant un parterre de choix : celui du sommet des gouvernements qui se tient à
Dubaï. Dans un silence glacial, il annonce que l’apocalypse n’a jamais été
aussi proche. « Il ne s’agit pas d’un scénario cauchemardesque du futur »
dit-il. « C’est ce qui s’est passé il y a exactement cent ans pendant l’épidémie
de grippe espagnole ».
Sur un
ton terriblement grave il poursuit : « Une épidémie dévastatrice pourrait
commencer dans n’importe quel pays à tout moment et tuer des millions de
personnes parce que nous ne sommes pas encore prêts. Le monde reste
vulnérable ».
Une épidémie aux conséquences
désastreuses tant sur la vie humaine que sur l’économie.
Il ajoute
: « Ce que nous savons, c’est qu’elle aura des conséquences désastreuses
tant sur la vie humaine que sur l’économie ». Il termine en appelant les
chefs d’États et de gouvernements assis devant lui à mettre les moyens pour
éviter que ce soit un agent pathogène qui prenne le contrôle.
Résultat
: rien.
Autre
message, début mai 2018, cette fois-ci d’un nom très
connu du grand public : Bill Gates, le fondateur de Microsoft. Informé par les
dernières données de l’Organisation mondiale de la santé (OMS), il est persuadé
que la probabilité de l’émergence d’une pandémie ne cesse d’augmenter. Ce
personnage n’est pas du genre à se délecter de mauvaises nouvelles ; c’est un
optimiste qui croit en l’intelligence de l’homme. Pourtant, le discours qu’il
tient dans la prestigieuse enceinte du MIT devant un aréopage de médecins donne
des frissons. Il assène : « Si vous disiez aux gouvernements du monde entier
que des armes qui pourraient tuer 30 millions de personnes sont actuellement en
construction, il y aurait un sentiment d’urgence à se préparer à la menace. »
Trouver des moyens pour lutter contre une
maladie mortelle émergente.
Nous
sommes en apparence mieux préparés que nous ne l’étions pour les pandémies
précédentes, explique-t-il. Nous avons des médicaments antiviraux qui peuvent,
dans de nombreux cas, améliorer les taux de survie. Nous avons des
antibiotiques qui peuvent traiter les infections secondaires comme la pneumonie
associée à la grippe. Mais, dit-il en substance, nous ne sommes pas encore
assez efficaces pour identifier rapidement la menace d’une maladie et
coordonner une réponse. Il termine en un appel aux gouvernements à trouver des
moyens avec l’aide du secteur privé pour mettre au point des technologies et
des outils en mesure de lutter contre une maladie mortelle émergente.
Résultat
: rien.
Troisième
exemple, début juin 2018. Une équipe de scientifiques
du John Hopkins Center for Health
Security publie un rapport intitulé « The
Characteristics of Pandemic Pathogens », qui établit un cadre pour
l’identification des micro-organismes naturels posant « un risque biologique
catastrophique global » (GCBR dans la terminologie des experts de santé
publique). Ces « GCBR » sont des événements dans lesquels des agents
biologiques pourraient conduire à une catastrophe soudaine, extraordinaire et
généralisée, au-delà de la capacité collective des gouvernements nationaux et
internationaux et du secteur privé à la contrôler.
Pour les
chercheurs, la prochaine pandémie ne viendra pas d’un virus à haut taux de
mortalité, mais d’un virus banal, de la famille de ceux qui nous assaillent en
hiver comme les rhinovirus ou coronavirus, par exemple. Ils ne sont que peu
mortels mais leur potentiel pandémique est énorme. Les auteurs soulignent, en
effet, que pour déstabiliser les gouvernements, l’économie, les sociétés et
toutes les organisations sanitaires, la mortalité importe moins qu’un taux très
élevé de personnes malades en même temps. Il est avéré qu’un virus peu mortel
mais extrêmement contagieux, notamment par les voies aériennes, peut finalement
provoquer une hécatombe.
Portrait-robot du futur agent pandémique
: un coronavirus à ARN d’origine respiratoire
Les
travaux de l’équipe de recherche aboutissent à un portrait-robot du futur agent
pandémique. Son mode de transmission, conclut l’équipe, sera très probablement
respiratoire. Il sera contagieux pendant la période d’incubation, avant
l’apparition des symptômes ou lorsque les personnes infectées ne présentent que
des symptômes bénins. Enfin, il aura besoin de facteurs spécifiques à la
population hôte (par exemple, des personnes non immunisées contre lui) et
d’autres caractéristiques de pathogénicité microbienne intrinsèque (par exemple
un taux de létalité faible mais significatif), autant de traits qui, ensemble,
augmentent considérablement la propagation de la maladie et l’infection.
D’autant que, parmi les critères, les chercheurs ajoutent que cet agent
pathogène se distingue par le fait qu’aucun traitement direct ou méthode de
prévention n’existe à ce jour contre lui.
Parmi
tout le bestiaire de microbes que les chercheurs ont analysé, ils en
distinguent une famille particulière : celle des virus à ARN comme le
coronavirus du SRAS par exemple. Les chercheurs recommandent donc de fixer
comme une grande priorité la surveillance des infections humaines causées par des
virus à ARN d’origine respiratoire. Des programmes de recherche clinique visant
à optimiser le traitement des virus à ARN à diffusion respiratoire devraient
être mieux financés. Enfin, les auteurs du rapport appellent à un renforcement
de la priorité de la recherche sur les vaccins contre les virus respiratoires à
ARN, y compris un vaccin antigrippal universel.
Résultat
: rien.
Ils
savaient
Ces
messages datent de 2018. Ils ont sans doute été lus et vus par des cohortes de
responsables dans le monde. Les politiques, les gouvernants, les autorités
sanitaires des États en avaient connaissance. C’est incontestable.
Ont-ils
pour autant pris les mesures qu’il fallait ? La même année 2018, en France, la
ministre de la Santé Agnès Buzyn a-t-elle vérifié les stocks de masques dont le
pays a besoin ? S’est-elle demandé si nous disposions de suffisamment de lits
de réanimation ou de respirateurs, ou de matériels de test ? Qu’ont fait ses
collègues dans les autres pays ? Le président Trump a-t-il pris les mesures pour
protéger les citoyens américains de la vague épidémique qui va déferler sur son
pays ? Certes il a un mot d’excuse : il était très occupé à twitter des
âneries. Quelles mesures a pris le monde face à la bombe à retardement
épidémique qui menace d’exploser en Afrique ?
Alors que les annonces de la catastrophe
se faisaient plus pressantes… https://twitter.com/intent/tweet?text=Alors+que+les+annonces+de+la+catastrophe+se+faisaient+plus+pressantes%E2%80%A6&url=https://up-magazine.info/?p=40431
Alors
que les annonces de la catastrophe se faisaient plus pressantes, écrit le
biologiste Eric Muraille, le sous-financement et la gestion managériale de la
recherche fondamentale ainsi que des services de santé réduisaient, en France
notamment, notre capacité d’anticiper et de répondre aux épidémies. Chercheurs
précarisés, réseaux coopératifs entre équipes de recherche fragilisés, cette
situation ne favorise pas le maintien des compétences et l’exploration de
nouveaux domaines de recherche pouvant contribuer à mieux connaître les agents
infectieux émergents et à identifier les nouvelles menaces. La pratique du flux
tendu (JIT) dans les hôpitaux, est devenue la norme qui réduit leur capacité à
faire face à des crises sanitaires majeures. Les baisses de financement de ces
services publics depuis des années comme la gestion court-termiste du système
de santé publique a, de facto, éteint toute capacité d’anticipation. Le
président Macron a bien juré dans son allocution du 20 mars : « Ce que révèle
cette pandémie, c’est qu’il est des biens et des services qui doivent être
placés en dehors des lois du marché ». N’est-ce pas déjà trop tard ?
Il
faudra bien, un jour ou l’autre, tirer les leçons de cette crise sanitaire qui
secoue le monde. D’autant que les catastrophes ne manqueront pas de se
reproduire. Climatiques cette fois-ci. Elles aussi sont annoncées à cor et à
cris. Nous savons que nous aurons dès l’été prochain des épisodes caniculaires
meurtriers, peut-être même avant que nous ne soyons remis de l’épisode
coronavirus. Nous savons que la mer grignote les
côtes partout sur la planète. Nous savons que des millions de réfugiés
climatiques vont s’agglutiner aux frontières. Nous savons que le monde va
devenir irrespirable, nous savons que notre alimentation, notre eau, nos
enfants sont en danger. Nous
savons.