Attraversare l’oceano
che separa il vecchio mondo dal nuovo, è un’impresa che richiede lucidità e
destrezza ai marinai ebbri della volontà di vivere da esseri umani.
Niente li assicura
di possedere queste doti a sufficienza, anzi, la storia – anche quella recente
dell’Antropocene arrivato oggi al suo stadio terminale – indica che ne mancano spesso
crudelmente. Eppure, nonostante tutto, la scommessa resta ancora possibile se è
vero che, finché c’è vita nella sopravvivenza, c’è speranza nei cuori e nelle
teste, c’è destrezza operaia nelle braccia e nelle gambe.
Molte donne e
uomini ci hanno provato e ci provano ancora con le loro fragili barchette
ideologiche, un tempo di carta, oggi tragicamente virtuali che li spingono
spesso piuttosto verso un intellettualismo estremista che verso la radicalità
del vivente. Comunismo e anarchismo hanno funzionato a lungo da salvagente di
soccorso per non annegare nello tsunami capitalista, ma hanno finito per imprigionarci
nella piscina ideologica installata all’interno del ghetto, spingendo i pesci
sovversivi a girare in tondo nel boccale di una logica binaria che si
accontenta di rompere qualche vetrina particolarmente odiosa e accessoriamente,
come dei bambini capricciosi, le scatole collettive, senza mai infrangere lo
specchio deformante del bene e del male che ci imprigiona tutti.
Al tempo in cui
l’industrializzazione ha rotto definitivamente gli argini naturali imponendosi
al vivente come progresso di una nocività radicale, un certo Marx ha illuminato
la via dell’emancipazione descrivendo con precisione la tana e le fauci del
mostro nella sua versione moderna, mentre un Nietzsche geniale e delirante ha
aggiunto alcune correzioni suscettibili di portare l’umano, mai abbastanza
umano, aldilà del bene e del male.
Quasi due secoli
dopo, non siamo avanzati di un pollice. Persino l’anarchia che pretende di
odiare tutti i poteri, confonde l’arkè
e il kratos che i greci antichi
distinguevano perfettamente. Sappiamo che tutti i bastardi suprematisti si sono
sempre subdolamente dichiarati devoti alla comunità, fingendosi sostenitori
fraterni dell’arkè che indicava il
potere condiviso (lo testimoniano i concetti odiosi e ipocriti di monarchia e
oligarchia). Il che non ha impedito a quegli stessi tiranni dispotici di denunciare
il popolo in rivolta contro il totalitarismo di uno Stato autocratico, cannibale
della nazione, accusandolo di essere democratico,
cioè, nella loro neolingua preorwelliana: un demos malvagio, sadico portatore di un potere imposto con la
violenza – il kratos.
Sempre il bene di
ogni suprematismo contro il male degli altri, i cattivi, i meticci. Sarebbe
lunga la lista di tutti quelli e quelle che hanno provato a ribellarsi a questa
trappola storica, ma immensamente più lunga è l’inventario di quanti si sono
accontentati di abitare la giungla artificiale della civiltà produttivista
facendosene i mentori privilegiati, gli operai laboriosi, i servi obbedienti o
gli schiavi adirati. Sarei tentato di dire che ognuno di noi esercita ancora
oggi, almeno in parte, uno o l’altro di questi ruoli in uno spettacolo la cui
regia sfugge al controllo di tutti, anche di quelli che lo mettono in scena con
opportunismo e cinismo. Detto e fatto, il che non mi procurerà molti amici in
un ghetto sempre più conflittuale.
Il pianeta terra
appartiene alla Natura non come una proprietà privata, ma come fonte di energia
vitale che si sprigiona orgasticamente in tutte le forme di vita nel senso così
chiaramente spiegato da W. Reich. Sto parlando di quella natura naturans che la miseria umana ha cercato mille volte di
imprigionare nell’ideologia chiamandola Dio, Onnipotente, Onnisciente, ogni
volta che appariva chiaro come il sole che gli ominidi non ci capivano niente e
cadevano come mosche malati dell’angoscia del piacere.
“Mamma, mamma”, impara subito a dire il bebè in cerca del
seno materno. Il piccolo è un mammifero, mica un papifero, e sa che la madre
nutre, mentre il padre nel migliore dei casi fa la guardia, nel peggiore impone
il suo dominio sulla prole. Perché un conto è discendere dalla scimmia
(ricordandosi che la vita è scaturita dal mare), un altro pretendersi un essere
umano che si autoproclama capace di andare oltre la sua animalità primitiva.
Questa tendenza vitale
spontanea al superamento si traduce troppo spesso in dominio e sopraffazione anziché
contribuire a una sintesi dialettica che consentirebbe alla gioia di vivere di prosperare.
Per questo l’essere umano resta un’opera d’arte incompiuta e non è affatto la
specie animale sublime che pretende di essere (mostrandosi anzi, sovente
autoritaria e predatrice a immagine e somiglianza degli dei che ha inventato).
In effetti, un tale
superamento fantasticato sarebbe effettivamente possibile se il maschio e la
femmina si accorgessero di abitare uno stesso corpo vitale in cui, dentro e
oltre le necessarie e benvenute differenze organiche, una centralità femminile
acratica è capace di rendere le diversità amorevolmente complici tanto nell’atto
creativo dell’amore sensuale che in tutte le altre manifestazioni della vita.
La pratica di
questa coscienza di specie si
tradurrebbe allora nel superamento delle separazioni, permettendo al maschile e
al femminile (in qualunque forma e situazione si esprima la loro radicale e
complice differenza) una godibile sovrapposizione orgastica dalle forme e
modalità senza fine. Così la vita si emanciperebbe dalla sopravvivenza,
realizzando in terra le condizioni arcadiche che il produttivismo ha spostato
nell’aldilà delle religioni o nell’aldiquà delle ideologie politiche.
Fino a oggi, ogni volta
che l’umano ha provato ad affermarsi, la sua disumanità l’ha riportato sulla
riva dell’oceano che gli resta da attraversare per fare di lui un essere
vivente, anziché un animale vegeto. Dobbiamo ancora imparare a saper vivere,
giovani generazioni e vecchi, femmine, maschi e più se affinità, senza limiti
né esclusioni.
La natura, la cui
energia inclusiva è contemporaneamente vitale e mortale, ha attirato su di sé l’affettività
di tutte le creature da lei messe al mondo. In particolare l’amore e l’odio degli
umani, questa specie arrivata ai bordi dell’animalità quando le spiagge del
pianeta terra non erano ancora inquinate e i mari da attraversare non ancora
invasi dalla plastica né surriscaldati dall’effetto serra.
In effetti,
l’essere umano esiste già nell’utopia, non ancora sul pianeta Terra, se non
come atto poetico che vola nell’aria fuggendo le fauci immonde del mostro
produttivista. Costui è un drago con i denti affilati dello Stato e le ali
predatorie del Mercato, una bestia immonda che soffia il fuoco incandescente
del suprematismo sui fragili corpi di un’umanità appena nascente, diventata il
pasto della belva sulla tavola apparecchiata del capitalismo planetario.
L’apparizione
recente di un virus la cui pericolosità dipende innanzitutto dalle condizioni
di una civiltà artificiale, incapace di riferirsi al vivente se non
imprigionandolo e sfruttandolo, ha un effetto distruttore che sta a noi rendere
pedagogico se non vogliamo che la morte sconfigga definitivamente la voglia di
vivere. Il peggio della pandemia in corso non è il pericolo virale (assolutamente
reale anche se c’è stato e ci sarà peggio) ma la virilità impotente con cui ci
si è confrontati: i dominanti manipolano il pericolo fino a trasformare il
distanziamento sanitario in distanziamento sociale utile all’estensione del
dominio produttivista; una parte dei dominati, logicamente diffidenti ma virtualmente separati dalla realtà, negano
o banalizzano la gravità se non l’esistenza stessa della pandemia – contribuendo
anch’essi a una logica suprematista, oggettivamente totalitaria.
Mai, dopo la
seconda guerra mondiale, la diffusione della struttura caratteriale autoritaria,
pur sempre puntualmente operante di nascosto, sempre al servizio mafioso di
quel produttivismo di cui essa è il killer e l’utile idiota, si era manifestata
con una tale intimidazione, con una tale capacità di occupazione spettacolare
di entrambi i lati di barricate di cartapesta con i suoi deliri mistici contrapposti
sul bene e sul male.
La peste di un
potere autoritario altrettanto aggressivo che ottuso (tanto quello esercitato abitualmente
dai dominanti che quello utilizzato istericamente da un certo numero di
dominati nel pur lodevole intento di rifiutare i diktat) è stata denunciata da
alcuni “marinai rivoluzionari” in nome della rivoluzione sociale – a cominciare
da quelli di Cronstadt del 1917, fino agli uomini e alle donne di mare aperto scaturiti
dal movimento delle occupazioni del maggio 1968. Questa pandemia emozionale
appare oggi in tutto il suo tragico splendore mostruoso, in tutta la sua
estensione, in tutta la nostra impotenza. Siamo sempre segregati nell’inferno
della sopravvivenza in una società più artificiale che mai, dove ogni schiavo è
il proprio carceriere, ogni pecora il proprio cane. L’umano al confino gratta e
scava, spinto da quel che resta della sua voglia di vivere, ma non trova ancora
l’uscita della prigione se non per riproporsi nel ruolo di carceriere.
Eppure dovunque,
con o senza gilet jaune, la Comune
non è morta. Bere, dunque, alla cattiva salute delle nostre contraddizioni vuole
essere un atto di salutare distanziamento dal delirio che sembra trionfare dappertutto.
Concediamo, dunque, un po’ di sollievo alle nostre coscienze scombinate per facilitare
la necessaria rinascita di una comunità umana organica, anche se sembriamo
ancora lontani dal ritrovare la strada perduta dell’emancipazione.
Mal scavato, vecchia
talpa!
Da questa
constatazione, se ce ne sarà il tempo e se una coscienza pratica emergerà dalle
rovine per farne tesoro, senza flagellazioni né sensi di colpa, ma con una
ritrovata lucidità, si dovrà ripartire per fare delle nostre vite e delle
nostre comunità quel che meritano di diventare: umane.
Sergio Ghirardi
Sauvageon, 25 gennaio 2022
Au-delà du boire et de la mer
Traverser
l'océan qui sépare le vieux monde du nouveau, est un exploit qui demande lucidité
et habilité aux marins ivres de la volonté de vivre en êtres humains.
Rien ne les
assure de posséder ces qualités en suffisance. Au contraire, l'histoire – même celle récente de l'Anthropocène, arrivé
aujourd’hui dans sa phase terminale – indique
qu'ils en manquent souvent cruellement. Pourtant, malgré tout, le pari garde
son sens car tant qu'il y a de la vie dans la survie il y aura de l'espoir dans
les cœurs et dans les têtes, de la dextérité ouvrière dans les bras et dans les
jambes.
Beaucoup
de femmes et d'hommes s’y sont risqués et essaient encore, à bord de leurs
fragiles petits bateaux idéologiques, autrefois en papier, aujourd'hui
tragiquement virtuels qui les poussent souvent plutôt vers un intellectualisme
extrémiste qu’à la radicalité du vivant. Le communisme et l'anarchisme ont longtemps
servi de bouées de sauvetage pour éviter la noyade dans le tsunami capitaliste,
mais ils ont fini par nous emprisonner dans la piscine idéologique aménagée à
l'intérieur du ghetto, en forçant les poissons subversifs à nager en rond dans le
bocal d'une logique binaire se contentant de briser quelques vitrines
particulièrement détestables et, accessoirement, comme des enfants capricieux,
les valseuses collectives, sans jamais briser le miroir déformant du bien et du
mal qui nous emprisonne tous.
Au temps où
l'industrialisation rompait définitivement les digues naturelles et imposait au
vivant le progrès d’une nuisance radicale, un certain Karl Marx éclairait la
voie de l’émancipation en décrivant précisément le terrier et la gueule du
monstre dans sa version moderne, tandis qu'un brillant et délirant Nietzsche a
apporté quelques corrections susceptibles de mener l'humain, jamais assez
humain, au-delà du bien et du mal.
Près de deux siècles plus tard, nous
n'avons pas avancé d'un pouce. Même l'anarchie, qui prétend haïr tous les
pouvoirs, confond cette arkè et ce kratos que les anciens Grecs
distinguaient parfaitement. Il est connu que tous les salauds suprématistes se
sont toujours sournoisement déclarés dévoués à la communauté en se faisant
passer pour des supporters fraternels de l'arkè,
qui désignait le pouvoir partagé (en témoignent les concepts haïssables et
hypocrites de monarchie et d'oligarchie). Cela n’a pas empêché ces mêmes tyrans
despotiques de dénoncer le peuple en révolte contre le totalitarisme d’un Etat autocratique
en train de cannibaliser la nation, l’accusant d’être démocrate, c'est-à-dire, dans leur novlangue pré-orwellienne :
un demos méchant, sadique porteur
d'un pouvoir imposé avec violence – le kratos.
Toujours le bien de tout suprématisme contre
le mal des autres, les méchants, les métèques. La liste serait longue de tous
ceux et celles qui ont tenté de se révolter contre ce piège historique, mais
immensément plus long est l’inventaire de ceux qui se sont contentés d'habiter
la jungle artificielle de la civilisation productiviste, devenant ses mentors
privilégiés, ses travailleurs acharnés, ses serviteurs obéissants ou ses
esclaves en colère. Je serais tenté de dire que chacun de nous, aujourd’hui encore,
joue, du moins en partie, l’un ou l’autre de ces rôles dans un spectacle dont
la mise en scène échappe à tout le monde, même à ceux qui le dirigent avec
opportunisme et cynisme. Voilà qui est dit, et je ne vais pas me faire que des
amis dans un ghetto de plus en plus conflictuel.
La planète Terre appartient à la Nature non
pas en tant que propriété privée mais en tant que source d'énergie vitale qui
se déploie orgastiquement dans toutes les formes de vie dans le sens si bien expliqué
par W. Reich. Je parle de cette natura
naturans que la misère humaine a tenté mille fois d'enfermer dans
l'idéologie en l'appelant Dieu, Tout-Puissant, Omniscient, chaque fois qu'apparaissait
clair comme le soleil que les hominidés n'y comprenaient rien et tombaient
comme des mouches malades de l’angoisse du plaisir.
« Maman, maman », apprend immédiatement à dire le bébé à
la recherche du sein de sa mère. Ce petit est un mammifère, pas un papifère, et
il sait que la mère nourrit, tandis que le père au mieux protège, au pire
impose sa domination sur la progéniture. Car c'est une chose que de descendre
du singe (en se rappelant que la vie a jailli de la mer), c'en est une autre de
prétendre être un être humain qui s’autoproclame capable de dépasser son
animalité primitive.
Cette tendance vitale spontanée au
dépassement se traduit trop souvent par la domination et l'oppression au lieu d’aboutir
à une synthèse dialectique qui permettrait à la joie de vivre de s’épanouir. C’est
pourquoi l'être humain reste une œuvre d'art inachevée et n'est pas du tout l’espèce
animale sublime qu’il prétend être (se montrant souvent, en fait, autoritaire
et prédatrice à l'image et à la ressemblance des dieux qu'elle a inventés).
Un tel dépassement fantasmé serait effectivement
possible si le mâle et la femelle réalisaient qu'ils habitent le même corps
vital dans lequel, à l'intérieur et au-delà des différences organiques
nécessaires et bienvenues, une centralité féminine acratique est capable de
rendre les différences amoureusement complices, à la fois dans l’acte créatif de
l'amour sensuel que dans toutes les autres manifestations de la vie.
La pratique de cette conscience d'espèce se traduirait alors dans le dépassement des
séparations, permettant au masculin et au féminin (sous quelque forme et dans
quelque contexte que s'exprime leur différence radicale et complice) une superposition
orgastique réjouissante, aux formes et aux modalités infinies. Ainsi la vie
s'émanciperait de la survie, réalisant sur terre les conditions arcadiennes que
le productivisme a déplacées vers l'au-delà des religions ou dans l’en deçà des
idéologies politiques.
Jusqu'à présent, chaque fois que l'humain a
tenté de s'affirmer, son inhumanité l'a ramené au bord de l'océan qu’il lui
reste à traverser s’il veut faire de lui, d'un animal survivant, un être
vivant. Il nous reste à apprendre à savoir vivre, jeunes générations et grands-parents,
femmes, hommes et plus si affinité, sans limites ni exclusions.
La nature, dont l'énergie inclusive est à
la fois vitale et mortelle, s'est attiré l’affectivité de toutes les créatures
qu'elle a mises au monde. Et en particulier l'amour et la haine des humains,
cette espèce arrivée aux limites de l'animalité alors que les plages de la
planète terre n'étaient pas encore polluées et les mers pas encore envahies de
plastique ni surchauffées par l’effet de serre.
Car l'être humain existe déjà dans
l'utopie, pas encore sur la planète Terre, sauf comme un acte poétique qui vole
dans les airs fuyant la gueule immonde du monstre productiviste. Celui-ci est
un dragon arborant les dents acérées de l'État et les ailes prédatrices du
Marché, une bête immonde qui souffle le feu incandescent du suprématisme sur
les corps fragiles d'une humanité à peine naissante, devenue le repas de la
bête sur la table dressée du capitalisme planétaire.
L'apparition récente d'un virus dont la
dangerosité dépend avant tout des conditions d'une civilisation artificielle,
incapable de se référer au vivant sinon l'emprisonnant et l’exploitant, a un
effet destructeur qu'il nous appartient de rendre pédagogique si nous ne
voulons pas que la mort l'emporte définitivement sur la volonté de vivre. Le
pire de la pandémie en cours n'est pas le danger viral (bien réel même s’il y a
eu et s’il y aura pire), mais la virilité impuissante à laquelle on est
confronté : les dominants manipulent le danger jusqu’à transformer la distanciation
sanitaire en distanciation sociale utile à l’extension de la domination
productiviste ; une partie des dominés, logiquement méfiants mais virtuellement frappés par un déni de
réalité, nient ou banalisent hystériquement la gravité sinon l’existence même de
la pandémie – en participant eux aussi à une logique
suprématiste, objectivement totalitaire.
Jamais, depuis la Seconde Guerre mondiale,
la diffusion de la structure caractérielle autoritaire, toujours ponctuellement
et sourdement opérationnelle, toujours au service mafieux de ce productivisme
dont elle est le tueur à gage et l’idiot utile, ne s'était manifestée avec une
telle intimidation, avec une telle capacité d’occupation spectaculaire de part
et d'autre de barricades en papier mâché, avec ses délires mystiques contraposés
à propos du bien et du mal.
La peste d’un pouvoir autoritaire aussi agressif
que bête (autant celui exercé habituellement par les dominants que celui
utilisé hystériquement par un certain nombre de dominés dans la louable
intention de refuser les diktats) a été dénoncée par des « marins
révolutionnaires » au nom de la révolution sociale – commençant par ceux
de Cronstadt en 1917, jusqu’aux hommes et aux femmes du large issus du
mouvement des occupations de mai 1968. Cette pandemie émotionnelle apparaît
aujourd'hui dans toute sa monstrueuse splendeur tragique, dans toute son
extension, toute notre impuissance. Nous sommes toujours coincés dans l'enfer
de la survie dans une société plus artificielle que jamais, où chaque esclave
est son propre geôlier, chaque mouton son chien. L'humain confiné gratte et
creuse, poussé par ce qui lui reste de volonté de vivre, mais il ne trouve toujours
pas le moyen de sortir de prison sinon pour se reproposer dans le rôle de
geôlier.
Et pourtant partout, avec ou sans gilet jaune, la Commune n’est pas morte.
Boire, donc, à la mauvaise santé de nos contradictions veut être un acte de
distanciation salutaire du délire qui semble triompher partout. Accordons donc quelques
soulagements à nos consciences ébranlées afin de faciliter la renaissance nécessaire
d'une communauté humaine organique, même si nous semblons encore loin de
retrouver le chemin perdu de l'émancipation.
Mal creusé, vieille taupe !
De ce constat, s'il reste du temps et si une
conscience pratique émerge des ruines pour le prendre en compte, sans
flagellations ni sentiments de culpabilité, mais avec une clarté retrouvée, il
faudra redémarrer afin de faire de nos vies et des nos communautés ce qu'elles
méritent de devenir : humaines.
Sergio Ghirardi Sauvageon, le 25 janvier
2022