Questo recente scritto di Raoul Vaneigem è
già stato pubblicato in Francia e Messico, in francese e spagnolo. Eccone ora
anche una prima traduzione in italiano.
Sergio
Ghirardi Sauvageon
Agli zapatisti, ai
gilets jaunes,alle insorte e agli insorti
che ovunque nel
mondo oppongono la vita all’economia che la uccide.
L’impossibile di
ieri è il possibile di oggi
Nel suo rapporto alla Convenzione,
Saint-Just dichiarava nel 1794: “L'Europa impari che voi non volete più neppure
un solo infelice né un oppressore sul territorio francese; che questo esempio fruttifichi
sulla terra, che vi si proponga l'amore delle virtù e della felicità. La
felicità è un'idea nuova in Europa”.
Nemmeno un infelice, nemmeno un
oppressore sul territorio francese né sulla terra! Ecco quanto basta a far
circolare il dubbio e la condiscendenza, almeno finché non ci si renda conto
che capita alla realtà di scardinare i pregiudizi più saldamente ancorati al
passato.
Il sogno di una società egualitaria
non ha smesso di perseguitare e sconvolgere tutte le generazioni dalla
costituzione di una società gerarchica, che segna con il suo infame sigillo
l'atto di nascita della civiltà agro-mercantile.
Lo sfruttamento dell'uomo da parte
dell'uomo è stato così ben identificato come un fenomeno naturale che è stato a
lungo considerato eterno. La leggenda di entità divine, bardate di un’autorità assoluta,
ha piegato il corpo e lo spirito alla volontà di un drappello di principi e
sacerdoti, sedicenti detentori autoproclamati di un mitico mandato celeste.
L'accanimento spirituale e temporale
nel mutilare uomini e donne per vendere loro delle stampelle conferiva alla
sudditanza dei popoli un carattere irrevocabile. C’è voluta la Rivoluzione
francese per spezzare il giogo che costringeva il pensiero a inginocchiarsi,
per quanto eversivo nelle sue intenzioni.
Se l'abrogazione dell'Ancien Règime non ha abolito né la sventura della creatura oppressa né
l'asservimento dello schiavo ai suoi padroni, ha almeno rotto con il fatalismo
che attribuiva a un'impotenza originaria – a una malformazione ontologica
dell'uomo e della donna – il bisogno di un Dio, di una guida tutelare, di un grande
timoniere, di un piccolo padre dei popoli. La sua fine ha spezzato le catene
che il dogma dell'impossibile aveva forgiato nei secoli.
Non vogliamo più
un'esistenza putrefatta dal pensiero della morte. Per secoli, il memento
mori ha ossessionato i dibattiti pubblici e privati. Uomini e donne
sopravvivevano, cupi, arrabbiati e confinati nelle anticamere della morte. La
Rivoluzione francese ha insegnato loro che un altro mondo era possibile.
Sappiamo da allora che il vasto campo dei desideri del cuore si è aperto
davanti a noi. Il sogno di una vita vera ha cominciato a scoprire territori in
divenire. La poesia fatta da tutti e da tutte è un percorso che si snoda nel
presente.
D'altra parte, e contemporaneamente all'avanzare della volontà
d’emancipazione, i sussulti rabbiosi del conservatorismo – tanto di destra che
di sinistra - ci colpiscono in pieno. Sta a noi capire quanto si manchi di audacia
per far prevalere il nostro desiderio di vita sulla dittatura del potere e del
profitto. Dovremo morire di non vivere per renderci conto che chi gestisce le
nostre vite le sta rendendo cancerogene?
Bruciare le carte delle
nostre pseudo-identità. Che cosa aspettiamo per distruggere non gli uomini del sistema
oppressivo ma i loro strumenti, bulldozer e scavatrici della devastazione lucrativa?
Che cosa aspettiamo per bloccare la grande macchina frantumatrice della vita
creando e moltiplicando zone di resistenza e di gratuità? Quando verranno il
tempo e la terra libera in cui, in omaggio ad Albert Libertad, bruceremo le
carte di un'identità burocratica e statistica, della quale non sappiamo che farcene?
Combattere per una
felicità autentica e non fittizia. Segno delle ironie della storia, vediamo ripetersi oggi – in modo parodistico –
l'entusiasmo che alla vigilia della Rivoluzione i filosofi dell'Illuminismo
provarono per la ricerca di una felicità naturale e per il buon selvaggio
considerato in grado di raggiungerla.
Mentre l'impoverimento minaccia di spegnere le luci al neon dei
supermercati e mettere fine alla vendita pubblicitaria dei piaceri, è un intero
popolo, colonizzato e obnubilato per decenni dal cuore artificiale di una
società senza cuore, che si ritrova privato delle consolazioni dell’avere, supposto palliativo delle
deficienze dell'essere.
Abituato a vedere nei pezzenti delle città e delle campagne solo
una folla versatile e manipolabile, il Potere si è improvvisamente trovato di
fronte a un popolo che ha saputo proteggersi dal recupero populista. Zapatisti,
Gilets jaunes, insorti di villaggi,
quartieri, piazze, rotonde, rompendo con il gregarismo tradizionale, costituiscono
assemblee d’individui ribelli, che appaiono come buoni selvaggi, un po'
inquietanti, incontrollabili, incomprensibili perché, in realtà, inclassificabili.
Il loro spiegamento tranquillo fa tremare i codardi dominanti. Quanto
sono pietosi i governanti che esorcizzano la loro paura con raddoppiata
violenza vendicativa contro chiunque si rifiuti di contorcersi più a lungo
nella tinozza della servitù volontaria!
Di fronte all'inespiabile delitto di ribellione, la consorteria
dell'incompetenza autoritaria alimenterebbe volentieri le braci di una guerra
civile se la prudenza non le ingiungesse di limitarsi a metterla in scena, questione
di evitare, non si sa mai, che dei desperados
armati di droni e mortai bombardino l'Eliseo e i ghetti dei ricchi.
Il capitalismo è in
preda alla sua autodistruzione. Questo è un fatto notevole sul quale non si è insistito
abbastanza. Trionfando, il capitalismo abbandona sul terreno conquistato di che
indebolirlo e distruggerlo. Sebbene il fenomeno si realizzi a sua insaputa e
contro la sua volontà, non ha nulla di recente, se si pensa al libero scambio
che, nel Settecento, favorì, sulla scia della sua vittoria contro l'Ancien Régime, una libertà di pensiero che gli avrebbe dato molto filo da
torcere.
a) Che ne è dei colpi inferti alla combattività dei lavoratori, che
ne è del gauchismo che non ignora
come la burocratizzazione del movimento operaio abbia minato la coscienza di
classe? Saldando la felicità a basso prezzo, la colonizzazione consumistica
completa la distruzione del proletariato. Quest'ultimo regredisce alla
condizione di plebe, che era la sua prima dei suoi primi tentativi di
organizzazione, durante lo sviluppo industriale del capitalismo.
Che cosa è la plebe? Un gregge che si addomestica con pane e
giochi e che è fucilato quando si ribella. L'emozione lo acceca e qualsiasi individuo
ambizioso ha poche difficoltà a condurlo dove vuole. È in questa forma che in
un primo tempo gli spiriti buoni di sinistra hanno percepito il movimento dei Gilets Jaunes, prima di riconoscere il
loro errore correndo, di convergenza in convergenza, per prendere il treno in
marcia. Gli stessi spiriti buoni si radunano ora attorno al passaporto
sanitario obbligatorio. In nome della salvezza comune, illustrano
brillantemente l’ABC della neolingua: la schiavitù è la libertà.
Bisognava essere totalmente insensibili allo sconforto
universale per non intuire, sotto il rifiuto di una tassa, l'esacerbazione
generalizzata di un Ya basta, di un Troppo è troppo.
Anziché il populismo previsto, si sono viste improvvisamente
rinascere, diffondersi e rafforzarsi le reti del mutuo soccorso. In effetti,
l'aspirazione a rendere uomini e donne degli esseri interamente umani non ha
mai smesso di essere al centro delle pulsioni rivoluzionarie, ha sempre
costituito il nucleo radicale delle insurrezioni del passato. Il progetto di
una società senza classi, come concepito da Babeuf, Marx Bakunin, Kropotkin,
Reclus e qualcun altro, ha solo prestato una forma storica passeggera alla
risoluzione assoluta che, senza leader, senza gerarchia, illumina il mondo con le
sue insurrezioni sociali ed esistenziali.
b) Mentre la macchina per sbriciolare il vivente privilegiava il
puritanesimo e difendeva le virtù del sacrificio, il capitalismo consumista è
stato portato a rendere popolare, in senso contrario, un edonismo di mercato. Senza
volerlo, ha contribuito a riabilitare il godimento, a liberarlo del senso di
colpa, ad alimentare una crescente ostilità verso l'austerità patriarcale,
pilastro di sostegno della gerarchia sociale.
c) Oggetto di una frenetica pubblicità promozionale, la felicità
è apparsa come un'idea nuova. Era un'idea astratta, svuotata della sua sostanza
carnale, ma il suo vuoto sollevava interrogativi. Tale idea ha risvegliato una
coscienza critica che non ha trovato grande difficoltà a decorticare la
menzogna. Ne è scaturita una verità che si può riassumere come segue: il denaro
rovina tutto ciò che tocca. Ciò che si paga imputridisce.
Nella misura in cui l'impoverimento aggrava la crisi dell'avere, lavora per riabilitare l'essere. Una volta acquisita l'idea che
la gratuità è l'antidoto al capitalismo, si tratterà solo di metterla in
pratica.
d) Si pone finalmente la questione: che cosa perdiamo perdendo
il paradiso monetizzabile e adulterato di una “grande distribuzione” che
scimmiotta l'abbondanza edenica? La modesta proposta di riscoprire il sapore
dei prodotti naturali può continuare a fungere da etichetta per l'ecologia
mercantile, offre, però, alle collettività locali una pratica di autogestione
che avrà ragione dell'inquinamento agroalimentare e della plastificazione di
frutta e verdura. Il ritorno degli orti collettivi dove ci si coltiva invece di
fare ognuno il gendarme dell’altro, inventa una "rivoluzione
dell'orticoltura" che ha il merito di proporre, senza retorica barricadiera,
una risposta sorridente e ricca di humour alla rivoluzione agraria da cui è
nata la civiltà mercantile.
La disperazione fa la
forza dei tiranni. Il
più delle volte mostriamo una desolante compiacenza verso ciò che ci sconfigge,
ci annoia, ci oscura, ci svaluta, ci annienta. Per lo sguardo ottenebrato, i
bagliori di speranza sono solo scintille effimere e ingannevoli.
Il malessere e la malattia di solito danno più sostanza
all'esistenza che le celebrazioni festive del vivente. Questa inclinazione
difficilmente aiuta a liberarsi dalla miseria opprimente. Tuttavia, è in nome
della lucidità – della luce – che si combattono in gran parte le battaglie
contro il capitalismo. Non è una terribile ammissione d’impotenza percepire la
sconfitta prima di dare battaglia? Se ci confiniamo all'ombra della morte, come
scoprire la vera vita?
Non è spaventoso che la ragione e l'immaginazione si concentrino
sulla peggiore oppressione, quando hanno tutto l’agio di esplorare gli immensi
territori che la vita offre a chi ne sente le pulsazioni in sé e nel mondo?
Perché se sappiamo tutto sulla noiosa sopravvivenza, sulla lunga agonia che la
tecnologia bio affarista s’impegna a prolungare, d'altro canto la nostra
esistenza rimane nell'ignoranza quasi totale dei nostri impulsi vitali, tanto
il lavoro, il potere, il profitto li ostacolano e li sviano.
La strategia del caos, cui il capitalismo ricorre per compiere impunemente le sue
operazioni di distruzione della terra, dell'acqua, dell'aria, del vivente, è
all'origine del panico organizzato con il pretesto di un'epidemia nello stesso
tempo reale e fittizia.
Si cercherebbe invano nella storia un tempo in cui la deficienza
mentale sia stata così gloriosamente eretta a principio di governo. Mai così tanta
ragione e irragionevolezza sono arrivate a un tale culmine di aberrazione: rinunciare a vivere per non morire.
Con il pretesto di un virus meno pericoloso per le sue
innegabili devastazioni che per la sua amplificazione mediatica, i governi
hanno fatto di uomini, donne e bambini delle creature spaventate che si
rifugiano nelle nicchie della loro povera esistenza.
Immaginate ora che un gigantesco riflusso inverta la reazione di
panico che ha accecato le coscienze, calpestato il buon senso e sfiancato la
pazienza di cavie minacciate di vaccinazione permanente! Parlereste di delirio
infantile, voi che bevete direttamente all'abbeveratoio della pontificante deficienza
dei vostri padroni? Alto là! Attenti alle meraviglie dell’infanzia, attenti
alla rinascita che spunta e alle voci che invocano l' afflusso improvviso di
una nuova innocenza!
Il cretinismo dei piccoli uomini al potere è, nonostante i loro
sforzi, meno contagioso dell'intelligenza sensibile di pochi estranei.
La soggettività
radicale porrà fine al processo di reificazione. Rifiutiamo di essere trasformati in una cosa, un numero, un
valore di scambio, una categoria statistica. Siamo in cammino verso un
approccio di sé e dell'altro che stabilisce l'assoluta preminenza del soggetto
sull'oggetto. Tale scelta non obbedisce a un imperativo categorico, non
risponde a un dovere etico, ma annuncia la pratica di uno stile di vita del
quale le nostre rare gioie di vivere danno un'idea. Mi accontento di celebrare
l'aiuto reciproco, finalmente riscoperto. Immagino con letizia il benefico
tornado del vivente che si abbatte sull'impero del calcolo egoistico.
Con il predominio del valore di scambio sul valore d'uso, il
regno della merce ci ha abituato a entrare in un mondo capovolto, una vita al
contrario. La religione e la filosofia non hanno altro riflesso da mettere
sotto i denti che una realtà rappezzata, miseramente gettata sottosopra. Lo
spirito si sfianca di secolo in secolo per spronare alla saggezza e
all’equilibrio il povero homo sapiens
che non smette mai di cadere e vorticare nel vuoto.
La credenza in una vita postuma aveva a lungo concesso ai
dannati della terra la consolazione di lasciare la loro valle di lacrime per un
aldilà dove i loro sogni ricorrenti avrebbero raggiunto una realtà virtuale.
Almeno questa era la garanzia data al prezzo di un'obbedienza assoluta alla
Chiesa e di una fede incrollabile nelle sue favole divine.
Oggi non c'è più né fede, né speranza, né carità, né illusione. Del
resto, non c’è più pensiero. Il futuro è un passato messo a nuovo sotto
l'etichetta grottesca del trans umanesimo. Il presente prega aspettando il
peggio, il che equivale a pregare per il peggio. Più nulla nasconde il
terribile fetore del mondo a rovescio.
Benvenuti nella neolingua. L'assurdo s’intasa e si vomita. Una crescita escrementizia
trabocca dalle latrine della normalità. La purulenza della menzogna cancella la
menzogna stessa. La neolingua apre
l'accesso all'universo transumanista che programma il nostro avvenire. Una
chiave d’ascolto, di lettura, d’apprendimento vi pulirà il cervello sbarazzandolo
dalle sue scorie emotive. Per consolarvi delle vostre carenze mentali, vi
basterà generalizzare qualche stereotipo martellato dall’informazione ufficiale.
L'obbligo di vaccinazione ne offre una gamma esemplare:
“La schiavitù è la libertà. L'ignoranza è la conoscenza. Le
decisioni peggiori sono le migliori. L'avidità è un segno di generosità. La
corruzione è una purezza intenzionale. Il puritanesimo e il divieto di toccarsi
sono i garanti della nostra salvezza. Quanto alla malattia, essa obbedisce al
principio, preliminarmente ripulito del suo umorismo: “Ogni uomo in buona salute è un malato che s’ignora”.
Logica di morte e
dialettica di vita.
Per chi è abituato a identificare normalità e realtà capovolta, non c'è nulla
d’illogico nel rovinare il settore ospedaliero e rendere omaggio al personale curante.
Vegliare sulla salute dei cittadini non è incompatibile con l'obbligo di
passare per lobby farmaceutiche più motivate dai loro interessi finanziari che
dallo stato delle loro cavie.
Ripetiamolo con insistenza: non esistono rimedi di massa, trattamenti
che si applichino uniformemente agli individui come se fossero intercambiabili,
come se la loro esistenza statistica li svuotasse della loro esistenza carnale.
La sicurezza che si sostituisce
al sanitario è un crimine deliberato. Sappiamo che tutti sono soggetti a reazioni psicosomatiche che
differiscono da persona a persona. Soltanto un rapporto di fiducia tra il
medico e il suo paziente è abilitato a prendersi cura e trattare con cognizione
di causa questo tipo di organizzazione intima.
È in tale rapporto che i vecchi vaccini contro la tubercolosi,
il tetano, la poliomielite s’inscrivevano e hanno dimostrato la loro efficacia.
Lo Stato, nella sua obbedienza servile alle mafie farmaceutiche, ha posto fine
al “medicus curat, natura sanat” che stabiliva
tra curato e curante una solidarietà propizia alla guarigione. Mal remunerata, una
parte della professione medica ha ceduto al ricatto finanziario del mercato
sanitario, dando a un umorista l'opportunità di prendere in giro quanti al giuramento
d’Ippocrate preferiscono quello d’ipocrita.
Quali misure d’interesse pubblico potrebbero decretare con
giudizio i gestori della miseria redditizia? Guardate con quale zelo
pubblicitario mettono in scena una presunta fedeltà universale ai loro
ghiribizzi: maschere, niente maschere, confinamento, nessun confinamento,
pericolo nei bar e ristoranti, nessun pericolo nei treni, autobus,
metropolitana. Dicono e si disdicono senza scrupoli, senza neppure più dissimulare
i loro scatti meccanici sotto un’apparenza umana. Almeno siamo di fronte a una
disumanità senza vie di fuga, a una glaciazione burocratica allo stato bruto.
Quando la morte, patrocinata dall'assurdo, arriva a un tale stadio
di ridicolaggine, ci si può chiedere se non se ne debba ridere; sorridere di
questo ridere della vita da cui l’umano trae la sua potenza serena.
Attuare misure di prevenzione e di lotta contro le pandemie
presenti e future significa dare priorità al mutuo soccorso, a una generosità
che rafforzi la salute e la immunizzi contro le malattie con le quali un
ambiente morboso ci molesta.
La nostra autodifesa sanitaria ha tutte le ragioni per ignorare
le ragioni di Stato. Non abbiamo forse il diritto di considerare nulli i
decreti dettati dalla preoccupazione di diffondere una paura di cittadinanza,
di confinare ognuno nella sua cuccia dove farà della sua collera uno strumento
di delazione?
Qualsiasi rapporto con lo Stato è tossico.
La prospettiva della vita è la creazione di se stessi e del
mondo
Ieri strumento della classe dirigente, lo Stato non è, oggi, altro
che un ingranaggio della macchina per produrre profitto. Trasmette gli
interessi privati che rendono redditizia la distruzione del pianeta. Sotto le
sue apparenze e le sue realtà democratiche o tiranniche, rimane essenzialmente
una violenza fatta all’essere umano, nato libero per natura.
Se i Diritti Umani sono oltraggiati ovunque, se sono la fiaccola
di una speranza spenta dalla benché minima oppressione, è perché quest'Uomo, la
cui libertà pretende di scaturire da una grazia divina, è un fantasma,
un'astrazione e non un essere umano, un'emanazione del vivente, un'intelligenza
sensibile.
Gli insorti internazionali che ci vengono incontro armati della
loro vivacità festosa gettano le basi per un'internazionale del genere umano
contemporaneamente informale e auto organizzata. Ripudiando il militantismo
sacrificale e vittimizzante, rammentano dove si trova la vera lotta. Sono i
guerriglieri pacifici che vanno oltre le fazioni che la strategia del caos e
del capro espiatorio oppongono tra loro. Liberiamoci dal manicheismo, del
pensiero binario che, distogliendoci dalle vere lotte, spinge l'emancipazione
nell'impasse.
La libertà di vivere
abolisce le libertà dell'economia. Gli esseri umani hanno solo diritti. Possono tutto perché non
devono nulla. È sufficiente che la volontà di autonomia individuale ripudi
l'individualismo e il suo calcolo egoistico affinché ognuno conduca la propria
vita come meglio crede. L’essere umano non deve rendere conto a nessuno.
Perché, ponendo fine all'alienazione gregaria, l'aiuto reciproco non richiede
alcuna contropartita. Il mutuo soccorso non è un dovere, è una manifestazione
spontanea del vivente.
Non fatemi dire che l'individuo in cerca di autonomia ha
spontaneamente la capacità di influenzare la sua vita e il suo ambiente. Affermo
soltanto che abbandonarsi al piacere di
desiderare senza fine è più piacevole dell'esistenza angusta cui si riduce
la sopravvivenza.
L'esuberanza tranquilla degli zapatisti e dei gilets jaunes offre forse per la prima
volta nella storia l'esempio di un'insurrezione che mantiene il sorriso mentre continua
ad avanzare dritta davanti a sé, attraverso il sangue, il rumore, il furore e l’orrore
del vecchio mondo.
Quali che siano i nostri dubbi, disperazioni e delusioni, è da
ogni parte che ci giungono le grida dell'innocenza ribelle: “Non mollare mai”!
“Sacrificare la propria vita è correre verso una morte prematura”.
Garantire la preminenza
del mutuo soccorso.
Non è un'audacia alla portata di tutti fare del nostro presente l'eterno
meriggio della vita. La formula, però, ha senso solo se portata da un'onda di
solidarietà, la cui realtà messa a punto lascia filtrare solo la schiuma.
Il mutuo soccorso è un'onda di fondo che ignora la costrizione. L'attrazione
appassionata è il segreto della sua irresistibile espansione. Eppure, come
tutte le manifestazioni della vita, essa è soggetta a capovolgimento e pronta a
trasformare in celebrazione della morte una vitalità trascurata che s’infuria improvvisamente,
dopo aver languito di noia, per un vuoto che questa energia vitale appestata riempie
con metodi hitlero-stalinisti.
Garantire i diritti dell’essere
umano. Dove
l'uccello di Minerva non prende più il volo, le grandi ali della morte fanno di
ogni giorno una notte.
Da qui l'utilità di redigere collettivamente una Costituzione dei diritti dell’essere umano
che ci collochi in una prospettiva di vita che la nostra storia disumana ha
costantemente ribaltato.
Dove iniziano i nostri
diritti, finisce la predazione. Fin dalla prima elaborazione dei Diritti dell'essere umano, le collettività locali e regionali preposte
alla loro redazione farebbero bene a non cedere agli animi buoni
dell'umanesimo, le cui suppliche etiche risuonano da secoli sui tamburi della
filantropia caritativa.
Critica dell'ideologia
umanista. Evocare
le origini e la funzione dell'umanesimo ricorda come un’evidenza che quello che
a essere preso in considerazione non è l'essere umano in cerca di maggiore
umanità, ma l'homo economicus, l'uomo diventato strumento
di un'economia che l’oggettiva. Benché il suo
status di merce sia costantemente messo in discussione dalle insopprimibili
pulsioni vitali, la riduzione tendenziale all'oggetto mercantile si basa sul
valore d'uso dell'uomo e della donna economizzati per giustificare il loro
valore di scambio. Così come un paio di scarpe la cui utilità mi convince a
pagarne il prezzo di acquisto.
La compassione, la sollecitudine, l'interesse per ciò che resta
umano nell'individuo e nella società fanno parte del valore d'uso. Fu un grande
passo del progresso umano – forse l'unico – la decisione di non giustiziare i
prigionieri rastrellati durante i conflitti che contrapponevano i primi villaggi
fortificati, poi le città-Stato e gli Stati-nazione successivi. I vinti hanno
pagato con la morte il prezzo della loro sconfitta finché la ragione del
profitto non ha fatto valere quanto fosse giudizioso risparmiare a nemici
disarmati un'esecuzione rituale tanto contraria allo spirito razionale del
libero scambio. Concedere loro una sopravvivenza insperata li rendeva debitori
di un debito immemorabile. Per liberarsi di questo debito, infatti, avrebbero
dovuto farsi schiavi, sottoponibili a qualunque corvè, di padroni di cui
avrebbero dovuto celebrare l'avidità compassionevole. Questa è l'origine della
servitù volontaria.
L'oppressore contribuisce alla felicità degli sventurati
scambiando la loro morte brutale con questo contratto di vita apparente che è
la sopravvivenza. L'impostura umanista si perpetuerà finché si farà fatica nel
districare la parte di umanità autentica dalla contrazione che dissimula la sua
funzione commerciale.
Soltanto l'esperienza del "vivere insieme" – diretta dal locale al globale – può presiedere all'emergere di uno stile di vita. Mettere al
bando i riflessi predatori favorendo l'aiuto reciproco fa parte di una poesia
pratica in cui il cambiamento radicale delle nostre mentalità e dei nostri
costumi renderà obsoleta l'arida enumerazione dei Diritti Umani, che
“funzioneranno da soli”.
Ciò che è all'opera è
un'insurrezione dei cuori. Se si stima che l'affermazione "la vita va da sé", è
facile da dire e poco importa come, chiedetevi perché, godendo di una felicità
che sta a cuore, si sente il desiderio di affinarla, agendo per la felicità di
tutta l'umanità? Chiedetevi perché la beatitudine egoistica è traballante e
malaticcia.
Il regno delle
separazioni e la poesia del superamento. Non abbiamo conosciuto altri diritti se non quello di avere. Affermare i diritti dell'essere implica di ristabilire in noi,
con il nostro ambiente e con l'universo, un'unità originaria che è stata rotta
dall'instaurazione di una civiltà basata sull'appropriazione, sul potere gerarchico,
sulle libertà commerciali.
Lo sfruttamento congiunto della natura e dell'uomo ha inaugurato
il regno delle separazioni. Le strutture dualistiche si diffondono ovunque. Il
bene e il male, la luce e le tenebre, la vita e la morte offrono loro un
modello archetipico ideale.
L'economia d'appropriazione e la sua suddivisione sociale in signori
e schiavi provocano nell'homo sapiens una scissione in cui lo spirito
ha la funzione di dominare il corpo carnale. L'esistenza subisce allora una
vera e propria mutilazione che macchia di sangue e di pus il pensiero
frammentario alla ricerca della sua unità perduta (la logica binaria di Aristotele
tenterà di ordinarla rinchiudendola nello stagno di A e non-A.)
Hegel annuncia la fine delle dualità regnanti mentre la lotta di
classe, rivelatasi sotto la Prima Repubblica, inscrive nella realtà della
storia un processo di superamento in cui l'antagonismo tra signore e schiavo si
dissolve in una società senza classi. L'emergere di una terza via, che
l'orecchio di Marx ha finemente percepito, prefigura la preminenza del tre sul
due, che significa un'unità vitale che si stabilisce di là dall’artificiosa
gerarchia della testa e del corpo. Niente di metafisico in questa dialettica
della vita quotidiana dove il ritorno del mutuo soccorso alimenta il
presentimento di una società egualitaria imminente.
La vita come godimento di sé è stata svalutata a favore di
un'energia vitale costretta a trasformarsi in forza lavoro. Il lavoro stesso,
come una società di padroni e schiavi, si è suddiviso in lavoro intellettuale – prerogativa dei capi e della testa – e in lavoro manuale, riservato allo schiavo, al servo, al
proletario, al corpo sociale inferiore e al corpo vitale, dove l'attrazione passionale
e i “bassi istinti” hanno bisogno della frusta dello spirito religioso e
profano per essere debitamente controllati e domati.
I diritti umani
implicano la fine delle separazioni e il superamento delle antinomie. La realizzazione di un tale progetto è parte di un processo di
alleanza con la natura e con la donna che ne è l'emanazione più sensibile.
La natura è una potenza che sta a noi riscoprire e rinaturalizzare.
Ne siamo parte e dipendiamo da essa. Essa opera in noi attraverso una coscienza
umana che ha il potere di riequilibrarla nelle sue forze vive ogni volta che la
sua eccessiva profusione la costringe a distruggere le sue eccedenze. Agisce
per risonanza sulla nostra salute. Di metafisico ha solo la forma denaturata di
cui l'ha rivestita il suo sfruttamento mercantile. Una nuova alleanza con lei
la ripulirà dai lividi e dalle infezioni del capitalismo, che vi trovava
soltanto, come nelle donne, oggetto di stupro e contemplazione.
Nella guerra che le
mafie della morte redditizia combattono contro di noi, le nostre forze vitali
sono un'arma assoluta. Chi si stancherà per primo? Abbiamo lottato perché il nostro
corpo ci appartenga, ci siamo impegnati a liberarlo dai meccanismi che lo bloccavano
e lo logoravano asservendolo al lavoro. Quale autorità scientifico-politica otterrà
che, vaccinati o no, donne e uomini accettino di impoverire quel che resta loro
di esistenza nel timore di un’ennesima mutazione del virus, di un'ennesima
vaccinazione i cui effetti a lungo termine sono sconosciuti?
Tragedia della
sofferenza, commedia delle cure. Le potenziali vittime di epidemie presenti e future sono colte
dall'angoscia al pensiero di varianti ricorrenti. Per quanto detengano vaccini
il cui effetto placebo non è trascurabile, hanno gli occhi fissi sul contatore
dei media che registra, a beneficio del virus provvidenziale, i decessi dovuti
ai pesticidi, all'inquinamento atmosferico, ai gestori della paura,
all'impoverimento, al saccheggio del settore ospedaliero, ai disturbi delle
relazioni affettive, al ritorno del puritanesimo, all'aggressività, ai colpi di
follia, al razzismo multicolore, alla misoginia, ai topi geneticamente
migliorati del trans umanesimo.
La commedia sinistra del coronavirus si svolge sotto i nostri
occhi, su uno sfondo di tragedia. Questa tragedia, che deve il suo nome alla
messa a morte di un capro, porta il segno di una sofferenza originaria,
inflitta dalla perversità di un sistema che rende l'essere umano schiavo di ciò
che produce.
Dotato di un'intelligenza adatta a umanizzare la sua animalità e
a reinventare il mondo, l'homo sapiens non ha trovato altro uso che il
perfezionamento di ciò che costituisce il genio specifico degli animali: l'arte
di adattarsi alle condizioni dominanti. La conquista della libertà ha lasciato
il posto alla conquista dell'alienazione. La sua astrazione vola oggi in
frantumi e ci mette di fronte alla sofferenza della bestia che abita in noi, la
sofferenza del non superamento.
La commedia, invece, fa piuttosto parte del dramma borghese.
Mentre il finanziamento e il miglioramento dei servizi sanitari avrebbero permesso
di far fronte a un'epidemia che uccide principalmente pazienti in cattive
condizioni di salute, abbiamo assistito a un saccheggio degli ospedali e della
medicina dovuto al mercato degli interessi privati e a una politica di
redditività morbosa. Per non parlare dell'avvelenamento del cibo,
dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, dell'impoverimento, dell'usura sul
lavoro, del grigiore dell'esistenza.
Per nascondere i loro illeciti sanitari e le loro mancanze
criminali, i governi diffondono un panico che identifica il coronavirus a una
fatalità. L'oscurantismo religioso del passato avrebbe invocato la punizione
divina mandando al rogo delle vittime espiatorie. Per mancanza di mezzi,
l'oscurantismo laico è ridotto a sostenere l'autoflagellazione massiccia.
Rendere disperata la
disperazione. La
sovrabbondanza di profitto sterilizza il suolo che la produce. Il capitalismo è
arrivato a mettere in scena la propria messa a morte che concepisce come un’ultima
taglia.
C'è una sola risposta a uno Stato il cui ridicolo acceca e
uccide, è la gioia della disobbedienza che si riversa come sabbia negli ingranaggi
che fabbricano il disumano.
Il superamento dei divieti, del puritanesimo e del senso di
colpa, che sono altrettanti ostacoli ai piaceri di vivere, si riconnette con
l'innocenza originaria dell'infanzia. Analizzandolo più da vicino, l'approccio
non è solo una frecciata all'incontinenza senile delle élite autoproclamate, ma
invita a sventare le trappole del passato che ci bloccano in un presente senza sbocco.
Quando i vivi del mondo vengono a noi, è a un incontro con noi
stessi che ci invitano! Niente di meglio per rafforzare la pulsione di vita che
chiede solo di irradiarsi in noi e intorno a noi. Essere consapevoli e
incuranti del pericolo priva il nemico delle sue armi più pericolose, quelle
offertegli dalla paura e dalla rassegnazione degli sfruttati.
La nostra esistenza, indebolita e rinvigorita in ogni istante,
ha bisogno di superare i contrari prima che si trasformino in contrarietà. La
coscienza del vissuto insegna la dialettica senza bisogno di leggere Hegel.
Ristabilire la nostra unità perduta significa superare
ciò che ci separa da noi stessi e dal mondo
Non arriveremo a sbarazzarci del vecchio mondo senza costruirne
uno nuovo. La comparsa e il moltiplicarsi delle Zone da difendere rivelano sia la
nostra volontà di riappropriarci di un territorio da cui l'impero del profitto
minaccia di sloggiarci, sia l'esperienza collettiva di una società senza
padroni né schiavi, dove la convivenza basa sull’aiuto reciproco il rifiuto di
tutte le forme di potere e di avidità.
È lì che si abbozzerà la vera avventura cui tutta l'esistenza
aspira: la riconciliazione di ciascuno con se stesso e con il proprio ambiente.
Al cuore delle insurrezioni che aprono crepe nella cittadella reale e fantasmatica
del capitalismo globale, c'è la ricerca serena e sfrenata di uno stile di vita.
Questa poesia suggerisce fin d’ora di redigere una Costituzione dei diritti dell’essere umano che abroghi la frode
statale del contratto sociale.
La
maggior parte dei diritti dell’essere umano deriva
dal superamento degli antagonismi. I conflitti tra pro e contro bloccano e
paralizzano l’avanzamento del progresso umano. Non a caso il discorso cerca di placarli lasciando che
la vita faccia sentire la sua voce.
La stesura di una Dichiarazione
dei diritti dell'essere umano guadagnerà d’importanza quanto più la si dimenticherà
vivendola.
Superamento dell'intellettuale
e del manuale. Ieri
ancora celebrato come il degno erede del Rinascimento e dell'Illuminismo,
l'intellettuale è caduto in pochi anni in un tale stato di degrado e svilimento
che il suo statuto di pensatore è oggetto di critiche sempre più radicali. Il
disprezzo con cui Hitler, Stalin, Mao, Pol-Pot trattavano l’intellettuale, aveva
giocato in suo favore fino a quando ha dato prova dello stesso arrogante disdegno
del ricco di fronte a un’accozzaglia di pezzenti disdegnando i gilets jaunes e altri "vociferatori
ignoranti, indegni del nome di proletario".
Qui, come ovunque, si tratta di tornare alla base.
Intellettuali, lo siamo tutti, così come siamo manuali. L’ha voluto la
divisione del lavoro di una società dove il padrone governa lo schiavo allo
stesso modo in cui lo Spirito regna sulla materia, il cielo sulla terra e la
testa sul corpo.
In una società dove la predazione, l'appropriazione, il potere
impongono la loro norma, era nella logica delle cose che la ragione del più
forte e del più furbo concedesse il primato all'intellettualità, facendo
dell'intellettuale il signore dei pensieri, fossero pure sovversivi. Sebbene in
un piccolo numero di pensatori l'intelligenza del corpo abbia messo in crisi il
regno spirituale dell'intelligenza intellettuale, quest'ultima ha conservato il
suo vigore fino a quando il graduale crollo della piramide gerarchica non l’ha
ridotta a una deficienza mentale di cui un certo Trump, eletto Presidente degli
Stati Uniti, doveva diventare l'emblema.
Chiunque si vanti di essere un intellettuale non è altro che il
prodotto del potere oppressivo che riproduce esercitandolo sugli altri.
La poesia pratica e le sue insurrezioni creative avranno ragione
delle due funzioni che portano il marchio ignobile del lavoro: quello intellettuale
o quello manuale. Il loro rapporto gerarchico è l'eredità che trasmette, di
generazione in generazione, come un’ignominia, il malessere della civiltà mercantile.
Ripristinare l'unità
dell'energia materiale e della materia energetica, che costituiva la nostra
esistenza. Nella
civiltà preagraria, l'esistenza degli individui si è evoluta in simbiosi con la
natura. Lo sfruttamento lucrativo delle risorse terrestri ha lacerato, separato
dal vivente, snaturato il comportamento di uomini e donne che, per trentamila
anni, hanno attinto dalla raccolta il loro sostentamento e il loro modo di vita.
L'energia vitale e quella mentale formavano un'unità corporea da
cui emanava una coscienza riflessiva e operativa, una coscienza offerta alla
specie umana dal capriccio sperimentale di una forza cieca. Lì stava la nostra
genialità. Ne abbiamo fatto un uso assai relativo per migliorare la nostra
sorte, fino a un presente recente in cui la nostra trasformazione accelerata in
oggetti – la
reificazione – la minaccia
di estinzione.
Mantenere la rotta verso l'umanizzazione della nostra specie dà
senso al nostro destino. Non siamo abbastanza attenti alle meraviglie
dell'infanzia, rinascente ogni volta che la fenice di un'insurrezione mondiale
risorge dalle sue ceneri.
La gioia di vivere ignora sovranamente gerarchia, potere,
economia, ambizione, competizione. Sapevamo già che era di là dal bene e del
male. La sua esperienza insegna inoltre che ha la facoltà eccezionale e
ordinaria di superare queste separazioni che bloccano in contrarietà
inestricabili i pensieri ei comportamenti, che ci abitano e hanno consuetudine di
uscire sempre in compagnia del loro contrario. Il gioco della vita consiste nel
passare dal recinto del due all'apertura del tre.
Superamento del
femminismo e del virilismo. Espressione del potere dell'uomo, il patriarcato subisce in
pieno l’indebolimento della piramide gerarchica, il crollo dell'autorità di cui
il capofamiglia era depositario. Nell'intento
di soffocare le ultime convulsioni della tirannia maschile, un femminismo
militante ha costruito la sua città su un terreno occupato dalla misoginia del
maschio alle strette, che s’impegna a combattere. Tuttavia il sentimento di sfogo
vendicativo di cui fa sfoggio evoca una guerra dei sessi il cui obiettivo provato
o tacito, sarebbe che un matriarcato succeda alla tirannia patriarcale troppo a
lungo dominante.
In proposito, la domanda che affligge il femminismo è questa:
quale essere libero vuole che un potere si sostituisca a un altro?
Il femminismo è un'ideologia. La donna vi rinuncia a
un'emancipazione che l'uomo rivendica non come maschio ma come essere umano. La
barbarie, cinica o subdola, di una donna d'affari, di un’assassina, di una
soldatessa, di una burocrate non mi ripugna meno di quando un uomo assume
funzioni simili.
L'emancipazione dell’uomo e della donna è inseparabile da un'alleanza
con un ambiente naturale risolutamente affrancato dallo sfruttamento che lo
inquina e lo devasta. Siamo al cuore di tutte le libertà e questo cuore ci sarà
strappato fino a quando non avremo gettato nella lotta tutta la potenza delle
nostre forze vitali.
Questo è ciò di cui prendono gradualmente coscienza le
episodiche insurrezioni che infiammano il vecchio mondo. Questa primavera della
vita trae la sua originaria efflorescenza dalla libertà di amare alla quale
s’iniziano –
grazie all'intercessione delle donne – milioni di creature associate alle predicazioni dell'evangelismo
religioso e secolare la cui peste propagava il dogma dell'antiphysis e le disgustose virtù dell'antinatura.
Dal momento in cui non sono dovute a predazione, violenza,
stupro o corruzione, l’amore fusionale, lo svolazzamento libertino, l’eterosessualità,
l’omosessualità e la pletorica gamma delle fantasie erotiche fanno parte del
nostro patrimonio inamovibile: le libertà
del desiderio. Ciò che c’è di maschile nella donna e di femminile nell’uomo
permette dunque una scelta di variazioni le cui modulazioni sono illimitate e
non hanno alcun bisogno di entrare nei cassetti categoriali del “genere”.
Il superamento del
tempo di lavoro e del tempo di riposo inaugura una nuova temporalità, un tempo dedicato alla
creazione, al desiderio, al godimento. Il lavoro ha frammentato il tempo in
zone di attività diurna e di riposo notturno, snaturando così il ritmo naturale
del giorno e della notte. Il tempo scandito dall’efficienza laboriosa è quello
dell'usura, della fatica, del declino, della morte eretta a divinità
liberatrice. È il tempo della sopravvivenza, un tempo lineare dal percorso labirintico
angosciante perché senza altra via d'uscita che finire divorati dal Minotauro o
dai suoi emuli. Al di là si profila un'era della creazione che ignora la
contabilità delle età. L'opposizione tra giovinezza e vecchiaia perde allora significato
e pertinenza.
Il godimento del presente sposa il passato per correggerlo e il futuro
per ereditarlo. Rompe con l'effetto di modernizzazione che il rinnovamento
permanente dello spettacolo richiede.
La moda perde valore a forza di saldare il vecchio sotto
un'etichetta frettolosamente rinnovata. Ci si trova a sognare un allegro falò delle
vanità dove si celebrerebbe la fine dei cellulari, sapendo che una tal
eventualità sarà presa in considerazione solo una volta che avremo riscoperto
il piacere di incontrarci. Una volta revocato lo spirito affarista in cui
l'umano si perde nei meandri tecnici che lo parassitano e gli tolgono la
sostanza.
Ebbene, mentre il tempo fa il suo mercato valorizzando l'apparenza
prestigiosa a scapito dell'utile, si vedono riabilitate dal popolo le tecniche
artigianali antiche che permettono di riparare a basso costo dei prodotti
dichiarati obsoleti, che il programma transumanista sostituirà con prodotti
facilmente accessibili allo spionaggio dei dati personali.
Non c'è niente di rivoluzionario in quest’aggiustamento della
merce che ritorna a un valore d'uso esageratamente diminuito a favore del
valore di scambio. Solo che, avendo propagato il culto del valore di scambio e
del lavoro parassitario che lo produce, la speculazione capitalista si ritrova sulle
braccia un impoverimento crescente poco propenso a pagare per un nulla di moda, vuoi a pagare del tutto. Cosicché
si rischia di mettere in discussione quel poco di uso vitale di un gran numero
di beni promossi sul mercato. Ne consegue il cattivo uso di una vita quotidiana
impantanata nella vischiosa tirannia dello Stato.
Superamento della
sopravvivenza e della morte snaturata che produce. Siamo raramente confrontati a una morte naturale, voglio dire a
una vita tanto pienamente vissuta da arrivare a desiderare un riposo eterno –paradosso di un tempo in cui l'eternità non ha più senso.
È la vita economizzata, la sopravvivenza o il tirare avanti,
come dice l'indiano Seattle, che è la nostra disgrazia dall'instaurazione della
civiltà mercantile. La sopravvivenza è una morte in attesa, un'agonia cui il
destino umano si adatta ancora meno se le tecniche di modificazione biologica
vogliono prolungarne la durata.
Se è vero che nei suoi perpetui tentativi la vita corregge la
sua eccessiva profusione distruggendo le sue eccedenze, essa, tirando i dadi a
caso, ha delegato all'homo sapiens – che rischia anche lui di sparire,
se non sta attento – il privilegio di ordinare il disordine evitando il
riequilibrio a colpi di carestie, pandemie, missili, machete o falci.
Mai la scelta di vivere, di sopravvivere, di morire è stata posta
così brutalmente nelle nostre mani.
Non lanciamo una sfida alla morte, vogliamo solo rinaturarla,
inserirla nella nostra volontà di vivere nel nome di un ricorso complice al
suicidio. Un suicidio, però, affrancato dall’urgenza ingrata verso la quale
spingono il malessere e la malinconia.
Mi farà piacere, penso, lasciare la vita il giorno in cui mi abbandonerà
il desiderio di goderne ancora.
L'unica violenza alla
quale s’indulge con buona grazia è quella del vivente. L'esplosione e la diffusione della vita nell'universo e sulla
terra è stato e resta un fenomeno di grande brutalità. L'intrusione di un
germe, proveniente dal cosmo ed estraneo all'ambiente planetario che insemina,
non va senza evocare la bestialità risorgente che presiede all'accoppiamento
amoroso quanto all'espulsione del bambino dal ventre della donna.
La nostra stessa pulsione vitale deve fare mostra di una
violenza innegabile per farsi strada attraverso una cospirazione di odio e
paura che da millenni si accanisce sulla natura e la donna.
Privilegiata dall'espansione dell'avere a scapito dell'essere,
la prospettiva di morte è un lasciare andare, un passaporto per la servitù
volontaria, dove l'essere si gloria della decadenza cui lo snaturamento l'ha
ridotto.
Al contrario, il vivere emana da una volontà spontanea
costantemente riattivata. Se l'attrazione appassionata non è alimentata,
appassisce e si trasforma nel suo opposto. Morire è una facilità, offerta, fin
dai primi anni, a chi sacrifica la propria esistenza al lavoro.
Disobbedienza civile!
La violenza della vita non ha nulla in comune con la violenza di
cui si riveste la morte. La vita non si preoccupa di rispondere alla barbarie
che la opprime.
Vivere umanamente è un'esperienza contemporaneamente atemporale
e, storicamente parlando, radicalmente nuova. Attaccarsi a essa e perseguirla
basta perché ogni velleità di intralciare la sua libertà finisca archiviata.
Ignoriamo qualsiasi
decreto liberticida!
La disobbedienza civile è una delle emanazioni poetiche di quest’archiviazione.
Essa non tollera alcuna forma di predazione, nessuna forma di potere. È il
non-agire che si afferma irradiandosi, è la pulsione vitale che precede se
stessa e, anello dopo anello, spezza, quasi inavvertitamente, la totalità delle
sue catene.
La guerra civile è un gioco di morte in cui tutte e tutti si affrontano,
la disobbedienza civile è il gioco della vita solidale, dove le passioni si
vivono accordandosi.
In ogni istante si pone la questione: a chi giova?
La strategia della confusione è prerogativa dei governi e delle
potenze finanziarie mondiali. L'arte della comunicazione serve a screditare le
rivolte della libertà offesa. Il movimento dei Gilets jaunes è stato così assimilato a un populismo, dove
brulicavano fascisti, antisemiti, omofobi, misogini e pazzi furiosi. Queste
calunnie grottesche non hanno avuto davvero bisogno di essere denunciate. Sono
state spazzate via con una sbalorditiva disinvoltura dalla tranquilla
determinazione dei manifestanti di accordare una priorità assoluta alle
aspirazioni umane. Sorprendentemente, l'opposizione di sinistra, ma anche gauchista
e libertaria, aveva mostrato una sprezzante riluttanza nei confronti dei Gilets jaunes, piuttosto simile
all'arroganza oligarchica. Quando i burocrati politici e sindacali si resero
conto del loro errore e aspirarono a unirsi al movimento delle rotonde, si
trovarono emarginati dalla ferma e salutare risoluzione di non tollerare nessun
capo o guida autoproclamata.
L'epidemia è giunta a proposito per restituire al Potere
vacillante un po' della sua autorità repressiva.
Certo, il coronavirus e le sue continue mutazioni rappresentano
un pericolo innegabile. Tuttavia, dove delle misure favorevoli alla salute
avrebbero permesso di mitigare l'impatto, c'è stata una gestione catastrofica
del caos. La cattiva gestione dell'ospedale, le bugie a cascata, i passi e i contro
passi, la prevaricazione degli ambienti scientifici hanno aggravato il
pericolo. Ancora più tossico è stato e resta il panico orchestrato dai media, zerbini
d’interessi privati. Il gioco valeva la candela per le grandi case
farmaceutiche i cui azionisti si arricchiscono ogni volta che i cittadini-cavie
pagano il rinnovo dei vaccini.
Tre anni di gilets solari
in tutte le stagioni hanno rafforzato la resistenza a una barbarie, che non li
ha risparmiati. C'è in questo di che preoccupare e irritare i burattini dello
stato, gli ultimi politicanti, i mercanti di pesticidi ai quattro venti.
La brutalità non è bastata, la vecchia pratica del capro
espiatorio ha preso il sopravvento. Esperta in materia, l'estrema destra ha
scelto di masticare i migranti con il suo unico dente sciolto. Con i Gilet
Gialli e i loro emulatori, i manager della corruzione nazionale e globalista
affrontano un progetto di altra portata.
Nel 2018, il governo francese si è reso ridicolo trattando la
gente delle rotonde da idioti ignoranti e irresponsabili. Che la moda del
coronavirus dia loro l'opportunità di riprendere l'offensiva con più pertinenza
non ha nulla di sorprendente.
Quanto ai resti di quanti
hanno rovinato il movimento operaio e il cui elettoralismo ha fatto emergere
dal vaso di Pandora un fascismo di paccottiglia, hanno una rivincita da
prendere su quel popolo che non riconoscono perché si rifiuta di riconoscerli.
Condonano la grossolana manovra di colpevolizzazione con cui i responsabili
della devastazione sanitaria attribuiscono la diffusione dell'epidemia a
insorti colpevoli soprattutto di aver capito che l'obbligo di vaccinarsi era
l’anticipo di un controllo sociale alla cinese.
Invece di denunciare i fautori della morbosità diffusa, una
fazione d’intellettuali, retro bolscevichi, pretesi libertari ha adottato la
neolingua orwelliana, diventata il modo tradizionale di comunicazione delle
autorità governative. Negando al popolo il diritto di scegliere o no i vaccini in
corso di sperimentazione, costoro apportano allo Stato un sostegno sbalorditivo
accusando d’individualismo i gilets
jaunes in lotta per il diritto di vivere e la libertà che ciò implica. Ebbene,
sono passati tre anni da quando le insorte e gli insorti della vita quotidiana
non devono più dimostrare di essere individui autonomi, che pensano da soli,
non degli individualisti, il cui pensiero gregario ispira osservazioni del
genere: "Se tutti si facessero vaccinare, non servirebbe il passaporto
sanitario".
Né paura né sensi di
colpa. Il
vivente vincerà su questo mondo a rovescio e sui suoi complici. Anche se la
lotta per la gioia di vivere subisce molte battute d'arresto, perché
preoccuparsene? L’incendio che si spegne si riaccenderà come per inavvertenza
al minimo soffio della vita.
Il ritorno alla base
esclude falsi dibattiti. Soltanto la salute dell'Uomo astratto accetta di essere
trattata con statistiche e decreti.
Vaccinarsi o no contro il virus è una decisione che dipende da
una libera scelta. Non la impongo a nessuno – sia vecchio che vulnerabile – e mi batterò affinché nessuno me la imponga.
L'individuo autonomo trae la sua forza da se stesso e dalla
solidarietà dei suoi simili. L'individualista è un seguace del calcolo
egoistico, un volgare predatore, un puro prodotto del capitalismo.
Lasciando da parte la lista delle lotte fittizie, i popoli hanno
imparato attraverso la sofferenza che solo i trafficanti d'armi vincono una
guerra. La nostra lotta non è concorrenziale, si riduce a cercare di vivere
secondo i nostri desideri rivendicando per tutti e tutte un identico diritto
alla felicità.
La gioia di vivere è un'inclinazione naturale. È alla sua
sovranità che la natura dovrà di essere liberata dall'uomo predatore.
Solo una libertà assoluta annienterà l'assolutismo che ci
uccide.
8 agosto 2021
Quarto di copertina
A dispetto del confusionismo diffuso dall'estrema destra
all'estrema sinistra, la proficua distruzione del pianeta e l'autodistruzione
del capitalismo sono una realtà di cui milioni di esseri umani sperimentano gli
effetti nel crescente malessere della loro esistenza. Il pericolo delle
evidenze è che la loro ripetuta e fatalmente disperata constatazione faccia da
letto alla rassegnazione. Siamo al centro di un cambiamento di civiltà in cui
tutto si giocherà tra la follia mortifera del profitto e una vita follemente risoluta
a umanizzarsi, contro ogni aspettativa.
L'alleanza con la natura rimarrà un’impostura finché il corpo
non sarà riabilitato come luogo di godimento e risveglio della coscienza.
Finché non ci riconcilieremo con il regno animale, vegetale, minerale, da cui
proviene la nostra specie.
È giunto il momento di scommettere sulla coniugazione inestricabile
dell’esistenziale e del sociale per dare le sue basi al progetto di
autogestione generalizzata che è l'unico a poter restituire al mutuo soccorso
la facoltà di porre fine al calcolo egoistico e alla servitù volontaria.
RAOUL VANEIGEM
Rien ne résiste à la joie de
vivre
Libres propos sur la liberté
souveraine
Aux
zapatistes, aux gilets jaunes, aux insurgées et insurgés
qui partout dans le monde opposent la vie à
l’économie qui la tue.
L’impossible
d’hier est le possible d’aujourd’hui
Dans son rapport à la
Convention, Saint-Just déclarait en 1794 : « Que l’Europe apprenne
que vous ne voulez plus un malheureux ni un oppresseur sur le territoire
français ; que cet exemple fructifie sur la terre, qu’il s’y propose
l’amour des vertus et du bonheur. Le bonheur est une idée neuve en
Europe. »
Plus un malheureux, plus
un oppresseur sur le territoire français, ni sur la terre ! Voilà de quoi
susciter les reniflements du doute et de la condescendance, du moins tant que
l’on n’a pas conscience qu’il arrive à la réalité de déboulonner les préjugés
les plus solidement arrimés dans le passé.
Le rêve d’une société
égalitaire n’a cessé de hanter et de bouleverser les générations depuis
l’instauration d’une société hiérarchisée, qui marque de son sceau infamant
l’acte de naissance de la civilisation agro-marchande.
L’exploitation de
l’homme par l’homme a été si bien identifiée à un phénomène naturel qu’elle a
longtemps passé pour éternelle. La légende d’entités divines, affublées d’une
autorité absolue, a plié le corps et l’esprit à la volonté d’un quarteron de
princes et de prêtres, détenteurs autoproclamés d’un mythique mandat céleste.
L’acharnement spirituel
et temporel à mutiler hommes et femmes afin de leur vendre des béquilles
prêtait à la sujétion des peuples un caractère irrévocable. Il a fallu la
Révolution française pour briser le joug qui contraignait la pensée à
s’agenouiller, fût-elle subversive dans ses intentions.
Si
l’abrogation de l’Ancien régime n’a aboli ni le malheur de la créature opprimée
ni l’asservissement de l’esclave à ses maîtres, au moins a-t-elle rompu avec le
fatalisme qui imputait à une impuissance originelle – à une malformation
ontologique de l’homme et de la femme – le besoin d’un Dieu, d’un guide
tutélaire, d’un grand timonier, d’un petit père des peuples. Elle a brisé les
chaînes que le dogme de l’impossible avait forgées au fil des siècles.
Nous ne voulons plus
d’une existence putréfiée par la pensée de la mort. Pendant des siècles, le memento mori a
hanté les débats publics et privés. Hommes et femmes survivaient, mornes,
rageurs et confinés dans les antichambres de la mort. La Révolution française
leur a appris qu’un autre monde était possible. Nous savons depuis lors que le
vaste champ des désirs du cœur s’est ouvert devant nous. Le rêve d’une vraie
vie a commencé a découvrir des territoires en devenir. La poésie faite par tous
et par toutes est un chemin qui se fraie au présent.
En
revanche et dans le même temps que la volonté d’émancipation progresse, les
sursauts rageurs du conservatisme - droite et gauche confondues - nous frappent
de plein fouet. A nous de comprendre combien nous manquons à l’audace de faire
primer notre désir de vie sur la dictature du pouvoir et du profit. Nous
faudra-t-il crever de ne pas vivre pour réaliser que ceux qui gèrent nos
existences la cancérisent ?
Brûler
les papiers de nos pseudo-identités. Qu’attendons-nous pour détruire non
les hommes du système oppressif mais leurs instruments, bulldozers et
excavatrices de la dévastation lucrative ? Qu’attendons-nous pour gripper
la grande broyeuse du vivant en créant et en multipliant des zones de
résistance et de gratuité ? A quand le temps et la terre libre où, en
hommage à Albert Libertad, nous brûlerons les papiers d’une identité
bureaucratique et statistique, dont nous n’avons que faire ?
Combattre pour un
bonheur réel, non pour un bonheur fictif. Signe des ironies de l’histoire, on voit se répéter de nos jours – sur le
mode parodique – l’engouement qu’à la veille de la Révolution les philosophes
des Lumières éprouvèrent pour la quête d’un bonheur naturel et pour le bon
sauvage censé y atteindre.
Alors que la
paupérisation menace d’éteindre le néon des supermarchés et de mettre un terme
à la vente publicitaire des plaisirs, c’est tout un peuple, colonisé et
obnubilé pendant des décennies par le cœur factice d’une société sans cœur, qui
se retrouve privé des consolations de l’avoir, censé pallier les
déficiences de l’être.
Accoutumé de ne voir
dans les gueux des villes et des campagnes qu’une foule versatile et
manipulable, le Pouvoir s’est trouvé soudain confronté à un peuple qui a su se
prémunir contre la récupération populiste. Zapatistes, Gilets jaunes, insurgées
et insurgés de villages, de quartiers, de places publiques, de rondpoints
forment, en rupture avec le grégarisme traditionnel, des assemblées d’individus
rebelles, faisant figure de bons sauvages, un peu inquiétants, incontrôlables,
incompréhensibles car, à vrai dire, insaisissables.
Leur déferlement
paisible fait trembler les couards d’en haut. C’est pitié que ces gouvernants
qui exorcisent leur effroi en redoublant de violences vindicatives contre
quiconque refuse de se tortiller plus longtemps dans le baquet de la servitude
volontaire !
Devant
le crime inexpiable de rébellion, la coterie de l’incompétence autoritaire
attiserait volontiers les braises d’une guerre civile si la prudence ne lui
enjoignait de se borner à la mettre en scène, histoire d’éviter, sait-on
jamais, le bombardement de l’Élysée et des ghettos de riches par quelques desperados
maniant drones et mortiers.
Le
capitalisme est en proie à son autodestruction. C’est là un fait notable, sur lequel on n’a guère insisté. En
triomphant, le capitalisme abandonne sur le terrain conquis de quoi l’affaiblir
et le détruire. Bien que le phénomène se déroule à son insu et à son corps
défendant, il n’a rien de récent, si l’on songe au libre-échange qui, au
dix-huitième siècle, favorisa, dans le sillage de sa victoire contre l’Ancien
régime, une liberté de pensée qui va lui donner bien du fil à retordre.
a) Qu’en est-il des coups portés à la combativité des travailleurs, qu’en
est-il du gauchisme, lequel n’ignore pas comment la bureaucratisation du
mouvement ouvrier a mis à mal la conscience de classe ? En soldant le
bonheur à bas prix, la colonisation consumériste achève de laminer le
prolétariat. Celui-ci régresse à l’état de plèbe, qui était le sien avant ses
premières tentatives d’organisation, lors de l’essor industriel du capitalisme.
Qu’est-ce que la
plèbe ? Un troupeau qui s’amadoue
avec du pain et des jeux et qu’on fusille quand il s’insurge. L’émotion
l’aveugle et n’importe quel ambitieux n’a guère de peine à le mener où il veut.
C’est sous cette forme-là que les bons esprits de gauche ont de prime abord
perçu le mouvement des Gilets jaunes, avant de reconnaître leur erreur et de
courir, de convergences en convergences, pour prendre le train en marche. Les
mêmes bons esprits se rallient aujourd’hui au passeport sanitaire obligatoire.
Au nom du salut commun, ils illustrent brillamment le B-A-BA de la
novlangue : l’esclavage c’est la liberté.
Il fallait ne rien
ressentir de la détresse universelle pour ne pas deviner, sous le refus d’une taxe, l’exacerbation
généralisée d’un Ya basta, d’un Y en a marre.
Au
lieu du populisme attendu, on a vu soudain se raviver, se propager, s’affermir
les filières de l’entraide. En fait l’aspiration à faire de l’homme et de la
femme des êtres humains à part entière n’a jamais cessé d’être au cœur des
impulsions révolutionnaires, elle a toujours formé le noyau radical des
insurrections du passé. Le projet d’une société sans classes, tel que l’avaient
conçu Babeuf, Marx Bakounine, Kropotkine, Reclus et quelques autres, n’a fait
que prêter une forme historique passagère à cette résolution irréfragable qui,
sans chefs, sans hiérarchie, illumine le monde de ses insurrections sociales et
existentielles.
b) Alors que la machine à broyer le vivant
privilégiait le puritanisme et prônait les vertus du sacrifice, le capitalisme
consumériste a été amené à populariser, en sens contraire, un hédonisme de
marché. Il a contribué sans le vouloir à réhabiliter la jouissance, à la
déculpabiliser, à nourrir une hostilité croissante envers l’austérité
patriarcale, pilier de soutènement de la hiérarchie sociale.
c) Objet d’une publicité promotionnelle effrénée, le bonheur a fait
figure d’idée neuve. C’était une idée abstraite, une idée vidée de sa substance
charnelle, mais sa béance interrogeait. Elle éveillait une conscience critique
qui n’eut guère de peine à décortiquer le mensonge. Elle en dégagea une vérité
que l’on peut résumer comme suit : l’argent gâte tout ce qu’il touche. Ce
qui se paie pourrit.
A
mesure que la paupérisation aggrave la crise de l’avoir, elle travaille
à réhabiliter l’être. Une fois acquise l’idée que la gratuité est
l’antidote du capitalisme, il ne s’agira que de la mettre en pratique.
d) Se pose enfin la question : que perdons-nous
à perdre le paradis monnayable et frelaté d’une « grande
distribution » caricaturant l’abondance édénique ? La modeste
proposition de retrouver la saveur des produits naturels a beau servir de label
à l’écologie mercantile, elle offre aux collectivités locales une pratique
autogestionnaire qui aura raison de la pollution agro-alimentaire et de la
plastification des fruits et de légumes. Le retour des potagers collectifs où
l’on se jardine au lieu de se gendarmer invente une « révolution
maraîchère » qui a le mérite de proposer, sans rhétorique barricadière,
une réponse souriante et pleine d’humour à la révolution agraire, d’où naquit
la civilisation marchande.
Le désespoir fait la
force des tyrans. Nous manifestons le plus
souvent une désolante complaisance envers ce qui nous défait, nous ennuie, nous
obscurcit, dévalorise, anéantit. Pour le regard enténébré, les éclairs
d’espérance ne sont qu’étincelles éphémères et déceptives.
Le malaise et la maladie
prêtent d’ordinaire plus de consistance à l’existence que les célébrations
festives du vivant. Ce penchant n’aide guère à s’affranchir de la misère
oppressive. Pourtant, c’est au nom de la lucidité – de la lumière – que se
livrent la plupart des combats contre le capitalisme. N’est-ce pas un terrible
aveu d’impuissance que de pressentir la défaite avant de livrer bataille ?
Si nous nous confinons dans l’ombre de la mort, comment découvrir la vraie
vie ?
N’est-il
pas atterrant que raison et imagination se focalisent sur la pire oppression,
alors qu’elles ont toute latitude d’explorer les immenses territoires que la
vie offre à ceux qui en éprouvent les pulsations en eux et dans le monde ?
Car si nous savons tout sur l’ennuyeuse survie, sur la longue agonie que la
technologie bio-affairiste s’emploie à faire durer, en revanche, notre existence
demeure dans l’ignorance presque totale de nos pulsions vitales, tant le
travail, le pouvoir, le profit les entravent et les dévoient.
La stratégie du chaos, à laquelle le
capitalisme recourt pour mener impunément ses opérations de destruction de la
terre, de l’eau, de l’air, du vivant, est à l’origine de la panique organisée
au prétexte d’une épidémie à la fois réelle et fictive.
On chercherait en vain
dans l’histoire une époque où la déficience mentale s’érige aussi glorieusement
en principe de gouvernement. Jamais autant de raison et de déraison n’ont
atteint à ce sommet de l’aberration : renoncer à vivre pour ne pas
mourir.
Au prétexte d’un virus
moins redoutable pour ses indéniables ravages que par son amplification
médiatique, les gouvernements ont fait des hommes, des femmes, des enfants des
créatures apeurées courant se rencogner dans les niches de leur piètre
existence.
Maintenant, imaginez
qu’un gigantesque reflux inverse la réaction panique qui a aveuglé les
consciences, piétiné le bon sens et lassé la patience des cobayes menacés de
vaccination permanente ! Parlerez-vous de délire infantile, vous qui
bâfrez à même l’auge du pontifiant gâtisme de vos maîtres ? Hola !
Méfiez-vous du merveilleux de l’enfance, méfiez-vous de la renaissance qui
pointe et des voix qui appellent au déferlement d’une nouvelle innocence !
Le
crétinisme des petits hommes au pouvoir est, en dépit de leurs efforts, moins
contagieux que l’intelligence sensible de quelques en-dehors.
La subjectivité radicale
mettra fin au
processus de réification. Nous refusons
d’être transformés en chose, en chiffre, en valeur d’échange, en catégorie
statistique. Nous sommes en chemin vers une approche de soi et de l’autre qui
établit la prééminence absolue du sujet sur l’objet. Une telle option n’obéit
pas à un impératif catégorique, elle ne répond pas à un devoir éthique, elle
annonce la pratique d’un style de vie dont nos rares joies de vivre donnent une
idée. Je me contente de célébrer l’entraide, enfin redécouverte. J’imagine avec
bonheur la tornade bienfaisante du vivant s’abattant sur l’empire du calcul
égoïste.
En faisant primer la
valeur d’échange sur la valeur d’usage, le règne de la marchandise nous a
accoutumés à entrer dans un monde à l’envers, dans une vie à rebours. Religion
et philosophie n’ont d’autre réflexion à se mettre sous la dent qu’une réalité
rapiécée, misérablement déjetée cul par-dessus tête. L’esprit s’échine à
longueur de siècles à prôner la sagesse et l’équilibre au pauvre homo
sapiens qui n’en finit pas de tomber et de tournoyer dans le vide.
La croyance en une vie
posthume avait longtemps conféré aux damnés de la terre la consolation de
quitter leur vallée de larmes pour un au-delà où leurs songes récurrents
accéderaient à une réalité virtuelle. Du moins était-ce la garantie conférée au
prix d’une obédience absolue à l’Église et d’une foi sans faille en ses fables
divines.
Il
n’y a plus aujourd’hui ni foi ni charité, ni espérance, ni illusion. Au reste,
il n’y a plus de pensée. Le futur est un passé remis à neuf sous la grotesque
appellation de transhumanisme. Le présent prie en attendant le pire, ce qui
revient à prier pour le pire. Plus rien ne masque l’effroyable fétidité du
monde à l’envers.
Bienvenue
dans la novlangue. L’absurde
s’engorge et se vomit. Une montée excrémentielle déborde des latrines de la
normalité. La purulence du mensonge efface le mensonge lui-même. La novlangue
ouvre l’accès à l’univers transhumaniste, qui programme notre avenir. Une clé
d’écoute, de lecture, d’apprentissage vous nettoiera le cerveau en le
débarrassant de ses scories émotionnelles. Pour vous consoler de vos carences
mentales, il vous suffira de généraliser quelques stéréotypes martelés par
l’information officielle. L’obligation vaccinale en offre un éventail
exemplaire :
« L’esclavage,
c’est la liberté. L’ignorance, c’est le savoir. Les pires décisions sont les
meilleures. La cupidité est une marque de générosité. La corruption est une
pureté intentionnelle. Le puritanisme et l’interdiction de se toucher sont les
garants de notre salut. Quant à la maladie, elle obéit au principe,
préalablement récuré de son humour : « Tout homme en bonne santé
est un malade qui s’ignore ».
Logique
de mort et dialectique de vie. Pour qui est accoutumé d’identifier normalité et réalité inversée, il n’
y a rien d’illogique à ruiner le secteur hospitalier et à rendre hommage au
personnel soignant. Veiller à la santé des citoyens n’est pas incompatible avec
l’obligation d’en passer par
des lobbies pharmaceutiques, plus motivés par
leurs intérêts financiers que par l’état de leurs cobayes.
Répétons-le
avec insistance : il n’y a pas de remèdes de masse, pas de traitement qui
s’applique uniformément à des individus comme s’ils étaient interchangeables,
comme si leur existence statistique les vidait de leur existence charnelle.
Le sécuritaire qui se
substitue au sanitaire est un crime délibéré. Nous savons que chacun est
sujet à des réactions psychosomatiques qui diffèrent d’une personne à l’autre.
Ce type d’organisation intime, seule une relation de confiance entre le médecin
et son patient est habilitée à le prendre en charge et à le traiter en
connaissance de cause.
C’est dans une telle
relation que les vaccins anciens contre la tuberculose, le tétanos, la
poliomyélite s’inscrivaient et démontraient leur efficacité. L’État dans sa
servile obédience aux mafias pharmaceutiques, a mis fin au « medicus
curat, natura sanat » qui tissait entre soigné et soignant une
solidarité propice à la guérison. Mal rémunérée, une partie du corps médical a
cédé au chantage financier du marché sanitaire, donnant à un humoriste
l’occasion de brocarder ceux qui préfèrent au serment d’Hippocrate le sermon
d’hypocrite.
Quelles mesures
d’intérêt public les gestionnaires de la misère rentabilisée pourraient-ils
décréter judicieusement ? Voyez avec quel zèle publicitaire ils mettent en
scène une prétendue allégeance universelle à leurs foucades – masques, pas de
masques, confinement, pas de confinement, danger dans les bars et restaurants,
pas de dangers dans les trains, bus, métros. Ils disent et se dédisent sans scrupule,
ne dissimulant même plus sous une apparence humaine leurs cliquetis mécaniques.
Au moins sommes-nous face à une inhumanité sans faux-fuyants, à une glaciation
bureaucratique à l’état brut.
Quand la mort, patronnée
par l’absurde, en vient à un tel ridicule, on peut se demander s’il ne faut pas
en rire ; en rire de ce rire de la vie dont l’humain tire sa paisible
puissance.
Mettre en œuvre des
mesures de prévention et de lutte contre les pandémies présentes et à venir,
c’est accorder la priorité à l’entraide, à une générosité qui conforte la santé
et l’immunise contre les maladies dont un environnement morbide nous harcèle.
Notre autodéfense
sanitaire a toutes les raisons d’ignorer les raisons d’État. Ne sommes-nous pas
en droit d’estimer nuls et non avenus des décrets dictés par le souci de
propager une frayeur citoyenne, de confiner chacun dans sa niche où il fera de
sa colère un instrument de délation ?
Toute relation avec
l’État est toxique.
La perspective de vie, c’est la création de soi et du
monde
Hier instrument de la classe dominante, l’État n’est
plus aujourd’hui qu’un rouage de la machine à produire du profit. Il relaie les
intérêts privés qui rentabilisent la destruction de la planète. Sous ses
apparences et ses réalités démocratiques ou tyranniques, il demeure
essentiellement une violence faite à l’être humain, né libre par nature.
Si les Droits de l’Homme
sont partout bafoués, s’ils sont le flambeau d’une espérance que le moindre
oppression éteint, c’est que cet Homme, dont la liberté est censée procéder
d’une grâce divine, est un fantôme, une abstraction et non un être humain, une
émanation du vivant, une intelligence sensible.
Les
insurgés internationaux qui viennent à notre rencontre armés de leur vivacité
festive jettent les bases d’une internationale du genre humain à la fois
informelle et auto-organisée. Ils rappellent, en répudiant le militantisme
sacrificiel et victimaire, où est le vrai combat. Ils sont les guérilleros
pacifiques, passant outre aux factions que la stratégie du chaos et du bouc
émissaire dressent les uns contre les autres. Débarrassons-nous du manichéisme,
de la pensée binaire qui, nous détournant des vrais combats, pousse
l’émancipation dans l’impasse.
La liberté de vivre
abolit les libertés de l’économie. L’être humain n’a que des droits. Il peut tout car il ne doit rien. Il
suffit que la volonté d’autonomie individuelle répudie l’individualisme et son
calcul égoïste pour que chacun mène sa vie comme il l’entend. Il n’a de compte
à rendre à quiconque. Car, en mettant fin à l’aliénation grégaire, l’entraide
ne se paie d’aucune contrepartie. L’entraide n’est pas un devoir, elle est une
manifestation spontanée du vivant.
Ne me faites pas dire
que l’individu en quête d’autonomie dispose spontanément de la faculté
d’influer sur sa vie et sur son environnement. J’affirme seulement que
s’abandonner au plaisir de désirer sans fin présente plus d’agréments
que l’existence étriquée à quoi se réduit la survie.
La paisible exubérance
des zapatistes et des gilets jaunes offre sans doute pour la première fois dans
l’histoire l’exemple d’une insurrection qui garde le sourire en progressant
droit devant soi, à travers le sang, le bruit, la fureur et l’horreur du vieux
monde.
Quels
que soient nos doutes, désespoirs, déconvenues, c’est de partout que nous
parviennent les cris de l’innocence insurgée : « Ne renonce
jamais ! » « Sacrifier sa vie, c’est courir à une mort
prématurée. »
Assurer la prééminence
de l’entraide. N’est-ce pas une audace à
la portée de tous que de faire de notre présent l’éternel midi de la vie. Mais
la formule n’a de sens que portée par une vague de solidarité, dont la réalité
arrangée ne laisse filtrer que l’écume.
L’entraide
est une lame de fond, elle ignore la contrainte. L’attraction passionnelle est
le secret de son irrésistible expansion. Pourtant, elle est, comme toute
manifestation de la vie, sujette à s’inverser et prompte à tourner en
célébration de la mort une vitalité qui a été délaissée, s’est alanguie dans
l’ennui et s’enrage soudain d’une vacuité qu’elle comble à la façon
hitléro-stalinienne.
Garantir les droits
de l’être humain. Où l’oiseau de Minerve ne prend plus son vol, les grandes
ailes de la mort font de chaque jour une nuit.
D’où
l’utilité de rédiger collectivement une Constitution des droits de l’être
humain qui nous inscrive dans une perspective de vie que notre histoire
inhumaine n’a cessé d’inverser.
Où
nos droits commencent, la prédation finit. Dès la première élaboration des Droits de l’être humain, les
collectivités locales et régionales, chargées de leur rédaction, seraient bien
avisées de ne pas céder aux bons esprits de l’humanisme dont les objurgations
éthiques résonnent depuis des siècles sur les tambours de la philanthropie
caritative.
Critique de
l’idéologie humaniste. Évoquer les origines et la fonction de l’humanisme
rappelle qu’à l’évidence ce qui est pris en compte n’est pas l’être humain en
quête de plus d’humanité, mais l’homo œconomicus, l’homme devenu
l’instrument d’une économie qui l’objective. Bien que son statut
de marchandise soit sans cesse remis en cause par les pulsions vitales
irrépressibles, la réduction tendancielle à l’objet marchand s’appuie sur la
valeur d’usage de l’homme et de la femme économisés pour justifier leur valeur
d’échange. Tout ainsi qu’une paire de chaussures dont j’ai l’utilité me
convainc d’en acquitter le prix d’achat.
La compassion, la
sollicitude, l’intérêt pour ce qui subsiste d’humain dans l’individu et dans la
société relèvent de la valeur d’usage. Ce fut un grand pas du progrès humain –
le seul peut-être – que la décision de ne plus exécuter les prisonniers amassés
lors des conflits dressant les uns contre les autres les premiers villages
fortifies, puis les cités-Etats et les Etats-nation qui leur succédèrent. Les vaincus ont payé de la mort le prix de leur
défaite jusqu’à ce que la raison du profit fît valoir combien il était
judicieux d’épargner à des ennemis désarmés une exécution rituelle si contraire
à l’esprit rationnel du libre-échange. Leur accorder une survie inespérée les
rendait débiteurs d’une dette immémoriale. Car de cette dette, ils ne
s’acquitteraient qu’en se faisant les esclaves, corvéables à merci, de maîtres
dont ils seraient tenus de célébrer la cupidité compassionnelle. Telle est
l’origine de la servitude volontaire .
L’oppresseur contribue
au bonheur des infortunés en troquant leur mort brutale contre ce contrat de
vie apparente qu’est la survie. L’imposture humaniste se perpétuera tant que
l’on peinera à y démêler la part d’humanité authentique et la défroque sous
laquelle se dissimule sa fonction marchande.
Il
n’y a - menée du local au global - que l’expérience du « vivre
ensemble » qui puisse présider à l’émergence d’un style de vie. Bannir les
réflexes de prédation en privilégiant l’entraide participe d’une poésie
pratique où le changement radical de nos mentalités et de nos mœurs rendra
obsolète la sèche énumération de Droits humains, qui « iront de
soi. »
Ce
qui est à l’œuvre est une insurrection des cœurs. Si vous estimez que l’affirmation « la vie va de soi », c’est
vite dit et n’importe comment, demandez-vous pourquoi, jouissant d’un bonheur
qui vous tient à cœur, vous éprouvez le désir de l’affiner en œuvrant au
bonheur de l’humanité tout entière ? Demandez-vous pourquoi la félicité
égoïste est bancale et souffreteuse.
Le règne des
séparations et la poésie du dépassement. Nous n’avons connu d’autres droits
que l’avoir. Revendiquer les droits de l’être implique de
rétablir en nous, avec notre environnement et avec l’univers, une unité
originelle qu’a rompue l’instauration d’une civilisation fondée sur
l’appropriation, le pouvoir hiérarchisé, les libertés du commerce.
L’exploitation conjointe
de la nature et de l’homme a inauguré le règne des séparations. Les structures
dualistes se propagent partout. Bien et mal, lumière et ténèbres, vie et mort
leur offrent un modèle d’archétype idéal.
L’économie
d’appropriation et son découpage social en maîtres et esclaves provoquent chez
l’homo sapiens une scission où l’esprit a pour fonction de dominer le
corps charnel. L’existence subit alors une véritable mutilation qui entache de
sang et de sanies la pensée fragmentaire en quête de son unité perdue (la
logique binaire d’Aristote tentera de l’ordonner en l’enserrant dans l’étau du
A et du non-A.)
Hegel annonce la fin des
dualités régnantes alors que la lutte des classes, révélée sous la Première
république, inscrit dans la réalité de l’histoire un processus de dépassement
où l’antagonisme du maître et de l’esclave se trouve dissout dans une société
sans classes. L’émergence d’une troisième voie, que l’oreille de Marx a
finement perçue, préfigure la prééminence du trois sur le deux, entendez :
une unité vitale s’instaurant par delà l’artificieuse hiérarchie de la tête et
du corps. Rien de métaphysique dans cette dialectique de la vie quotidienne où
le retour de l’entraide nourrit le pressentiment d’une société égalitaire
imminente.
La
vie en tant que jouissance de soi a été dévalorisée au profit d’une énergie
vitale contrainte de se transformer en force de travail. Le travail lui-même
s’est, à l’instar d’une société de maîtres et d’esclaves, scindé en travail
intellectuel – apanage des chefs et de la tête –- et en travail manuel, réservé
à l’esclave, au serf, au prolétaire, au corps social inférieur et au corps
vital où l’attraction passionnelle et les « bas instincts » ont
besoin de la férule de l’esprit religieux et profane pour être dûment contrôlés
et domptés.
Les droits humains
impliquent la fin des séparations et le dépassement des antinomies. La
réalisation d’un tel projet s’inscrit dans un processus d’alliance avec la
nature et avec la femme, qui en est l’émanation la plus sensible.
La
nature est une puissance qu’il nous appartient de redécouvrir et de renaturer.
Nous en faisons partie et nous en sommes tributaires. Elle opère en nous
par l’entremise d’une conscience humaine qui a le pouvoir de la rééquilibrer
dans ses forces vives chaque fois que sa profusion excédentaire la contraint de
détruire ses surplus. Elle agit par résonance sur notre santé. Elle n’a de
métaphysique que la forme dénaturée dont son exploitation marchande l’a
revêtue. Une nouvelle alliance avec elle l’assainira des ecchymoses et des
infections du capitalisme, qui n’y voyait, à l’égal de la femme, qu’un objet de
viol et de contemplation.
Dans
la guerre que les mafias de la mort rentabilisée mènent contre nous, nos forces
vives sont une arme absolue. Qui se lassera le premier ? Nous avons
lutté pour que notre corps nous appartienne, nous avons entrepris de le libérer
des mécanismes qui le grippaient et l’usaient en l’asservissant au travail.
Quelle autorité scientifico-politique obtiendra-t-elle que, vaccinés ou non,
femmes et hommes acceptent d’appauvrir ce qui leur reste d’existence en redoutant
une ixième mutation du virus, une ixième vaccination dont on ignore les effets
à long terme ?
Tragédie de la
souffrance, comédie des traitements. Les victimes potentielles des
épidémies présentes et à venir sont prises d’angoisse à la pensée de variants
récurrents. Tout détenteurs qu’ils soient de vaccins, dont l’effet placebo
n’est pas négligeable, ils ont les yeux fixés sur le compteur médiatique qui
enregistre au profit du virus providentiel les décès dus aux pesticides, à la
pollution de l’air, aux gestionnaires de la peur, à la paupérisation, au
saccage du secteur hospitalier, aux troubles des relations affectives, au
retour du puritanisme, à l’agressivité, aux coups de folie, au racisme
multicolore, à la misogynie, aux rats génétiquement améliorés du
transhumanisme.
La sinistre comédie du coronavirus se déroule,
sous nos yeux, sur un arrière fond de tragédie. Cette tragédie, qui doit son
nom à la mise à mort d’un bouc, garde la marque d’une souffrance originelle,
infligée par la perversité d’un système qui rend l’Homme esclave de ce qu’il
produit.
Nanti d’une intelligence
apte à humaniser son animalité et à réinventer le monde, l’homo sapiens,
n’en a trouvé d’autre usage que l’amélioration de ce qui constitue le génie
spécifique des bêtes : l’art de s’adapter aux conditions dominantes. La
conquête de la liberté a cédé le pas à la conquête de l’aliénation. Son
abstraction vole aujourd’hui en éclat et nous confronte à la souffrance de la
bête qui loge en nous, la souffrance du non-dépassement.
La comédie, elle,
participe plutôt du drame bourgeois. Alors que le financement et l’amélioration
des services sanitaires auraient été en mesure de faire face à une épidémie qui
tue principalement des patients en mauvaise santé, on a assisté à une mise à
sac des hôpitaux et de la médecine due au marché des intérêts privés et à une
politique de rentabilité morbide. Sans parler de l’empoisonnement des
nourritures, de la pollution de l’air et de l’eau, de la paupérisation, de
l’usure au travail, de la grisaille de l’existence.
Pour
dissimuler leurs malversations sanitaires et leurs carences criminelles, les
gouvernements propagent une panique qui identifie le coronavirus à une
fatalité. L’obscurantisme religieux du passé aurait invoqué le châtiment divin
en envoyant quelques victimes expiatoires au bûcher. Faute de moyens,
l’obscurantisme laïc en est réduit à prôner l’auto flagellation massive.
Désespérer le désespoir. La surabondance de profit stérilise le sol qui la
produit. Le capitalisme en est venu à mettre en scène sa propre mise à mort, et
il la conçoit comme une dernière mise à prix.
Il n’y a qu’une réponse
à un Etat dont le ridicule éborgne et tue, c’est la joie de la désobéissance se déversant tel du sable
dans les rouages qui fabriquent l’inhumain.
Passer outre aux
interdits, au puritanisme, à la culpabilité qui sont autant d’entraves aux
plaisirs de vivre renoue avec l’innocence originelle de l’enfance. A l’analyser
de plus près, la démarche n’est pas seulement une nasarde à l’incontinente sénile
des élites autoproclamées, elle invite à déjouer les pièges du passé qui nous
figent dans un présent sans issue.
Quand les vivants du
monde viennent à nous, c’est à une rencontre avec nous-mêmes qu’ils nous
convient ! Rien de tel pour affermir la pulsion de vie qui ne demande qu’à
rayonner en nous et autour de nous. Être conscients et insouciants du danger
ôte à l’ennemi ses armes les plus redoutables, celles que lui offrent la peur
et la résignation des exploités.
Notre existence, à
chaque instant fragilisée et revigorée, a besoin de dépasser les contraires
avant qu’ils tournent à la contrariété. La conscience du vécu enseigne la
dialectique sans qu’il soit besoin de lire Hegel.
Restaurer notre unité perdue, c’est atteindre au
dépassement de ce qui nous sépare de nous-mêmes et du monde
Nous n’arriverons pas à
nous désencombrer du vieux monde sans en construire un nouveau. L’apparition et
la multiplication des Zones à défendre révèlent à la fois la volonté de nous
réapproprier un territoire dont l’empire du profit menace de nous déloger et
l’expérience collective d’une société sans maîtres ni esclaves, où vivre
ensemble fonde sur l’entraide le refus de toutes les formes de pouvoir et de
cupidité.
C’est là que
s’esquissera la véritable aventure à laquelle toute existence aspire : la
réconciliation de chacun avec soi-même et avec son environnement. Au cœur des
insurrections qui fissurent la citadelle réelle et fantasmatique du capitalisme
mondial, il y a la quête sereine et effrénée d’un style de vie. Cette poésie-là
nous suggère dès maintenant de rédiger une Constitution des droits de l’être
humain qui abroge l’escroquerie étatique du contrat social.
La plupart des droits de l’être humain sont
issus d’un dépassement des antagonismes. Les conflits du pour et du contre
bloquent et paralysent l’essor du progrès humain. Ce n’est pas sans raison que
la palabre tente de les apaiser en laissant la vie faire entendre sa
voix.
Rédiger
une Déclaration des droits de l’être humain gagnera d’autant plus
en importance qu’on l’oubliera en la
vivant.
Dépassement de
l’intellectuel et du manuel.
Hier encore célébré comme le digne héritier de la Renaissance et des Lumières,
l’intellectuel est tombé en quelques années dans un tel état de dégradation et
d’avilissement que son statut de penseur fait l’objet de critiques de plus en
plus radicales. Le mépris dont l’accablaient Hitler, Staline, Mao, Pol-Pot
avait joué en sa faveur jusqu’à ce qu’il fît preuve devant les Gilets jaunes et
autres « braillards incultes, indignes du nom de prolétaire » du même
recul arrogant que le nanti face à un ramassis de pouilleux.
Ici, comme partout, il
s’agit de revenir à la base. Intellectuels, nous le sommes tous, tout autant
que nous sommes manuels. Ainsi l’a voulu la division du travail, ainsi l’a
voulu une société où le maître gouverne l’esclave au même titre que l’Esprit
règne sur la matière, le ciel sur la terre et la tête sur le corps.
Dans une société où la
prédation, l’appropriation, le pouvoir imposent leur norme, il était dans la
logique des choses que la raison du plus fort et du plus rusé accorde la
primauté à l’intellectualité et fasse de l’intellectuel le maître des pensées,
fussent-elles subversives. Bien que chez un petit nombre de penseurs
l’intelligence du corps jetât le trouble dans le royaume spirituel de
l’intelligence intellectuelle, celle-ci garda sa prestance jusqu’à ce que
l’effondrement graduel de la pyramide hiérarchique la réduisît à une carence
mentale dont un nommé Trump, élu président des États-Unis, allait devenir
l’emblème.
Quiconque se flatte
d’être un intellectuel n’est rien d’autre que le produit du pouvoir oppressif
qu’il reproduit en l’exerçant sur les autres.
La
poésie pratique et ses insurrections créatives auront raison des deux fonctions
qui portent la marque ignoble du travail : l’intellectuelle et la
manuelle. Leur rapport hiérarchique est le legs qui, de génération en
génération, transmet comme une flétrissure, le mal-être de la civilisation
marchande.
Restaurer l’unité de
l’énergie matérielle et de la matière énergétique, qui constituaient notre
existence. En civilisation pré-agraire, l’existence des individus évoluait
en symbiose avec la nature. L’exploitation lucrative des ressources terrestres
a déchiré, coupé du vivant, dénaturé le comportement des hommes et des femmes
qui, pendant trente mille ans, tirèrent de la cueillette leur subsistance et
leur mode de vie.
Énergie vitale et
énergie mentale formaient une unité corporelle dont émanait une conscience
réflexive et opérative, une conscience offerte à l’espèce humaine, par le
caprice expérimental d’une force aveugle. Là résidait notre génie. Nous n’en
avons guère usé pour améliorer notre sort, jusqu’à un présent récent où notre
transformation accélérée en objets – la réification - la menace d’extinction.
Garder le cap sur l’humanisation
de notre espèce donne son sens à notre destinée. Nous ne sommes pas assez
attentifs au merveilleux de l’enfance, qui renaît chaque fois que le phénix
d’une insurrection mondiale ressurgit de ses cendres.
La
joie de vivre ignore souverainement hiérarchie, pouvoir, économie, ambition,
compétition. Nous savions déjà qu’elle était au-delà du bien et du mal. Son
expérience enseigne de surcroît qu’elle a l’exceptionnelle et ordinaire faculté
de dépasser ces séparations qui figent en inextricables contrariétés les
pensées et les comportements, qui nous habitent et dont la coutume est de
sortir toujours en compagnie de leur contraire. Le jeu de la vie consiste à
passer de l’enclos du deux à l’ouverture du trois.
Dépassement du féminisme
et du virilisme. Expression du pouvoir de
l’homme, le patriarcat subit de plein fouet le tassement de la
pyramide hiérarchique, l’effondrement de l’autorité dont le père de famille
était dépositaire. Dans le dessein d’écraser les derniers soubresauts de
la tyrannie masculine, un féminisme militant a bâti sa cité sur un terrain
occupé par la misogynie du mâle aux abois, qu’il s’emploie à combattre. Mais
l’esprit de défoulement vindicatif dont il fait montre, évoque une guerre des
sexes dont le but avéré ou tacite serait qu’un matriarcat succède à la tyrannie
patriarcale trop longtemps dominante.
En l’occurrence, la
question qui accable le féminisme est celle-ci : quel être libre souhaite
qu’un pouvoir en remplace un autre ?
Le féminisme est une
idéologie. La femme y renonce à une émancipation que l’homme revendique non en
tant que mâle mais en tant qu’être humain. La barbarie, cynique ou sournoise,
d’une femme d’affaire, d’une tueuse, d’une militaire, d’une bureaucrate ne me
répugne pas moins que chez l’homme assumant des fonctions similaires.
L’émancipation de
l’homme et de la femme est inséparable d’une alliance avec un milieu naturel
résolument affranchi de l’exploitation qui le pollue et le dévaste. Nous sommes
au cœur de toutes les libertés et ce cœur nous sera arraché tant que nous
n’aurons pas jeté dans le combat toute la puissance de nos forces vitales.
C’est ce dont prennent
peu à peu conscience les insurrections épisodiques qui enflamment le vieux
monde. Ce printemps de la vie tire son efflorescence originelle de la liberté
d’aimer à laquelle s’initient – grâce à l’intercession des femmes - des
millions de créatures qu’avaient assoties les prêches de l’évangélisme
religieux et laïc dont la peste propageait le dogme de l’antiphysis et les
dégoûtantes vertus de l’antinature.
Dès
l’instant qu’ils ne relèvent pas de la prédation, de la violence, du viol, de
la subornation, l’amour fusionnel, le papillonnage libertin, l’hétérosexualité,
l’homosexualité et la gamme pléthorique des fantaisies érotiques font partie de
notre patrimoine inamovible : les libertés du désir. Ce
qu’il y a de masculin chez la femme et de féminin chez l’homme permet alors un
choix de variations dont les modulations sont sans limites et n’ont nul besoin
d’entrer dans les tiroirs catégoriels du « genre ».
Le dépassement du temps
de travail et du temps de repos inaugure
une temporalité nouvelle, un temps dévolu à la création, au désir, à la
jouissance. Le travail a fragmenté le temps en zones d’activité diurne et de
repos nocturne, dénaturant de la sorte le rythme naturel du jour et de la nuit.
Le temps rythmé par l’efficacité laborieuse est celui de l’usure, de la
fatigue, du déclin, de la mort érigée en divinité libératrice. C’est le temps
de la survie, un temps linéaire au parcours labyrinthique angoissant car sans
autre issue que finir dévoré par le minotaure ou ses émules. Au-delà se profile
une ère de la création qui ignore la comptabilité des âges. L’opposition de la
jeunesse et de la vieillesse y perd son sens et sa pertinence.
La jouissance du présent épouse le passé pour
le corriger et le futur pour en hériter. Elle rompt avec l’effet de
modernisation que sollicite le renouvellement permanent du spectacle.
La mode se dévalorise à
force de solder l’ancien sous une étiquette hâtivement rafraîchie. On se prend
à rêver d’un joyeux bûcher des vanités où se célébrerait la fin des téléphones
portables, tout en sachant qu’une telle éventualité ne s’envisagera qu’une fois
redécouvert le plaisir de se rencontrer. Une fois révoqué l’esprit affairiste
où l’humain se perd dans des méandres techniques qui le parasitent et lui ôtent
sa substance.
Or, tandis que le temps
fait son marché en valorisant l’apparence prestigieuse aux dépens de l’utile,
on voit parmi le peuple se réhabiliter des techniques artisanales anciennes.
Elles s’emploient à réparer à bas prix des produits décrétés obsolètes,
auxquels le programme transhumaniste substituera des produits aisément
accessibles à l’espionnage des données personnelles.
Rien
de révolutionnaire dans ce réajustement de la marchandise revenant à une valeur
d’usage qu’elle a exagérément amoindrie au profit de la valeur d’échange. Sauf
qu’en ayant propagé le culte de la valeur d’échange et du travail parasitaire
qui le produit, l’agiotage capitaliste se retrouve avec sur les bras une
paupérisation croissante peu encline à payer pour du rien à la mode,
voire à payer quoi que ce soit. Si bien que ce qui risque d’être mis en cause,
c’est le peu d’usage vital d’un grand nombre des biens promotionnés sur le
marché. C’est, par voie de conséquence, le piètre usage d’un quotidien englué
par la tyrannie poisseuse de l’État.
Dépassement de la
survie et de la mort dénaturée qu’elle produit. Nous sommes rarement
confrontés à une mort naturelle, je veux dire à une vie si pleinement vécue
qu’elle en vient à souhaiter un repos éternel - paradoxe d’un temps où
l’éternité n’a plus de sens.
C’est la vie économisée,
la survie ou la survivance, comme dit l’Indien Seattle, qui fait notre
infortune depuis l’instauration de la civilisation marchande. La survie est une
mort en sursis, une agonie dont la destinée humaine s’accommode d’autant moins
que les techniques de modification biologique veulent en prolonger la durée.
S’il est vrai qu’en ses
essais perpétuels la vie corrige sa profusion excessive en détruisant ses
excédents, elle a, au hasard de ses coups de dés, incidemment légué à l’homo
sapiens – qui risque lui aussi de passer à la trappe, s’il n’y prend garde
- le privilège d’ordonner le désordre en évitant les rééquilibrages à coups de
famines, de pandémies, de missiles, de machettes ou de faux.
Jamais le choix de
vivre, de survivre, de périr n’a été aussi brutalement remis entre nos mains.
Nous ne lançons pas un
défi à la mort, nous voulons seulement la renaturer, l’insérer dans notre
volonté de vivre au titre d’un recours complice au suicide. Mais un suicide
exempt de cette urgence rébarbative à laquelle poussent mal-être et mélancolie.
Il
m’agréera, je pense, de quitter la vie le jour où l’envie me quittera d’en
jouir davantage.
La seule violence à
laquelle nous nous adonnons de bonne grâce est celle du vivant. L’explosion et la propagation de la vie dans
l’univers et sur la terre a été et demeure un phénomène d’une grande brutalité.
L’intrusion d’un germe, issu du cosmos et étranger au milieu planétaire qu’il
insémine, n’est pas sans évoquer la bestialité résurgente qui préside à
l’accouplement amoureux comme à l’expulsion de l’enfant du ventre de la femme.
Notre pulsion vitale
elle-même doit faire montre d’une indéniable violence pour se frayer un chemin
à travers une conjuration de haine et de peur qui depuis des millénaires
accable la nature et la femme.
Privilégiée par l’expansion de l’avoir aux
dépens de l’être, la perspective de mort est un laisser-aller, un
passeport pour la servitude volontaire, où l’être se glorifie de la déchéance à
laquelle la dénaturation l’a réduit.
Au contraire, vivre
émane d’une volonté spontanée sans cesse réactivée. Si l’attraction
passionnelle n’est pas nourrie, elle dépérit et vire en son contraire. Mourir
est une facilité, offerte, dès le plus jeune âge, à qui sacrifie son existence
au travail.
Désobéissance civile !
La violence de la vie
n’a rien en commun avec la violence dont la mort se revêt. La vie n’a cure de
répondre à la barbarie qui l’opprime.
Vivre
humainement est une expérience à la fois atemporelle et, historiquement
parlant, radicalement nouvelle. S’y attacher et la poursuivre suffit pour que
toute velléité d’entraver sa liberté se heurte à une fin de non-recevoir.
Passons outre à tout décret liberticide !
La désobéissance civile
est une des émanations poétiques de cette fin de non – recevoir. Elle ne tolère
aucune forme de prédation, aucune forme de pouvoir. Elle est le non-agir qui
s’affirme en rayonnant, elle est la pulsion vitale qui va devant soi et,
maillon par maillon, brise, comme par inadvertance, la totalité de ses chaînes.
La guerre civile est un
jeu de mort où toutes et tous s’affrontent, la désobéissance civile est le jeu
de la vie solidaire où les passions se vivent en s’accordant.
A chaque instant se pose la question : à
qui cela profite-t-il ?
La stratégie de la
confusion est l’apanage des gouvernements et des puissances financières
mondiales. L’art de la communication sert à discréditer les révoltes de la
liberté offensée. Le mouvement des Gilets jaunes a été de la sorte assimilé à
un populisme où grenouillaient fascistes, antisémites, homophobes, misogynes et
fous furieux. Ces grotesques calomnies n’ont guère eu besoin d’être dénoncées.
Elles ont été balayées avec une manière de désinvolture sidérante par la
tranquille détermination des manifestants d’accorder aux aspirations humaines
une priorité absolue. Chose étonnante, l’opposition de gauche, voire gauchiste
et libertaire, avait fait montre à l’endroit des Gilets jaunes d’une réticence
méprisante, assez proche de l’arrogance oligarchique. Quand les bureaucrates
politiques et syndicaux s’avisèrent de leur bévue et ambitionnèrent de rallier
le mouvement des ronds points, ils se trouvèrent mis à l’écart par la ferme et
salutaire résolution de ne tolérer ni chefs ni guides autoproclamés.
L’épidémie est venue à
point pour rendre au Pouvoir vacillant un peu de son autorité répressive.
Certes, le coronavirus
et ses mutations constantes représentent un danger incontestable. Mais là où
des mesures favorables à la santé eussent permis d’en atténuer l’impact, on a
assisté à une gestion catastrophique du chaos. La gabegie hospitalière, les
mensonges en cascades, les marches et contremarches, la prévarication des
milieux scientifiques ont aggravé le péril. Plus toxique encore a été et reste
la panique orchestrée par les médias, serpillières des intérêts privés. La
partie était belle pour les grands laboratoires pharmaceutiques dont les
actionnaires s’enrichissent chaque fois que les citoyens-cobayes paient le
renouvellement des vaccins.
Trois ans de gilets
ensoleillés en toutes saisons ont affermi la résistance à une barbarie, qui ne
les a pas épargnés. Il y a là de quoi inquiéter et irriter les fantoches
étatiques, les derniers politicards, les marchands de pesticides à tous vents.
La brutalité ne
suffisant pas, la vieille pratique du bouc émissaire a pris le relais. Experte
en la matière, l’extrême-droite a choisi de mâchouiller les migrants de sa dent
unique et branlante. Avec les Gilets jaunes et leurs émules, les gestionnaires de
la corruption nationale et mondialiste font face à un projet d’une autre
envergure.
En 2018, le gouvernement
français s’était ridiculisé en traitant le peuple des ronds-points de
péquenauds incultes et irresponsables. Que la vogue du coronavirus lui livre
l’occasion de reprendre l’offensive avec plus de pertinence n’a rien
d’étonnant.
Quant
aux résidus de ceux qui bousillèrent le mouvement ouvrier et dont
l’électoralisme a fait surgir de sa boite de Pandore un fascisme de pacotille,
ils ont une revanche à prendre sur ce peuple qu’ils ne reconnaissent pas parce
qu’il refuse de les reconnaître. Ils cautionnent la grossière manœuvre de
culpabilisation par laquelle les responsables de la dévastation sanitaire
imputent la propagation de l’épidémie à des insurgés surtout coupables d’avoir
compris que l’obligation de se faire vacciner laissait augurer un contrôle
social à la chinoise.
Au
lieu de dénoncer les fauteurs de la morbidité généralisée, une faction
d’intellectuels, de rétro-bolchéviques, de prétendus libertaires a adopté la
novlangue orwellienne, devenue le mode de communication traditionnel des
instances gouvernementales. Ils dénient au peuple le droit de choisir ou non
les vaccins en cours d’expérimentation. Ils apportent à l’État un soutien effarant
en taxant d’individualistes les gilets jaunes en lutte pour le droit de vivre
et la liberté qu’elle implique. Or, cela fait trois ans que les insurgées et
insurgés de la vie quotidienne n’ont plus à démontrer qu’ils sont des individus
autonomes, réfléchissant par eux-mêmes, non des individualistes, à qui la
pensée grégaire inspire des propos du genre : « si tout le monde se
faisait vacciner, on n’aurait pas besoin de passeport sanitaire ».
Ni
peur ni culpabilité. Le vivant aura raison de ce monde à l’envers et de ses
complices. Même si le combat pour la joie de vivre subit maints revers,
pourquoi s’en inquiéter ? L’embrasement qui s’apaise se ravivera comme par
inadvertance au moindre souffle de la vie.
Le retour a la base
exclut les faux débats. Il n’y a que la santé de l’Homme abstrait qui
accepte d’être traitée par statistique et par décrets.
Se faire vacciner ou non
contre le virus est une décision qui relève du libre choix. Je ne l’impose à
personne – soit-il vieux ou vulnérable – et je me battrai pour que personne ne
me l’impose.
L’individu autonome
tient sa force de lui-même et de la solidarité de ses semblables.
L’individualiste est un adepte du calcul égoïste, un vulgaire prédateur, un pur
produit du capitalisme.
Délaissant la lice des
combats factices, les peuples ont appris dans la souffrance que seuls les
marchands d’armes gagnent une guerre. Notre combat n’est pas concurrentiel, il
se résume à tenter de vivre selon nos désirs en revendiquant pour tous et toutes un droit identique au bonheur.
La joie de vivre est une
inclination naturelle. C’est à sa souveraineté que la nature devra d’être
libérée de l’homme prédateur.
Seule une absolue
liberté anéantira l’absolutisme qui nous tue.
Rien ne résiste à la joie de
vivre
En dépit du confusionnisme propagé de
l’extrême droite à l’extrême gauche, la destruction rentabilisée de la planète
et l’autodestruction du capitalisme sont une réalité dont des millions d’êtres
humains éprouvent les effets dans le mal-être croissant de leur existence. Le
danger des évidences, c’est que leur constat réitéré et fatalement désespéré
fasse le lit de la résignation. Nous sommes au cœur d’un changement de
civilisation où tout va se jouer entre la folie mortifère du profit et une vie follement résolue à s’humaniser,
envers et contre tout.
L’alliance avec la nature restera une
imposture tant que le corps ne sera pas réhabilité comme lieu de jouissance et
d’éveil de la conscience. Tant que nous ne réconcilierons pas avec le règne
animal, végétal, minéral, d’où notre espèce est issue.
Le temps est venu de miser sur l’inextricable
conjugaison de l’existentiel et du social pour donner ses assises au projet
d’autogestion généralisée, le seul qui restitue à l’entraide la faculté de
mettre fin au calcul égoïste et à la servitude volontaire.