La penetrazione del capitalismo nelle campagne
ha trasformato la proprietà rurale in impresa e la produzione di sussistenza in
produzione per il mercato. La rapida crescita della popolazione urbana ha
moltiplicato parallelamente la domanda di cibo. La mercificazione ha posto fine
alla simbiosi tra agricoltura e allevamento, costringendo entrambi a seguire la
propria strada. Di fatto, ha messo fine alla tradizionale società contadina. Tutto fu ridotto al suo valore di scambio: scomparve ogni forma
di vita coerente con l'ambiente, svanì la socialità tipica del mondo rurale e
così ogni singolarità fu soppressa, la bellezza paesaggistica fu svilita e
tutto il patrimonio culturale fu rovinato o museificato. La ricerca esclusiva
del beneficio economico implicava lo sfruttamento intensivo, cioè
l'industrializzazione dell'attività agricola. Allo stesso modo, le condizioni
industriali richiedevano la concentrazione della proprietà, il finanziamento
tramite crediti e sussidi e una quantità crescente d’input, principalmente
macchinari, energia e acqua in abbondanza, fertilizzanti chimici, erbicidi e
pesticidi. La globalizzazione ha
amplificato indicibilmente queste condizioni (“Almería, frutteto d'Europa”)
ricorrendo a varietà ibride e transgeniche. In questo modo si è interrotto il
rapporto più o meno diretto, non solo tra i produttori e i consumatori di cibo,
ma anche tra gli stessi contadini e le campagne. L'agricoltore-imprenditore si è
dedicato definitivamente alla gestione e alla supervisione delle colture -
mansioni digitalizzate - poiché le mansioni specificamente agricole
(trattamenti fitosanitari, raccolta e confezionamento) erano a carico dei
lavoratori salariati, quasi sempre per stagione e in condizioni di lavoro pessime.
L'agricoltura industriale è un'agricoltura senza agricoltori. Lo stesso diremmo
dell'allevamento intensivo delle macro aziende agricole. Gli effetti positivi
di entrambi si sono rivelati in un apprezzabile aumento della produzione e in
una riduzione dei prezzi che hanno determinato un'espansione demografica
urbana. Peggiori sarebbero gli aspetti negativi: abbandono della terra
ed emigrazione verso le città, perdita di conoscenze e saperi, scomparsa o
privatizzazione delle varietà autoctone, deforestazione e distruzione della
fauna selvatica, produzione di rifiuti non riciclabili, maggiore resistenza dei
parassiti e comparsa di nuove fitopatie, scomparsa dello strato fertile del
suolo, sovra sfruttamento delle falde acquifere, contaminazione del suolo e dell'acqua
e degrado della qualità degli alimenti. L’argomento maggiore a favore della
monocoltura industriale e dell'allevamento intensivo è stato l’eradicazione
della fame nel mondo, una promessa chiaramente non mantenuta.
Diversi fattori hanno influito sull’invivibilità di molte
aziende agricole ma il principale è stato il ristagno della produzione
petrolifera dal 2005, elemento determinante dell'attuale crisi (dato
corroborato dalle compagnie petrolifere che, stufe di perdere denaro, hanno
smesso di investire nel 2014). Il superamento del picco del petrolio ha portato
dal 2015 alla diminuzione della produzione di gasolio, così essenziale per la
lavorazione meccanica del terreno, e in generale, e fu in generale seguita dai
picchi di altre risorse energetiche e minerarie. Le conseguenze non avrebbero potuto
essere peggiori sui prezzi di fertilizzanti, pesticidi e plastica, dipendenti
dall'industria petrolchimica. Anche il costo dei trasporti è aumentato,
compreso quello marittimo (il 92% dell'energia consumata dalla circolazione a
motore proviene dal petrolio), cosi come quello dei cereali e di conseguenza
dell’alimentazione. La domanda crescente delle economie emergenti (Cina, India,
Brasile) non ha fatto altro che aggravare la situazione, anticipando la crisi.
Per quanto riguarda gli altri fattori, segnaliamo l’indebitamento e la scarsità
d'acqua dovuta alla siccità. I terreni sono dunque diventati disponibili per
altre attività transitorie come l’energia rinnovabile Il classico modello di
sviluppo industriale è stato ritoccato per diventare molto più tecnico e
insostenibile, affidandosi alla fusione di tecno scienza, produzione su larga
scala, finanza e logistica, ma senza contrastare di fatto il trend di bassa
resa delle colture e la difficoltà di aumentare la superficie coltivata,
soprattutto quando la terra irrigata è diventata un bene rifugio. Il recente
approdo in campagna dei fondi d’investimento e dei flussi europei del programma
Next Generation e del piano RePower, suggerisce che i megaimpianti per il New
Green Deal americano cercano nelle rinnovabili di superare i problemi
strutturali dell'agro business che impediscono una crescita sufficiente – problemi
attribuiti al cambiamento climatico. La cosiddetta transizione energetica si
annuncia come il grande rimedio. In effetti, il riscaldamento globale sta
destabilizzando tutta la produzione agroindustriale già perturbata e si fa
credere che i megaimpianti per le energie rinnovabili contribuiscono alla
soluzione mentre producono unicamente elettricità, la quale rappresenta solo il
20-24% dell'energia consumata. In realtà si cerca di mantenere il sistema
industriale vigente, con bassi costi di produzione e alti livelli di consumo.
Cambiare qualcosa affinché tutto si conservi.
Il
vertice sul clima di Parigi (2015) ha segnato una
svolta nella marcia del capitalismo. Fissando la "de-carbonizzazione"
dell'economia come obiettivo urgente e accordando un forte sostegno
finanziario, il capitalismo verde è stato finalmente in grado di proporsi come
“transizione energetica”. I problemi di approvvigionamento dovuti alla pandemia
e alla guerra in Ucraina ne hanno solo accelerato il decollo. Per quanto
riguarda il territorio spagnolo, la proliferazione disordinata e incontrollata d’impianti
industriali di energia rinnovabile è succeduta alla precedente ondata d’insediamenti
residenziali, grandi magazzini e autostrade. La produzione di energia elettrica
prende il posto del mattone come motore economico e primo fattore di degrado
del territorio. Il processo di disgregazione dello spazio rurale si sta
completando grazie a questo nuovo estrattivismo: stiamo entrando in una sorta
di fase metastatica finale del cancro urbano-capitalista che stava
inesorabilmente corrodendo la campagna e la natura come già aveva fatto con la
città stessa. Nonostante che, imitando la politica, il linguaggio
imprenditoriale e finanziariamente corretto abbia incorporato molte parole con connotazioni
ecologiste, non c’è una presa di coscienza dei leader mondiali di fronte alla
crisi climatica. Il vocabolario ambientalista utilizzato dai dirigenti non deve
trarre in inganno, poiché non è altro che una convenzione aggiunta in un'epoca
di catastrofi ecologiche per oscurare la comprensione popolare del disastro.
Nessuno intende porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili, come dimostrano,
per esempio, l’impegno nel costruire nuove infrastrutture per il gas o la costruzione
di nuove centrali a carbone e il mantenimento di quelle nucleari. D'altra
parte, anche in caso di una stagnazione del consumo, il vuoto lasciato dall'uso
di benzina, cherosene o gasolio è così profondo che sarebbe impossibile
colmarlo con altre risorse. Non c'è realmente un cambiamento di paradigma
energetico, né si cerca di sostituire le fonti fossili e nucleari con altre possibilità.
Neppure la riduzione delle emissioni di gas serra è seriamente contemplata come
si è postulato fin dalla stesura dei Protocolli di Kioto nel 1997. È invece
molto più evidente che il mercato dell'energia elettrica e il commercio delle
emissioni promettono garanzie considerevoli. Il prezzo della luce, del gas e dei
diritti delle emissioni di anidride carbonica (sul mercato dal 2005), dovuto in
parte alla ripresa economica post-pandemia, hanno raggiunto i massimi storici
lo scorso marzo. A giugno è stato il turno del gasolio e della benzina. Se
teniamo conto anche del progressivo calo delle estrazioni petrolifere e di una
consistente disponibilità di fondi, avremo tutti i presupposti che stanno riorientando
le finanze mondiali verso le energie cosiddette ormai "rinnovabili".
La “transizione energetica” concordata a Parigi, i piani nazionali di emergenza
climatica, i progetti di contenimento e resilienza e, più recentemente, la
volontà europea di tagliare i consumi di gas di un prosaico 15%, hanno già
molteplici strumenti finanziari su cui appoggiarsi. È quindi comprensibile che
un ampio settore del capitalismo costituito dagli oligopoli dell'elettricità, dalle
transnazionali del gas, dalle compagnie petrolifere, dalle grandi società di
costruzioni, dalle grandi banche e dai fondi d’investimento, riconosca
ipocritamente l'urgenza di lottare contro il riscaldamento globale. Il
risultato di una tale repentina combattività è una raffica di derivati
“climatici” e centrali elettriche che non riflettono esattamente una
preoccupazione corporativa per l'ambiente, la biodiversità e lo sviluppo
locale: l'unica scopo perseguito è il profitto privato. Non c'è transizione da
una società basata su un modello energetico centralizzato, industriale ed
estrattivista, a un mondo decentralizzato, autosufficiente, disurbanizzato e
rispettoso del territorio e della natura. La società capitalista prima della
transizione pretende di essere la stessa di quella successiva, strutturata allo
stesso modo ma con un discorso ecologista. Il capitale non ha un'ideologia
fissa, né un linguaggio particolare; la sola preoccupazione dell’improvvisa inclinazione
dei dirigenti per l'ecologia è il tornaconto, che ora ruota attorno al verde.
Una cosa è l'elettricità e un'altra l'energia primaria, ossia
tutta l’energia naturale disponibile non ancora modificata per il suo uso. Essa
proviene da fonti fossili per l'86% (dato del 2019 dello Stato spagnolo) e per la
maggior parte non è elettrificabile. Per il modello 100% rinnovabile della
transizione in questo campo abbiamo solo l'auto elettrica e l'idrogeno verde,
ma entrambi sono troppo costosi e il loro uso massiccio presenta gravi problemi
tecnici ancora irrisolti. In verità, le alte autorità vogliono che le
cosiddette energie rinnovabili fungano da meccanismo di contenimento della
domanda di combustibili, di carbone e, soprattutto, di gas destinati alla
produzione di energia elettrica, per ridurre, cioè, l'attività delle centrali
termiche senza sostituirle, perché sono necessarie quando non c'è sole né vento
(nel 2022 hanno coperto solo il 30,8% del fabbisogno elettrico in Spagna).
Questa associazione obbligatoria mette in discussione la natura rinnovabile
dell'energia prodotta in "parchi", "orti" e altre
"fattorie", pur se non dimentichiamo che i materiali industriali
utilizzati nella loro costruzione riflettono una significativa impronta di
carbonio di fabbrica: cemento armato e acciaio per le fondazioni, alluminio e
rame per l'evacuazione nelle linee ad alta tensione, vetroresina o carbonio
rinforzato con plastica per le “lame” o pale, terre rare per i magneti
permanenti dei rotori (la cui estrazione e purificazione è un processo
altamente inquinante), cialde di poli-silicio e film metallici semiconduttori poco
abbondanti per i pannelli solari (alcuni tossici come l’arsenico e il cadmio),
materiale per supporti e invertitori di corrente, litio e cobalto per le batterie,
ecc. Se a questo aggiungiamo i lavori di sterro, scavo e altri lavori di
installazione e manutenzione, che si ripetono al momento dello smantellamento,
cioè dopo venti o trent'anni, più il problematico riciclaggio dei rottami
metallici, avremo il quadro completo della vera possibilità di rinnovamento di
un tipo di energia che dovrebbe essere chiamata più appropriatamente
"energia alternativa derivata da combustibili fossili". Non parliamo
poi della natura “pulita” di altre energie considerate rinnovabili come quelle
che provengono dalla combustione di bio masse o biocarburanti, e della stessa
energia idroelettrica. Insomma, le rinnovabili non sono altro che un miraggio. Non
risolvono per niente la crisi. Hanno un grande impatto ambientale e scarse
ripercussioni economiche locali, non creano posti di lavoro, minacciano foreste
e raccolti, causano danni al paesaggio e alla fauna e contribuiscono allo
svuotamento delle campagne spagnole tanto quanto l'agro business. Avvantaggiano
solo oligopoli energetici e gruppi finanziari, introducono dipendenze
tecnologiche non necessarie e, per di più, non sono nemmeno rinnovabili.
Di tutte le presunte rinnovabili, il solare fotovoltaico è
quello che ha guadagnato maggior impulso, seguito a grande distanza dall'eolico
offshore e dall'idrogeno. I suoi promotori parlano di “rivoluzione solare” per
le intenzioni dichiarate nei piani nazionali per l'energia e il clima di
quadruplicare la potenza installata nei prossimi otto anni. Sarebbe meglio dire
"bolla solare" a giudicare dalle sue caratteristiche speculative. La
verità è che dal 2018 gli Stati europei hanno promosso una rapida crescita del
mercato fotovoltaico, iniziando a progettare impianti di oltre 100 Mw (più
grande è l'installazione, più è duratura). Il fotovoltaico era diventato più
economico a causa del calo dei prezzi del silicio cristallino e, quindi, dei
pannelli. I progressi tecnologici hanno indicato un sostanziale miglioramento
dell'efficienza. Le centrali solari erano meno costose da mantenere rispetto
alle centrali eoliche; insomma, nonostante il recente aumento del costo delle
materie prime e della logistica, il suo costo di installazione è diminuito
dell'82% e il costo di produzione del 90%. Nonostante che il tasso di ritorno
energetico (TRE) fosse troppo basso (tre parti di energia ottenuta per una
investita), il fotovoltaico è diventato l'energia meno costosa quasi da un
giorno all’altro e, tenendo conto che dal novembre 2020 i prezzi del gas e
dell'elettricità sono molto volatili, l'opzione solare non solo ha cominciato a
essere presente negli uffici delle multinazionali come l’affare del secolo, ma
anche nei ministeri come un tema dichiarato di “interesse pubblico”. Per un
motivo o per l'altro, il settore fotovoltaico promette di raggiungere in breve
tempo dimensioni paragonabili a quelle dell'industria automobilistica. Grazie
alla fine della moratoria sulle rinnovabili e alla soppressione della "tassa
solare" e all’abolizione del rapporto d’impatto ambientale su impianti di
oltre cinquanta ettari, il mercato solare spagnolo è diventato uno dei più
grandi e sta crescendo a tutta velocità al calore delle aste del Ministero
della Transizione Ecologica, della bassa redditività degli sfruttamenti
agricoli, degli espropri forzati delle licenze express e delle iniezioni di capitali
stranieri. Il più grande 'macroparco' europeo è stato realizzato tre anni fa a
Mula (Murcia) con una capacità di 495 Mw e occupa un migliaio di ettari e altri
500 sono stati recentemente realizzati a Usagre (Badajoz). Tre o quattro di
grandezza simile e migliaia di altri meno estesi sono in corso, in terreni
rustici e steppe, su colture, zone umide, aree protette e sentieri per il
bestiame a volte vicino ad aree popolate. Anche l'installazione di pannelli su
tetti, parcheggi e stagni, sovvenzionati dal Programma Solare 2022, ha dato
vita a numerose aziende, attratte dalla prospettiva di guadagni
nell'autoconsumo commerciale. Siamo di fronte a una potenza installata di 180
GW (in aumento) di cui non abbiamo bisogno, visto che il consumo medio statale
non raggiunge i 32 GW. Intanto il paesaggio iberico si sta trasformando a marce
forzate e lo spazio solare, quando l'urbanizzazione ha raggiunto il suo apice,
diventa, a tutti gli effetti, l'elemento determinante di una pianificazione
territoriale "verde" che obbedisce essenzialmente a interessi imprenditoriali
e finanziari contingenti.
L'elevato numero d’impianti e la minaccia incombente di sfavorevoli
conseguenze sociali, ambientali e paesaggistiche stanno generando conflitti
territoriali e, allo stesso tempo, generando una riflessione critica ben
orientata contro il modello capitalista di gestione dell'energia che si lega
alla critica dell’agroindustriale. Punti di partenza critici sono la
considerazione dell'energia come bene comune e la sovranità alimentare – il
diritto dei popoli a procurarsi il cibo secondo le consuetudini – postulati che
invalidano lo sfruttamento industriale delle fonti rinnovabili e
dell’agricoltura, mettendo in discussione la pianificazione nazionale. Ciò che
conta sono i bisogni sociali e i diritti fondiari, non gli interessi delle
grandi multinazionali. Di conseguenza, la crisi energetica e agraria dev'essere
considerata come una crisi del sistema capitalista e dello Stato che lo serve,
per il quale si tratta di superare la crisi intervenendo dall’alto con aiuti,
bonus, linee guida internazionali e fughe tecnologiche in avanti. L’estensione
del disastro contrasta con l’inconsistenza dei rimedi. Le proposte ecologiche
ruotano intorno all'autoconsumo, al risparmio energetico, agli impianti
condivisi, ai progetti comunitari, al riciclo, alla piccola produzione, alle
associazioni di consumatori, ai vincoli di spesa e di mobilità, ecc.,
iniziative perfettamente valide ma difficili da realizzare in una società sperperatrice,
con la popolazione tremendamente consumista stipata in agglomerati suburbani.
Senza un dispendio straordinario di risorse, la società del consumo
irresponsabile andrebbe in chiaro declino, al quale si resisterebbe ricorrendo
all’occorrenza alle armi, giacché è inutile sforzarsi di trovare una soluzione
pacifica alla crisi attraverso una “decrescita economica pianificata
democraticamente” – da chi? – come se l'economia globale e gli agglomerati
urbani accettassero di estinguersi pacificamente. La produzione di energia e di
cibo non può essere considerata un fenomeno slegato dal mercato, dal sistema
finanziario e dal fatto metropolitano.
Più illusorio è fingere di credere che la transizione energetica
promossa dai leader mondiali sia quella che corrisponde al citato modello di
prossimità "attuato con la partecipazione dei cittadini" nei parlamenti
e nei comuni. Questo è il più grande errore dell'approccio ecologista
maggioritario e della critica scientifica onesta che considera lo spazio
istituzionale come una zona neutra dove è possibile attuare la difesa
“democratica” degli interessi popolari contro la predazione del capitale,
difesa che persegue un solenne “patto di Stato” con i suoi medesimi
rappresentanti. La questione energetica, come quella ecologica, è inscindibile
dalla lotta sociale e politica contro gli oligopoli, i fondi e le istituzioni fatte
su misura, regionali, nazionali o internazionali, poiché la sua attuazione
richiede una radicale riorganizzazione della società che va oltre l'ambito
della legislazione più ardita che si possa realizzare con i movimenti
politico-giuridici di cittadinanza. Finché il tessuto sociale non si ricomporrà
al di fuori delle istituzioni e in opposizione ad esse, la difesa del
territorio sarà debole e cercherà compromessi con l’ideologia dello sviluppo
sulla base di accuse che richiedono solo una moratoria temporanea o una
riduzione delle dimensioni dei progetti. La confusione tattica dominerà in
confronto all’interesse privato e alla complicità istituzionale, poiché la
prospettiva anticapitalista sarà deliberatamente nascosta da entrambe le parti.
Solo in una fase più avanzata della lotta, immersi in un riscaldamento globale
più violento e in una crisi più profonda, quando le masse impoverite smetteranno
di essere ornamentali e, spinte da desideri, passioni, utopie e disastri, decideranno
di prendere in mano il loro destino, allora verrà fuori il dibattito
strategico, le carte saranno necessariamente messe in tavola. Lì si vedrà se l'ecologismo
ben intenzionato è, o meno, un mero lubrificante verde dell'ingranaggio
capitalista coloniale, gerarchico e centralizzato, un avallo delle sue
politiche di sviluppo. Ebbene, il capitalismo non sa contenersi, poiché è nel
suo essere non avere freno. Lo arresteranno le infaticabili dimostrazioni di
moderazione civica e autolimitazione politica così tipiche del realismo ecologista
e della semidissidenza scientifica?
Miquel Amorós
Conferenza nella Biblioteca sociale El Rebrot Bord de Albaida (Valencia), l’otto gennaio 2023, e nel Centro socioculturale Roque Baños de Jumilla (Murcia),
organizzata dall’Asociación Naturalista STIPA, l’undici gennaio 2023.
Miquel Amorós
Conferenza nella Biblioteca sociale El Rebrot Bord
de Albaida (Valencia), l’otto gennaio 2023, e nel Centro socioculturale
Roque Baños de Jumilla (Murcia), organizzata dall’Asociación Naturalista STIPA,
l’undici gennaio 2023.
Crise agricole et dilemme énergétique
La
pénétration du capitalisme dans les campagnes a transformé la propriété rurale
en entreprise et la production de subsistance en production pour le marché. La
croissance rapide de la population urbaine a parallèlement multiplié la demande
alimentaire. La marchandisation a mis fin à la symbiose entre l'agriculture et
l'élevage, obligeant les deux à agir pour son compte. En fait, elle a mis fin à
la société paysanne traditionnelle. Tout a été réduit à sa valeur
d'échange : toute forme de vie cohérente avec l'environnement a disparu,
la socialité typique du monde rural a disparu et ainsi toute singularité a été
supprimée, la beauté scénique a été dégradée et tout le patrimoine culturel a
été ruiné ou muséifié. La recherche exclusive du profit économique impliquait
une exploitation intensive, c'est-à-dire l'industrialisation de l'activité
agricole. De même, les conditions industrielles nécessitaient une concentration
de la propriété, un financement par des crédits et des subventions, et une
quantité croissante d'intrants, principalement des machines, une énergie et une
eau abondantes, des engrais chimiques, des herbicides et des pesticides. La
mondialisation a indiciblement amplifié ces conditions (« Almería, potager
de l'Europe ») en recourant aux variétés hybrides et transgéniques. De
cette façon, la relation plus ou moins directe était interrompue, non seulement
entre les producteurs et les consommateurs de nourriture, mais aussi entre les
agriculteurs eux-mêmes et la campagne. L'agriculteur-entrepreneur s'est
consacré définitivement à la gestion et à la surveillance des cultures – tâches numérisées – puisque les tâches spécifiquement agricoles (traitements phytosanitaires,
récolte et conditionnement) étaient à la charge de salariés, presque toujours
selon la saison et dans de très mauvaises conditions de travail. L'agriculture
industrielle est une agriculture sans agriculteurs. On dirait la même chose de
l'élevage intensif des macro-fermes. Les effets positifs de l'un et de l'autre
se sont avérés être une augmentation sensible de la production et une baisse
des prix qui ont conduit à une expansion démographique urbaine. Les aspects
négatifs seraient pires : abandon des terres et émigration vers les
villes, perte des savoirs et savoir-faire, disparition ou privatisation des
variétés indigènes, déforestation et destruction de la faune, production de
déchets non recyclables, plus grande résistance des parasites et émergence de
nouvelles maladies des plantes, disparition de la couche fertile du sol,
surexploitation des aquifères, contamination des sols et de l'eau et
dégradation de la qualité des aliments. L'argument majeur en faveur de la
monoculture industrielle et de l'élevage intensif a été l'éradication de la
faim dans le monde, une promesse clairement non tenue.
Plusieurs facteurs ont influencé l’impossible
survie de nombreuses exploitations mais le principal a été la stagnation de la
production pétrolière depuis 2005, facteur déterminant dans la crise actuelle
(chiffre corroboré par les compagnies pétrolières qui, lassées de perdre de
l'argent, ont cessé d'investir en 2014). Depuis 2015, le dépassement du pic
pétrolier a entraîné une baisse de la production de diesel, si indispensable
pour le travail mécanique des terres, et en général, et a été généralement suivie
du dépassement des pics d'autres ressources énergétiques et minérales. Les
conséquences n'auraient pas pu être pires sur les prix des engrais, des
pesticides et des plastiques dépendants de l'industrie pétrochimique. Le coût
des transports a également augmenté, notamment le coût maritime (d’ailleurs 92%
de l'énergie consommée par la circulation automobile provient du pétrole),
ainsi que celui des céréales et par conséquent des denrées alimentaires. La
demande croissante des économies émergentes (Chine, Inde, Brésil) n'a fait
qu'aggraver la situation, anticipant la crise. Quant aux autres facteurs, nous
soulignons la dette et la rareté de l'eau due à la sécheresse. Le foncier est
donc devenu disponible pour d'autres activités éphémères comme les énergies
renouvelables. Le modèle développeuriste classique de développement industriel
a été retouché pour devenir beaucoup plus technique et non durable, reposant
sur la fusion de la techno science, de la production à grande échelle, de la
finance et de la logistique, mais sans efficacité à l’heure de contrecarrer la
tendance à la baisse des rendements agricoles et la difficulté d'augmenter les
surfaces cultivées, surtout lorsque les terres irriguées sont devenues une
valeur refuge. L’arrivée récente dans la campagne des fonds d’investissement et
des flux européens du programme Next Generation et du plan RePower, laisse
penser que les méga-centrales du New Green Deal américain cherchent dans les
énergies renouvelables un moyen de pallier les problèmes structurels de
l’agrobusiness qui empêchent une croissance suffisante – problèmes attribués au
changement climatique. La soi-disant transition énergétique promet d'être le
grand remède. En effet, le réchauffement climatique déstabilise toute la
production agro-industrielle déjà perturbée et l'on est amené à croire que les
méga-centrales pour les énergies renouvelables contribuent à la solution en ne
produisant que de l'électricité, qui ne représente que 20-24% de l'énergie
consommée. En réalité, on tente de maintenir le système industriel actuel, avec
des coûts de production bas et des niveaux de consommation élevés. Changer
quelque chose pour que tout soit conservé.
Le sommet de Paris sur le climat (2015) a
marqué un tournant dans la marche du capitalisme. En fixant la « dé
carbonisation » de l'économie comme un objectif urgent et en lui accordant
un soutien financier fort, le capitalisme vert a enfin pu se présenter comme
une « transition énergétique ». Les problèmes d'approvisionnement dus à la
pandémie et à la guerre en Ukraine n'ont fait qu'accélérer son décollage. En ce
qui concerne le territoire espagnol, la prolifération désordonnée et
incontrôlée des centrales industrielles d'énergies renouvelables a succédé à la
précédente vague de développements résidentiels, de grands magasins et
d'autoroutes. La production d'électricité remplace la brique comme moteur
économique et principal facteur de dégradation des terres. Le processus de
désintégration de l'espace rural s'achève grâce à ce nouvel extractivisme :
nous entrons dans une sorte de phase ultime métastatique du cancer urbain-capitaliste
qui corrodait inexorablement la campagne et la nature comme il l'avait déjà
fait avec la ville elle-même. Malgré le fait que, imitant la politique, le
langage entrepreneurial et financièrement correct a incorporé de nombreux mots
à connotation écologique, il n'y a aucune prise de conscience des dirigeants
mondiaux face à la crise climatique. Le vocabulaire vert utilisé par les
dirigeants ne doit pas induire en erreur, car il ne s'agit que d'une convention
ajoutée à une époque de catastrophes écologiques pour obscurcir la
compréhension populaire de la catastrophe. Bref, il s’agit d’un greenwashing. Personne
n'a l'intention de mettre fin à la dépendance aux combustibles fossiles, comme
en témoignent, par exemple, l'engagement de construire de nouvelles infrastructures
gazières ou la construction de nouvelles centrales au charbon et l'entretien
des centrales nucléaires. En revanche, même en cas de stagnation de la
consommation, le vide laissé par l'usage de l'essence, du kérosène ou du diesel
est si profond qu'il serait impossible de le combler par d'autres ressources.
Il n'y a pas vraiment de changement de paradigme énergétique, ni de tentative
de remplacer les sources fossiles et nucléaires par d'autres possibilités. Même
la réduction des émissions de gaz à effet de serre n'est pas sérieusement
envisagée comme cela a été postulé depuis la rédaction des protocoles de Kyoto
en 1997. Par contre, il est indéniable que le marché de l'électricité et les
échanges d'émissions promettent des gains considérables. Le prix de
l'électricité, du gaz et des droits d'émission de dioxyde de carbone (sur le
marché depuis 2005), en partie à cause de la reprise économique
post-pandémique, a atteint des sommets historiques en mars dernier. En juin,
c'était le tour du diesel et de l'essence. Si l'on tient également compte de la
baisse progressive de l'extraction pétrolière et d'une importante disponibilité
de fonds, on aura toutes les conditions qui réorientent les finances mondiales
vers les énergies désormais dites « renouvelables ». La « transition
énergétique » convenue à Paris, les plans nationaux d'urgence climatique,
les projets d'atténuation et de résilience et, plus récemment, la volonté
européenne de réduire la consommation de gaz d'un prosaïque 15%, disposent déjà
de multiples outils financiers sur lesquels s'appuyer. On comprend donc qu'un
large secteur du capitalisme composé d'oligopoles électriques, de
transnationales gazières, de compagnies pétrolières, de grandes entreprises de
construction, de grandes banques et de fonds d'investissement, reconnaissent
hypocritement l'urgence de lutter contre le réchauffement climatique. Le
résultat d'une telle belligérance soudaine est un barrage de dérivés
« climatiques » et de centrales électriques qui ne reflètent pas
exactement une préoccupation des entreprises pour l'environnement, la
biodiversité et le développement local : la seule chose qu'elle poursuit est le
profit privé. Il n'y a pas de transition d'une société basée sur un modèle
énergétique centralisé, industriel et extractiviste vers un monde décentralisé,
autosuffisant, désurbanisé et respectueux de la terre et de la nature. La
société capitaliste d'avant la transition se veut la même que la suivante,
structurée de la même manière mais avec un discours écologique. Le capital n'a
pas d'idéologie fixe, pas de langage particulier ; la seule préoccupation des
dirigeants soudain enclins à l’écologie ce sont les affaires, qui tournent
désormais autour du vert.
Une chose est l'électricité et une autre
est l'énergie primaire, c'est-à-dire toute l'énergie naturelle disponible non
encore modifiée pour son utilisation. Elle provient pour 86% de sources
fossiles (données 2019 de l'état espagnol) et pour la plupart elle n'est pas
électrifiable. Pour le modèle 100% renouvelable de la transition dans ce
domaine, nous n'avons que la voiture électrique et l'hydrogène vert, mais les
deux sont trop chers et leur utilisation massive pose de sérieux problèmes
techniques encore non résolus. En vérité, les hautes autorités veulent que les
énergies dites renouvelables agissent comme un mécanisme pour contenir la
demande de carburant, de charbon et surtout de gaz destiné à la production
d'électricité, c'est-à-dire pour réduire l'activité des centrales thermiques
sans les remplacer, car elles sont nécessaires lorsqu'il n'y a ni soleil ni
vent (en 2022, elle ne pourvoyaient qu’à 30,8% des besoins en électricité de
l'Espagne). Cette association obligatoire interroge le caractère renouvelable de
l'énergie produite dans les « parcs », les « jardins » et
autres « fermes », d’autant plus que, ne l'oublions pas, les
matériaux industriels utilisés dans leur construction grèvent le bilan carbone des
usines : béton armé et acier pour les fondations, aluminium et cuivre pour
l'évacuation dans les lignes à haute tension, plastique renforcé de fibre de
verre ou de carbone pour les « lames » ou pales, terres rares pour
les aimants permanents des rotors (terres dont l'extraction et la purification sont
des processus très polluants), wafers de poly silicium et films de métaux
semi-conducteurs à faible abondance pour les panneaux solaires (dont certains sont
toxiques comme l'arsenic et le cadmium), matériau pour les supports et
onduleurs de courant, lithium et cobalt pour les batteries, etc. Si l'on ajoute à
cela les terrassements, excavations et autres travaux d'installation et
d'entretien, qui se répètent au moment du démantèlement, c'est-à-dire après
vingt ou trente ans, plus le recyclage problématique de la ferraille, on aura
le tableau complet de la possibilité réelle de renouvellement d'un type
d'énergie qu'il serait plus juste d'appeler « énergie alternative dérivée
des énergies fossiles ». Ne parlons pas du caractère « propre »
des autres énergies considérées comme renouvelables comme celles issues de la
combustion de la biomasse ou des biocarburants, et de l'énergie hydroélectrique
elle-même. Bref, les énergies renouvelables ne sont qu'un mirage. Elles ne
résolvent en rien la crise. Elles ont un impact environnemental important et
peu d'impact économique local, ne créent pas d'emplois, menacent les forêts et
les cultures, causent des dommages au paysage et à la faune et contribuent à
l'assèchement des campagnes espagnoles autant que l'agro-industrie. Elles ne
profitent qu'aux oligopoles énergétiques et aux groupes financiers,
introduisent des dépendances technologiques inutiles, et qui plus est, elles ne
sont même pas renouvelables.
De toutes les énergies renouvelables
supposées, le solaire photovoltaïque a pris le plus d'ampleur, suivi de près
par l'éolien offshore et l'hydrogène. Ses promoteurs parlent de
« révolution solaire » en raison des intentions affichées dans les
plans nationaux énergie-climat de quadrupler la puissance installée d'ici huit
ans. Il vaudrait mieux dire « bulle solaire » à en juger par ses
caractéristiques spéculatives. La vérité est que depuis 2018, les États
européens ont favorisé une croissance rapide du marché photovoltaïque,
commençant à concevoir des centrales de plus de 100 MW (plus l'installation est
grande, plus elle est durable). Le photovoltaïque était devenu moins cher en
raison de la baisse des prix du silicium cristallin et donc des panneaux. Les
progrès technologiques ont marqué une amélioration substantielle de
l'efficacité. Les centrales solaires étaient moins chères à entretenir que les
parcs éoliens; bref, malgré la récente augmentation du coût des matières
premières et de la logistique, leur coût d'installation a diminué de 82% et leur
cout de production de 90%. Bien que le taux de retour énergétique (TRE) ait été
trop faible (trois parts d'énergie obtenues pour une investie), le
photovoltaïque est devenu l'énergie la moins chère presque du jour au lendemain
et, compte tenu du fait que depuis novembre 2020 les prix du gaz et de
l'électricité sont très volatils, l'option solaire a commencé à être non
seulement présente dans les bureaux des multinationales comme l'affaire du
siècle, mais aussi dans les ministères comme une question déclarée d'« intérêt
public ». Pour une raison ou une autre, la filière photovoltaïque promet
d'atteindre rapidement une taille comparable à celle de l'industrie automobile.
Grâce à la fin du moratoire sur les énergies renouvelables, à la suppression de
l’« impôt solaire » et à l’abolition du rapport d'impact
environnemental sur les installations de plus de cinquante hectares, le marché
solaire espagnol est devenu l'un des plus importants et se développe à toute
vitesse dans le feu des enchères du ministère de la Transition écologique, de
la faible rentabilité des exploitations agricoles, des expropriations forcées,
des permis express et des injections de capitaux étrangers. Le plus grand
« macro-parc » européen a été construit il y a trois ans à Mula
(Murcie) avec une capacité de 495 MW et occupe un millier d'hectares et un
autre parc de 500MW a été récemment construit à Usagre (Badajoz). Trois ou
quatre de même ampleur et des milliers d'autres moins étendus sont en cours,
dans des campagnes et des steppes, sur des cultures, des zones humides, des sites
protégés et des pistes à bétail, parfois à proximité de zones peuplées.
L'installation de panneaux sur les toits, les parkings et les bassins,
subventionnée par le Programme Solaire 2022, a également donné naissance à de
nombreuses entreprises, attirées par la perspective de profits en
autoconsommation commerciale. Nous sommes face à une capacité installée de 180
GW (et en augmentation) dont nous n'avons pas besoin, étant donné que la
consommation moyenne de l'Etat n'atteint pas 32 GW. Pendant ce temps, le
paysage ibérique est transforme à marches forcées et, alors que l'urbanisation
a atteint son apogée, l'espace dévolu au solaire devient, à toutes fins utiles,
l'élément déterminant d'un aménagement « vert » du territoire qui
obéit essentiellement à des intérêts entrepreneuriaux et financiers momentanés.
Le nombre élevé d'usines et la menace
imminente de conséquences sociales, environnementales et paysagères néfastes
génèrent des conflits territoriaux et, en même temps, génèrent une réflexion
critique décidemment orientée contre le modèle capitaliste de gestion de
l'énergie en relation avec la critique du domaine agroindustriel. Les points de
départ de cette critique sont la considération de l'énergie comme un bien
commun et la souveraineté alimentaire – le droit des peuples à se nourrir selon
leur coutume –, des postulats qui invalident l'exploitation industrielle des
sources renouvelables et de l'agriculture, remettant en cause l'aménagement du
territoire. Ce qui compte, ce sont les besoins sociaux et les droits fonciers,
pas les intérêts des grandes consortiums. Par conséquent, la crise énergétique
et agraire doit être considérée comme une crise du système capitaliste et de
l'État qui le sert, crise que ce dernier prétend surmonter depuis les hautes sphères
à coups de plafonds imposés de primes, de directives
internationales et de fuites technologiques en avant. L'ampleur du désastre
contraste avec l'incohérence des remèdes. Les propositions écologiques tournent
autour de l'autoconsommation, des économies d'énergie, des systèmes partagés,
des projets solidaires, du recyclage, de la petite production, des associations
de consommateurs, des contraintes de dépenses et de mobilité, etc., des
initiatives parfaitement valables mais difficilement réalisables dans une
société de gaspillage, avec la population extrêmement consumériste entassée
dans des agglomérations suburbaines. Sans une dépense incroyable de ressources,
la société de la consommation irresponsable entrerait dans un net déclin,
auquel on résisterait en recourant éventuellement aux armes, car il est vain de
s'efforcer de trouver une solution pacifique à la crise par une « décroissance
économique planifiée démocratiquement » – par qui ? – comme si l'économie
mondiale et les agglomérations urbaines acceptaient une extinction de bon gré.
La production d'énergie et de nourriture ne peut être considérée comme un phénomène
sans rapport avec le marché, le système financier et le fait métropolitain.
Il est encore plus illusoire de prétendre
croire que la transition énergétique promue par les dirigeants mondiaux est
celle qui correspond au modèle de proximité précité « mis en œuvre avec la
participation des citoyens » dans les parlements et les conseils
municipaux. La plus grande erreur de l'approche écologique majoritaire et de la
critique scientifique honnête est de considérer l'espace institutionnel comme
une zone neutre où il serait possible de mettre en œuvre la défense
« démocratique » des intérêts populaires contre la prédation du
capital, une défense qui poursuivrait un « pacte d'État » solennel avec
ses propres représentants. La question énergétique, tout comme la question écologique, est
indissociable de la lutte sociale et politique
contre les oligopoles, les fonds et les institutions crées sur mesure,
régionaux, nationaux ou internationaux, car sa mise en œuvre nécessite une
réorganisation radicale de la société qui dépasse le cadre de la législation la
plus audacieuse réalisable avec les mouvements politico-juridiques de
citoyenneté. Tant que le tissu social ne se recomposera pas en dehors des institutions
et contre elles, la défense du territoire sera faible et cherchera des
compromis avec le développementalisme sur la base d'accusations qui ne
demandent qu'un moratoire temporaire ou une réduction de la taille des projets.
La confusion tactique dominera dans la confrontation avec l'intérêt privé et la
complicité institutionnelle, car la perspective anticapitaliste sera
délibérément occultée des deux parties. Ce n'est qu'à un stade plus avancé de
la lutte, lorsque l’humanité sera plongée dans un réchauffement climatique plus
violent et dans une crise plus profonde, lorsque les masses appauvries
cesseront d'être ornementales et, poussées par les désirs, les passions, les
utopies et les catastrophes, décideront de prendre en main leur destinée, que
le débat stratégique va émerger, que les cartes seront forcément mises sur la
table. On verra alors si l'écologisme bien intentionné est ou non un simple
lubrifiant vert de la machinerie capitaliste coloniale, hiérarchique et
centralisée, un aval de ses politiques de développement. En fait, le
capitalisme ne sait pas se limiter, puisqu'il est dans sa nature d’être sans
freins. Les inlassables démonstrations de retenue civique et de modération politique
si typiques du réalisme écologique et de la semi-dissidence scientifique l'arrêteront-elles ?
Miquel Amorós
Conférence à la bibliothèque sociale El
Rebrot Bord de Albaida (Valence), le 8 janvier 2023, et au centre socioculturel
Roque Baños de Jumilla (Murcie), organisée par l'Asociación Naturalista STIPA,
le 11 janvier 2023.
Crisis agraria y
dilema energético
La penetración del capitalismo
en el campo transformó la propiedad rural en empresa y la producción de
subsistencia, en producción para el mercado. El rápido crecimiento de la
población urbana multiplicaba paralelamente la demanda de alimentos. La mercantilización
puso fin a la simbiosis entre la agricultura, la ganadería y la silvicultura,
forzando a ir cada una por su lado. De hecho, puso fin a la sociedad campesina
tradicional. Todo quedó reducido a su valor de cambio: cualquier forma de vida
coherente con el medio desapareció, se esfumó la sociabilidad típica del mundo
rural y así, cualquier singularidad quedó suprimida, la belleza paisajística se
envileció y todo el patrimonio cultural se arruinó o museificó. La búsqueda
exclusiva del beneficio económico implicaba la explotación intensiva, o sea, la
industrialización de la actividad agraria. Asimismo, las condiciones
industriales exigían la concentración de la propiedad, la financiación a través
de créditos y subvenciones, y una cantidad creciente de insumos, principalmente
maquinaria, energía y agua en abundancia, abonos químicos, herbicidas y
plaguicidas. La globalización amplificó lo indecible dichas condiciones
(“Almería, huerta de Europa”) recurriendo a variedades híbridas y transgénicas.
De esta forma se rompió la relación más o menos directa no solo entre los
productores y consumidores de alimentos, sino entre los propios campesinos y el
campo. El agricultor-empresario se consagraba definitivamente a la gestión y
supervisión de los cultivos -tareas digitalizadas- ya que las tareas
propiamente agrícolas (los tratamientos fitosanitarios, la recolección y el
embalaje) eran responsabilidad de los trabajadores contratados, casi siempre
por temporada y en condiciones laborales pésimas. La agricultura industrial es
una agricultura sin agricultores. Lo mismo diríamos de la ganadería intensiva
de las macrogranjas. Los efectos positivos de ambas se hicieron notar en un
estimable aumento de la producción y una rebaja de precios, que redundó en una
expansión demográfica urbana. Peores serían los negativos: abandono de tierras
y emigración a las ciudades, pérdida de conocimientos y saberes, desaparición
de variedades autóctonas, deforestación y destrucción de la vida silvestre,
generación de residuos irreciclables, mayor resistencia de las plagas y
aparición de nuevas enfermedades de las plantas, desaparición de la capa fértil
del suelo, sobreexplotación de los acuíferos, contaminación de suelos y aguas,
y degradación de la calidad de los alimentos. El mayor argumento en pro del
monocultivo industrial y la ganadería intensiva había sido la erradicación del
hambre en el mundo, promesa a todas luces incumplida.
Varios factores han influido en
la inviabilidad de muchas empresas agrarias, siendo el principal el
estancamiento de la producción petrolífera desde 2005, el auténtico
determinante de la crisis actual (dato corroborado por las compañías petroleras
que, hartas de perder dinero, dejaron de invertir en 2014). La superación del
pico del petróleo condujo en 2015 al descenso de la producción de diesel, tan
imprescindible para el laboreo mecánico, y en general, fue seguida por los
picos de otros recursos energéticos y minerales. Las consecuencias no han
podido ser peores en los precios de los fertilizantes, pesticidas y plásticos,
dependientes de la industria petroquímica. Igualmente, el transporte se ha
encarecido, incluido el marítimo (el 92% de la energía consumida por la
circulación motora proviene del petróleo), igual que los cereales y, de rebote,
la alimentación. La demanda creciente de las economías emergentes (China,
India, Brasil) agrava la situación adelantando la crisis. En cuanto a los demás
factores, destaquemos el endeudamiento y la escasez de agua a causa de las
sequía. Las tierras quedan entonces a disposición de otros negocios pasajeros
como el de la energía renovable. El modelo desarrollista clásico ha sido
retocado hasta volverse mucho más tecnificado e insostenible, apoyándose en la
fusión de la tecnociencia, la producción a gran escala, las finanzas y la
logística, pero sin llegar a contrarrestar el bajo rendimiento tendencial de
las cosechas y la dificultad de aumentar la superficie cultivada, máxime cuando
los terrenos de regadío se han convertido en un valor refugio. El desembarco
reciente en el campo de los fondos de inversión y de los caudales europeos del
programa Next Generation y del plan RePower da a entender que las
megainstalaciones renovables son parte de la solución, pero estas solo producen
electricidad, que es más que el 20-24 % de la energía consumida. En realidad se
busca mantener el sistema industrial vigente, con los costes de producción
bajos y los niveles de consumo altos. Cambiar algo para que todo se
conserve.
La Cumbre
Climática de París (2015) significó un
punto de inflexión en la marcha del capitalismo. Al fijar como objetivo urgente
la “descarbonización” de la economía y acordar un fuerte apoyo financiero, el
capitalismo verde pudo por fin desplegarse en tanto que “transición
energética”. Los problemas de abastecimiento debidos a la pandemia y a la
guerra de Ucrania no han hecho más que acelerar el despegue. En lo relativo al
territorio español, la proliferación desordenada y descontrolada de centrales
renovables industriales ha sucedido a la oleada anterior de urbanizaciones
residenciales, grandes superficies y autopistas. La producción de electricidad
toma el relevo del ladrillo como motor económico y primer factor de degradación
del territorio. La destrucción del espacio rural se completa gracias a este
nuevo extractivismo: entramos en una especie de fase metástasica final del
cáncer urbano-capitalista que venía corroyendo implacablemente el campo y la
naturaleza como ya lo hacía con la misma ciudad. A pesar de que, imitando a la
política, el lenguaje emprendedor y financieramente correcto haya incorporado
muchos vocablos de raígambre ecologista, no se trata de una toma de conciencia
de los dirigentes mundiales ante la crisis climática. El vocabulario
ambientalista empleado por los ejecutivos no debe inducir a engaño, pues no es
más que una convención añadida en una época de catástrofes ecológicas con el
fin de oscurecer la comprensión popular del desastre. Nadie se propone acabar
con la dependencia de los combustibles fósiles, tal como demuestra por ejemplo
el afán por construir nuevas infraestructuras gasísticas o la construcción de
nuevas térmicas de carbón y el mantenimiento de las nucleares. Por otro lado,
aun en el caso de un estancamiento del consumo, el hueco que deja el uso de la
gasolina, el queroseno o el gasoil es tan profundo que resulta imposible de
llenar con otros recursos. No hay en realidad un cambio de paradigma
energético: no se pretende una sustitución de las fuentes fósiles y nucleares
por otras alternativas. Ni siquiera se contempla con seriedad la disminución de
las emisiones de gases de efecto invernadero, algo que se viene postulando
desde la plasmación de los Protocolos de Kyoto en 1997. Es algo mucho más
evidente: El mercado de la electricidad y el comercio de emisiones prometen
ganancias considerables. Los precios de la luz, del gas y de los derechos de
emisión de dióxido de carbono (en el mercado desde 2005), en parte debido a la
recuperación económica posterior a la pandemia, alcanzaron el pasado marzo
máximos históricos. En junio fue el turno del diesel y la gasolina. Si además
tenemos en cuenta el progresivo descenso extractivo del petróleo y una
disponibilidad sustanciosa de fondos, tendremos todos los condicionantes que
están reorientando las finanzas mundiales hacia las energías que ahora llaman
“renovables”. La “transición energética”
acordada en París, los planes nacionales de emergencia climática, los proyectos
de mitigación y resiliencia, y, más recientemente, la voluntad europea de
recortar un prosaico 15% el consumo de gas, ya tienen múltibles herramientas
financieras donde apoyarse. Así pues, es comprensible que un amplio sector del
capitalismo compuesto por los oligopolios eléctricos, las transnacionales
gasísticas, las petroleras, las grandes constructoras, los grandes bancos y los
fondos de inversión, reconozca hipócritamente la urgencia de luchar contra el
calentamiento global. El resultado de tal repentino ánimo belicista es una
aluvión de derivados “climáticos” y plantas energéticas que no traduce
precisamente una preocupación corporativa por el medio ambiente, la
biodiversidad o el desarrollo local: lo único que persigue es el beneficio
privado. No hay transición desde una sociedad basada en un modelo energético
centralizado, industrial y extractivista, a un mundo descentralizado,
autosuficiente, desurbanizado y respetuoso con la tierra y la naturaleza. La
sociedad capitalista de antes de la transición pretende ser la misma que la de
después, estructurada de la misma manera aunque hable en ecologista. El capital
no tiene ideología fija, ni idioma particular; la preocupación exclusiva de la
repentina inclinación dirigente por la ecología es el negocio, que ahora gira
en torno a lo verde.
Una cosa es la electricidad y
otra la energía primaria, es decir, toda la energía natural disponible todavía
sin modificar para su uso. Esa proviene de fuentes fósiles en un 86% (dato de
2019 para el estado español) y en su mayoría no es electrificable. Para el
modelo 100% renovable de la transición en ese terreno no contamos más que con
el coche eléctrico y el hidrógeno verde, pero ambos son demasiado onerosos y su
uso masivo presenta graves problemas técnicos aún sin resolver. En verdad, las
altas instancias dirigentes quieren que las energías denominadas renovables
actúen de mecanismo de contención de la demanda de fuel, carbón y sobre todo
gas destinada a producir electricidad, es decir, disminuyan la actividad de las
centrales térmicas sin sustituirlas, porque son necesarias cuando no se dispone
de sol o de viento (en 2022 han cubierto en España solamente un 30'8% de la
demanda eléctrica). Esa asociación obligatoria cuestiona el carácter renovable
de la energía producida en los “parques”, “huertos” y demás “granjas”, aunque
no olvidemos también que los materiales industriales utilizados en su
construcción reflejan una importante huella carbónica de fábrica: hormigón
armado y acero para los fundamentos, aluminio y cobre para la evacuación en
tendidos de Alta tensión, fibra de vidrio o de carbono reforzada con plástico
para los “álabes” o palas, tierras raras para los imanes permanentes de los
rotores (cuya extracción y purificación es un proceso altamente contaminante),
obleas de polisilicio y películas de metales semiconductores poco abundantes
para los paneles solares (algunos tóxicos como el arsénico o el cadmio),
material para los soportes y los inversores de corriente, litio y cobalto para
las baterías, etc. Si a ello añadimos los movimientos de tierras, excavaciones
y demás trabajos de instalación y mantenimiento, que se repiten a la hora de
desmantelar, o sea, al cabo de veinte o treinta años, más el problemático
reciclaje de la chatarra, tendremos el cuadro completo de la verdadera
renovabilidad de un tipo de energía que convendría llamar con más propiedad
“energía alternativa derivada de combustibles fósiles”. No hablemos ya de la
naturaleza “limpia” de otras energías consideradas renovables como las que
provienen de la combustión de biomasa o de biocarburantes, y la misma energía
hidroeléctrica. En fin, las renovables no son más que un espejismo. No
resuelven en absoluto la crisis. Tienen gran impacto ambiental y escasa
repercusión económica local, no crean empleos, amenazan bosques y cultivos,
causan daños al paisaje y a la fauna, y contribuyen al vaciado del campo
español tanto como el agronegocio. Solamente benefician a los oligopolios
energéticos y grupos financieros, introducen dependencias tecnológicas
innecesarias y, encima, ni siquiera son renovables.
De todas las
presuntas renovables, la solar fotovoltaica es la que ha cobrado mayor impulso,
seguida muy de lejos por la eólica marina y el hidrógeno. Sus promotores hablan
de “revolución solar” debido a las intenciones afirmadas en los planes
nacionales de energía y clima de cuadruplicar la potencia instalada en los próximos
ocho años. Mejor sería decir “burbuja solar” a juzgar por sus características
especulativas. Lo cierto es que a partir de 2018 los estados europeos
propiciaron un rápido crecimiento del mercado fotovoltaico, empezando a
proyectarse plantas de más de 100 Mw (cuanto mayor es la instalación, más
duradera). La fotovoltaica se había abaratado por la caída de precios del
silicio cristalino y, por lo tanto, de los paneles. Los avances tecnológicos
apuntaban a una mejora sustancial de la eficiencia. El mantenimiento de las
centrales solares resultaba menos costoso que el de las eólicas; en fin, a
pesar del reciente encarecimiento de las materias primas y la logística, su
coste de instalación había bajado un 82% y el de generación, un 90%. No
obstante ser el rendimiento energético (TRE) demasiado bajo (tres partes de
energía obtenidas por una invertida), la fotovoltaica se convirtió casi de la
noche a la mañana en la energía menos cara, y, teniendo en cuenta que desde
noviembre de 2020 los precios del gas y de la electricidad se mostraban muy
volátiles, la opción solar ya no solo pasó a estar presente en los despachos de
las multinacionales como el negocio del siglo, sino en los ministerios como
tema declarado “de interés público”. Por unas cosas u otras, el sector fotovoltaico
promete alcanzar en poco tiempo dimensiones comparables a las de la industria
automovilística. Gracias a finalizar la moratoria de las renovables, a
suprimirse el “impuesto al sol” y a prescindirse del informe de impacto
ambiental en las instalaciones de más de 50 Ha, el mercado solar español se ha
vuelto uno de los mayores y crece a toda velocidad al calor de las subastas del
Ministerio de la Transición Ecológica, la baja rentabilidad de las
explotaciones agrarias, las expropiaciones forzosas, las licencias express y
las inyecciones de capital foráneo. El mayor 'macroparque' europeo se construyó
hace tres años en Mula (Murcia) con una capacidad de 495 Mw y ocupa mil
hectáreas, y recientemente se ha levantado otro de 500 en Usagre (Badajoz). Tres
o cuatro de similar magnitud y otros miles menos extensos están en camino, en
suelo rústico y estepas, sobre sembrados, humedales, parajes protegidos y vías
pecuarias, a veces cerca de zonas pobladas. Incluso las instalaciones de placas
en los tejados, aparcamientos y estanques, subvencionadas por el Programa Solar
2022, han dado pie a numerosas empresas, atraídas por la perspectiva de
ganancias en el autoconsumo comercial. Nos encontramos ante una potencia
instalada de 180 GW (y en aumento) que no necesitamos, pues el consumo medio
estatal no llega a los 32 GW. Entretanto, el paisaje ibérico se está
transformando a marchas forzadas, y el espacio solar, cuando la urbanización ha
tocado techo, deviene a todos los efectos el elemento básico de una ordenación
territorial “verde” que en lo esencial obedece a momentáneos intereses
empresariales y financieros.
El gran número de plantas y la
amenaza en ciernes de malas secuelas sociales, ambientales y paisajísticas está
dando lugar a conflictos territoriales, y a la vez, generando una reflexión
crítica bien encaminada del modelo capitalista de gestión energética que enlaza
con la crítica a la agroindustria. Los puntos de partida son la consideración
de la energía como bien común y la soberanía alimentaria -el derecho de los
pueblos a procurarse los alimentos según la costumbre- postulados que invalidan
la explotación industrial de las fuentes renovables y de la agricultura, al
tiempo que cuestionan la planificación nacional. Las necesidades sociales y los
derechos de la tierra son lo que cuenta, no el interés de los grandes
consorcios. En consecuencia, se debería contemplar la crisis energética y
agraria como crisis del sistema capitalista y del Estado que lo sirve, a la que
se trata de superar desde las altas esferas con topes, bonificaciones,
directrices y huidas tecnológicas hacia adelante. Contrasta la magnitud del
desastre con la blandenguería de los remedios contestatarios. Las propuestas
ecologistas giran en torno al autoconsumo, al ahorro energético, a las
instalaciones compartidas, a los proyectos comunitarios, al reciclaje, a la
producción a pequeña escala, a los grupos de consumo, a la restricción del
gasto y la movilidad, etc., algo perfectamente válido, pero difícil de llevar a
cabo en una sociedad despilfarradora, con la población tremendamente consumista
apelotonada en conurbaciones. Sin un derroche formidable de recursos, la
sociedad del consumo irresponsable entraría en franco declive, al que se
resistiría recurriendo a las armas si fuera preciso, visto lo cual es inútil
esforzarse en buscar una salida pacífica a la crisis mediante un “decrecimiento
económico planificado democráticamente” -¿por quién?- como si la economía
global y las aglomeraciones urbanas aceptaran extinguirse por las buenas. La producción
de energía y alimentos no puede considerarse un fenómeno deconectado del
mercado, del sistema financiero y del hecho metropolitano.
Más ilusorio resulta aparentar
creer que la transición energética promovida por los dirigentes mundiales es la
que corresponde al susodicho modelo de proximidad “implementado con la
participación ciudadana” en los parlamentos y consistorios. Ese es el mayor
error del planteamiento ecologista mayoritario y de la crítica científica
honesta, considerar el espacio institucional como una zona neutra donde es
factible la defensa “democrática” de los intereses populares frente a la
depredación del capital, defensa que persigue un solemne “pacto de Estado” con
sus mismísimos representantes. La cuestión energética, tanto como la ecológica,
es inseparable de la lucha social y política contra los oligopolios, los fondos
y las instituciones hechas a su medida, autonómicas, nacionales o
internacionales, pues su implementación exige una reorganización radical de la
sociedad que sobrepasa el alcance de la legislación más osada que se pueda
conseguir con las movidas político-jurídicas ciudadanistas. Mientras el tejido
social no se reconstruya al margen de las instituciones y en oposición a ellas,
la defensa del territorio será débil, y buscará componendas con el
desarrollismo a base de alegaciones que únicamente exijan una moratoria
temporal o a una reducción del tamaño de los proyectos. La confusión táctica
dominará en la confrontación con el interés privado y la complicidad institucional,
puesto que la perspectiva anticapitalista quedará deliberadamente oculta por
ambos bandos. Solamente en una fase más avanzada de la lucha, inmersos en un
calentamiento global más violento y una crisis más profunda, cuando las masas
empobrecidas dejen de ser ornamentales y, motivadas por deseos, pasiones,
utopías y desastres, decidan tomar el propio destino en sus manos, entonces se
planteará en su seno el debate estratégico y las cartas se pondrán
necesariamente sobre la mesa. Ahí se verá si el ecologismo bienintencionado es
o no es un mero lubricante verde del engranaje colonial, jerárquico y
centralizado capitalista, un aval de sus políticas desarrollistas. Pues el
capitalismo no se sabe contener, ya que está en su ser el no tener freno. ¿Lo detendrán
las incansables muestras de moderación cívica y autolimitación política tan
típicas del realismo ecologista y de la semidisidencia científica?
Miquel Amorós
Charlas en la Bibioteca social El Rebrot Bord de Albaida (Valencia), el 8
de enero de 2023, y en el Centro sociocultural Roque Baños de Jumilla (Murcia),
organizada por la Asociación Naturalista STIPA, el 11 de enero.