Quel
che l'ordinaria menzogna giornalistica chiama "gli eventi del maggio
1968" è accaduto in un periodo in cui l'economia era in forte espansione e
i salari abbastanza alti da investirsi nella grande ondata di colonizzazione
consumistica che cominciava a imperversare. In Francia il conservatorismo era
ancora stabile, oscillante, di buona lena. Il progressismo poteva vantarsi di
un socialismo ornato degli allori delle vecchie lotte operaie e di un
cosiddetto Partito comunista la cui importanza numerica e chiliastica pesava
sullo scacchiere politico.
Il
capitalismo ha scoperto nel settore dei consumi una fonte di profitti superiori
a quelli che il settore produttivo e il suo dinamismo industriale gli avevano
assicurato fino alla fine degli anni Cinquanta. Le fabbriche tradizionali, dove
faticavano i dipendenti, hanno dato vita in un certo senso alle vere e proprie
fabbriche di consumo che erano i supermercati. Lì, a differenza delle cadenze
infernali, la spensieratezza e il lasciar correre erano all'ordine del giorno. Il
fascino dei piaceri dava senso all'assurda fatica quotidiana. I supermercati erano
devoluti a una totale libertà, salvo l'imperativo assoluto di pagare i beni
all'uscita.
Si
credeva di evadere dal lavoro, di beneficiare di un centro ricreativo. In
effetti, si lavorava due volte per lo stesso padrone. Come produttori,
garantendogli l'usuale plusvalore, come consumatori, restituendogli il proprio
salario in cambio di qualche perlina da buon selvaggio.
Non
era inoltre anche un modo – colmo della pace sociale! – di calmare
l'aggressività delle rivendicazioni, di ammorbidire la coscienza di classe, di funzionare
da base di un capitalismo felice?
Una
realtà luccicava negli effetti stroboscopici dei paradisi al neon. La parvenza
di credibilità del capitalismo lo autorizzava a profetizzare una nuova era. “Lo
stato di benessere” illustrava plausibilmente l'ideologia progressista di una
classe dominante fiera di guidare i proletari verso un mondo migliore. Ormai il
sacrificio quotidiano non si sarebbe più perso nelle vane speranze di una
gloria celeste che le religioni trasmettevano sempre più difficilmente.
L'inferno del lavoro sfociava in un paradiso terrestre, consegnato chiavi in mano.
Le
condizioni storiche, economiche, sociali, politiche e psicologiche favorivano
un oscurantismo che invocava la salvezza comune e propugnava l'instaurazione di
una felicità di cittadinanza accessibile a tutte le borse.
Il “Welfare State” era innegabilmente uno
slogan più convincente di “Arbeit macht
frei”. Si sarebbe potuto ipotizzare che avrebbe suscitato un sostegno
massiccio. Ebbene, nonostante la propaganda mediatica, ciò che si è diffuso
nell'aria del tempo è stato un brivido di repulsione, una reazione di disgusto,
uno schifo nauseato. Ci fu – senza esprimerlo ad alta voce – un rigetto
spontaneo di quel che era percepito come una gigantesca truffa a danno della
vita.
Fu
un tempo in cui si manifestò, come un malessere epidemico, lo strappo tra il
turbamento passionale dell'esistenza e l'intelligenza intellettuale che ne
rendeva conto. Henri Lefebvre aveva richiamato l'attenzione sulla vita quotidiana, che assumeva gli
aspetti di un oggetto tanto meno conosciuto perché familiare. All'intelligenza
sensibile del corpo intriso di desideri, Antonin Artaud opponeva la
funzionalità dello Spirito, la cui fredda razionalità lavorava invano per
gestire l'istinto di vita. Si sarebbe detto che, riluttante alla cupa felicità
che affliggeva la carne e il pensiero, un’ispirazione ribelle proveniente dal Rinascimento
e dall’Illuminismo uscisse dal suo silenzio e, con i suoi colpi di
avvertimento, rimproverasse furiosamente il secolo.
Sono
stati i barlumi della coscienza vissuta che, a partire dagli anni Sessanta,
hanno lanciato l'allarme sull'incompatibilità tra il nostro desiderio di
esistere e le rappresentazioni fittizie che ci erano imposte sotto il sigillo
della realtà oggettiva.
Per
quanto boicottate da tutte le parti e tenute nascoste, le idee radicali di un
pugno di pensatori che si sforzavano come potevano di non ridursi a teste
pensanti, esplosero letteralmente in un grande movimento sovversivo che agitò
Parigi e la Francia per quasi due mesi. Si è spento solo giurando di ripetersi.
Dagli incendi della Rivoluzione francese, della Comune di Parigi, dei soviet
russi del 1905 e del 1917, delle collettività libertarie spagnole del 1936, non
c'è stata, a parte il Movimento delle Occupazioni del Maggio 68 e l'intrusione
zapatista in Chiapas, che una lunga lassitudine sovversiva, punteggiata da
tumulti senza grandi conseguenze.
La
nascita del bel maggio 68 fu segnata
da una radicalità che è andata ad ancorarsi alla storia scavando per
cinquant'anni un progressivo indebolimento dei valori mercantili che
disumanizzavano da secoli le mentalità e i costumi.
Intorno
al 1960, la colonizzazione consumistica, le cui prime ondate stavano per imperversare,
mise in evidenza l'urgenza di opporre all'imperialismo mercantile un progetto di società in cui il fattore
umano prevalesse sul profitto. Questo progetto esisteva ma le mani che lo
portavano grondavano del sangue dei proletari massacrati in nome del
proletariato. I machnovisti schiacciati da Lenin, i marinai di Cronstadt
fucilati da Trotskij illustravano – senza impantanarsi ulteriormente nei
mattatoi di Stalin e Mao – la vocazione emancipatrice del preteso comunismo. Quando lo
tsunami mercantile ebbe la meglio sul movimento del maggio 1968, fu con la
complicità dei guitti politici e sindacali i cui residui cercano oggi di
esorcizzare la loro paura dei Gilet Jaunes
e del rifiuto di avere dei capi.
Il
progetto di società umana aveva meno bisogno di un nome che di una realtà
sperimentale. Prima di essere schiacciate dagli stalinisti, le comunità
libertarie della rivoluzione spagnola hanno avuto il tempo di dimostrare che
vivere secondo i propri desideri in una società che si sforza di armonizzarli è
perfettamente possibile. Autorganizzazione, acrazia, potere del popolo per e
dal popolo, giunte di buon governo, zone di autodifesa del vivente, rischiano
di essere solo formule di tipo intellettuale se non emanano dalla priorità
assoluta che è il ritorno alla vita.
Tutti
i modi di gestione degli uomini e delle donne hanno, senza eccezione, instaurato
la preminenza del disumano. L'autogestione della vita quotidiana è l'unica
scelta che ci rimane.
Dopo
la sconfitta del Movimento delle Occupazioni del maggio 1968 – e per mezzo
secolo – la macchina pubblicitaria del lavaggio del cervello si è messa al
servizio della politica lavorando instancabilmente per avvilire le coscienze.
Tuttavia,
l'intelligenza sensibile dorme sempre con un occhio aperto. Lo si vede con il
declino di un consumismo che, logorato dall’impoverimento crescente, spegne oggi
i suoi neon. La campana a martello del saccheggio risuona non lontano dai
paradisi consumabili. Assistiamo così al risorgere dalla sua semiclandestinità
di una critica radicale che, dall'inizio degli anni Sessanta, aveva attaccato
con la scure il progetto escatologico di una beatitudine architettata dal
libero scambio.
É
necessario ripeterlo? Il libero scambio è la pratica economica a cui si deve il
successo della merce, la fine dell'Ancien
Régime e la scomparsa dell'immobilismo
agrario, la libertà del commercio e il commercio della libertà che serve perfettamente
da insegna della bottega delle democrazie totalitarie.
L'ironia
della storia ha voluto che la libertà dell'uomo e delle idee approfittasse della
libera circolazione delle merci per suscitare un movimento di emancipazione
umana, deciso a lottare contro i dispotismi, a cominciare da quello che aveva instaurato
quel libero scambio che, nel 1793, aveva decapitato l’assolutismo di diritto
divino.
Tra
le conquiste del maggio 1968, bisogna annoverare il disprezzo e il rifiuto del
lavoro. Il celebre slogan "Non lavorate mai!" avrebbe rappresentato solo
uno sputo contro i suoi adulatori se non ci avesse ricordato che ciò che
costituisce per eccellenza la caratteristica dell'essere umano è la creazione,
la capacità di costruirsi ricostruendo il mondo. Uno dei peggiori crimini della
civiltà mercantile è di aver snaturato la creazione riducendola a quella trasformazione
dell'essere in oggetto che si chiama lavoro.
Il
lavoro è un'attività parassitaria. Ah, che bella ipocrisia il disprezzo per il
lavoro da parte degli aristocratici di una volta. Sotto un edonismo da spacconi,
non hanno mai smesso di lavorare per far lavorare gli altri. Gli stessi
borghesi non se lo nascondevano. Ne erano orgogliosi. A volte, nel dinamismo
industriale, lasciavano la creatività ammiccare e fornir loro l'una o l'altra
innovazione utile al profitto e incidentalmente all'umanità. Con
l'impoverimento e il declino del settore dei consumi, hanno dovuto ripiegare su
un produttivismo che avevano abbandonato per mettere direttamente la mano nelle
tasche dei passeggiatori da supermercato. Le esigenze del profitto di divorare
il bilancio privilegiano, a scapito di ogni beneficio sociale, le grandi opere inutili
– treni ad alta velocità, autostrade, complessi alberghieri e turistici, 5G,
cattura delle acque, abbattimento di foreste. Porre fine al capitalismo significa porre fine al lavoro.
Il
rifiuto di lavorare comporta, tra le altre conseguenze, l'abolizione del sacrificio
originario che esige di prelevare, giorno dopo giorno, una libbra di carne viva
per trasformarla in forza di produzione. Eretti da tutte le religioni senza
eccezioni, gli altari dove scorreva liberamente il sangue della mutilazione
esistenziale obbligatoria hanno generalizzato e ritualizzato il senso di colpa.
Perché dove regna lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, non si rispettano mai
abbastanza le norme, non si lavora, non si scambia, non si risparmia mai
abbastanza. La paura e il senso di colpa non ci abbandonano di un centimetro. I
suoi gendarmi infestano i nostri labirinti esistenziali.
Questa
esistenza, non la vogliamo più. Vogliamo vivere e non sopravvivere, questo è il
grido di cui il Movimento delle Occupazione è stato il portavoce.
L'ironia
della storia ha più di un asso nella manica. Mentre la rinuncia,
l'autoflagellazione, il puritanesimo erano inerenti alla necessità di produrre,
l'importanza crescente del settore consumistico iniziò – per pura cupidigia – a
valorizzare i piaceri, a celebrare l'edonismo, a cedere alla tentazione di
soddisfare i propri desideri in cambio di un po’ di quattrini. Per quanto
adulterata fosse, la democrazia da supermercato, era una democrazia di
prossimità, vi si sceglieva liberamente di che soddisfarsi nel lusso d’abbondanza
che il mito dell'Età dell'Oro faceva aleggiare nelle nostre profondità
ancestrali.
Abbiamo
sottovalutato ciò che c'era di chiliastico nel genio del capitalismo. Tuttavia,
il capitalismo stesso ci sta oggi dimostrando che questa genialità è di paccottiglia,
come le libertà che bisogna pagare per attraversare una cassa irta di
manganelli.
Si è
invocata la corsa all'oro ed ecco che le vene si sono prosciugate, se non per i
gestori dei profitti finali, almeno per i democratici da supermercato.
Impossibile
tornare indietro. Il potere è caduto nella sua stessa trappola. La menzogna si
è talmente avvicinata alle fiamme della vita che queste la consumano. Il rifiuto
di ogni autorità, di ogni Potere, laico o religioso, propugnato dal movimento
libertario aveva potuto sembrare presuntuoso o eccessivo. Che dire della
disinvoltura almeno dissociante con cui gli scaffali dei grandi spazi di
distribuzione permettono l’accostamento della Bibbia con il dildo, stabilendo
tra loro come unica differenza il prezzo? Si converrà che un tale comportamento
non gioca a favore della santità né del carattere rispettabile del contenuto
sotto imballaggio. Diventando sacra, la merce ha desacralizzato tutto. Ci
sarebbe da rallegrarsene se, nello stesso tempo, essa non riducesse a nulla tanto
la barbarie quanto la resistenza alla barbarie.
Il
profitto che non produce altro che se stesso propaga un nichilismo che
appiattisce altrettanto i valori umani e gli strumenti che li disumanizzano.
L'unica
evidenza cui siamo confrontati è l'incompatibilità della coscienza del vivente
con un sistema che la distrugge.
Non
c'è dialogo con lo Stato. Non è più che lo scatenamento
opprimente della propria nullità.
Non ci si accusi di volerlo abbattere, si abbatte da solo. Molto semplicemente,
non vogliamo che si abbatta su di noi.
L'autogestione inquieta il mondo.
Essa
è nata da un richiamo alla vita che fa uscire dal suo incubo un'esistenza
ridotta a sopravvivere lavorando per impoverirsi.
Non
siamo nati per assumere un destino di bestie da soma, né per mascherare sotto
ruoli di prestigio sempre più pietosi, l'insopportabile mediocrità di un mondo
dove l'aiuto reciproco è sacrificato alla predazione, l'effusione amorosa
all'odio, l'essere all'avere, la donna, l'uomo e il bambino alla merce.
La
giungla è il modello sociale della civiltà mercantile. Ora che la cosa è palese e che si pubblica ovunque
che il capitalismo nuoce gravemente alla salute, quando getteremo le fondamenta
di una società umana? La questione è capziosa, perché la risposta è sempre presente
laddove il rifiuto delle nocività prelude alla creazione di zone di autodifesa del
vivente. Riscoprendo la loro spontanea fertilità, il nostro corpo e la nostra
terra sono la base di una civiltà radicalmente nuova. Il genio di esseri umani
appassionati per l'invenzione del vivente mi sembra più importante dei riti esorcistici
previsti per disturbare una civiltà di morte, oggi moribonda.
L'autogestione
emana più dalla sensibilità vitale che dalla razionalità intellettuale che
pretende di gestirla. È importante che la sua espressione poetica prevalga su
un linguaggio separato dall'esperienza vissuta. Una parola d'ordine è sempre agli
ordini di un signore.
L'autogestione
è una forma di autodifesa immunitaria. Per svilupparsi ha solo bisogno della
coscienza umana che dà il suo senso alla natura. È al crocevia di due percorsi,
uno dove l'umanità gioca il suo futuro, l'altro dove essa si annienta.
È
bene non dimenticarlo: la vita a cui si rinuncia si capovolge rapidamente. Il
canto della terra e del vivente si altera in una celebrazione funebre. L'odio
si nutre dell'energia disperata dalla quale l'amore si è separato. La minaccia
s’intensifica ogni volta che la predazione vince sull'aiuto reciproco.
Il
pericolo deriva da una struttura caratteriale che, ostacolando l'istinto vitale
in ciascuno di noi, diffonde una devastante peste
emozionale. Essa imperversa dall'estrema destra all'estrema sinistra.
L’abbiamo vista all'opera sulla scacchiera dove il principio del “divide et impera”, insito in ogni
potere, incitava i cittadini a litigare per un “affare” di vaccini.
Gli
schiavi che si combattono tra loro sono la benedizione dei padroni. Nella
guerra biliosa delle inoculazioni contro il coronavirus, i monopoli
farmaceutici si sono affrettati a raccogliere il bottino retribuendo i loro
complici.
Il
vivente tende all'unità. La sua coscienza pone fine alla separazione propagata
ovunque dalla divisione del lavoro in funzione intellettuale e funzione manuale.
L'autogestione dell'aiuto reciproco implica il superamento degli opposti.
La
fine delle separazioni artificiali che ci dislocano abolisce le gerarchie. La
gioia di vivere è acratica, annulla ogni forma di Potere. Si prepara a spazzare
via monarchie, autocrazie, aristocrazie, democrazie, plutocrazie, e tutto il
resto. La risata è un'arma non letale. I suoi frammenti colpiscono chiunque si
permetta di manipolare gli altri, dare ordini e riceverli. Basta con
l'individualista e i suoi calcoli egoistici.
La
vera distanza è quella della coscienza che umanizza la vita. Essa viene dal
basso, abolisce l'astrazione che ci strappa alle nostre pulsioni vitali.
Visto dall'alto, tutto è falso. Per il cielo burocratico governato dai numeri, i programmi, le
statistiche, non ci sono uomini, donne, bambini, animali, piante, ci sono solo
oggetti.
Come
liberarsi da questo tipo di gestione in cui i morti contano i vivi, se non
delegando alla nostra stessa vita il compito di farsi carico dei problemi che
le autorità nazionali e sovranazionali gestiscono senza consultarci?
Molte
decisioni perdono ogni pertinenza una volta prese in alto, mentre, trattate
alla base, hanno il vantaggio del terreno, del vissuto e della sua coscienza.
Per
quale aberrazione gli ecologisti implorano la fine della distruzione delle
specie a coloro che ne sono responsabili? Non è forse sotto le nostre finestre
e ai margini dei campi circostanti che inizia l'avvelenamento del nostro cibo? Gli
abitanti delle regioni inquinate non dovrebbero essere autorizzati a proteggere
la propria salute rinaturalizzando la terra ed escludendo i pesticidi su cui
sapientemente dibattono le Commissioni mediche e governative stipendiate dai
monopoli farmaceutici? Tanti progetti sono davanti a noi e rimaniamo a mani
vuote.
Scuole,
trasporti pubblici, agricoltura, orticoltura locale, banche alimentari, case di
cura, organizzazione dell'abbondanza e della gratuità sono di nostra
competenza.
Perché
la potenza del mutuo soccorso, che si manifesta con tanta efficacia in caso di
calamità naturali, alluvioni, terremoti, non dovrebbe agire quando si sta
abbattendo su di noi una delle peggiori calamità antinaturali della nostra
storia: il crollo di un sistema economico
programmato per trascinarci con sé nella caduta.
Codardia
non è la parola giusta. Diciamo che manchiamo d’audacia. La civiltà della
meschinità ci ha contorti e strizzati come strofinacci. Abbiamo rinunciato alla
vita per il profitto, abbiamo rinunciato alla nostra creatività per consegnarla
a Dei fantasmatici, siamo detentori di una generosità senza pari e pratichiamo
l'infamia di regolare i flussi migratori facendo annegare bambini, uomini,
donne.
Abbiamo
sempre dato la priorità alla morte. Ma la morte è diventata così rammollita,
così noiosa che la vita si sveglia e non si preoccupa più della sua presenza.
Di
per sé, l'immigrazione non pone più problemi del nomadismo. Per contro, il modo
in cui essa è percepita, sentita, vissuta dalle popolazioni sedentarie richiede
un sostegno che le predicazioni caritative e le unzioni indulgenti della buona volontà
umanitaria sono del tutto incapaci di assumere.
Si
presentano due approcci antagonisti. Il Potere identifica l'immigrazione con
un'invasione. Gli conferisce una connotazione barbarica che richiede una
reazione militare, un controllo poliziesco, burocratico, giudiziario.
Assumendo, come in tempo di guerra, la loro funzione di propaganda, gli stronzi
mediatici imputano agli esiliati delitti, attentati, furti, saccheggi, dovuti
all’impoverimento crescente. L’eccesso di frustrazione e di risentimento si
riversa non sugli sfruttatori che ne sono la causa, ma sui bersagli di un
razzismo tanto più ripugnante in quanto si rivendica della libertà democratica.
Perlomeno ci ricorda che laddove la giungla dell’ognuno per sé si
sostituisce alla società, non ci sono altre libertà autorizzate che quelle
della predazione.
Mentre
la peste emozionale e le simulazioni di guerra civile offrono un ultimo conforto
a un Potere fessurato da ogni parte, il presentimento di una prospettiva di
morte che si rovescia in prospettiva di vita accresce l'opposizione alla
politica criminale che riduce i migranti a oggetti. Il senso umano si ribella
allo spaventato bla-bla burocratico del proposito: “non si può accogliere tutta
la miseria del mondo”. Idiozie come il “dovere di integrazione”. Integrarsi a
che cosa? A un mondo di corruzione, di delazione, di frode, d’incretinimento,
rapacità, noia, bassezza? Al vostro mondo?
Sì,
siamo in grado di accogliere coloro che fuggono dal loro Paese devastato dalla
guerra e dalla miseria. Disponiamo di spazi sufficientemente ampi per
accogliere un gran numero di persone. La questione di provvedere ai loro
bisogni fa parte dell'esigenza, in cui ci troviamo noi stessi, di recuperare,
per far fronte alle carestie che verranno, le risorse naturali di cui siamo
depredati dalla rapacità di imprese statali e mafiose.
È
tempo di aprire al mare aperto questo mondo che puzza di paura e reclusione. Disponiamo
di territori e di edifici inutilizzati, dove accogliere un gran numero di
piccole collettività. Perché piccole? Perché da tempo si osserva il seguente
fenomeno: più aumenta il numero degli abitanti, più la promiscuità genera
conflitti, più la qualità delle relazioni umane rischia di corrompersi, stagnare,
marcire, autodistruggersi. Se si impara meno a conoscersi, subentra la diffidenza,
l'aiuto reciproco lascia il posto a un ripiego comunitarista. La solidarietà si
blocca, si coagula e si nega formando un conglomerato di individualisti che il
terrore inselvatichisce.
Al
di fuori della sua stabilizzazione economica e storica, il fascismo è
un'etichetta di negozio politico. Il vero pericolo è la peste emozionale di cui
lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo è il brodo di coltura.
Non si
devono nascondere ipocritamente gli urti che potrebbero provocare i pregiudizi
sessisti e omofobi che un'educazione patriarcale ha potuto alimentare in un
certo numero di esuli.
Quale
migliore opzione all’occorrenza che affidare all'esclusiva iniziativa delle
donne il compito di organizzare l'accoglienza, l'istallazione e i primi
incontri? Si può ragionevolmente ipotizzare che la misoginia si estinguerà
senza tirare fuori dal cilindro della buona educazione l'arrogante obbligo dell'integrazione.
Non
è forse ora di restituire la sua potenza poetica alla formula "Abbondanza
della terra, il tuo nome è donna"?
Il
progresso dell'avere ha ostacolato il
progresso dell'essere.
L'annientamento del sistema mercantile lavora ora per restituire il suo primato
all'essere. Ciò facendo e per quanto possibile, il profitto predatore in via di
fallimento restituisce al mutuo soccorso la sua potenza fusionale.
L'aiuto
reciproco ha la stessa portata della sua pulsione antagonistica, la predazione.
La sua diffusione nel maggio 1968, tra gli zapatisti e nei pericoli del Rojava,
è riapparsa con il festoso sollevamento dei Gilet
Jaunes. Senza solidarietà, questi ultimi non avrebbero né persistito nella
loro caparbietà né seminato ovunque i semi di un’insurrezione della vita
quotidiana la cui coscienza si affina man mano che le tradizionali rivendicazioni
di sopravvivenza rivelano la loro insufficienza.
Come
la predazione, l'aiuto reciproco deriva dalla componente animale che fa parte
della genesi dell'uomo. È la forza vitale che dà origine alla nostra
umanizzazione. Ha marcato la nostra evoluzione dal suo periodo arcaico alla
Rivoluzione agraria, che, circa diecimila anni prima della cosiddetta era
cristiana, ha inaugurato la civiltà mercantile e concesso una preminenza quasi
assoluta al riflesso predatore lasciatoci in eredità da un passato di aggressività
bestiale.
La
civiltà mercantile ha fatto regredire alla violenza della belva feroce il mutuo
soccorso fusionale senza il quale la donna e l'uomo non avrebbero mai raggiunto
la raffinatezza di Lascaux e dell'arte rupestre.
Stiamo
appena iniziando a capire che siamo al centro di un cambiamento di civiltà. O
più esattamente in un processo di trasmutazione in cui la mortifera deliquescenza
del vecchio mondo dà vita a un mondo nuovo. Ciò che rinasce in noi e nella
natura è il grande soffio della libertà solidale che il sistema mercantile ha
sempre cercato di diradare e soffocare. Se, senza rinunciare alla sua furia,
non riesce oggi a stringere la sua formidabile presa, è perché esso stesso sta
soffocando nel tornado del denaro impazzito che ha provocato. Il produttivismo
dell'inutile lo sventra e lo mummifica.
Tocca
a nostra volta di manifestare, contro la deleteria follia del denaro, una vita follemente
sfrenata che ritrovi alla sua radice la natura nutrice. Dall'apparizione dei Gilet jaunes, il popolo francese, nel
2023, ha fatto un balzo che lascia senza parole i buoni spiriti della
disperazione, tanto presuntuosi, tre mesi prima, da denunciare come ottimisti e
utopisti beati coloro che congetturavano uno sconvolgimento radicale.
Non
vogliamo nient’altro che coltivare il nostro giardino. Questo giardino è la
terra.
Raoul
Vaneigem, 21 aprile 2023
RADICALITÉ
DE MAI 1968
RADICALITÉ
DE MAI 1968
Ce que le mensonge journalistique
ordinaire appelle « les événements de Mai 1968 » a surgi d’une époque
où l’économie était florissante et les salaires assez élevés pour s’investir
dans la grande vague de colonisation consumériste qui commençait à déferler. En
France, le conservatisme était encore stable, louvoyant, de bon aloi. Le progressisme
pouvait s’enorgueillir d’un socialisme paré des lauriers des vieilles luttes
ouvrières et d’un Parti, dit communiste, dont l’importance numérique et
chiliastique pesait sur l’échiquier politique.
Le capitalisme découvrait dans le
secteur de la consommation une source de profits supérieurs à ceux que le
secteur de la production et de son dynamisme industriel lui avait assuré jusqu’à
la fin des « années cinquante ». Les usines traditionnelles, où
trimaient les salariés, donnèrent en quelque sorte naissance à ces véritables
usines de consommation qu’étaient les supermarchés. Là, à la différence des
cadences infernales, l’insouciance et le laisser-aller étaient de mise.
L’attrait des plaisirs prêtait un sens à l’absurde labeur quotidien. Les lieux
étaient dévolus à une totale liberté, hormis l’ impératif absolu d’en payer les
acquis à la sortie.
On croyait s’évader du boulot, jouir
d’un centre de loisirs. En fait, on travaillait deux fois pour le même patron.
Comme producteur, en lui garantissant la plus-value habituelle, comme
consommateur, en lui restituant son salaire pour prix d’une verroterie de bon
sauvage.
N’y avait-il pas de surcroît – comble
de la paix sociale ! – matière à calmer l’agressivité revendicatrice, à
assoupir la conscience de classe, à faire le lit d’un capitalisme heureux ?
Une réalité miroitait dans les effets
stroboscopiques des édens de néon. Son semblant de crédibilité autorisait le
capitalisme à prophétiser une ère nouvelle. « L’état de bien-être »
illustrait de façon plausible l’idéologie progressiste d’une classe dominante
qui s’enorgueillissait de mener les prolétaires vers un monde meilleur.
Désormais, le sacrifice quotidien ne se perdrait plus dans les vaines
espérances d’une gloire céleste, que les religions véhiculaient de plus en plus
péniblement. L’enfer du travail débouchait sur un paradis terrestre, livré clé
sur porte.
Les conditions historiques,
économiques, sociales, politiques, psychologiques étaient propices à un
obscurantisme invoquant le salut commun et prônant l’instauration citoyenne
d’un bonheur à hauteur de toutes les bourses.
Le « Welfare state » était
indéniablement un slogan plus convaincant que « Arbeit macht frei ».
On aurait pu conjecturer qu’il suscitât une adhésion massive. Or, ce qui se
diffusa dans l’air du temps fut, en dépit de la propagande médiatique, un
frémissement de répulsion, une réaction de dégoût, un écœurement nauséeux. Il y
eut - sans qu’il s’exprimât à haute voix – un rejet spontané de ce qui était
pressenti comme une gigantesque escroquerie dont la vie ferait les frais.
Ce fut une époque où se manifesta, tel
un malaise épidémique, la déchirure entre le trouble passionnel de l’existence
et l’intelligence intellectuelle qui en rendait compte. Henri Lefebvre avait
attiré l’attention sur la vie quotidienne, qui revêtait les aspects d’un
objet d’autant moins connu qu’il était familier. A l’intelligence sensible du
corps empreint de désirs, Antonin Artaud opposait la fonctionnalité de
l’Esprit, dont la froide rationalité s’employait en vain à gérer l’instinct de
vie. On eût dit que, rechignant au bonheur morose qui gangrenait la chair et la
pensée, une inspiration rebelle issue de la Renaissance et des Lumières
s’ébrouait de son silence et, de ses coups de semonce, houspillait furieusement
le siècle.
Ce sont les lueurs de la conscience
vécue qui, dès les années 1960, alarmèrent sur l’incompatibilité entre notre
désir d’exister et les représentations fictives qui nous étaient imposées sous
le sceau de la réalité objective.
Bien que boycottées de toutes parts et
maintenues sous le boisseau, les idées radicales d’une poignées de penseurs
s’échinant tant bien que mal à n’être pas des têtes pensantes, explosèrent
littéralement dans un grand mouvement subversif qui souleva Paris et la France
pendant près de deux mois. Il ne s’éteignit qu’en jurant de se réitérer. Depuis
les flamboiements de la Révolution française, de la Commune de Paris, des
soviets russes de 1905 et de 1917, des collectivités libertaires espagnoles de
1936, il n’y eut, en dehors du Mouvement des Occupations et de l’intrusion
zapatiste au Chiapas, qu’une longue lassitude subversive, ponctuée de tumultes
sans grandes conséquences.
La
naissance du Joli Mai fut marquée par une radicalité qui allait s’ancrer
dans l’histoire et creuser pendant une cinquantaine d’années une sape
progressive des valeurs marchandes qui, depuis des siècles, déshumanisent les
mentalités et les mœurs.
Vers 1960, la colonisation consumériste
dont les premières vagues allaient déferler mit en lumière l’urgence d’opposer
à l’impérialisme marchand un projet de société où l’humain l’emporterait sur
le profit. Ce projet existait mais les mains qui le portaient dégoulinaient
du sang des prolétaires massacrés au nom du prolétariat. Les makhnovistes
écrasés par Lénine, les marins de Cronstadt fusillés par Trotski illustraient –
sans patauger plus avant dans les abattoirs de Staline et de Mao – la vocation
émancipatrice du prétendu communisme. Lorsque le tsunami mercantile eut raison
du mouvement de Mai 1968, ce fut avec la complicité des palotins politiques et
syndicaux dont les résidus tentent aujourd’hui d’exorciser leur peur des Gilets
jaunes et du refus des chefs.
Le projet de société humaine avait
moins besoin d’un nom que d’une réalité expérimentale. Les collectivités
libertaires de la révolution espagnole eurent le temps de démontrer, avant
d’être écrasés par les staliniens, que vivre selon ses désirs dans une société
qui s’emploie à les harmoniser, est parfaitement possible. Auto-organisation,
acratie, pouvoir du peuple pour et par le peuple, juntes de bon gouvernement,
zones d’autodéfense du vivant, risquent de n’être que des appellations de
perchoirs intellectuels si elles n’émanent pas de cette priorité absolue qu’est
le retour à la vie.
Tous
les modes de gestion de l’homme et de la femme ont, sans exception aucune,
instauré la prééminence de l’inhumain. L’autogestion de la vie quotidienne est
le seul choix qui nous reste.
Après la défaite du Mouvement des
Occupations de Mai 1968 – et pendant un demi-siècle – , la machine à décerveler
publicitaire se mit au service du politique et travailla sans relâche à
l’avilissement des consciences.
Cependant, l’intelligence sensible
ne dort que d’un œil. On s’en avise au déclin d’un consumérisme qui, érodé par
la paupérisation croissante, éteint aujourd’hui ses néons. Le tocsin des
pillages retentit non loin des paradis consommables. On voit ainsi resurgir de
sa semi-clandestinité une critique radicale qui, dès l’amorce des années 1960,
avait attaqué à la hache le projet eschatologique d’une félicité concoctée par
le libre-échange.
Faut-il le rappeler ? Le
libre-échange est la pratique économique à laquelle on doit l’essor de la
marchandise, la fin de l’Ancien Régime et la disparition de l’immobilisme agraire,
la liberté du commerce et le commerce de la liberté, qui sert si bien
d’enseigne à la boutique des démocraties totalitaires.
L’ironie
de l’histoire a voulu que la liberté de l’homme et des idées s’autorisât de la
libre circulation des marchandises pour susciter un mouvement d’émancipation humaine,
résolu de combattre les despotismes, à commencer par celui qu’avait érigé ce
même libre-échange qui avait, en 1793, décapité l’absolutisme de droit divin.
Au nombre des acquis de Mai 1968, il
faut compter le mépris et le refus du travail. Le célèbre slogan « Ne
travaillez jamais ! » n’eût été qu’un glaviot à ses thuriféraires
s’il ne nous remémorait que ce qui constitue par excellence le propre de l’être
humain, c’est la création, la faculté de se construire en reconstruisant le
monde. Un des pires crimes de la civilisation marchande est d’avoir dénaturé la
création en la réduisant à cette transformation de l’être en objet, que l’on
appelle travail.
Le
travail est une activité parasitaire. Ah la belle hypocrisie que le mépris du
labeur chez les aristocrates du passé. Sous un hédonisme de bravache, ils
n’avaient de cesse de travailler à faire travailler les autres. Les bourgeois,
eux, ne s’en cachaient pas. Ils en étaient fiers. Parfois, dans le dynamisme
industriel, ils laissaient la créativité cligner d’un œil et leur fourbir l’une
ou l’autre innovation utile au profit et accessoirement à l’humanité. Avec la
paupérisation et le déclin du secteur de la consommation, ils ont dû se
rabattre sur un productivisme qu’ils avaient délaissé pour plonger directement
la main dans la poche des flâneurs de supermarchés. Les exigences budgétivores
du profit privilégient, aux dépens de tout bénéfice social, de grands travaux
inutiles – trains à grande vitesse, autoroutes, complexes
hôteliers et touristiques, 5G, capture des eaux, abattage des forêts. Mettre
fin au capitalisme, c’est en finir avec le travail.
Le refus du travail entraîne entre
autres conséquences l’abolition de ce sacrifice originel qui exige de prélever,
jour après jour, une livre de chair vive pour la transformer en force de
production. Érigés par toutes les religions sans exception, les autels où le
sang de la mutilation existentielle obligatoire coulait à flot ont généralisé
et ritualisé la culpabilité. Car où règne l’exploitation de l’homme par
l’homme, on ne satisfait jamais assez aux normes, on ne travaille, on ne
s’échange, on ne s’économise jamais assez. La peur et la culpabilité ne nous
lâchent pas d’un pouce. Ses gendarmes infestent nos labyrinthes existentiels.
De cette existence-là, nous ne voulons
plus. Nous voulons vivre et non survivre, tel est le cri dont le Mouvement des
Occupations s’est fait le porte-voix.
L’ironie de l’histoire a plus d’un tour
dans son sac. Alors que le renoncement, l’auto flagellation, le puritanisme
étaient inhérents à la nécessité de produire, l’importance croissante du
secteur de la consommation se mit – par pure cupidité – à valoriser les
plaisirs, à célébrer l’hédonisme, à céder à la tentation d’assouvir ses envies
en échange d’un peu de monnaie. Si frelatée que fût la démocratie de
supermarché, c’était une démocratie de proximité, on y choisissait librement de
quoi se satisfaire dans ce luxe d’abondance, que hantait, en nos profondeurs
ancestrales, le mythe de l’Age d’Or.
Nous avons sous-estimé ce qu’il y avait
de chiliastique dans le génie du capitalisme. Or, ce génie, c’est le
capitalisme lui-même qui nous remontre aujourd’hui qu’il est de pacotille,
comme les libertés qu’il faut payer pour franchir une caisse enregistreuse
hérissée de matraques.
On invoquait la ruée vers l’or et voilà
que les filons sont taris, sinon pour les gestionnaires des profits ultimes, du
moins pour les démocrates de supermarché.
Impossible de faire marche arrière. Le pouvoir
s’est pris à sa propre nasse. Le mensonge s’est si bien rapproché des flammes
de la vie qu’elles le consument. Le refus de toute autorité, de tout Pouvoir,
laïc ou religieux, que préconisait le courant libertaire avait pu paraître
outrecuidant ou excessif. Que dire de la désinvolture pour le moins dissolvante
avec laquelle les rayonnages des grandes aires de distribution laissent
s’avoisiner la Bible et le godemiché en n’établissant entre eux d’autre
différence que leur prix ? On conviendra que la démarche ne joue pas en
faveur de la sainteté ni du caractère respectable du contenu sous emballage. En
se sacralisant, la marchandise a tout désacralisé. On s’en réjouirait si, dans
la même volée, elle n’emportait pas vers le néant la barbarie et la résistance
à la barbarie.
Le profit qui ne produit rien d’autre
que lui-même propage un nihilisme qui arase pareillement les valeurs humaines
et les instruments qui les déshumanisent.
La seule évidence à laquelle nous
sommes confrontés, c’est l’incompatibilité de la conscience du vivant avec un
système qui la détruit.
Il n’y
a pas de dialogue avec l’État. Il n’est plus que le déchaînement oppressif
de sa propre nullité. Qu’on ne nous accuse pas de vouloir l’abattre, il
s’abat de lui-même. Tout simplement, nous ne voulons pas qu’il s’abatte sur
nous.
L’autogestion hante le monde.
Elle est née d’un rappel à la vie, qui
sort de son cauchemar une existence réduite à survivre en travaillant à
s’appauvrir.
Nous ne sommes pas nés pour assumer un destin
de bêtes de sommes, ni pour masquer sous des rôles de prestige, de plus en plus
pitoyables, l’insupportable médiocrité d’un monde où l’entraide est sacrifiée à
la prédation, l’effusion amoureuse à la haine, l’être à l’avoir, la femme,
l’homme et l’enfant à la marchandise.
La
jungle est le modèle social de la civilisation marchande. Maintenant que la chose
est patente et qu’il se publie partout que le capitalisme nuit gravement à la
santé, quand allons-nous jeter les bases d’une société humaine ? La question
est captieuse, car la réponse est présente partout où le refus des nuisances
prélude à la création des zones d’autodéfense du vivant. Redécouvrant leur
fertilité spontanée, notre corps et notre terre sont la base d’une civilisation
radicalement nouvelle. Le génie d’êtres humains passionnés par l’invention du
vivant me paraît plus important que les rituels d’exorcismes censés accabler
une civilisation de mort, aujourd’hui moribonde.
L’autogestion
émane davantage de la sensibilité vitale que de la rationalité intellectuelle
qui prétend la gérer. Il est important que son expression poétique l’emporte
sur un langage séparé du vécu. Un mot d’ordre est toujours aux ordres d’un
maître.
L’autogestion relève de l’autodéfense
immunitaire. Elle n’a besoin pour se développer que de la conscience humaine
qui donne son sens à la nature. Elle est à la bifurcation de deux chemins, l’un
où l’humanité joue son devenir, l’autre où elle s’anéantit.
Il est bon de ne pas l’oublier :
la vie à laquelle on renonce a tôt fait de s’inverser. Le chant de la terre et
du vivant s’abîme en une célébration funèbre. La haine se repaît de l’énergie
éperdue dont l’amour s’est départi. La menace s’intensifie chaque fois que la
prédation l’emporte sur l’entraide.
Le danger résulte d’une structure
caractérielle qui, en entravant l’instinct de vie en chacun de nous, propage
une peste émotionnelle dévastatrice. Celle-ci sévit de l’extrême droite
à l’extrême gauche. On l’a vue à l’œuvre sur l’échiquier où le principe du
« diviser pour régner, » inhérent à tout Pouvoir, incitait les
citoyens à s’écharper pour une « affaire » de vaccins.
Les
esclaves qui se combattent les uns les autres sont la bénédiction des maîtres.
Dans la guerre picrocholine des inoculations contre le coronavirus, les monopoles
pharmaceutiques s’empressèrent de ramasser la mise et de rétribuer leurs
complices.
Le
vivant tend à l’unité. Sa conscience met fin à la séparation que la division du
travail en fonction intellectuelle et fonction manuelle a propagée partout. L’entraide
autogestionnaire implique le dépassement des contraires.
La fin des séparations artificielles qui
nous disloquent abolit les hiérarchies. La joie de vivre est acratique, elle
annule toute forme de Pouvoir. Elle s’apprête à balayer monarchies,
autocraties, aristocraties, démocraties, ploutocraties, et tutti quanti. Le
rire est une arme non létale. Ses éclats frappent quiconque s’autorise à
manipuler les autres, à donner des ordres et à en recevoir. C’en est assez de
l’individualiste et de ses calculs égoïstes.
La
vraie distance est celle de la conscience qui humanise la vie. Elle vient du
bas, elle abolit l’abstraction, qui nous arrache à nos pulsions vitales.
Vu du haut, tout est faux. Pour
le ciel bureaucratique réglé par les chiffres, les programmes, les
statistiques, il n’y a ni hommes, ni femmes, ni enfants, ni bêtes, ni plantes,
il n’y a que des objets.
Comment nous défaire de ce mode de
gestion, où les morts comptabilisent les vivants, si nous ne déléguons pas à
notre propre vie le soin de prendre en charge les problèmes que les instances
nationales et supranationales régissent sans nous consulter ?
Nombre de résolutions perdent toute
pertinence une fois prises en haut lieu, alors que, traitées à la base, elles
ont l’avantage du terrain, du vécu et de sa conscience.
Par quelle aberration les écologistes
vont-ils quémander la fin de la destruction des espèces à ceux-là mêmes qui en
sont cause ? N’est-ce pas sous nos fenêtres et au bord des champs
environnants que commence l’empoisonnement de notre nourriture ? Les
habitants des régions polluées ne devraient-ils pas être habilités à protéger
leur santé en renaturant les terres et en excluant les pesticides dont
débattent savamment les Commissions médicales et gouvernementales stipendiées
par les monopoles pharmaceutiques ? Tant de projets sont devant nous et nous gardons les mains vides.
Écoles, transports publics,
agriculture, maraîchage local, banques alimentaires, maisons de santé,
organisation de l’abondance et de la gratuité sont de notre ressort.
Pourquoi
la puissance de l’entraide qui se manifeste avec tant d’efficacité en cas de
catastrophe naturelle, inondation, tremblement de terre n’agirait-elle pas
alors que s’abat sur nous une des pires catastrophes antinaturelles de notre
histoire : l’effondrement d’un système économique programmé pour nous
entraîner dans sa chute.
Lâcheté n’est pas le mot. Disons que
nous manquons d’audace. La civilisation de la mesquinerie nous a tordus et
essorés comme des serpillières. Nous avons résigné la vie pour le profit, nous
nous sommes dessaisis de notre créativité pour la livrer à des Dieux
fantasmatiques, nous sommes les détenteurs d’une générosité sans égale et nous avons l’infamie de régler les flux migratoires en noyant des enfants, des hommes, des femmes.
Nous
avons toujours accordé la priorité à la mort. Mais la mort est devenue si lasse, si ennuyeuse que la vie s’éveille et ne s’embarrasse plus de sa
présence.
En soi, l’immigration ne pose pas plus
de problème que le nomadisme. En revanche, la façon dont elle est perçue,
ressentie, vécue par les populations sédentaires réclame une prise en charge que sont bien incapables
d’assumer les prêches caritatifs et les onctions bienveillantes de la bonne
volonté humanitaire.
Deux
approches se présentent. Elles sont antagonistes. Le Pouvoir identifie l’immigration à
une invasion. Il lui prête une connotation barbare qui requiert une réaction militaire, un contrôle policier, bureaucratique, judiciaire.
Assumant, comme par temps de guerre, leur fonction de propagande, les torche-culs médiatiques imputent aux exilés crimes, agressions, vols, pillages, dus à la
paupérisation croissante. Le trop plein de frustration et de ressentiment se
déverse non sur les exploiteurs qui en sont cause mais sur les cibles d’un
racisme d’autant plus répugnant qu’il se revendique de la liberté démocratique.
Au moins nous rappelle-t-on que
là où la jungle du « chacun pour soi » tient
lieu de société, il n’y a d’autres libertés autorisées que celles de la
prédation.
Tandis
que la peste émotionnelle et les simulations de guerre civile offrent
un dernier sursis à un Pouvoir fissuré de toutes parts, le
pressentiment d’une perspective de mort s’inversant en perspective de vie
accroît l’opposition à la
politique criminelle qui
réduit les migrants à des objets. Le sens humain se révolte contre la papelardise apeurée du propos : « on ne peut pas accueillir toute la misère du
monde. » Foutaise aussi que le « devoir d’intégration. » S’intégrer à quoi ? A un monde de corruption, de délation,
d’escroquerie, de crétinisation, de rapacité, d’ennui, de bassesse ? A votre monde ?
Oui,
nous sommes en mesure d’accueillir celles et ceux qui fuient leur pays dévasté
par la guerre et la misère. Nous disposons d’espaces assez vastes pour loger un grand nombre de personnes. La question de pourvoir à leurs besoins fait partie de l’exigence, où nous nous trouvons nous-mêmes, de récupérer, pour faire face aux
disettes à venir, les ressources naturelles
dont nous sommes spoliés par la rapacité d’entreprises étatiques et mafieuses.
Il est temps d’ouvrir au grand large ce
monde qui pue la peur et l’enfermement. Nous disposons de territoires et de bâtiments parasitaires où accueillir en grand nombre de petites collectivités. Pourquoi
petites ? Parce que l’on observe depuis longtemps le phénomène
suivant : plus la quantité d’habitants augmente, plus la promiscuité
engendre des conflits, plus la qualité des relations humaines risque de se
corrompre, de stagner, de pourrir, de s’autodétruire. Si l’on apprend moins à
se connaître, la méfiance s’installe, l’entraide cède la place à un repli
communautariste. La solidarité se referme, elle coagule et se nie en formant un
conglomérat d’individualistes que la terreur ensauvage.
Hors de son implantation
économique et historique, le fascisme est une étiquette de boutique politique.
Le vrai péril est la peste émotionnelle dont l’exploitation de l’homme par
l’homme entretient le bouillon de culture.
Il ne faut pas se dissimuler
hypocritement les heurts que pourraient provoquer les préjugés sexistes et
homophobes qu’une éducation patriarcale a pu nourrir chez certains exilés.
Quelle meilleure option en
l’occurrence que de confier à l’exclusive initiative des femmes le soin
d’organiser l’accueil, l’installation et les premières rencontres ? On peut raisonnablement conjecturer que la misogynie
s’éteindra sans sortir du chapeau des convenances l’arrogante objurgation de s’intégrer.
N’est-ce
pas le moment de donner sa puissance poétique à la formule « Abondance de la terre, ton nom est femme» ?
Le
progrès de l’avoir a entravé le progrès de l’être.
L’anéantissement du système marchand travaille maintenant à rendre sa primauté
à l’être. Ce faisant et malgré qu’il en ait, le profit prédateur en faillite
restitue à l’entraide sa puissance fusionnelle.
L’entraide a la même envergure que sa pulsion antagoniste, la prédation. L’ampleur qu’elle a déployée en Mai 1968, chez
les zapatistes et dans les périls du Rojava, a reparu avec le soulèvement
festif des Gilets jaunes. Sans elle, ceux-ci n’auraient ni persisté dans leur
opiniâtreté ni semé partout les germes de cette insurrection de la vie
quotidienne dont la conscience s’affine à mesure que les traditionnelles
revendications de survie révèlent leur insuffisance.
A l’égal de la prédation, l’entraide est issue de la filière animale qui participe de la genèse de l’homme. Elle est la
force de vie qui donne son essor à notre humanisation. Elle a marqué notre
évolution de sa période archaïque à la Révolution agraire, qui, vers dix mille ans
avant l’ère dite chrétienne, inaugure la civilisation marchande et accorde une
prééminence presque absolue au réflexe prédateur que nous a légué un passé d’agressivité bestiale.
La civilisation marchande a fait
régresser à la violence de la bête fauve l’entraide fusionnelle sans laquelle
la femme et l’homme n’auraient jamais atteint à l’affinement de Lascaux et de
l’art rupestre.
Nous commençons à peine à comprendre
que nous sommes au centre d’une mutation de civilisation. Ou plus exactement
dans un processus de transmutation où la déliquescence mortifère du vieux monde
donne naissance à un monde nouveau. Ce qui renaît en nous et dans la nature,
c’est le grand souffle de la liberté solidaire que le système marchand a
toujours tenté de raréfier et d’étouffer. Si, sans renoncer à sa fureur, il échoue
aujourd’hui à resserrer sa redoutable prise c’est qu’il étouffe lui même dans
la tornade de l’argent fou qu’il a provoquée. Le productivisme de l’inutile
l’éviscère et le momifie.
A notre tour maintenant de manifester,
à l’encontre de la folie délétère de l’argent, une vie follement débridée
retrouvant à sa racine la nature nourricière. Depuis l’apparition des Gilets
jaunes, le peuple français a effectué en 2023 un bond qui laisse pantois les
bons esprits de la désespérance, si farauds, trois mois plus tôt, de taxer
d’optimistes et d’utopistes béats celles et ceux qui conjecturaient un
bouleversement radical.
Nous
ne souhaitons rien de plus que cultiver notre jardin. Ce jardin est la terre.
Raoul Vaneigem, 21 avril
2023