lunedì 1 maggio 2023

Radicalità del Maggio 68 - Raoul Vaneigem 21 aprile 2023

 




Quel che l'ordinaria menzogna giornalistica chiama "gli eventi del maggio 1968" è accaduto in un periodo in cui l'economia era in forte espansione e i salari abbastanza alti da investirsi nella grande ondata di colonizzazione consumistica che cominciava a imperversare. In Francia il conservatorismo era ancora stabile, oscillante, di buona lena. Il progressismo poteva vantarsi di un socialismo ornato degli allori delle vecchie lotte operaie e di un cosiddetto Partito comunista la cui importanza numerica e chiliastica pesava sullo scacchiere politico.

Il capitalismo ha scoperto nel settore dei consumi una fonte di profitti superiori a quelli che il settore produttivo e il suo dinamismo industriale gli avevano assicurato fino alla fine degli anni Cinquanta. Le fabbriche tradizionali, dove faticavano i dipendenti, hanno dato vita in un certo senso alle vere e proprie fabbriche di consumo che erano i supermercati. Lì, a differenza delle cadenze infernali, la spensieratezza e il lasciar correre erano all'ordine del giorno. Il fascino dei piaceri dava senso all'assurda fatica quotidiana. I supermercati erano devoluti a una totale libertà, salvo l'imperativo assoluto di pagare i beni all'uscita.

Si credeva di evadere dal lavoro, di beneficiare di un centro ricreativo. In effetti, si lavorava due volte per lo stesso padrone. Come produttori, garantendogli l'usuale plusvalore, come consumatori, restituendogli il proprio salario in cambio di qualche perlina da buon selvaggio.

Non era inoltre anche un modo – colmo della pace sociale! – di calmare l'aggressività delle rivendicazioni, di ammorbidire la coscienza di classe, di funzionare da base di un capitalismo felice?

Una realtà luccicava negli effetti stroboscopici dei paradisi al neon. La parvenza di credibilità del capitalismo lo autorizzava a profetizzare una nuova era. “Lo stato di benessere” illustrava plausibilmente l'ideologia progressista di una classe dominante fiera di guidare i proletari verso un mondo migliore. Ormai il sacrificio quotidiano non si sarebbe più perso nelle vane speranze di una gloria celeste che le religioni trasmettevano sempre più difficilmente. L'inferno del lavoro sfociava in un paradiso terrestre, consegnato chiavi in mano.

Le condizioni storiche, economiche, sociali, politiche e psicologiche favorivano un oscurantismo che invocava la salvezza comune e propugnava l'instaurazione di una felicità di cittadinanza accessibile a tutte le borse.

Il “Welfare State” era innegabilmente uno slogan più convincente di “Arbeit macht frei”. Si sarebbe potuto ipotizzare che avrebbe suscitato un sostegno massiccio. Ebbene, nonostante la propaganda mediatica, ciò che si è diffuso nell'aria del tempo è stato un brivido di repulsione, una reazione di disgusto, uno schifo nauseato. Ci fu – senza esprimerlo ad alta voce – un rigetto spontaneo di quel che era percepito come una gigantesca truffa a danno della vita.

Fu un tempo in cui si manifestò, come un malessere epidemico, lo strappo tra il turbamento passionale dell'esistenza e l'intelligenza intellettuale che ne rendeva conto. Henri Lefebvre aveva richiamato l'attenzione sulla vita quotidiana, che assumeva gli aspetti di un oggetto tanto meno conosciuto perché familiare. All'intelligenza sensibile del corpo intriso di desideri, Antonin Artaud opponeva la funzionalità dello Spirito, la cui fredda razionalità lavorava invano per gestire l'istinto di vita. Si sarebbe detto che, riluttante alla cupa felicità che affliggeva la carne e il pensiero, un’ispirazione ribelle proveniente dal Rinascimento e dall’Illuminismo uscisse dal suo silenzio e, con i suoi colpi di avvertimento, rimproverasse furiosamente il secolo.

Sono stati i barlumi della coscienza vissuta che, a partire dagli anni Sessanta, hanno lanciato l'allarme sull'incompatibilità tra il nostro desiderio di esistere e le rappresentazioni fittizie che ci erano imposte sotto il sigillo della realtà oggettiva.

Per quanto boicottate da tutte le parti e tenute nascoste, le idee radicali di un pugno di pensatori che si sforzavano come potevano di non ridursi a teste pensanti, esplosero letteralmente in un grande movimento sovversivo che agitò Parigi e la Francia per quasi due mesi. Si è spento solo giurando di ripetersi. Dagli incendi della Rivoluzione francese, della Comune di Parigi, dei soviet russi del 1905 e del 1917, delle collettività libertarie spagnole del 1936, non c'è stata, a parte il Movimento delle Occupazioni del Maggio 68 e l'intrusione zapatista in Chiapas, che una lunga lassitudine sovversiva, punteggiata da tumulti senza grandi conseguenze.

La nascita del bel maggio 68 fu segnata da una radicalità che è andata ad ancorarsi alla storia scavando per cinquant'anni un progressivo indebolimento dei valori mercantili che disumanizzavano da secoli le mentalità e i costumi.

Intorno al 1960, la colonizzazione consumistica, le cui prime ondate stavano per imperversare, mise in evidenza l'urgenza di opporre all'imperialismo mercantile un progetto di società in cui il fattore umano prevalesse sul profitto. Questo progetto esisteva ma le mani che lo portavano grondavano del sangue dei proletari massacrati in nome del proletariato. I machnovisti schiacciati da Lenin, i marinai di Cronstadt fucilati da Trotskij illustravano senza impantanarsi ulteriormente nei mattatoi di Stalin e Mao la vocazione emancipatrice del preteso comunismo. Quando lo tsunami mercantile ebbe la meglio sul movimento del maggio 1968, fu con la complicità dei guitti politici e sindacali i cui residui cercano oggi di esorcizzare la loro paura dei Gilet Jaunes e del rifiuto di avere dei capi.

Il progetto di società umana aveva meno bisogno di un nome che di una realtà sperimentale. Prima di essere schiacciate dagli stalinisti, le comunità libertarie della rivoluzione spagnola hanno avuto il tempo di dimostrare che vivere secondo i propri desideri in una società che si sforza di armonizzarli è perfettamente possibile. Autorganizzazione, acrazia, potere del popolo per e dal popolo, giunte di buon governo, zone di autodifesa del vivente, rischiano di essere solo formule di tipo intellettuale se non emanano dalla priorità assoluta che è il ritorno alla vita.

Tutti i modi di gestione degli uomini e delle donne hanno, senza eccezione, instaurato la preminenza del disumano. L'autogestione della vita quotidiana è l'unica scelta che ci rimane.

Dopo la sconfitta del Movimento delle Occupazioni del maggio 1968 – e per mezzo secolo – la macchina pubblicitaria del lavaggio del cervello si è messa al servizio della politica lavorando instancabilmente per avvilire le coscienze.

Tuttavia, l'intelligenza sensibile dorme sempre con un occhio aperto. Lo si vede con il declino di un consumismo che, logorato dall’impoverimento crescente, spegne oggi i suoi neon. La campana a martello del saccheggio risuona non lontano dai paradisi consumabili. Assistiamo così al risorgere dalla sua semiclandestinità di una critica radicale che, dall'inizio degli anni Sessanta, aveva attaccato con la scure il progetto escatologico di una beatitudine architettata dal libero scambio.

É necessario ripeterlo? Il libero scambio è la pratica economica a cui si deve il successo della merce, la fine dell'Ancien Régime e la scomparsa dell'immobilismo agrario, la libertà del commercio e il commercio della libertà che serve perfettamente da insegna della bottega delle democrazie totalitarie.

L'ironia della storia ha voluto che la libertà dell'uomo e delle idee approfittasse della libera circolazione delle merci per suscitare un movimento di emancipazione umana, deciso a lottare contro i dispotismi, a cominciare da quello che aveva instaurato quel libero scambio che, nel 1793, aveva decapitato l’assolutismo di diritto divino.

Tra le conquiste del maggio 1968, bisogna annoverare il disprezzo e il rifiuto del lavoro. Il celebre slogan "Non lavorate mai!" avrebbe rappresentato solo uno sputo contro i suoi adulatori se non ci avesse ricordato che ciò che costituisce per eccellenza la caratteristica dell'essere umano è la creazione, la capacità di costruirsi ricostruendo il mondo. Uno dei peggiori crimini della civiltà mercantile è di aver snaturato la creazione riducendola a quella trasformazione dell'essere in oggetto che si chiama lavoro.

Il lavoro è un'attività parassitaria. Ah, che bella ipocrisia il disprezzo per il lavoro da parte degli aristocratici di una volta. Sotto un edonismo da spacconi, non hanno mai smesso di lavorare per far lavorare gli altri. Gli stessi borghesi non se lo nascondevano. Ne erano orgogliosi. A volte, nel dinamismo industriale, lasciavano la creatività ammiccare e fornir loro l'una o l'altra innovazione utile al profitto e incidentalmente all'umanità. Con l'impoverimento e il declino del settore dei consumi, hanno dovuto ripiegare su un produttivismo che avevano abbandonato per mettere direttamente la mano nelle tasche dei passeggiatori da supermercato. Le esigenze del profitto di divorare il bilancio privilegiano, a scapito di ogni beneficio sociale, le grandi opere inutili – treni ad alta velocità, autostrade, complessi alberghieri e turistici, 5G, cattura delle acque, abbattimento di foreste. Porre fine al capitalismo significa porre fine al lavoro.

Il rifiuto di lavorare comporta, tra le altre conseguenze, l'abolizione del sacrificio originario che esige di prelevare, giorno dopo giorno, una libbra di carne viva per trasformarla in forza di produzione. Eretti da tutte le religioni senza eccezioni, gli altari dove scorreva liberamente il sangue della mutilazione esistenziale obbligatoria hanno generalizzato e ritualizzato il senso di colpa. Perché dove regna lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, non si rispettano mai abbastanza le norme, non si lavora, non si scambia, non si risparmia mai abbastanza. La paura e il senso di colpa non ci abbandonano di un centimetro. I suoi gendarmi infestano i nostri labirinti esistenziali.

Questa esistenza, non la vogliamo più. Vogliamo vivere e non sopravvivere, questo è il grido di cui il Movimento delle Occupazione è stato il portavoce.

L'ironia della storia ha più di un asso nella manica. Mentre la rinuncia, l'autoflagellazione, il puritanesimo erano inerenti alla necessità di produrre, l'importanza crescente del settore consumistico iniziò – per pura cupidigia – a valorizzare i piaceri, a celebrare l'edonismo, a cedere alla tentazione di soddisfare i propri desideri in cambio di un po’ di quattrini. Per quanto adulterata fosse, la democrazia da supermercato, era una democrazia di prossimità, vi si sceglieva liberamente di che soddisfarsi nel lusso d’abbondanza che il mito dell'Età dell'Oro faceva aleggiare nelle nostre profondità ancestrali.

Abbiamo sottovalutato ciò che c'era di chiliastico nel genio del capitalismo. Tuttavia, il capitalismo stesso ci sta oggi dimostrando che questa genialità è di paccottiglia, come le libertà che bisogna pagare per attraversare una cassa irta di manganelli.

Si è invocata la corsa all'oro ed ecco che le vene si sono prosciugate, se non per i gestori dei profitti finali, almeno per i democratici da supermercato.

Impossibile tornare indietro. Il potere è caduto nella sua stessa trappola. La menzogna si è talmente avvicinata alle fiamme della vita che queste la consumano. Il rifiuto di ogni autorità, di ogni Potere, laico o religioso, propugnato dal movimento libertario aveva potuto sembrare presuntuoso o eccessivo. Che dire della disinvoltura almeno dissociante con cui gli scaffali dei grandi spazi di distribuzione permettono l’accostamento della Bibbia con il dildo, stabilendo tra loro come unica differenza il prezzo? Si converrà che un tale comportamento non gioca a favore della santità né del carattere rispettabile del contenuto sotto imballaggio. Diventando sacra, la merce ha desacralizzato tutto. Ci sarebbe da rallegrarsene se, nello stesso tempo, essa non riducesse a nulla tanto la barbarie quanto la resistenza alla barbarie.

Il profitto che non produce altro che se stesso propaga un nichilismo che appiattisce altrettanto i valori umani e gli strumenti che li disumanizzano.

L'unica evidenza cui siamo confrontati è l'incompatibilità della coscienza del vivente con un sistema che la distrugge.

Non c'è dialogo con lo Stato. Non è più che lo scatenamento opprimente della propria nullità. Non ci si accusi di volerlo abbattere, si abbatte da solo. Molto semplicemente, non vogliamo che si abbatta su di noi.

L'autogestione inquieta il mondo.

Essa è nata da un richiamo alla vita che fa uscire dal suo incubo un'esistenza ridotta a sopravvivere lavorando per impoverirsi.

Non siamo nati per assumere un destino di bestie da soma, né per mascherare sotto ruoli di prestigio sempre più pietosi, l'insopportabile mediocrità di un mondo dove l'aiuto reciproco è sacrificato alla predazione, l'effusione amorosa all'odio, l'essere all'avere, la donna, l'uomo e il bambino alla merce.

La giungla è il modello sociale della civiltà mercantile. Ora che la cosa è palese e che si pubblica ovunque che il capitalismo nuoce gravemente alla salute, quando getteremo le fondamenta di una società umana? La questione è capziosa, perché la risposta è sempre presente laddove il rifiuto delle nocività prelude alla creazione di zone di autodifesa del vivente. Riscoprendo la loro spontanea fertilità, il nostro corpo e la nostra terra sono la base di una civiltà radicalmente nuova. Il genio di esseri umani appassionati per l'invenzione del vivente mi sembra più importante dei riti esorcistici previsti per disturbare una civiltà di morte, oggi moribonda.

L'autogestione emana più dalla sensibilità vitale che dalla razionalità intellettuale che pretende di gestirla. È importante che la sua espressione poetica prevalga su un linguaggio separato dall'esperienza vissuta. Una parola d'ordine è sempre agli ordini di un signore.

L'autogestione è una forma di autodifesa immunitaria. Per svilupparsi ha solo bisogno della coscienza umana che dà il suo senso alla natura. È al crocevia di due percorsi, uno dove l'umanità gioca il suo futuro, l'altro dove essa si annienta.

È bene non dimenticarlo: la vita a cui si rinuncia si capovolge rapidamente. Il canto della terra e del vivente si altera in una celebrazione funebre. L'odio si nutre dell'energia disperata dalla quale l'amore si è separato. La minaccia s’intensifica ogni volta che la predazione vince sull'aiuto reciproco.

Il pericolo deriva da una struttura caratteriale che, ostacolando l'istinto vitale in ciascuno di noi, diffonde una devastante peste emozionale. Essa imperversa dall'estrema destra all'estrema sinistra. L’abbiamo vista all'opera sulla scacchiera dove il principio del “divide et impera”, insito in ogni potere, incitava i cittadini a litigare per un “affare” di vaccini.

Gli schiavi che si combattono tra loro sono la benedizione dei padroni. Nella guerra biliosa delle inoculazioni contro il coronavirus, i monopoli farmaceutici si sono affrettati a raccogliere il bottino retribuendo i loro complici.

Il vivente tende all'unità. La sua coscienza pone fine alla separazione propagata ovunque dalla divisione del lavoro in funzione intellettuale e funzione manuale. L'autogestione dell'aiuto reciproco implica il superamento degli opposti.

La fine delle separazioni artificiali che ci dislocano abolisce le gerarchie. La gioia di vivere è acratica, annulla ogni forma di Potere. Si prepara a spazzare via monarchie, autocrazie, aristocrazie, democrazie, plutocrazie, e tutto il resto. La risata è un'arma non letale. I suoi frammenti colpiscono chiunque si permetta di manipolare gli altri, dare ordini e riceverli. Basta con l'individualista e i suoi calcoli egoistici.

La vera distanza è quella della coscienza che umanizza la vita. Essa viene dal basso, abolisce l'astrazione che ci strappa alle nostre pulsioni vitali.

Visto dall'alto, tutto è falso. Per il cielo burocratico governato dai numeri, i programmi, le statistiche, non ci sono uomini, donne, bambini, animali, piante, ci sono solo oggetti.

Come liberarsi da questo tipo di gestione in cui i morti contano i vivi, se non delegando alla nostra stessa vita il compito di farsi carico dei problemi che le autorità nazionali e sovranazionali gestiscono senza consultarci?

Molte decisioni perdono ogni pertinenza una volta prese in alto, mentre, trattate alla base, hanno il vantaggio del terreno, del vissuto e della sua coscienza.

Per quale aberrazione gli ecologisti implorano la fine della distruzione delle specie a coloro che ne sono responsabili? Non è forse sotto le nostre finestre e ai margini dei campi circostanti che inizia l'avvelenamento del nostro cibo? Gli abitanti delle regioni inquinate non dovrebbero essere autorizzati a proteggere la propria salute rinaturalizzando la terra ed escludendo i pesticidi su cui sapientemente dibattono le Commissioni mediche e governative stipendiate dai monopoli farmaceutici? Tanti progetti sono davanti a noi e rimaniamo a mani vuote.

Scuole, trasporti pubblici, agricoltura, orticoltura locale, banche alimentari, case di cura, organizzazione dell'abbondanza e della gratuità sono di nostra competenza.

Perché la potenza del mutuo soccorso, che si manifesta con tanta efficacia in caso di calamità naturali, alluvioni, terremoti, non dovrebbe agire quando si sta abbattendo su di noi una delle peggiori calamità antinaturali della nostra storia: il crollo di un sistema economico programmato per trascinarci con sé nella caduta.

Codardia non è la parola giusta. Diciamo che manchiamo d’audacia. La civiltà della meschinità ci ha contorti e strizzati come strofinacci. Abbiamo rinunciato alla vita per il profitto, abbiamo rinunciato alla nostra creatività per consegnarla a Dei fantasmatici, siamo detentori di una generosità senza pari e pratichiamo l'infamia di regolare i flussi migratori facendo annegare bambini, uomini, donne.

Abbiamo sempre dato la priorità alla morte. Ma la morte è diventata così rammollita, così noiosa che la vita si sveglia e non si preoccupa più della sua presenza.

Di per sé, l'immigrazione non pone più problemi del nomadismo. Per contro, il modo in cui essa è percepita, sentita, vissuta dalle popolazioni sedentarie richiede un sostegno che le predicazioni caritative e le unzioni indulgenti della buona volontà umanitaria sono del tutto incapaci di assumere.

Si presentano due approcci antagonisti. Il Potere identifica l'immigrazione con un'invasione. Gli conferisce una connotazione barbarica che richiede una reazione militare, un controllo poliziesco, burocratico, giudiziario. Assumendo, come in tempo di guerra, la loro funzione di propaganda, gli stronzi mediatici imputano agli esiliati delitti, attentati, furti, saccheggi, dovuti all’impoverimento crescente. L’eccesso di frustrazione e di risentimento si riversa non sugli sfruttatori che ne sono la causa, ma sui bersagli di un razzismo tanto più ripugnante in quanto si rivendica della libertà democratica. Perlomeno ci ricorda che laddove la giungla dell’ognuno per sé si sostituisce alla società, non ci sono altre libertà autorizzate che quelle della predazione.

Mentre la peste emozionale e le simulazioni di guerra civile offrono un ultimo conforto a un Potere fessurato da ogni parte, il presentimento di una prospettiva di morte che si rovescia in prospettiva di vita accresce l'opposizione alla politica criminale che riduce i migranti a oggetti. Il senso umano si ribella allo spaventato bla-bla burocratico del proposito: “non si può accogliere tutta la miseria del mondo”. Idiozie come il “dovere di integrazione”. Integrarsi a che cosa? A un mondo di corruzione, di delazione, di frode, d’incretinimento, rapacità, noia, bassezza? Al vostro mondo?

Sì, siamo in grado di accogliere coloro che fuggono dal loro Paese devastato dalla guerra e dalla miseria. Disponiamo di spazi sufficientemente ampi per accogliere un gran numero di persone. La questione di provvedere ai loro bisogni fa parte dell'esigenza, in cui ci troviamo noi stessi, di recuperare, per far fronte alle carestie che verranno, le risorse naturali di cui siamo depredati dalla rapacità di imprese statali e mafiose.

È tempo di aprire al mare aperto questo mondo che puzza di paura e reclusione. Disponiamo di territori e di edifici inutilizzati, dove accogliere un gran numero di piccole collettività. Perché piccole? Perché da tempo si osserva il seguente fenomeno: più aumenta il numero degli abitanti, più la promiscuità genera conflitti, più la qualità delle relazioni umane rischia di corrompersi, stagnare, marcire, autodistruggersi. Se si impara meno a conoscersi, subentra la diffidenza, l'aiuto reciproco lascia il posto a un ripiego comunitarista. La solidarietà si blocca, si coagula e si nega formando un conglomerato di individualisti che il terrore inselvatichisce.

Al di fuori della sua stabilizzazione economica e storica, il fascismo è un'etichetta di negozio politico. Il vero pericolo è la peste emozionale di cui lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo è il brodo di coltura.

Non si devono nascondere ipocritamente gli urti che potrebbero provocare i pregiudizi sessisti e omofobi che un'educazione patriarcale ha potuto alimentare in un certo numero di esuli.

Quale migliore opzione all’occorrenza che affidare all'esclusiva iniziativa delle donne il compito di organizzare l'accoglienza, l'istallazione e i primi incontri? Si può ragionevolmente ipotizzare che la misoginia si estinguerà senza tirare fuori dal cilindro della buona educazione l'arrogante obbligo dell'integrazione.

Non è forse ora di restituire la sua potenza poetica alla formula "Abbondanza della terra, il tuo nome è donna"?

Il progresso dell'avere ha ostacolato il progresso dell'essere. L'annientamento del sistema mercantile lavora ora per restituire il suo primato all'essere. Ciò facendo e per quanto possibile, il profitto predatore in via di fallimento restituisce al mutuo soccorso la sua potenza fusionale.

L'aiuto reciproco ha la stessa portata della sua pulsione antagonistica, la predazione. La sua diffusione nel maggio 1968, tra gli zapatisti e nei pericoli del Rojava, è riapparsa con il festoso sollevamento dei Gilet Jaunes. Senza solidarietà, questi ultimi non avrebbero né persistito nella loro caparbietà né seminato ovunque i semi di un’insurrezione della vita quotidiana la cui coscienza si affina man mano che le tradizionali rivendicazioni di sopravvivenza rivelano la loro insufficienza.

Come la predazione, l'aiuto reciproco deriva dalla componente animale che fa parte della genesi dell'uomo. È la forza vitale che dà origine alla nostra umanizzazione. Ha marcato la nostra evoluzione dal suo periodo arcaico alla Rivoluzione agraria, che, circa diecimila anni prima della cosiddetta era cristiana, ha inaugurato la civiltà mercantile e concesso una preminenza quasi assoluta al riflesso predatore lasciatoci in eredità da un passato di aggressività bestiale.

La civiltà mercantile ha fatto regredire alla violenza della belva feroce il mutuo soccorso fusionale senza il quale la donna e l'uomo non avrebbero mai raggiunto la raffinatezza di Lascaux e dell'arte rupestre.

Stiamo appena iniziando a capire che siamo al centro di un cambiamento di civiltà. O più esattamente in un processo di trasmutazione in cui la mortifera deliquescenza del vecchio mondo dà vita a un mondo nuovo. Ciò che rinasce in noi e nella natura è il grande soffio della libertà solidale che il sistema mercantile ha sempre cercato di diradare e soffocare. Se, senza rinunciare alla sua furia, non riesce oggi a stringere la sua formidabile presa, è perché esso stesso sta soffocando nel tornado del denaro impazzito che ha provocato. Il produttivismo dell'inutile lo sventra e lo mummifica.

Tocca a nostra volta di manifestare, contro la deleteria follia del denaro, una vita follemente sfrenata che ritrovi alla sua radice la natura nutrice. Dall'apparizione dei Gilet jaunes, il popolo francese, nel 2023, ha fatto un balzo che lascia senza parole i buoni spiriti della disperazione, tanto presuntuosi, tre mesi prima, da denunciare come ottimisti e utopisti beati coloro che congetturavano uno sconvolgimento radicale.

Non vogliamo nient’altro che coltivare il nostro giardino. Questo giardino è la terra.

Raoul Vaneigem, 21 aprile 2023

RADICALITÉ DE MAI 1968

         


RADICALITÉ DE MAI 1968

         Ce que le mensonge journalistique ordinaire appelle « les événements de Mai 1968 » a surgi d’une époque où l’économie était florissante et les salaires assez élevés pour s’investir dans la grande vague de colonisation consumériste qui commençait à déferler. En France, le conservatisme était encore stable, louvoyant, de bon aloi. Le progressisme pouvait s’enorgueillir d’un socialisme paré des lauriers des vieilles luttes ouvrières et d’un Parti, dit communiste, dont l’importance numérique et chiliastique pesait sur l’échiquier politique.

         Le capitalisme découvrait dans le secteur de la consommation une source de profits supérieurs à ceux que le secteur de la production et de son dynamisme industriel lui avait assuré jusqu’à la fin des « années cinquante ». Les usines traditionnelles, où trimaient les salariés, donnèrent en quelque sorte naissance à ces véritables usines de consommation qu’étaient les supermarchés. Là, à la différence des cadences infernales, l’insouciance et le laisser-aller étaient de mise. L’attrait des plaisirs prêtait un sens à l’absurde labeur quotidien. Les lieux étaient dévolus à une totale liberté, hormis l’ impératif absolu d’en payer les acquis à la sortie.

         On croyait s’évader du boulot, jouir d’un centre de loisirs. En fait, on travaillait deux fois pour le même patron. Comme producteur, en lui garantissant la plus-value habituelle, comme consommateur, en lui restituant son salaire pour prix d’une verroterie de bon sauvage.

         N’y avait-il pas de surcroît – comble de la paix sociale ! – matière à calmer l’agressivité revendicatrice, à assoupir la conscience de classe, à faire le lit d’un capitalisme heureux ?

         Une réalité miroitait dans les effets stroboscopiques des édens de néon. Son semblant de crédibilité autorisait le capitalisme à prophétiser une ère nouvelle. « L’état de bien-être » illustrait de façon plausible l’idéologie progressiste d’une classe dominante qui s’enorgueillissait de mener les prolétaires vers un monde meilleur. Désormais, le sacrifice quotidien ne se perdrait plus dans les vaines espérances d’une gloire céleste, que les religions véhiculaient de plus en plus péniblement. L’enfer du travail débouchait sur un paradis terrestre, livré clé sur porte.

         Les conditions historiques, économiques, sociales, politiques, psychologiques étaient propices à un obscurantisme invoquant le salut commun et prônant l’instauration citoyenne d’un bonheur à hauteur de toutes les bourses.

         Le « Welfare state » était indéniablement un slogan plus convaincant que « Arbeit macht frei ». On aurait pu conjecturer qu’il suscitât une adhésion massive. Or, ce qui se diffusa dans l’air du temps fut, en dépit de la propagande médiatique, un frémissement de répulsion, une réaction de dégoût, un écœurement nauséeux. Il y eut - sans qu’il s’exprimât à haute voix – un rejet spontané de ce qui était pressenti comme une gigantesque escroquerie dont la vie ferait les frais.

         Ce fut une époque où se manifesta, tel un malaise épidémique, la déchirure entre le trouble passionnel de l’existence et l’intelligence intellectuelle qui en rendait compte. Henri Lefebvre avait attiré l’attention sur la vie quotidienne, qui revêtait les aspects d’un objet d’autant moins connu qu’il était familier. A l’intelligence sensible du corps empreint de désirs, Antonin Artaud opposait la fonctionnalité de l’Esprit, dont la froide rationalité s’employait en vain à gérer l’instinct de vie. On eût dit que, rechignant au bonheur morose qui gangrenait la chair et la pensée, une inspiration rebelle issue de la Renaissance et des Lumières s’ébrouait de son silence et, de ses coups de semonce, houspillait furieusement le siècle.

         Ce sont les lueurs de la conscience vécue qui, dès les années 1960, alarmèrent sur l’incompatibilité entre notre désir d’exister et les représentations fictives qui nous étaient imposées sous le sceau de la réalité objective.

         Bien que boycottées de toutes parts et maintenues sous le boisseau, les idées radicales d’une poignées de penseurs s’échinant tant bien que mal à n’être pas des têtes pensantes, explosèrent littéralement dans un grand mouvement subversif qui souleva Paris et la France pendant près de deux mois. Il ne s’éteignit qu’en jurant de se réitérer. Depuis les flamboiements de la Révolution française, de la Commune de Paris, des soviets russes de 1905 et de 1917, des collectivités libertaires espagnoles de 1936, il n’y eut, en dehors du Mouvement des Occupations et de l’intrusion zapatiste au Chiapas, qu’une longue lassitude subversive, ponctuée de tumultes sans grandes conséquences.

         La naissance du Joli Mai fut marquée par une radicalité qui allait s’ancrer dans l’histoire et creuser pendant une cinquantaine d’années une sape progressive des valeurs marchandes qui, depuis des siècles, déshumanisent les mentalités et les mœurs.

         Vers 1960, la colonisation consumériste dont les premières vagues allaient déferler mit en lumière l’urgence d’opposer à l’impérialisme marchand un projet de société où l’humain l’emporterait sur le profit. Ce projet existait mais les mains qui le portaient dégoulinaient du sang des prolétaires massacrés au nom du prolétariat. Les makhnovistes écrasés par Lénine, les marins de Cronstadt fusillés par Trotski illustraient – sans patauger plus avant dans les abattoirs de Staline et de Mao – la vocation émancipatrice du prétendu communisme. Lorsque le tsunami mercantile eut raison du mouvement de Mai 1968, ce fut avec la complicité des palotins politiques et syndicaux dont les résidus tentent aujourd’hui d’exorciser leur peur des Gilets jaunes et du refus des chefs.

         Le projet de société humaine avait moins besoin d’un nom que d’une réalité expérimentale. Les collectivités libertaires de la révolution espagnole eurent le temps de démontrer, avant d’être écrasés par les staliniens, que vivre selon ses désirs dans une société qui s’emploie à les harmoniser, est parfaitement possible. Auto-organisation, acratie, pouvoir du peuple pour et par le peuple, juntes de bon gouvernement, zones d’autodéfense du vivant, risquent de n’être que des appellations de perchoirs intellectuels si elles n’émanent pas de cette priorité absolue qu’est le retour à la vie.

         Tous les modes de gestion de l’homme et de la femme ont, sans exception aucune, instauré la prééminence de l’inhumain. L’autogestion de la vie quotidienne est le seul choix qui nous reste.

         Après la défaite du Mouvement des Occupations de Mai 1968 – et pendant un demi-siècle – , la machine à décerveler publicitaire se mit au service du politique et travailla sans relâche à l’avilissement des consciences.

         Cependant, l’intelligence sensible ne dort que d’un œil. On s’en avise au déclin d’un consumérisme qui, érodé par la paupérisation croissante, éteint aujourd’hui ses néons. Le tocsin des pillages retentit non loin des paradis consommables. On voit ainsi resurgir de sa semi-clandestinité une critique radicale qui, dès l’amorce des années 1960, avait attaqué à la hache le projet eschatologique d’une félicité concoctée par le libre-échange.

         Faut-il le rappeler ? Le libre-échange est la pratique économique à laquelle on doit l’essor de la marchandise, la fin de l’Ancien Régime et la disparition de l’immobilisme agraire, la liberté du commerce et le commerce de la liberté, qui sert si bien d’enseigne à la boutique des démocraties totalitaires.

         L’ironie de l’histoire a voulu que la liberté de l’homme et des idées s’autorisât de la libre circulation des marchandises pour susciter un mouvement d’émancipation humaine, résolu de combattre les despotismes, à commencer par celui qu’avait érigé ce même libre-échange qui avait, en 1793, décapité l’absolutisme de droit divin.

         Au nombre des acquis de Mai 1968, il faut compter le mépris et le refus du travail. Le célèbre slogan « Ne travaillez jamais ! » n’eût été qu’un glaviot à ses thuriféraires s’il ne nous remémorait que ce qui constitue par excellence le propre de l’être humain, c’est la création, la faculté de se construire en reconstruisant le monde. Un des pires crimes de la civilisation marchande est d’avoir dénaturé la création en la réduisant à cette transformation de l’être en objet, que l’on appelle travail.

         Le travail est une activité parasitaire. Ah la belle hypocrisie que le mépris du labeur chez les aristocrates du passé. Sous un hédonisme de bravache, ils n’avaient de cesse de travailler à faire travailler les autres. Les bourgeois, eux, ne s’en cachaient pas. Ils en étaient fiers. Parfois, dans le dynamisme industriel, ils laissaient la créativité cligner d’un œil et leur fourbir l’une ou l’autre innovation utile au profit et accessoirement à l’humanité. Avec la paupérisation et le déclin du secteur de la consommation, ils ont dû se rabattre sur un productivisme qu’ils avaient délaissé pour plonger directement la main dans la poche des flâneurs de supermarchés. Les exigences budgétivores du profit privilégient, aux dépens de tout bénéfice social, de grands travaux inutiles trains à grande vitesse, autoroutes, complexes hôteliers et touristiques, 5G, capture des eaux, abattage des forêts. Mettre fin au capitalisme, c’est en finir avec le travail.

         Le refus du travail entraîne entre autres conséquences l’abolition de ce sacrifice originel qui exige de prélever, jour après jour, une livre de chair vive pour la transformer en force de production. Érigés par toutes les religions sans exception, les autels où le sang de la mutilation existentielle obligatoire coulait à flot ont généralisé et ritualisé la culpabilité. Car où règne l’exploitation de l’homme par l’homme, on ne satisfait jamais assez aux normes, on ne travaille, on ne s’échange, on ne s’économise jamais assez. La peur et la culpabilité ne nous lâchent pas d’un pouce. Ses gendarmes infestent nos labyrinthes existentiels.

         De cette existence-là, nous ne voulons plus. Nous voulons vivre et non survivre, tel est le cri dont le Mouvement des Occupations s’est fait le porte-voix.

         L’ironie de l’histoire a plus d’un tour dans son sac. Alors que le renoncement, l’auto flagellation, le puritanisme étaient inhérents à la nécessité de produire, l’importance croissante du secteur de la consommation se mit – par pure cupidité – à valoriser les plaisirs, à célébrer l’hédonisme, à céder à la tentation d’assouvir ses envies en échange d’un peu de monnaie. Si frelatée que fût la démocratie de supermarché, c’était une démocratie de proximité, on y choisissait librement de quoi se satisfaire dans ce luxe d’abondance, que hantait, en nos profondeurs ancestrales, le mythe de l’Age d’Or.

         Nous avons sous-estimé ce qu’il y avait de chiliastique dans le génie du capitalisme. Or, ce génie, c’est le capitalisme lui-même qui nous remontre aujourd’hui qu’il est de pacotille, comme les libertés qu’il faut payer pour franchir une caisse enregistreuse hérissée de matraques.

         On invoquait la ruée vers l’or et voilà que les filons sont taris, sinon pour les gestionnaires des profits ultimes, du moins pour les démocrates de supermarché.

         Impossible de faire marche arrière. Le pouvoir s’est pris à sa propre nasse. Le mensonge s’est si bien rapproché des flammes de la vie qu’elles le consument. Le refus de toute autorité, de tout Pouvoir, laïc ou religieux, que préconisait le courant libertaire avait pu paraître outrecuidant ou excessif. Que dire de la désinvolture pour le moins dissolvante avec laquelle les rayonnages des grandes aires de distribution laissent s’avoisiner la Bible et le godemiché en n’établissant entre eux d’autre différence que leur prix ? On conviendra que la démarche ne joue pas en faveur de la sainteté ni du caractère respectable du contenu sous emballage. En se sacralisant, la marchandise a tout désacralisé. On s’en réjouirait si, dans la même volée, elle n’emportait pas vers le néant la barbarie et la résistance à la barbarie.

         Le profit qui ne produit rien d’autre que lui-même propage un nihilisme qui arase pareillement les valeurs humaines et les instruments qui les déshumanisent.

         La seule évidence à laquelle nous sommes confrontés, c’est l’incompatibilité de la conscience du vivant avec un système qui la détruit.

         Il n’y a pas de dialogue avec l’État. Il n’est plus que le déchaînement oppressif de sa propre nullité. Qu’on ne nous accuse pas de vouloir l’abattre, il s’abat de lui-même. Tout simplement, nous ne voulons pas qu’il s’abatte sur nous.

         L’autogestion hante le monde.

         Elle est née d’un rappel à la vie, qui sort de son cauchemar une existence réduite à survivre en travaillant à s’appauvrir.

         Nous ne sommes pas nés pour assumer un destin de bêtes de sommes, ni pour masquer sous des rôles de prestige, de plus en plus pitoyables, l’insupportable médiocrité d’un monde où l’entraide est sacrifiée à la prédation, l’effusion amoureuse à la haine, l’être à l’avoir, la femme, l’homme et l’enfant à la marchandise.

         La jungle est le modèle social de la civilisation marchande. Maintenant que la chose est patente et qu’il se publie partout que le capitalisme nuit gravement à la santé, quand allons-nous jeter les bases d’une société humaine ? La question est captieuse, car la réponse est présente partout où le refus des nuisances prélude à la création des zones d’autodéfense du vivant. Redécouvrant leur fertilité spontanée, notre corps et notre terre sont la base d’une civilisation radicalement nouvelle. Le génie d’êtres humains passionnés par l’invention du vivant me paraît plus important que les rituels d’exorcismes censés accabler une civilisation de mort, aujourd’hui moribonde.

         L’autogestion émane davantage de la sensibilité vitale que de la rationalité intellectuelle qui prétend la gérer. Il est important que son expression poétique l’emporte sur un langage séparé du vécu. Un mot d’ordre est toujours aux ordres d’un maître.

         L’autogestion relève de l’autodéfense immunitaire. Elle n’a besoin pour se développer que de la conscience humaine qui donne son sens à la nature. Elle est à la bifurcation de deux chemins, l’un où l’humanité joue son devenir, l’autre où elle s’anéantit.

         Il est bon de ne pas l’oublier : la vie à laquelle on renonce a tôt fait de s’inverser. Le chant de la terre et du vivant s’abîme en une célébration funèbre. La haine se repaît de l’énergie éperdue dont l’amour s’est départi. La menace s’intensifie chaque fois que la prédation l’emporte sur l’entraide.

         Le danger résulte d’une structure caractérielle qui, en entravant l’instinct de vie en chacun de nous, propage une peste émotionnelle dévastatrice. Celle-ci sévit de l’extrême droite à l’extrême gauche. On l’a vue à l’œuvre sur l’échiquier où le principe du « diviser pour régner, » inhérent à tout Pouvoir, incitait les citoyens à s’écharper pour une « affaire » de vaccins.

         Les esclaves qui se combattent les uns les autres sont la bénédiction des maîtres. Dans la guerre picrocholine des inoculations contre le coronavirus, les monopoles pharmaceutiques s’empressèrent de ramasser la mise et de rétribuer leurs complices.

         Le vivant tend à l’unité. Sa conscience met fin à la séparation que la division du travail en fonction intellectuelle et fonction manuelle a propagée partout. L’entraide autogestionnaire implique le dépassement des contraires.

         La fin des séparations artificielles qui nous disloquent abolit les hiérarchies. La joie de vivre est acratique, elle annule toute forme de Pouvoir. Elle s’apprête à balayer monarchies, autocraties, aristocraties, démocraties, ploutocraties, et tutti quanti. Le rire est une arme non létale. Ses éclats frappent quiconque s’autorise à manipuler les autres, à donner des ordres et à en recevoir. C’en est assez de l’individualiste et de ses calculs égoïstes.

         La vraie distance est celle de la conscience qui humanise la vie. Elle vient du bas, elle abolit l’abstraction, qui nous arrache à nos pulsions vitales.

         Vu du haut, tout est faux. Pour le ciel bureaucratique réglé par les chiffres, les programmes, les statistiques, il n’y a ni hommes, ni femmes, ni enfants, ni bêtes, ni plantes, il n’y a que des objets.

         Comment nous défaire de ce mode de gestion, où les morts comptabilisent les vivants, si nous ne déléguons pas à notre propre vie le soin de prendre en charge les problèmes que les instances nationales et supranationales régissent sans nous consulter ?

         Nombre de résolutions perdent toute pertinence une fois prises en haut lieu, alors que, traitées à la base, elles ont l’avantage du terrain, du vécu et de sa conscience.

         Par quelle aberration les écologistes vont-ils quémander la fin de la destruction des espèces à ceux-là mêmes qui en sont cause ? N’est-ce pas sous nos fenêtres et au bord des champs environnants que commence l’empoisonnement de notre nourriture ? Les habitants des régions polluées ne devraient-ils pas être habilités à protéger leur santé en renaturant les terres et en excluant les pesticides dont débattent savamment les Commissions médicales et gouvernementales stipendiées par les monopoles pharmaceutiques ? Tant de projets sont devant nous et nous gardons les mains vides.

         Écoles, transports publics, agriculture, maraîchage local, banques alimentaires, maisons de santé, organisation de l’abondance et de la gratuité sont de notre ressort.

         Pourquoi la puissance de l’entraide qui se manifeste avec tant d’efficacité en cas de catastrophe naturelle, inondation, tremblement de terre n’agirait-elle pas alors que s’abat sur nous une des pires catastrophes antinaturelles de notre histoire : l’effondrement d’un système économique programmé pour nous entraîner dans sa chute.

         Lâcheté n’est pas le mot. Disons que nous manquons d’audace. La civilisation de la mesquinerie nous a tordus et essorés comme des serpillières. Nous avons résigné la vie pour le profit, nous nous sommes dessaisis de notre créativité pour la livrer à des Dieux fantasmatiques, nous sommes les détenteurs d’une générosité sans égale et nous avons l’infamie de régler les flux migratoires en noyant des enfants, des hommes, des femmes.

         Nous avons toujours accordé la priorité à la mort. Mais la mort est devenue si lasse, si ennuyeuse que la vie s’éveille et ne s’embarrasse plus de sa présence.

         En soi, l’immigration ne pose pas plus de problème que le nomadisme. En revanche, la façon dont elle est perçue, ressentie, vécue par les populations sédentaires réclame une prise en charge que sont bien incapables d’assumer les prêches caritatifs et les onctions bienveillantes de la bonne volonté humanitaire.

         Deux approches se présentent. Elles sont antagonistes. Le Pouvoir identifie l’immigration à une invasion. Il lui prête une connotation barbare qui requiert une réaction militaire, un contrôle policier, bureaucratique, judiciaire. Assumant, comme par temps de guerre, leur fonction de propagande, les torche-culs médiatiques imputent aux exilés crimes, agressions, vols, pillages, dus à la paupérisation croissante. Le trop plein de frustration et de ressentiment se déverse non sur les exploiteurs qui en sont cause mais sur les cibles d’un racisme d’autant plus répugnant qu’il se revendique de la liberté démocratique. Au moins nous rappelle-t-on que là où la jungle du « chacun pour soi » tient lieu de société, il n’y a d’autres libertés autorisées que celles de la prédation.

         Tandis que la peste émotionnelle et les simulations de guerre civile offrent un dernier sursis à un Pouvoir fissuré de toutes parts, le pressentiment d’une perspective de mort s’inversant en perspective de vie accroît l’opposition à la politique criminelle qui  réduit les migrants à des objets. Le sens humain se révolte contre la papelardise apeurée du propos : « on ne peut pas accueillir toute la misère du monde. » Foutaise aussi que le « devoir d’intégration. » S’intégrer à quoi ? A un monde de corruption, de délation, d’escroquerie, de crétinisation, de rapacité, d’ennui, de bassesse ? A votre monde ?

         Oui, nous sommes en mesure d’accueillir celles et ceux qui fuient leur pays dévasté par la guerre et la misère. Nous disposons d’espaces assez vastes pour loger un grand nombre de personnes. La question de pourvoir à leurs besoins fait partie de l’exigence, où nous nous trouvons nous-mêmes, de récupérer, pour faire face aux disettes à venir, les ressources naturelles dont nous sommes spoliés par la rapacité d’entreprises étatiques et mafieuses.

         Il est temps d’ouvrir au grand large ce monde qui pue la peur et l’enfermement. Nous disposons de territoires et de bâtiments parasitairesaccueillir en grand nombre de petites collectivités. Pourquoi petites ? Parce que l’on observe depuis longtemps le phénomène suivant : plus la quantité d’habitants augmente, plus la promiscuité engendre des conflits, plus la qualité des relations humaines risque de se corrompre, de stagner, de pourrir, de s’autodétruire. Si l’on apprend moins à se connaître, la méfiance s’installe, l’entraide cède la place à un repli communautariste. La solidarité se referme, elle coagule et se nie en formant un conglomérat d’individualistes que la terreur ensauvage.

         Hors de son implantation économique et historique, le fascisme est une étiquette de boutique politique. Le vrai péril est la peste émotionnelle dont l’exploitation de l’homme par l’homme entretient le bouillon de culture. 

         Il ne faut pas se dissimuler hypocritement les heurts que pourraient provoquer les préjugés sexistes et homophobes qu’une éducation patriarcale a pu nourrir chez certains exilés.

         Quelle meilleure option en l’occurrence que de confier à l’exclusive initiative des femmes le soin d’organiser l’accueil, l’installation et les premières rencontres ? On peut raisonnablement conjecturer que la misogynie s’éteindra sans sortir du chapeau des convenances l’arrogante objurgation de s’intégrer.

         N’est-ce pas le moment de donner sa puissance poétique à la formule « Abondance de la terre, ton nom est femme» ?

         Le progrès de l’avoir a entravé le progrès de l’être. L’anéantissement du système marchand travaille maintenant à rendre sa primauté à l’être. Ce faisant et malgré qu’il en ait, le profit prédateur en faillite restitue à l’entraide sa puissance fusionnelle.

         L’entraide a la même envergure que sa pulsion antagoniste, la prédation. L’ampleur qu’elle a déployée en Mai 1968, chez les zapatistes et dans les périls du Rojava, a reparu avec le soulèvement festif des Gilets jaunes. Sans elle, ceux-ci n’auraient ni persisté dans leur opiniâtreté ni semé partout les germes de cette insurrection de la vie quotidienne dont la conscience s’affine à mesure que les traditionnelles revendications de survie révèlent leur insuffisance.

         A l’égal de la prédation, l’entraide est issue de la filière animale qui participe de la genèse de l’homme. Elle est la force de vie qui donne son essor à notre humanisation. Elle a marqué notre évolution de sa période archaïque à la Révolution agraire, qui, vers dix mille ans avant l’ère dite chrétienne, inaugure la civilisation marchande et accorde une prééminence presque absolue au réflexe prédateur que nous a légué un passé d’agressivité bestiale.

         La civilisation marchande a fait régresser à la violence de la bête fauve l’entraide fusionnelle sans laquelle la femme et l’homme n’auraient jamais atteint à l’affinement de Lascaux et de l’art rupestre.

         Nous commençons à peine à comprendre que nous sommes au centre d’une mutation de civilisation. Ou plus exactement dans un processus de transmutation où la déliquescence mortifère du vieux monde donne naissance à un monde nouveau. Ce qui renaît en nous et dans la nature, c’est le grand souffle de la liberté solidaire que le système marchand a toujours tenté de raréfier et d’étouffer. Si, sans renoncer à sa fureur, il échoue aujourd’hui à resserrer sa redoutable prise c’est qu’il étouffe lui même dans la tornade de l’argent fou qu’il a provoquée. Le productivisme de l’inutile l’éviscère et le momifie.

         A notre tour maintenant de manifester, à l’encontre de la folie délétère de l’argent, une vie follement débridée retrouvant à sa racine la nature nourricière. Depuis l’apparition des Gilets jaunes, le peuple français a effectué en 2023 un bond qui laisse pantois les bons esprits de la désespérance, si farauds, trois mois plus tôt, de taxer d’optimistes et d’utopistes béats celles et ceux qui conjecturaient un bouleversement radical.

         Nous ne souhaitons rien de plus que cultiver notre jardin. Ce jardin est la terre.

Raoul Vaneigem, 21 avril 2023