giovedì 12 giugno 2025

Tecno lotte - Inchiesta su quanti resistono alla tecnologia

 











« Fuggire, ma mentre si fugge, cercare un’arma ».

G. Deleuze e C. Parnet, Dialogues, Paris, Flammarion 1977.

Una rottura antropologica

Lo smartphone non è solo uno strumento; è un "fenomeno sociale totale" (concetto coniato a suo tempo da Marcel Mauss) che trasforma la società nel suo complesso senza lasciare nulla indietro. Non è un oggetto con cui possiamo fare ciò che vogliamo; non è "neutrale", come c’è costantemente detto. Lo smartphone, e più in generale la tecnologia digitale, trasmette un'ideologia e condiziona le nostre vite.

La tecnologia digitale sta trasformando il nostro modo di vivere e interagire con il mondo, secondo una logica di ottimizzazione e di costante ricerca di efficienza (Vedi J. Ellul, La tecnologia o la sfida del secolo).

"Nulla scredita oggi più rapidamente un essere umano che essere sospettato di criticare le macchine." (Vedi G. Anders, L'obsolescenza dell'uomo).

Stiamo entrando in una nuova era tecno critica.

Pensavamo che Internet avrebbe salvato la democrazia; ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di democrazia per salvare Internet. La parola è confiscata, il dibattito pubblico è più polarizzato e oltraggioso che mai. La libertà, pietra angolare del progetto dei pionieri di Internet, si è rivelata alienazione ed espropriazione.

Molte persone che stanno raggiungendo il punto di saturazione, sviluppano un discorso critico e guidano delle lotte concrete, delle tecno-lotte (concetto di Hubert Guillaud, "Dalla tecno critica alle tecno-lotte") per opporsi alla crescente digitalizzazione della società.

La tecnologizzazione del mondo sta riconfigurando il nostro modo di costruire la società. Sta influenzando il futuro dell'umanità. È una questione eminentemente politica, la sfida principale del nostro tempo. Alcuni hanno deciso di prenderla in conto e non lasciarla più nelle mani di pochi, governi e industriali.

 

Estratto dall'introduzione a Techno-luttes, Fabien Benoit e Nicolas Celnik, Seuil & Reporterre, Parigi 2022




TECHNOLUTTES

Enquête sur ceux qui résistent à la technologie

 « Fuir mais en fuyant, chercher une arme ».

G. Deleuze et C. Parnet, Dialogues, Paris, Flammarion 1977.

Une rupture anthropologique

Le smartphone n’est pas un simple outil, il est un « fait social total » (concept de Marcel Mauss) qui transforme l’ensemble de la société et ne laisse rien de côté. Il n’est pas cet objet dont nous ferions ce que nous voulons, il n’est pas « neutre » comme on ne cesse de nous le répéter. Le smartphone et plus largement le numérique, véhicule une idéologie et conditionne nos existences.

Le numérique transforme la façon dont nous vivons et interagissons avec le monde dans une logique d’optimisation et de quête permanente d’efficacité (Voir J. Ellul, La Technique ou l’enjeu du siècle).

« Rien ne discrédite aujourd’hui plus promptement un homme que d’être soupçonné de critiquer les machines ». G. Anders, L’obsolescence de l’homme.

Nous entrons dans une nouvel age technocritique.

Nous pensions qu’Internet allait sauver la démocratie, nous nous apercevons que nous avons besoin de démocratie pour sauver Internet. La parole est confisquée, le débat public plus que jamais polarisé et outrancier. La liberté, pierre angulaire du projet des pionniers d’Internet, s’est révélée aliénation et dépossession.

Nombreux sont celles et ceux qui arrivent aujourd’hui à saturation, portent un discours critique et mènent des luttes concrètes, des techno-luttes (concept de Hubert Guillaud, De la technocritique aux technoluttes) pour s’opposer à la numérisation croissante de la société.

La technologisation du monde reconfigure notre manière de faire société. Elle engage l’avenir de l’humanité. Elle est une question éminemment politique, l’enjeu majeur de notre temps. Certains ont décidé de s’en saisir et de ne plus la laisser aux mains de quelques-uns, gouvernements et industriels.

Extrait de l’introduction à Techno-luttes, Fabien Benoit et Nicolas Celnik, Seuil & Reporterre, Paris 2022.


domenica 8 giugno 2025

L’anarchismo oggi Il pensiero libertario e la partecipazione popolare nel ventunesimo secolo - Miguel Amorós

 



“Non c’è anarchismo più autentico

di quello capace di dirigere verso di sé

il più implacabile degli sguardi critici”.

Tomás Ibáñez

Oggi, con un apparato statale ipersviluppato, soprattutto sul piano militare, infeudato a un mercato onnipresente, e in assenza di forze sociali che lo contestino, la parola "rivoluzione" è scomparsa dal vocabolario degli oppressi e degli sfruttati. Da nessuna parte assistiamo a una massiccia convergenza d’insoddisfazioni di ogni genere che rendano inevitabili i grandi sconvolgimenti sociali. Nessuno avverte l'avvicinarsi di grandi cambiamenti, e rari son quelli che li desiderano. Al contrario, i più li temono. In queste condizioni, il rifiuto del principio di autorità – fondamentale per i libertari – si scontra con l'insormontabile muro della rassegnazione e della paura, flagelli ideali per uno sviluppo infinito dello Stato. Il pensiero antiautoritario, incapace di convergere verso una qualunque rivolta degna di questo nome, si rinchiude nella propaganda, mentre l'azione, rara e slegata da una riflessione veramente sovversiva, manca dell'«audacia dell'idea» (come direbbe Kropotkin) e, dopo i primi momenti di euforia esistenziale, seguirà dei percorsi che la contraddiranno fino alla sua scomparsa.

Da un lato, la lunga paralisi del movimento operaio ha ridotto al minimo le organizzazioni anarco-sindacaliste attorno alle quali ruotava il movimento libertario. L'istituzionalizzazione burocratica delle negoziazioni sindacali ha reso molto difficile l'azione diretta di lavoratori sempre meno combattivi. Da un altro lato, la disintegrazione delle idee della modernità – universalità, ragione, progresso – ha precipitato l'anarchismo odierno – quello che nasce dall'occupazione delle piazze, dalla musica punk e dall'altermondialismo giovanile – nel presentismo, nell'intersezionalità, nell'identitarismo e nell'oblio. A coronamento di tutto ciò, la presenza maggioritaria alla superficie dei conflitti di membri delle classi medie salariate, notoriamente identificate con lo Stato, con i metodi autoritari e con le leggi borghesi, ha trascinato ogni movimento di protesta nella fluidità relativistica, nella confusione e nel possibilismo[1]. Una volta evaporato il proletariato radicale e consolidata la mentalità mesocratica, anziché minare la supremazia dello Stato e il rispetto per i governi, la protesta sociale tende ad autolimitarsi nelle proprie rivendicazioni e a confinarsi al livello locale, senza, di fatto, mettere in discussione la legittimità delle istituzioni né mettere seriamente in discussione il gioco politico del dominio. Con il pretesto di ottenere risultati immediati o di ripudiare la violenza, si evita l'impegno, la causa rivoluzionaria è rallentata e spostata verso un orizzonte lontano irraggiungibile.

Molti cambiamenti regressivi hanno avuto luogo nella società sotto il capitalismo, e non solo nel movimento sindacale: la divisione del lavoro, la socialità popolare, il legame generazionale, la diffusione delle psicopatologie, la burocratizzazione, ecc. Il sistema dominante si è sofisticato e rafforzato nella misura in cui, grazie all'informatica e all’indebitamento, il suo potere è aumentato e la sua portata si è ampliata. Di conseguenza, lo schema bipolare borghesia/proletariato non spiega più nulla, perché è da tempo fuori dalla realtà. La rivoluzione risultante da un tale scontro di classe è ormai impossibile. Non esiste nemmeno un progetto rivoluzionario credibile basato su questa presunta rivalità. La generalizzazione del lavoro salariato, dei servizi pubblici, l'atomizzazione, il consumismo, la sorveglianza digitale e, ripetiamolo, l'influenza politico-ideologica delle classi medie sono tutti fattori che hanno alterato sostanzialmente la natura delle classi e i loro rapporti di forza, acuendo al contempo gli antagonismi e disarmando le coscienze. I meccanismi di addomesticamento e sottomissione sono sempre più efficaci e i mezzi di controllo sociale dello Stato sempre più potenti. Il peso schiacciante del presente, principale fonte di conformismo, e il conseguente disprezzo per la memoria, hanno diluito la fiducia nel futuro, poi nell'utopia, dove si concentravano le speranze di trasformazione rivoluzionaria.

La questione sociale, che nella società del conflitto di classi si rifletteva unitariamente nell'obiettivo dell'emancipazione proletaria, oggi, senza un soggetto storico che la porti avanti, senza una comunità operaia che la incarni, senza un progetto di società per sostenerla, si disperde in una pluralità d’istanze eterogenee e separate tra loro, ciascuna circoscritta nei propri "movimenti sociali": femminista, gay, ecologista, antimilitarista, squatter, militante antisviluppo, pro-casa, vegano, ecc. Dove c'era una classe, ora ci sono diversi collettivi interclassisti, ognuno con i suoi obiettivi specifici e la sua dinamica peculiare, incapaci di costituirsi in un soggetto universale, poiché ognuno di essi non riuscirà mai a fondere tutte le loro particolarità, comprese le proprie, in una sola. Del resto non fingono nemmeno di provarci. Ciò che li caratterizza tutti è la timidezza nell'azione e l'ambiguità dei loro obiettivi, il che ben corrisponde alla volontà isolazionista, all'attivismo virtuale e al rifugio nel presente. In questo contesto, i gesti senza conseguenze, le tattiche riformiste e la tendenza ad accomodarsi delle istituzioni prendono il sopravvento sulle alternative reali di cambiamento e sul desiderio di auto-organizzazione per realizzarle. Dove mancano i riferimenti e prevalgono le misure legaliste, dove l'azione si confonde con lo spettacolo e il dibattito rimane intrappolato nei social network, la partecipazione autentica è ridotta a niente: in un simile scenario, la democrazia diretta non è praticabile. E senza di essa, non c'è rivoluzione.

Molti autori prossimi sono molto validi – ad esempio Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem – ma non esiste un ragionamento speculativo, economico o scientifico che spieghi in modo convincente il momento presente nella sua interezza, e ancor meno che offra una base teorica completa con cui orientarsi nella pratica. L'epoca attuale non è favorevole alla libera discussione collettiva, e neppure alla discussione in generale. L'ordine costituito tiene le masse occupate ad altre cose. Il pensiero delle masse rimane quindi dormiente. Per magra compensazione, sono anche addormentate le ideologie progressiste e le ortodossie del passato, siano esse di tendenza operaista o meno, perché sono superate, fuori gioco, cosi come il concetto ottocentesco di proletariato. Invece, purtroppo, i tempi si prestano molto bene a formule salvifiche come la decrescita, la fuga verso la campagna, l'"assalto" alle istituzioni, il New Green Deal o l'economia circolare. Sono anche propizi ai fondamentalismi redentori, ai patriottismi campanilistici e ai catastrofismi apocalittici spesso utilizzati dal dominio. Ecco perché il pensiero libertario contemporaneo, se vuole essere utile, deve innanzitutto combattere tutti i discorsi irrazionali, astenersi dall'inventare un nuovo credo postmoderno e ancor meno dal creare un'organizzazione polimorfa per diffonderlo. Deve smascherare le menzogne dell'economia e correggere i torti della storia. Deve smascherare la predicazione demagogica del potere. Deve smascherare le illusioni dell'ideologia e dimostrare la perniciosa inutilità dello Stato. Con questi obiettivi in mente, deve partire dall’esistente in modo critico e penetrarvi, promuovendo in maniera generale le evoluzioni di rottura che portano a una società senza padroni: il processo di deindustrializzazione, de mercificazione, de urbanizzazione, smilitarizzazione, decentralizzazione e de statalizzazione.

Certamente, i fautori del libero accordo, dell'autogestione, dell'equilibrio con la natura e di forme di vita collettive o comunitarie sono ben lungi dall'opporsi alle forze del dominio con una forza di portata superiore. Ma è anche vero che si combattono piccole battaglie nei settori più diversi, che devono necessariamente convergere le une verso le altre perché trovano la loro origine nelle contraddizioni del sistema stesso: negli ambiti degli affitti, degli sfratti, del lavoro, delle pensioni, del patriarcato, della sessualità, dell’alimentazione, dell'assistenza medica, dell'immigrazione, delle carceri, delle infrastrutture industriali e stradali, dei media, della difesa territoriale e così via. Quando le lotte raggiungeranno un certo livello, quando travalicheranno l'ordine pubblico, sarà liberata un’energia sufficiente per aumentare la capacità popolare di auto-organizzazione, solidarietà e unità, creando le condizioni per l'emergere di strutture comunitarie – orizzontali, assembleari e federative – e la formazione di istituzioni autonome, esterne allo Stato, in grado di resistere alle manovre di partito e alle manipolazioni esterne.

Un clima di guerra civile favorisce il risveglio delle iniziative popolari e lo sviluppo intellettuale e morale degli oppressi. La distruzione, come direbbe Bakunin, diventa una forza creatrice. Tuttavia, in un contesto di potere quasi assoluto della classe dominante, l'azione costruttiva provoca più crepe nell'immobilismo imposto dal suo dominio rispetto all'azione distruttiva, molto meno praticabile. Ciononostante, la negazione segue da vicino l'affermazione. Più che tattiche interne, violente o pacifiche, si tratta di strategie di segregazione e demolizione. Se l'uguaglianza di partecipazione si deve ricercare nella pratica, piuttosto che del pragmatismo sotto l'egida di un leader, è questione di dibattito e rotazione dei compiti. Più che di organizzazione, è questione di tessuto sociale, di spazi vitali in cui le relazioni sociali a tutti i livelli possono essere ripensate; o piuttosto, di una contro-società ribelle, con le sue abitudini cooperative e difensive ai margini dell'establishment. E chi dice contro-società, dice controcultura, alla cui concezione e sviluppo lo spirito libertario – a patto che si liberi della zavorra di modalità ideologiche fallaci e di cliché di moda – ha molto da dare.

 

Miguel Amorós

pubblicato sul sito Kaosenlared, 9 febbraio 2025 

Gli amici di Bartleby, giugno 2025 lesamisdebartleby.wordpress.com



[1] In spagnolo, posibilismo: orientamento politico che si oppone al radicalismo, al fondamentalismo o all'estremismo optando per la negoziazione e il compromesso con gli avversari politici. Possibilismo: filosofia del possibile che consiste nell'aprire migliaia di strade senza percorrerne nessuna fino in fondo.














Miguel Amorós

L’anarchisme aujourd’hui

La pensée libertaire et la participation populaire au XXIe siècle

« Il n’y a pas d’anarchisme plus authentique

que celui capable de diriger vers lui

le plus implacable des regards critiques ».

Tomás Ibáñez

Aujourd’hui, avec un appareil d’État hyper-développé, notamment sur le plan militaire, inféodé à un marché omniprésent, et en l’absence de forces sociales pour le contester, le mot « révolution » a disparu du vocabulaire des opprimés et des exploités. Nulle part on ne voit une convergence massive d’insatisfactions de toutes sortes qui rend inévitables les grands bouleversements sociaux. Personne ne sent l’approche des grands changements, et rares sont ceux qui les souhaitent. Au contraire, la plupart les craignent. Dans ces conditions, le rejet du principe d’autorité – fondamental pour les libertaires – se heurte au mur infranchissable de la résignation et de la peur, fléaux idéaux pour un développement infini de l’État. La pensée antiautoritaire, incapable de converger avec une quelconque révolte digne de ce nom, s’enferme dans la propagande, tandis que l’action, rare et déconnectée d’une réflexion réellement subversive, n’a pas « l’audace de l’idée » (comme dirait Kropotkine) et, après les premiers moments d’euphorie existentielle, suivra des chemins qui la contrediront jusqu’à ce qu’elle s’évanouisse.

D’un côté, la longue paralysie du mouvement ouvrier a réduit au minimum les organisations anarcho-syndicalistes, axe autour duquel tournait le mouvement libertaire. L’institutionnalisation bureaucratique des négociations syndicales a rendu très difficile l’action directe de travailleurs de moins en moins combatifs. D’un autre côté, la désintégration des idées de la modernité – universalité, raison, progrès – a précipité l’anarchisme d’aujourd’hui – celui qui vient de l’occupation des places, de la musique punk et de l’alter mondialisme de la jeunesse – dans le présentisme, l’intersectionnalité, l’identitarisme et l’oubli. Pour couronner le tout, la présence majoritaire à la surface des conflits de membres des classes moyennes salariées, dont il est notoire qu’elles s’identifient à l’État, aux méthodes autoritaires et aux lois bourgeoises, a entraîné tout mouvement de contestation dans la fluidité relativiste, la confusion et le possibilisme[1]. Une fois le prolétariat radical évaporé et la mentalité mésocratique consolidée, au lieu d’ébranler la suprématie de l’État et le respect des gouvernements, la protestation sociale tend à s’autolimiter dans ses revendications et à se confiner au local, sans remettre en cause de facto la légitimité des institutions, ni questionner sérieusement le jeu politique de la domination. Sous prétexte d’obtenir des résultats immédiats ou de répudier la violence, l’engagement est évité, la cause révolutionnaire est ralentie et déplacée vers un horizon lointain inatteignable.

De nombreux changements régressifs ont eu lieu dans la société sous le régime capitaliste, et pas seulement dans le mouvement syndical : la division du travail, la sociabilité populaire, le lien générationnel, la propagation des psychopathologies, la bureaucratisation, etc. Le système dominant s’est sophistiqué et renforcé à mesure que, grâce aux technologies de l’information et à l’endettement, son pouvoir s’est accru et sa portée s’est élargie. En conséquence, le schéma bipolaire bourgeoisie/prolétariat n’explique plus rien, car il est depuis longtemps hors de la réalité. La révolution résultant d’un tel affrontement de classes est désormais impossible. Il n’existe pas non plus de projet révolutionnaire crédible fondé sur cette prétendue rivalité. La généralisation du salariat, des services publics, l’atomisation, la consommation, la surveillance numérique et, répétons-le, l’influence politico-idéologique des classes moyennes sont autant de facteurs qui ont modifié substantiellement la nature des classes et leurs rapports de force, tout en aiguisant les antagonismes et en désarmant les consciences. Les mécanismes de domestication et de soumission sont de plus en plus efficaces et les moyens de contrôle social de l’État de plus en plus puissants. Le poids écrasant du présent, source principale du conformisme, et le mépris de la mémoire qui en découle, ont dilué la confiance dans l’avenir, puis dans l’utopie, où reposaient les espoirs de transformation révolutionnaire.

La question sociale, qui dans la société des classes en confrontation se reflétait de manière unifiée dans l’objectif de l’émancipation prolétarienne, aujourd’hui, sans sujet historique pour la porter, sans communauté ouvrière pour l’incarner, sans projet de société pour la mettre en avant, est dispersée dans une pluralité d’enjeux hétérogènes et séparés les uns des autres, chacun circonscrit dans ses propres « mouvements sociaux » : féministe, gay, écologiste, antimilitariste, squatteur, anti-développement, pro-logement, vegan, etc. Là où il y avait une classe, il y a maintenant différents collectifs interclasses, chacun avec ses objectifs spécifiques et sa dynamique particulière, incapables de se constituer en un sujet universel, puisque chacun d’entre eux ne pourra jamais fusionner ensemble toutes leurs particularités, y compris la sienne, en une seule. Ils ne prétendent d’ailleurs pas même essayer. Ce qui les caractérise tous, c’est la timidité dans l’action et l’ambiguïté de leurs objectifs, ce qui correspond bien à la volonté isolationniste, à l’activisme virtuel et au refuge dans le présent. Dans ce contexte, les gestes sans conséquences, les tactiques réformistes et la tendance à s’accommoder des institutions prennent le dessus sur les alternatives réelles de changement et le désir d’auto-organisation pour les réaliser. Là où les références manquent et où les mesures légalistes prévalent, là où l’action se confond avec le spectacle et où le débat reste prisonnier des réseaux sociaux, la participation authentique est réduite à néant : dans un tel scénario, la démocratie directe n’est pas viable. Et sans elle, il n’y a pas de révolution.

Nombre d’auteurs proches sont très valables – par exemple Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem –, mais il n’y a pas de raisonnement spéculatif, économique ou scientifique, qui explique de manière convaincante le moment présent dans son intégralité, et encore moins qui offre une base théorique complète avec laquelle s’orienter dans la praxis. L’époque actuelle n’est pas propice à la libre discussion collective, ni même à la discussion tout court. L’ordre établi maintient les masses occupées à d’autres choses. La pensée des masses reste donc en sommeil. Piètre compensation, les idéologies progressistes et les orthodoxies passées, qu’elles soient ou non de tendance ouvriériste, le sont aussi, puisqu’elles sont dépassées, hors jeu, tout comme le concept de prolétariat du XIXe siècle. Au lieu de cela, malheureusement, l’époque se prête très bien à des formules salvatrices telles que la décroissance, la fuite à la campagne, « l’assaut » contre les institutions, le nouveau pacte vert ou l’économie circulaire. Elle est également propice aux fondamentalismes rédempteurs, aux patriotismes de clocher et aux catastrophismes apocalyptiques souvent utilisés par la domination. C’est pourquoi la pensée libertaire contemporaine, si elle veut être utile, doit d’abord lutter contre tous les discours irrationnels, s’abstenir d’inventer un nouveau credo postmoderne et encore moins de créer une organisation polymorphe pour le diffuser. Elle doit démêler les mensonges de l’économie et redresser les torts de l’histoire. Elle doit démasquer les prêches démagogiques du pouvoir. Elle doit démasquer les illusions de l’idéologie et démontrer l’inutilité pernicieuse de l’État. Avec ces objectifs en tête, elle doit partir de l’existant de manière critique et y pénétrer, en promouvant, de manière générale, les évolutions rupturistes qui conduisent à une société sans maîtres : le processus de désindustrialisation, de démarchandisation, de désurbanisation, de démilitarisation, de décentralisation et de désétatisation.

Certes, les partisans du libre accord, de l’autogestion, de l’équilibre avec la nature et de formes de vie collectives ou communautaires sont loin d’opposer aux forces de domination une force d’une ampleur supérieure. Mais il est vrai aussi que de petites batailles sont menées dans les domaines les plus divers, qui doivent nécessairement converger les unes vers les autres parce qu’elles trouvent leur origine dans les contradictions du système lui-même : dans les domaines des loyers, des expulsions, de l’emploi, des retraites, du patriarcat, de la sexualité, de l’alimentation, des soins médicaux, de l’immigration, des prisons, des infrastructures industrielles et routières, des médias, de la défense du territoire, et ainsi de suite. Lorsque les luttes atteindront un certain niveau, quand elles déborderont l’ordre public, une énergie suffisante sera libérée pour accroître la capacité populaire d’auto-organisation, de solidarité et d’unité, créant les conditions pour l’émergence de structures communautaires – horizontales, basées sur des assemblées et fédératives – et la formation d’institutions autonomes, en dehors de l’État, qui pourront résister aux manœuvres des partis et aux manipulations extérieures.

Un climat de guerre civile favorise l’éveil des initiatives populaires et le développement intellectuel et moral des opprimés. La destruction, comme dirait Bakounine, devient une force créatrice. Mais dans un contexte de pouvoir quasi absolu de la classe dominante, l’action constructive provoque plus de fissures dans l’immobilisme imposé par sa domination que l’action destructive, beaucoup moins praticable. Néanmoins, la négation suit de près l’affirmation. Plutôt que des tactiques de l’intérieur, violentes ou pacifiques, il s’agit de stratégies de ségrégation et de démolition. Si l’égalité de participation doit être recherchée dans la pratique, plutôt que du pragmatisme sous l’égide d’un chef, c’est une question de débat et de rotation des tâches. Plus que d’organisation, il s’agit de tissu social, d’espaces de vie où les relations sociales à tous les niveaux peuvent être repensées; ou plutôt d’une contre-société rebelle, avec ses propres habitudes coopératives et défensives en marge de l’establishment. Et qui dit contre-société dit contre-culture, dans la conception et le développement de laquelle l’esprit libertaire – à condition qu’il se débarrasse du lest des modalités idéologiques ratées et des clichés à la mode – a beaucoup à apporter.

 

    Miguel Amorós,

publié sur le site Kaosenlared, le 9 février 2025. Les Amis de Bartleby, juin 2025 lesamisdebartleby.wordpress.com 



[1] En espagnol, posibilismo: orientation politique qui s’oppose au radicalisme, au fondamentalisme ou à l’extrémisme en optant pour la négociation et le compromis avec les opposants politiques. Possibilisme : philosophie du possible qui consiste à ouvrir un millier de voies sans aller au bout d’aucune.

domenica 1 giugno 2025

Collettivo Terra e Libertà L’occhio del nemico

 





Su Mondeggi Bene Comune

e l’agri-tech “dal basso”


Gran parte del lavoro necessario a imporre lo sviluppo tecnologico che incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone “normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di fare carriera.  La storia si è già occupata ampiamente di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi ha propagandato il computer e la rete come strumenti di emancipazione, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete». Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura. Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway, che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono) sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei food systems possono essere hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta rigenerativa all’estrattivismo dei dati.  Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la piattaforma d’intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.   Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno 2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori, può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA). Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece, giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa. Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla base dell’analisi dei dati meteorologici e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la seconda è che l’agricoltura contadina (agro ecologica e di comunità) abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio di queste due menzogne è un vero capolavoro d’impostura intellettuale che contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia, agricoltura, ecologia.

 Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi. Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia tecnologica.  Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di computer che popolano i data center. Quest’apparato globale inoltre non può esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che sono sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo sociale sempre più avanzate.  Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante. L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche, sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino. In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidata si è affiancato il genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la morte nella Striscia. Alla luce del ruolo -che l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere. Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi dell’intelligenza artificiale con finalità agro ecologiche e sostenere gli usi civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente. Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico, miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi interni. Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0 (estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi d’intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria, elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la tecnologia, la sua definizione va ampliata fino a includere, oltre al dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze, infrastrutture, obiettivi, immaginari) e agisce in una maniera che Neil Postman definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una nuova società. Per fare un esempio, s’immagini di dover spiegare cosa sia l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale. Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo con quest’ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie moderne. La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che, al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni ecologici dislocati nei paesi in cui sono estratte le risorse e prodotti i dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà facile preda di ciarlatani come Giordano. Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e a occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che – riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo, di fatto, nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione ideologica che è regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili. In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di pensare che porta dritti fra le braccia del nemico. Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale: l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo fondamentale: le pa-role ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale e inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria, possano essere orientati di nuovo secondo valori diversi da quelli che effettivamente e materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il nemico perché ormai si guarda il mondo come lui.

Rovereto, aprile 2025, Collettivo Terra e Libertà




[1] https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commonsper-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/.

Stop Micro Primavera 2025 – Rapporto sul campo

 



 

NONOSTANTE GLI INSULTI E LE MINACCE, ABBIAMO INDOSSATO CON ORGOGLIO I NOSTRI COLORI ALLA MANIFESTAZIONE DEI SOSTENITORI DI SOULÈVEMENTS DE LA TERRE

Venerdì 11 aprile 2025, Anti-Tech Resistance.

 

Dal 28 al 30 marzo il collettivo Stop Micro ha organizzato la mobilitazione a Grenoble chiamata De l’eau, pas des puces! contro l’accaparramento delle risorse da parte delle industrie digitali e della “vita connessa”.

Stop Micro è la lotta locale più anti-tecnologica in Francia. Lì, il termine “tecno critico” è normalizzato, la "transizione verde" è schernita e i “tecnocrati” sono fischiati (perché l'accaparramento dell’acqua e l'inquinamento del territorio sono il prezzo necessario a creare le loro armi da guerra). Un contesto ideale per parlare di strategia rivoluzionaria.

Quest'anno, Soulèvements de la Terre ha co-organizzato l'evento contro il "sistema tecnologico". Anti Tech Résistance era quindi presente.

Da venerdì a domenica abbiamo partecipato a conferenze contro l'estrattivismo e il fantasma della rilocalizzazione. Per quarantotto ore, i relatori descrivono l'orrore strutturale del sistema industriale.

La sua logica coloniale è dannosa in tutto il mondo: sfruttamento del cobalto nel Congo, sfruttamento del litio nelle Americhe e nelle Ande, sfruttamento delle terre rare nel Quebec (attivisti da tutto il mondo vengono a raccontare le storie delle loro lotte contro l'industria mineraria).

Il suo mito della transizione ecologica giustifica un “greenwashing” che impacchetta il disastro in corso in un bell’imballaggio verde.

Stiamo ricostruendo collettivamente la catena di fornitura dei chip (parti di elementi elettronici), le loro miniere, i luoghi di stoccaggio, i siti di lavorazione e assemblaggio, ecc. Come per i nostri murales sull'intelligenza artificiale, è facile rendersi conto che la rilocalizzazione è solo un'illusione.

Eppure si avverte un senso di disagio. Intellettuali e organizzatori vengono a parlare con noi, in privato. I Soulèvements li avrebbero forzati. Costretti a invitare degli stranieri (per reclutarli meglio), costretti ad autocensurarsi, costretti a scegliere con cura gli editori, costretti a escludere determinati autori, costretti a rinunciare alla loro radicalità, costretti a votare per rifiltrarci.

Dovremmo fidarci della loro parola? Conosciamo gli effetti della maldicenza.

Noi crediamo solo nelle azioni. E, in effetti, la parola “rivoluzione” non è mai pronunciata. Eppure stiamo parlando di bambini sfruttati, donne violentate, indigeni sradicati, fabbriche da smantellare.

Un'intera conferenza è incentrata su un'azienda: Fairphone. Essa produrrebbe smartphone con mine “responsabili”. Tenterebbe di studiare la tracciabilità delle materie prime e spingerebbe i criminali climatici a creare “un'industria pulita”. Contraddizione con gli altri interventi. Riconosciamo il segno degli adepti di Soulèvements. Sinceri con il pubblico, gli invitati ammettono il loro fallimento: cambiare il sistema dall'interno non ha mai avuto successo. Pagare di più i bambini schiavi non cambierà il loro destino.

Le grandi multinazionali non hanno più bisogno di fare greenwashing: ci pensa la Pecora Digitale! Si pensa a uno scherzo. Tuttavia queste persone fanno sul serio.

Alla conferenza di Soulèvements de la Terre (SDLT) la verità verrà fuori: siamo qui “contro l'estensione di fabbrica del Grésivaudan”. L'estensione. Non la fabbrica. Non la tecnologia. Non un pezzo di un puzzle ecocida; i “lavoratori” perderebbero “il loro salario”.

Noi crediamo solo nelle azioni. E il giorno dopo c'è una manifestazione. Sorpresa, i Soulèvements de la Terre hanno ancora organizzato una votazione, serrata. Dopo la loro campagna idealistica contro Bolloré, i SDLT sembrano decisi a prendere il controllo di una nuova lotta. La tattica è chiara: per rendere invisibili gli Anti-Tech, s’impadroniscono del nostro terreno, si riappropriano del nostro discorso, occupano ogni spazio per smistare all'ingresso e mettere da parte ogni discorso insurrezionale. Fin dalla nostra critica strategica, è questa la loro priorità. È davvero quella della Terra? “Abbiamo votato democraticamente, è vietato per voi distribuire volantini.” Nessun problema, non tiriamo fuori i nostri volantini, ma uno striscione!

La manifestazione ha inizio e noi lo mettiamo in vista: “CONTRO TUTTE LE INDUSTRIE; RESISTENZA ANTITECNOLOGICA».

Non siamo qui per dividere la lotta ma contro l'industria. Mai ostilità orizzontale di fronte a un nemico comune.

Contemporaneamente, a pochi metri di distanza, alcuni anarchici, disgustati dalla loro brutalità, compagni storici di Stop Micro, mettono in mostra: "STOP ALLA VAMPIRIZZAZIONE DELLE LOTTE DA PARTE DEI SOULÈVEMENTS DE LA TERRE”.

Il tono è dato. Si crea lo scisma.

Noi crediamo solo nelle azioni. L'unica differenza pratica rispetto all'anno scorso sono 1.000 manifestanti in più e un sabotaggio da logoramento. Questo è tutto ciò che vale la “composizione” con EELV?

Meno di dieci secondi dopo la nostra prima dichiarazione, sentiamo delle urla. Arrivano. Il nostro corteo è rapidamente circondato. Ci afferrano le braccia. Erano preparati. Orde marxiste sono sulle nostre tracce, ricoprono di diffamazioni i nostri interventi. Dei camion degli organizzatori e dei carri identificati procedono più velocemente per impedire al pubblico di avvicinarsi. Manca poco che ci schiaccino. Un impianto audio ci accompagna per tutto il percorso, con la musica a tutto volume, nella speranza di mascherare le nostre rivendicazioni. Degli organizzatori vengono a minacciarci indirettamente: “Se non togliete lo striscione, non potremo garantire la vostra sicurezza...”. OK, lo manterremo.

Parecchie decine di persone ci fischiano.

Siamo in 6.

Quindi cosa facciamo? Darsi per vinti e abbandonare questa lotta ai Soulèvements perché la trasformino in zona di sconfitta inclusiva? Perché la lotta contro l’industria diventi una lotta per la riappropriazione dell’industria? Una lotta per delle miniere di litio autogestite?

Fuori questione. ATR è la nostra ultima speranza. Se ci lasciamo escludere da questa lotta, saremo esclusi anche dalle altre. Se non ci saremo, chi porterà la voce di un pianeta malato? Quindi, sopra le loro urla, noi cantiamo. Sopra le ingiurie, noi cantiamo. La nostra determinazione è più forte della loro collaborazione. Siamo in sei, ma siamo più numerosi. I nostri cori finiscono per ricoprire il loro odio e ricominciamo con rinnovato vigore.

Discutiamo con manifestanti curiosi, alcuni dei quali scioccati. Riceviamo messaggi di sostegno da diversi collettivi, che sottolineano il nostro coraggio. Loro si nascondono. Noi osiamo.

Nessun compagno si è arreso. Abbiamo tutti resistito insieme, persino ridendo dell'assurdità della situazione, decisi a continuare le nostre azioni. Contro tutte le industrie.

C’eravamo l'anno scorso. Ci risiamo quest'anno. Ci saremo l'anno prossimo.

Per disarmare il sistema tecnologico. Impossibile senza un'organizzazione disciplinata. Perché noi non crediamo nei discorsi. Noi crediamo solo nelle azioni.

SIAMO TUTTI ANTI SMART CITY

 

 


Stop Micro printemps 2025 – Rapport de terrain

MALGRÉ LES INSULTES ET MENACES, NOUS AVONS PORTÉ NOS COULEURS FIÈREMENT À LA MANIF DES SOULÈVEMENTS

vendredi 11 avril 2025, par Anti-Tech Resistance.

 

Du 28 au 30 mars, le collectif Stop Micro organisait à Grenoble la mobilisation De l’eau, pas des puces! Contre l’accaparement des ressources par les industries du numérique et la «vie connectée».

Stop Micro, c’est la lutte locale la plus anti-tech de France. Là-bas, le mot «techno critique» est normalisé, la «transition verte» est moquée et les «technocrates» sont hués (car accaparement de l’eau et pollution des terres sont le prix pour créer leurs armes de guerre). Un contexte idéal pour parler stratégie révolutionnaire.

Cette année, les Soulèvements de la Terre co-organisaient l’événement contre le «système technologique». Anti Tech Résistance était donc présente.

Du vendredi au dimanche, nous avons assisté à des conférences contre l’extractivisme et le fantasme de la relocalisation. Les conférenciers dépeignent pendant 48 heures l’horreur structurelle du système industriel.

Ses logiques coloniales nuisent aux quatre coins du monde: exploitation du cobalt au Congo, exploitation de lithium aux Amériques et dans les Andes, exploitation de terres rares au Québec (des militants du monde entier viennent conter leurs luttes contre l’industrie minière).

Son mythe de la transition écologique justifie un «greenwashing enrobant le désastre en cours dans un bel emballage vert.»

Nous reconstituons collectivement la chaîne d’approvisionnement des puces - des composants des pièces électroniques-, leurs mines, les lieux de stockage, lieux de transformation et d’assemblage etc. Comme avec nos fresques de l’IA, il est aisé de réaliser que la relocalisation n’est qu’illusion.

Pourtant, un malaise se ressent. Des intellectuels et des organisateurs viennent nous parler, en privé. Les Soulèvements les auraient forcés. Forcés à inviter des étrangers (pour mieux les recruter), forcés à s’autocensurer, forcés à trier les éditeurs sur le volet, forcés à exclure des auteurs particuliers, forcés à renoncer à leur radicalité, forcés à voter pour nous exfiltrer.

Devons-nous les croire sur paroles? Nous connaissons les effets de la rumeur.

Nous ne croyons qu’aux actes. Et en effet, le mot «révolution» n’est jamais prononcé. Nous parlons pourtant d’enfants exploités, de femmes violées, d’autochtones déracinés, d’usines à démanteler.

Une conférence entière porte sur une entreprise, Fairphone. Elle produirait des smartphones avec des mines «responsables». Elle tenterait d’étudier la traçabilité des matières premières, pousserait les criminels climatiques à créer «une industrie propre». Contradiction avec les autres interventions. Nous reconnaissons la marque des Soulèvements. Honnêtes avec le public, les invités avouent leur échec: changer le système de l’intérieur n’a jamais réussi. Mieux payer les enfants-esclaves ne changera pas leur destin.

Les grandes multinationales n’ont plus besoin de faire de greenwashing, le Mouton Numérique s’en charge! On croit à une blague. Mais ces gens sont sérieux.

À la conférence des Soulèvements de la Terre (SDLT), le morceau sera lâché: nous sommes ici « contre l’extension d’usine au Grésivaudan». L’extension. Pas l’usine. Pas la technologie. Pas la pièce d’un puzzle écocidaire; les «ouvriers» en perdraient «leur salaire».

Nous ne croyons qu’aux actes. Et le lendemain, c’est manifestation. Surprise, les Soulèvements de la Terre ont encore organisé un vote, serré. Après leur campagne idéaliste contre Bolloré, les SDLT semblent décidés à prendre le contrôle d’une nouvelle lutte. La tactique est claire: pour invisibiliser les anti-tech, ils s’emparent de notre terrain, se réapproprient notre discours, occupent chaque espace pour trier à l’entrée et mettre de côté tout discours insurgé. Depuis notre critique stratégique, c’est leur priorité. Est-ce vraiment celle de la Terre? «On a démocratiquement voté, vous êtes interdits de tracter». Aucun problème, on ne sort pas nos tracts, mais une banderole!

La manif commence et nous la déployons: «CONTRE TOUTES LES INDUSTRIES; ANTI-TECH RESISTANCE».

Nous ne sommes pas là pour diviser la lutte mais contre l’industrie. Jamais d’hostilité horizontale face à un ennemi commun.

Au même moment, à quelques mètres, des anarchistes écœurées par leur brutalité, des camarades historiques de Stop Micro, déploient «STOP À LA VAMPIRISATION DES LUTTES PAR LES SOULÈVEMENTS DE LA TERRE».

Le ton est donné. Le schisme est créé.

Nous ne croyons qu’aux actes. Et la seule différence pratique avec l’année dernière sont 1000 manifestants en plus et un sabotage d’attrition. Est-ce là tout ce que vaut la «composition» avec EELV?

Moins de 10 secondes après notre première déclaration, on entend hurler. Ils arrivent. Notre cortège est vite encerclé. Nos bras sont attrapés. Ils étaient préparés. Des hordes marxistes nous suivent à la trace, recouvrent nos prises de paroles de diffamations. Des camions d’organisateurs et des chars identifiés roulent plus vite pour éviter au public de se rapprocher. Ils manquent de nous écraser. Une sono nous escorte tout du long, musique à fond, espérant masquer nos revendications. Des organisateurs viennent nous menacer indirectement: «si vous rangez pas votre banderole, on pourra pas assurer votre sécurité…» OK, on va la garder.

Ils sont plusieurs dizaines à nous huer.

Nous sommes 6.

Alors, que devons-nous faire? S’avouer vaincu et abandonner cette lutte aux Soulèvements pour qu’ils la transforment en zone de défaite inclusive? Pour que la lutte contre l’industrie devienne lutte pour la réappropriation de l’industrie? Une lutte pour des mines de lithium autogérées?

Hors de question. ATR est notre dernière chance. Si nous nous laissons exclure de cette lutte, nous serons exclus des autres. Si nous ne sommes pas là, qui portera la voix d’une planète malade? Alors, par dessus leurs cris, nous chantons. Par dessus les injures, nous chantons. Notre détermination est plus forte que leur collaboration. Nous sommes six, mais nous sommes plus nombreux. Nos chœurs finissent par recouvrir leur haine et nous repartons de plus belle.

Nous discutons avec des manifestants curieux, certains choqués. Nous recevons des messages de soutien de plusieurs collectifs, qui soulignent notre courage. Eux se cachent. Nous osons.

Aucun camarade n’a baissé les bras. Nous avons tous tenu bon, ensemble, riant même de l’absurdité de la situation, déterminés à poursuivre nos actions. Contre toutes les industries.

Nous étions là l’année dernière. Nous sommes là cette année. Nous serons là l’année prochaine.

Pour désarmer le système technologique. Chose impossible sans une organisation disciplinée. Parce que nous ne croyons pas aux discours. Nous ne croyons qu’aux actes.

SIAMO TUTTI ANTI SMART CITY