domenica 8 giugno 2025

L’anarchismo oggi Il pensiero libertario e la partecipazione popolare nel ventunesimo secolo - Miguel Amorós

 



“Non c’è anarchismo più autentico

di quello capace di dirigere verso di sé

il più implacabile degli sguardi critici”.

Tomás Ibáñez

Oggi, con un apparato statale ipersviluppato, soprattutto sul piano militare, infeudato a un mercato onnipresente, e in assenza di forze sociali che lo contestino, la parola "rivoluzione" è scomparsa dal vocabolario degli oppressi e degli sfruttati. Da nessuna parte assistiamo a una massiccia convergenza d’insoddisfazioni di ogni genere che rendano inevitabili i grandi sconvolgimenti sociali. Nessuno avverte l'avvicinarsi di grandi cambiamenti, e rari son quelli che li desiderano. Al contrario, i più li temono. In queste condizioni, il rifiuto del principio di autorità – fondamentale per i libertari – si scontra con l'insormontabile muro della rassegnazione e della paura, flagelli ideali per uno sviluppo infinito dello Stato. Il pensiero antiautoritario, incapace di convergere verso una qualunque rivolta degna di questo nome, si rinchiude nella propaganda, mentre l'azione, rara e slegata da una riflessione veramente sovversiva, manca dell'«audacia dell'idea» (come direbbe Kropotkin) e, dopo i primi momenti di euforia esistenziale, seguirà dei percorsi che la contraddiranno fino alla sua scomparsa.

Da un lato, la lunga paralisi del movimento operaio ha ridotto al minimo le organizzazioni anarco-sindacaliste attorno alle quali ruotava il movimento libertario. L'istituzionalizzazione burocratica delle negoziazioni sindacali ha reso molto difficile l'azione diretta di lavoratori sempre meno combattivi. Da un altro lato, la disintegrazione delle idee della modernità – universalità, ragione, progresso – ha precipitato l'anarchismo odierno – quello che nasce dall'occupazione delle piazze, dalla musica punk e dall'altermondialismo giovanile – nel presentismo, nell'intersezionalità, nell'identitarismo e nell'oblio. A coronamento di tutto ciò, la presenza maggioritaria alla superficie dei conflitti di membri delle classi medie salariate, notoriamente identificate con lo Stato, con i metodi autoritari e con le leggi borghesi, ha trascinato ogni movimento di protesta nella fluidità relativistica, nella confusione e nel possibilismo[1]. Una volta evaporato il proletariato radicale e consolidata la mentalità mesocratica, anziché minare la supremazia dello Stato e il rispetto per i governi, la protesta sociale tende ad autolimitarsi nelle proprie rivendicazioni e a confinarsi al livello locale, senza, di fatto, mettere in discussione la legittimità delle istituzioni né mettere seriamente in discussione il gioco politico del dominio. Con il pretesto di ottenere risultati immediati o di ripudiare la violenza, si evita l'impegno, la causa rivoluzionaria è rallentata e spostata verso un orizzonte lontano irraggiungibile.

Molti cambiamenti regressivi hanno avuto luogo nella società sotto il capitalismo, e non solo nel movimento sindacale: la divisione del lavoro, la socialità popolare, il legame generazionale, la diffusione delle psicopatologie, la burocratizzazione, ecc. Il sistema dominante si è sofisticato e rafforzato nella misura in cui, grazie all'informatica e all’indebitamento, il suo potere è aumentato e la sua portata si è ampliata. Di conseguenza, lo schema bipolare borghesia/proletariato non spiega più nulla, perché è da tempo fuori dalla realtà. La rivoluzione risultante da un tale scontro di classe è ormai impossibile. Non esiste nemmeno un progetto rivoluzionario credibile basato su questa presunta rivalità. La generalizzazione del lavoro salariato, dei servizi pubblici, l'atomizzazione, il consumismo, la sorveglianza digitale e, ripetiamolo, l'influenza politico-ideologica delle classi medie sono tutti fattori che hanno alterato sostanzialmente la natura delle classi e i loro rapporti di forza, acuendo al contempo gli antagonismi e disarmando le coscienze. I meccanismi di addomesticamento e sottomissione sono sempre più efficaci e i mezzi di controllo sociale dello Stato sempre più potenti. Il peso schiacciante del presente, principale fonte di conformismo, e il conseguente disprezzo per la memoria, hanno diluito la fiducia nel futuro, poi nell'utopia, dove si concentravano le speranze di trasformazione rivoluzionaria.

La questione sociale, che nella società del conflitto di classi si rifletteva unitariamente nell'obiettivo dell'emancipazione proletaria, oggi, senza un soggetto storico che la porti avanti, senza una comunità operaia che la incarni, senza un progetto di società per sostenerla, si disperde in una pluralità d’istanze eterogenee e separate tra loro, ciascuna circoscritta nei propri "movimenti sociali": femminista, gay, ecologista, antimilitarista, squatter, militante antisviluppo, pro-casa, vegano, ecc. Dove c'era una classe, ora ci sono diversi collettivi interclassisti, ognuno con i suoi obiettivi specifici e la sua dinamica peculiare, incapaci di costituirsi in un soggetto universale, poiché ognuno di essi non riuscirà mai a fondere tutte le loro particolarità, comprese le proprie, in una sola. Del resto non fingono nemmeno di provarci. Ciò che li caratterizza tutti è la timidezza nell'azione e l'ambiguità dei loro obiettivi, il che ben corrisponde alla volontà isolazionista, all'attivismo virtuale e al rifugio nel presente. In questo contesto, i gesti senza conseguenze, le tattiche riformiste e la tendenza ad accomodarsi delle istituzioni prendono il sopravvento sulle alternative reali di cambiamento e sul desiderio di auto-organizzazione per realizzarle. Dove mancano i riferimenti e prevalgono le misure legaliste, dove l'azione si confonde con lo spettacolo e il dibattito rimane intrappolato nei social network, la partecipazione autentica è ridotta a niente: in un simile scenario, la democrazia diretta non è praticabile. E senza di essa, non c'è rivoluzione.

Molti autori prossimi sono molto validi – ad esempio Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem – ma non esiste un ragionamento speculativo, economico o scientifico che spieghi in modo convincente il momento presente nella sua interezza, e ancor meno che offra una base teorica completa con cui orientarsi nella pratica. L'epoca attuale non è favorevole alla libera discussione collettiva, e neppure alla discussione in generale. L'ordine costituito tiene le masse occupate ad altre cose. Il pensiero delle masse rimane quindi dormiente. Per magra compensazione, sono anche addormentate le ideologie progressiste e le ortodossie del passato, siano esse di tendenza operaista o meno, perché sono superate, fuori gioco, cosi come il concetto ottocentesco di proletariato. Invece, purtroppo, i tempi si prestano molto bene a formule salvifiche come la decrescita, la fuga verso la campagna, l'"assalto" alle istituzioni, il New Green Deal o l'economia circolare. Sono anche propizi ai fondamentalismi redentori, ai patriottismi campanilistici e ai catastrofismi apocalittici spesso utilizzati dal dominio. Ecco perché il pensiero libertario contemporaneo, se vuole essere utile, deve innanzitutto combattere tutti i discorsi irrazionali, astenersi dall'inventare un nuovo credo postmoderno e ancor meno dal creare un'organizzazione polimorfa per diffonderlo. Deve smascherare le menzogne dell'economia e correggere i torti della storia. Deve smascherare la predicazione demagogica del potere. Deve smascherare le illusioni dell'ideologia e dimostrare la perniciosa inutilità dello Stato. Con questi obiettivi in mente, deve partire dall’esistente in modo critico e penetrarvi, promuovendo in maniera generale le evoluzioni di rottura che portano a una società senza padroni: il processo di deindustrializzazione, de mercificazione, de urbanizzazione, smilitarizzazione, decentralizzazione e de statalizzazione.

Certamente, i fautori del libero accordo, dell'autogestione, dell'equilibrio con la natura e di forme di vita collettive o comunitarie sono ben lungi dall'opporsi alle forze del dominio con una forza di portata superiore. Ma è anche vero che si combattono piccole battaglie nei settori più diversi, che devono necessariamente convergere le une verso le altre perché trovano la loro origine nelle contraddizioni del sistema stesso: negli ambiti degli affitti, degli sfratti, del lavoro, delle pensioni, del patriarcato, della sessualità, dell’alimentazione, dell'assistenza medica, dell'immigrazione, delle carceri, delle infrastrutture industriali e stradali, dei media, della difesa territoriale e così via. Quando le lotte raggiungeranno un certo livello, quando travalicheranno l'ordine pubblico, sarà liberata un’energia sufficiente per aumentare la capacità popolare di auto-organizzazione, solidarietà e unità, creando le condizioni per l'emergere di strutture comunitarie – orizzontali, assembleari e federative – e la formazione di istituzioni autonome, esterne allo Stato, in grado di resistere alle manovre di partito e alle manipolazioni esterne.

Un clima di guerra civile favorisce il risveglio delle iniziative popolari e lo sviluppo intellettuale e morale degli oppressi. La distruzione, come direbbe Bakunin, diventa una forza creatrice. Tuttavia, in un contesto di potere quasi assoluto della classe dominante, l'azione costruttiva provoca più crepe nell'immobilismo imposto dal suo dominio rispetto all'azione distruttiva, molto meno praticabile. Ciononostante, la negazione segue da vicino l'affermazione. Più che tattiche interne, violente o pacifiche, si tratta di strategie di segregazione e demolizione. Se l'uguaglianza di partecipazione si deve ricercare nella pratica, piuttosto che del pragmatismo sotto l'egida di un leader, è questione di dibattito e rotazione dei compiti. Più che di organizzazione, è questione di tessuto sociale, di spazi vitali in cui le relazioni sociali a tutti i livelli possono essere ripensate; o piuttosto, di una contro-società ribelle, con le sue abitudini cooperative e difensive ai margini dell'establishment. E chi dice contro-società, dice controcultura, alla cui concezione e sviluppo lo spirito libertario – a patto che si liberi della zavorra di modalità ideologiche fallaci e di cliché di moda – ha molto da dare.

 

Miguel Amorós

pubblicato sul sito Kaosenlared, 9 febbraio 2025 

Gli amici di Bartleby, giugno 2025 lesamisdebartleby.wordpress.com



[1] In spagnolo, posibilismo: orientamento politico che si oppone al radicalismo, al fondamentalismo o all'estremismo optando per la negoziazione e il compromesso con gli avversari politici. Possibilismo: filosofia del possibile che consiste nell'aprire migliaia di strade senza percorrerne nessuna fino in fondo.














Miguel Amorós

L’anarchisme aujourd’hui

La pensée libertaire et la participation populaire au XXIe siècle

« Il n’y a pas d’anarchisme plus authentique

que celui capable de diriger vers lui

le plus implacable des regards critiques ».

Tomás Ibáñez

Aujourd’hui, avec un appareil d’État hyper-développé, notamment sur le plan militaire, inféodé à un marché omniprésent, et en l’absence de forces sociales pour le contester, le mot « révolution » a disparu du vocabulaire des opprimés et des exploités. Nulle part on ne voit une convergence massive d’insatisfactions de toutes sortes qui rend inévitables les grands bouleversements sociaux. Personne ne sent l’approche des grands changements, et rares sont ceux qui les souhaitent. Au contraire, la plupart les craignent. Dans ces conditions, le rejet du principe d’autorité – fondamental pour les libertaires – se heurte au mur infranchissable de la résignation et de la peur, fléaux idéaux pour un développement infini de l’État. La pensée antiautoritaire, incapable de converger avec une quelconque révolte digne de ce nom, s’enferme dans la propagande, tandis que l’action, rare et déconnectée d’une réflexion réellement subversive, n’a pas « l’audace de l’idée » (comme dirait Kropotkine) et, après les premiers moments d’euphorie existentielle, suivra des chemins qui la contrediront jusqu’à ce qu’elle s’évanouisse.

D’un côté, la longue paralysie du mouvement ouvrier a réduit au minimum les organisations anarcho-syndicalistes, axe autour duquel tournait le mouvement libertaire. L’institutionnalisation bureaucratique des négociations syndicales a rendu très difficile l’action directe de travailleurs de moins en moins combatifs. D’un autre côté, la désintégration des idées de la modernité – universalité, raison, progrès – a précipité l’anarchisme d’aujourd’hui – celui qui vient de l’occupation des places, de la musique punk et de l’alter mondialisme de la jeunesse – dans le présentisme, l’intersectionnalité, l’identitarisme et l’oubli. Pour couronner le tout, la présence majoritaire à la surface des conflits de membres des classes moyennes salariées, dont il est notoire qu’elles s’identifient à l’État, aux méthodes autoritaires et aux lois bourgeoises, a entraîné tout mouvement de contestation dans la fluidité relativiste, la confusion et le possibilisme[1]. Une fois le prolétariat radical évaporé et la mentalité mésocratique consolidée, au lieu d’ébranler la suprématie de l’État et le respect des gouvernements, la protestation sociale tend à s’autolimiter dans ses revendications et à se confiner au local, sans remettre en cause de facto la légitimité des institutions, ni questionner sérieusement le jeu politique de la domination. Sous prétexte d’obtenir des résultats immédiats ou de répudier la violence, l’engagement est évité, la cause révolutionnaire est ralentie et déplacée vers un horizon lointain inatteignable.

De nombreux changements régressifs ont eu lieu dans la société sous le régime capitaliste, et pas seulement dans le mouvement syndical : la division du travail, la sociabilité populaire, le lien générationnel, la propagation des psychopathologies, la bureaucratisation, etc. Le système dominant s’est sophistiqué et renforcé à mesure que, grâce aux technologies de l’information et à l’endettement, son pouvoir s’est accru et sa portée s’est élargie. En conséquence, le schéma bipolaire bourgeoisie/prolétariat n’explique plus rien, car il est depuis longtemps hors de la réalité. La révolution résultant d’un tel affrontement de classes est désormais impossible. Il n’existe pas non plus de projet révolutionnaire crédible fondé sur cette prétendue rivalité. La généralisation du salariat, des services publics, l’atomisation, la consommation, la surveillance numérique et, répétons-le, l’influence politico-idéologique des classes moyennes sont autant de facteurs qui ont modifié substantiellement la nature des classes et leurs rapports de force, tout en aiguisant les antagonismes et en désarmant les consciences. Les mécanismes de domestication et de soumission sont de plus en plus efficaces et les moyens de contrôle social de l’État de plus en plus puissants. Le poids écrasant du présent, source principale du conformisme, et le mépris de la mémoire qui en découle, ont dilué la confiance dans l’avenir, puis dans l’utopie, où reposaient les espoirs de transformation révolutionnaire.

La question sociale, qui dans la société des classes en confrontation se reflétait de manière unifiée dans l’objectif de l’émancipation prolétarienne, aujourd’hui, sans sujet historique pour la porter, sans communauté ouvrière pour l’incarner, sans projet de société pour la mettre en avant, est dispersée dans une pluralité d’enjeux hétérogènes et séparés les uns des autres, chacun circonscrit dans ses propres « mouvements sociaux » : féministe, gay, écologiste, antimilitariste, squatteur, anti-développement, pro-logement, vegan, etc. Là où il y avait une classe, il y a maintenant différents collectifs interclasses, chacun avec ses objectifs spécifiques et sa dynamique particulière, incapables de se constituer en un sujet universel, puisque chacun d’entre eux ne pourra jamais fusionner ensemble toutes leurs particularités, y compris la sienne, en une seule. Ils ne prétendent d’ailleurs pas même essayer. Ce qui les caractérise tous, c’est la timidité dans l’action et l’ambiguïté de leurs objectifs, ce qui correspond bien à la volonté isolationniste, à l’activisme virtuel et au refuge dans le présent. Dans ce contexte, les gestes sans conséquences, les tactiques réformistes et la tendance à s’accommoder des institutions prennent le dessus sur les alternatives réelles de changement et le désir d’auto-organisation pour les réaliser. Là où les références manquent et où les mesures légalistes prévalent, là où l’action se confond avec le spectacle et où le débat reste prisonnier des réseaux sociaux, la participation authentique est réduite à néant : dans un tel scénario, la démocratie directe n’est pas viable. Et sans elle, il n’y a pas de révolution.

Nombre d’auteurs proches sont très valables – par exemple Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem –, mais il n’y a pas de raisonnement spéculatif, économique ou scientifique, qui explique de manière convaincante le moment présent dans son intégralité, et encore moins qui offre une base théorique complète avec laquelle s’orienter dans la praxis. L’époque actuelle n’est pas propice à la libre discussion collective, ni même à la discussion tout court. L’ordre établi maintient les masses occupées à d’autres choses. La pensée des masses reste donc en sommeil. Piètre compensation, les idéologies progressistes et les orthodoxies passées, qu’elles soient ou non de tendance ouvriériste, le sont aussi, puisqu’elles sont dépassées, hors jeu, tout comme le concept de prolétariat du XIXe siècle. Au lieu de cela, malheureusement, l’époque se prête très bien à des formules salvatrices telles que la décroissance, la fuite à la campagne, « l’assaut » contre les institutions, le nouveau pacte vert ou l’économie circulaire. Elle est également propice aux fondamentalismes rédempteurs, aux patriotismes de clocher et aux catastrophismes apocalyptiques souvent utilisés par la domination. C’est pourquoi la pensée libertaire contemporaine, si elle veut être utile, doit d’abord lutter contre tous les discours irrationnels, s’abstenir d’inventer un nouveau credo postmoderne et encore moins de créer une organisation polymorphe pour le diffuser. Elle doit démêler les mensonges de l’économie et redresser les torts de l’histoire. Elle doit démasquer les prêches démagogiques du pouvoir. Elle doit démasquer les illusions de l’idéologie et démontrer l’inutilité pernicieuse de l’État. Avec ces objectifs en tête, elle doit partir de l’existant de manière critique et y pénétrer, en promouvant, de manière générale, les évolutions rupturistes qui conduisent à une société sans maîtres : le processus de désindustrialisation, de démarchandisation, de désurbanisation, de démilitarisation, de décentralisation et de désétatisation.

Certes, les partisans du libre accord, de l’autogestion, de l’équilibre avec la nature et de formes de vie collectives ou communautaires sont loin d’opposer aux forces de domination une force d’une ampleur supérieure. Mais il est vrai aussi que de petites batailles sont menées dans les domaines les plus divers, qui doivent nécessairement converger les unes vers les autres parce qu’elles trouvent leur origine dans les contradictions du système lui-même : dans les domaines des loyers, des expulsions, de l’emploi, des retraites, du patriarcat, de la sexualité, de l’alimentation, des soins médicaux, de l’immigration, des prisons, des infrastructures industrielles et routières, des médias, de la défense du territoire, et ainsi de suite. Lorsque les luttes atteindront un certain niveau, quand elles déborderont l’ordre public, une énergie suffisante sera libérée pour accroître la capacité populaire d’auto-organisation, de solidarité et d’unité, créant les conditions pour l’émergence de structures communautaires – horizontales, basées sur des assemblées et fédératives – et la formation d’institutions autonomes, en dehors de l’État, qui pourront résister aux manœuvres des partis et aux manipulations extérieures.

Un climat de guerre civile favorise l’éveil des initiatives populaires et le développement intellectuel et moral des opprimés. La destruction, comme dirait Bakounine, devient une force créatrice. Mais dans un contexte de pouvoir quasi absolu de la classe dominante, l’action constructive provoque plus de fissures dans l’immobilisme imposé par sa domination que l’action destructive, beaucoup moins praticable. Néanmoins, la négation suit de près l’affirmation. Plutôt que des tactiques de l’intérieur, violentes ou pacifiques, il s’agit de stratégies de ségrégation et de démolition. Si l’égalité de participation doit être recherchée dans la pratique, plutôt que du pragmatisme sous l’égide d’un chef, c’est une question de débat et de rotation des tâches. Plus que d’organisation, il s’agit de tissu social, d’espaces de vie où les relations sociales à tous les niveaux peuvent être repensées; ou plutôt d’une contre-société rebelle, avec ses propres habitudes coopératives et défensives en marge de l’establishment. Et qui dit contre-société dit contre-culture, dans la conception et le développement de laquelle l’esprit libertaire – à condition qu’il se débarrasse du lest des modalités idéologiques ratées et des clichés à la mode – a beaucoup à apporter.

 

    Miguel Amorós,

publié sur le site Kaosenlared, le 9 février 2025. Les Amis de Bartleby, juin 2025 lesamisdebartleby.wordpress.com 



[1] En espagnol, posibilismo: orientation politique qui s’oppose au radicalisme, au fondamentalisme ou à l’extrémisme en optant pour la négociation et le compromis avec les opposants politiques. Possibilisme : philosophie du possible qui consiste à ouvrir un millier de voies sans aller au bout d’aucune.