“Non c’è anarchismo più autentico
di quello capace di dirigere verso di
sé
il più implacabile degli sguardi
critici”.
Tomás Ibáñez
Oggi,
con un apparato statale ipersviluppato, soprattutto sul piano militare, infeudato
a un mercato onnipresente, e in assenza di forze sociali che lo contestino, la
parola "rivoluzione" è scomparsa dal vocabolario degli oppressi e
degli sfruttati. Da nessuna parte assistiamo a una massiccia convergenza d’insoddisfazioni
di ogni genere che rendano inevitabili i grandi sconvolgimenti sociali. Nessuno
avverte l'avvicinarsi di grandi cambiamenti, e rari son quelli che li
desiderano. Al contrario, i più li temono. In queste condizioni, il rifiuto del
principio di autorità – fondamentale per i libertari – si scontra con
l'insormontabile muro della rassegnazione e della paura, flagelli ideali per
uno sviluppo infinito dello Stato. Il pensiero antiautoritario, incapace di
convergere verso una qualunque rivolta degna di questo nome, si rinchiude nella
propaganda, mentre l'azione, rara e slegata da una riflessione veramente
sovversiva, manca dell'«audacia dell'idea» (come direbbe Kropotkin) e, dopo i
primi momenti di euforia esistenziale, seguirà dei percorsi che la contraddiranno
fino alla sua scomparsa.
Da
un lato, la lunga paralisi del movimento operaio ha ridotto al minimo le
organizzazioni anarco-sindacaliste attorno alle quali ruotava il movimento
libertario. L'istituzionalizzazione burocratica delle negoziazioni sindacali ha
reso molto difficile l'azione diretta di lavoratori sempre meno combattivi. Da
un altro lato, la disintegrazione delle idee della modernità – universalità,
ragione, progresso – ha precipitato l'anarchismo odierno – quello che nasce
dall'occupazione delle piazze, dalla musica punk e dall'altermondialismo
giovanile – nel presentismo, nell'intersezionalità, nell'identitarismo e
nell'oblio. A coronamento di tutto ciò, la presenza maggioritaria alla
superficie dei conflitti di membri delle classi medie salariate, notoriamente
identificate con lo Stato, con i metodi autoritari e con le leggi borghesi, ha
trascinato ogni movimento di protesta nella fluidità relativistica, nella
confusione e nel possibilismo[1]. Una volta evaporato il proletariato radicale e consolidata la
mentalità mesocratica, anziché minare la supremazia dello Stato e il rispetto
per i governi, la protesta sociale tende ad autolimitarsi nelle proprie
rivendicazioni e a confinarsi al livello locale, senza, di fatto, mettere in
discussione la legittimità delle istituzioni né mettere seriamente in
discussione il gioco politico del dominio. Con il pretesto di ottenere
risultati immediati o di ripudiare la violenza, si evita l'impegno, la causa
rivoluzionaria è rallentata e spostata verso un orizzonte lontano
irraggiungibile.
Molti
cambiamenti regressivi hanno avuto luogo nella società sotto il capitalismo, e
non solo nel movimento sindacale: la divisione del lavoro, la socialità
popolare, il legame generazionale, la diffusione delle psicopatologie, la
burocratizzazione, ecc. Il sistema dominante si è sofisticato e rafforzato nella
misura in cui, grazie all'informatica e all’indebitamento, il suo potere è
aumentato e la sua portata si è ampliata. Di conseguenza, lo schema bipolare
borghesia/proletariato non spiega più nulla, perché è da tempo fuori dalla
realtà. La rivoluzione risultante da un tale scontro di classe è ormai
impossibile. Non esiste nemmeno un
progetto rivoluzionario credibile basato su questa presunta rivalità. La
generalizzazione del lavoro salariato, dei servizi pubblici, l'atomizzazione, il
consumismo, la sorveglianza digitale e, ripetiamolo, l'influenza
politico-ideologica delle classi medie sono tutti fattori che hanno alterato
sostanzialmente la natura delle classi e i loro rapporti di forza, acuendo al
contempo gli antagonismi e disarmando le coscienze. I meccanismi di
addomesticamento e sottomissione sono sempre più efficaci e i mezzi di
controllo sociale dello Stato sempre più potenti. Il peso schiacciante del
presente, principale fonte di conformismo, e il conseguente disprezzo per la
memoria, hanno diluito la fiducia nel futuro, poi nell'utopia, dove si concentravano
le speranze di trasformazione rivoluzionaria.
La
questione sociale, che nella società del conflitto di classi si rifletteva
unitariamente nell'obiettivo dell'emancipazione proletaria, oggi, senza un
soggetto storico che la porti avanti, senza una comunità operaia che la
incarni, senza un progetto di società per sostenerla, si disperde in una
pluralità d’istanze eterogenee e separate tra loro, ciascuna circoscritta nei
propri "movimenti sociali": femminista, gay, ecologista,
antimilitarista, squatter, militante antisviluppo, pro-casa, vegano, ecc. Dove c'era
una classe, ora ci sono diversi collettivi interclassisti, ognuno con i suoi
obiettivi specifici e la sua dinamica peculiare, incapaci di costituirsi in un
soggetto universale, poiché ognuno di essi non riuscirà mai a fondere tutte le loro
particolarità, comprese le proprie, in una sola. Del resto non fingono nemmeno
di provarci. Ciò che li caratterizza
tutti è la timidezza nell'azione e l'ambiguità dei loro obiettivi, il che ben
corrisponde alla volontà isolazionista, all'attivismo virtuale e al rifugio nel
presente. In questo contesto, i gesti senza conseguenze, le tattiche riformiste
e la tendenza ad accomodarsi delle istituzioni prendono il sopravvento sulle
alternative reali di cambiamento e sul desiderio di auto-organizzazione per
realizzarle. Dove mancano i riferimenti e prevalgono le misure legaliste, dove
l'azione si confonde con lo spettacolo e il dibattito rimane intrappolato nei
social network, la partecipazione autentica è ridotta a niente: in un simile
scenario, la democrazia diretta non è praticabile. E senza di essa, non c'è
rivoluzione.
Molti
autori prossimi sono molto validi – ad esempio Murray Bookchin, James Scott,
David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem –
ma non esiste un ragionamento speculativo, economico o scientifico che spieghi
in modo convincente il momento presente nella sua interezza, e ancor meno che offra
una base teorica completa con cui orientarsi nella pratica. L'epoca attuale non
è favorevole alla libera discussione collettiva, e neppure alla discussione in
generale. L'ordine costituito tiene le masse occupate ad altre cose. Il
pensiero delle masse rimane quindi dormiente. Per magra compensazione, sono anche
addormentate le ideologie progressiste e le ortodossie del passato, siano esse
di tendenza operaista o meno, perché sono superate, fuori gioco, cosi come il
concetto ottocentesco di proletariato. Invece, purtroppo, i tempi si prestano
molto bene a formule salvifiche come la decrescita, la fuga verso la campagna,
l'"assalto" alle istituzioni, il New
Green Deal o l'economia circolare. Sono anche propizi ai fondamentalismi
redentori, ai patriottismi campanilistici e ai catastrofismi apocalittici
spesso utilizzati dal dominio. Ecco perché il pensiero libertario
contemporaneo, se vuole essere utile, deve innanzitutto combattere tutti i
discorsi irrazionali, astenersi dall'inventare un nuovo credo postmoderno e
ancor meno dal creare un'organizzazione polimorfa per diffonderlo. Deve smascherare
le menzogne dell'economia e correggere i torti della storia. Deve smascherare
la predicazione demagogica del potere. Deve smascherare le illusioni dell'ideologia
e dimostrare la perniciosa inutilità dello Stato. Con questi obiettivi in
mente, deve partire dall’esistente in modo critico e penetrarvi, promuovendo in
maniera generale le evoluzioni di rottura che portano a una società senza
padroni: il processo di deindustrializzazione, de mercificazione, de
urbanizzazione, smilitarizzazione, decentralizzazione e de statalizzazione.
Certamente,
i fautori del libero accordo, dell'autogestione, dell'equilibrio con la natura
e di forme di vita collettive o comunitarie sono ben lungi dall'opporsi alle
forze del dominio con una forza di portata superiore. Ma è anche vero che si
combattono piccole battaglie nei settori più diversi, che devono
necessariamente convergere le une verso le altre perché trovano la loro origine
nelle contraddizioni del sistema stesso: negli ambiti degli affitti, degli
sfratti, del lavoro, delle pensioni, del patriarcato, della sessualità, dell’alimentazione,
dell'assistenza medica, dell'immigrazione, delle carceri, delle infrastrutture
industriali e stradali, dei media, della difesa territoriale e così via. Quando
le lotte raggiungeranno un certo livello, quando travalicheranno l'ordine
pubblico, sarà liberata un’energia sufficiente per aumentare la capacità
popolare di auto-organizzazione, solidarietà e unità, creando le condizioni per
l'emergere di strutture comunitarie – orizzontali, assembleari e federative – e
la formazione di istituzioni autonome, esterne allo Stato, in grado di resistere
alle manovre di partito e alle manipolazioni esterne.
Un
clima di guerra civile favorisce il risveglio delle iniziative popolari e lo
sviluppo intellettuale e morale degli oppressi. La distruzione, come direbbe
Bakunin, diventa una forza creatrice. Tuttavia, in un contesto di potere quasi
assoluto della classe dominante, l'azione costruttiva provoca più crepe
nell'immobilismo imposto dal suo dominio rispetto all'azione distruttiva, molto
meno praticabile. Ciononostante, la negazione segue da vicino l'affermazione.
Più che tattiche interne, violente o pacifiche, si tratta di strategie di
segregazione e demolizione. Se l'uguaglianza di partecipazione si deve
ricercare nella pratica, piuttosto che del pragmatismo sotto l'egida di un
leader, è questione di dibattito e rotazione dei compiti. Più che di
organizzazione, è questione di tessuto sociale, di spazi vitali in cui le
relazioni sociali a tutti i livelli possono essere ripensate; o piuttosto, di
una contro-società ribelle, con le sue abitudini cooperative e difensive ai
margini dell'establishment. E chi dice contro-società, dice controcultura, alla
cui concezione e sviluppo lo spirito libertario – a patto che si liberi della
zavorra di modalità ideologiche fallaci e di cliché di moda – ha molto da dare.
Miguel Amorós
pubblicato sul sito Kaosenlared, 9 febbraio 2025
Gli amici di Bartleby, giugno 2025 lesamisdebartleby.wordpress.com
[1]
In spagnolo, posibilismo:
orientamento politico che si oppone al radicalismo, al fondamentalismo o
all'estremismo optando per la negoziazione e il compromesso con gli avversari
politici. Possibilismo: filosofia del possibile che consiste nell'aprire migliaia
di strade senza percorrerne nessuna fino in fondo.
Miguel Amorós
L’anarchisme aujourd’hui
La pensée libertaire et la
participation populaire au XXIe siècle
« Il n’y a pas d’anarchisme plus authentique
que celui capable de diriger vers lui
le plus implacable des regards critiques ».
Tomás Ibáñez
Aujourd’hui, avec un appareil d’État hyper-développé, notamment sur le plan
militaire, inféodé à un marché omniprésent, et en l’absence de forces sociales
pour le contester, le mot « révolution » a disparu du vocabulaire des
opprimés et des exploités. Nulle part on ne voit une convergence massive
d’insatisfactions de toutes sortes qui rend inévitables les grands
bouleversements sociaux. Personne ne sent l’approche des grands changements, et
rares sont ceux qui les souhaitent. Au contraire, la plupart les craignent.
Dans ces conditions, le rejet du principe d’autorité – fondamental pour les
libertaires – se heurte au mur infranchissable de la résignation et de la peur,
fléaux idéaux pour un développement infini de l’État. La pensée antiautoritaire,
incapable de converger avec une quelconque révolte digne de ce nom, s’enferme
dans la propagande, tandis que l’action, rare et déconnectée d’une réflexion réellement
subversive, n’a pas « l’audace de l’idée » (comme dirait Kropotkine)
et, après les premiers moments d’euphorie existentielle, suivra des chemins qui
la contrediront jusqu’à ce qu’elle s’évanouisse.
D’un côté, la longue paralysie du mouvement ouvrier a réduit au minimum les
organisations anarcho-syndicalistes, axe autour duquel tournait le mouvement
libertaire. L’institutionnalisation bureaucratique des négociations syndicales
a rendu très difficile l’action directe de travailleurs de moins en moins
combatifs. D’un autre côté, la désintégration des idées de la modernité –
universalité, raison, progrès – a précipité l’anarchisme d’aujourd’hui – celui
qui vient de l’occupation des places, de la musique punk et de l’alter
mondialisme de la jeunesse – dans le présentisme, l’intersectionnalité,
l’identitarisme et l’oubli. Pour couronner le tout, la présence majoritaire à
la surface des conflits de membres des classes moyennes salariées, dont il est
notoire qu’elles s’identifient à l’État, aux méthodes autoritaires et aux lois
bourgeoises, a entraîné tout mouvement de contestation dans la fluidité
relativiste, la confusion et le possibilisme[1].
Une fois le prolétariat radical évaporé et la mentalité mésocratique
consolidée, au lieu d’ébranler la suprématie de l’État et le respect des
gouvernements, la protestation sociale tend à s’autolimiter dans ses
revendications et à se confiner au local, sans remettre en cause de facto la
légitimité des institutions, ni questionner sérieusement le jeu politique de la
domination. Sous prétexte d’obtenir des résultats immédiats ou de répudier la
violence, l’engagement est évité, la cause révolutionnaire est ralentie et
déplacée vers un horizon lointain inatteignable.
De nombreux changements régressifs ont eu lieu dans la société sous le
régime capitaliste, et pas seulement dans le mouvement syndical : la
division du travail, la sociabilité populaire, le lien générationnel, la
propagation des psychopathologies, la bureaucratisation, etc. Le système
dominant s’est sophistiqué et renforcé à mesure que, grâce aux technologies de
l’information et à l’endettement, son pouvoir s’est accru et sa portée s’est
élargie. En conséquence, le schéma bipolaire bourgeoisie/prolétariat n’explique
plus rien, car il est depuis longtemps hors de la réalité. La révolution
résultant d’un tel affrontement de classes est désormais impossible. Il
n’existe pas non plus de projet révolutionnaire crédible fondé sur cette
prétendue rivalité. La généralisation du salariat, des services publics,
l’atomisation, la consommation, la surveillance numérique et, répétons-le,
l’influence politico-idéologique des classes moyennes sont autant de facteurs
qui ont modifié substantiellement la nature des classes et leurs rapports de
force, tout en aiguisant les antagonismes et en désarmant les consciences. Les
mécanismes de domestication et de soumission sont de plus en plus efficaces et
les moyens de contrôle social de l’État de plus en plus puissants. Le poids écrasant
du présent, source principale du conformisme, et le mépris de la mémoire qui en
découle, ont dilué la confiance dans l’avenir, puis dans l’utopie, où
reposaient les espoirs de transformation révolutionnaire.
La question sociale, qui dans la société des classes en confrontation se
reflétait de manière unifiée dans l’objectif de l’émancipation prolétarienne,
aujourd’hui, sans sujet historique pour la porter, sans communauté ouvrière
pour l’incarner, sans projet de société pour la mettre en avant, est dispersée
dans une pluralité d’enjeux hétérogènes et séparés les uns des autres, chacun
circonscrit dans ses propres « mouvements sociaux » : féministe,
gay, écologiste, antimilitariste, squatteur, anti-développement, pro-logement,
vegan, etc. Là où il y avait une classe, il y a maintenant différents
collectifs interclasses, chacun avec ses objectifs spécifiques et sa dynamique
particulière, incapables de se constituer en un sujet universel, puisque chacun
d’entre eux ne pourra jamais fusionner ensemble toutes leurs particularités, y
compris la sienne, en une seule. Ils ne prétendent d’ailleurs pas même essayer.
Ce qui les caractérise tous, c’est la timidité dans l’action et l’ambiguïté de
leurs objectifs, ce qui correspond bien à la volonté isolationniste, à
l’activisme virtuel et au refuge dans le présent. Dans ce contexte, les gestes
sans conséquences, les tactiques réformistes et la tendance à s’accommoder des
institutions prennent le dessus sur les alternatives réelles de changement et
le désir d’auto-organisation pour les réaliser. Là où les références manquent
et où les mesures légalistes prévalent, là où l’action se confond avec le
spectacle et où le débat reste prisonnier des réseaux sociaux, la participation
authentique est réduite à néant : dans un tel scénario, la démocratie
directe n’est pas viable. Et sans elle, il n’y a pas de révolution.
Nombre d’auteurs proches sont très valables – par exemple Murray Bookchin,
James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul
Vaneigem –, mais il n’y a pas de raisonnement spéculatif, économique ou
scientifique, qui explique de manière convaincante le moment présent dans son
intégralité, et encore moins qui offre une base théorique complète avec
laquelle s’orienter dans la praxis. L’époque actuelle n’est pas propice à la
libre discussion collective, ni même à la discussion tout court. L’ordre établi
maintient les masses occupées à d’autres choses. La pensée des masses reste
donc en sommeil. Piètre compensation, les idéologies progressistes et les
orthodoxies passées, qu’elles soient ou non de tendance ouvriériste, le sont
aussi, puisqu’elles sont dépassées, hors jeu, tout comme le concept de
prolétariat du XIXe siècle. Au lieu de cela, malheureusement, l’époque se prête
très bien à des formules salvatrices telles que la décroissance, la fuite à la
campagne, « l’assaut » contre les institutions, le nouveau pacte vert
ou l’économie circulaire. Elle est également propice aux fondamentalismes
rédempteurs, aux patriotismes de clocher et aux catastrophismes apocalyptiques
souvent utilisés par la domination. C’est pourquoi la pensée libertaire
contemporaine, si elle veut être utile, doit d’abord lutter contre tous les
discours irrationnels, s’abstenir d’inventer un nouveau credo postmoderne et
encore moins de créer une organisation polymorphe pour le diffuser. Elle doit
démêler les mensonges de l’économie et redresser les torts de l’histoire. Elle
doit démasquer les prêches démagogiques du pouvoir. Elle doit démasquer les illusions
de l’idéologie et démontrer l’inutilité pernicieuse de l’État. Avec ces
objectifs en tête, elle doit partir de l’existant de manière critique et y
pénétrer, en promouvant, de manière générale, les évolutions rupturistes qui
conduisent à une société sans maîtres : le processus de
désindustrialisation, de démarchandisation, de désurbanisation, de
démilitarisation, de décentralisation et de désétatisation.
Certes, les partisans du libre accord, de l’autogestion, de l’équilibre
avec la nature et de formes de vie collectives ou communautaires sont loin
d’opposer aux forces de domination une force d’une ampleur supérieure. Mais il
est vrai aussi que de petites batailles sont menées dans les domaines les plus
divers, qui doivent nécessairement converger les unes vers les autres parce
qu’elles trouvent leur origine dans les contradictions du système
lui-même : dans les domaines des loyers, des expulsions, de l’emploi, des
retraites, du patriarcat, de la sexualité, de l’alimentation, des soins
médicaux, de l’immigration, des prisons, des infrastructures industrielles et
routières, des médias, de la défense du territoire, et ainsi de suite. Lorsque
les luttes atteindront un certain niveau, quand elles déborderont l’ordre
public, une énergie suffisante sera libérée pour accroître la capacité
populaire d’auto-organisation, de solidarité et d’unité, créant les conditions
pour l’émergence de structures communautaires – horizontales, basées sur des
assemblées et fédératives – et la formation d’institutions autonomes, en dehors
de l’État, qui pourront résister aux manœuvres des partis et aux manipulations
extérieures.
Un climat de guerre civile favorise l’éveil des initiatives populaires et
le développement intellectuel et moral des opprimés. La destruction, comme
dirait Bakounine, devient une force créatrice. Mais dans un contexte de pouvoir
quasi absolu de la classe dominante, l’action constructive provoque plus de
fissures dans l’immobilisme imposé par sa domination que l’action destructive,
beaucoup moins praticable. Néanmoins, la négation suit de près l’affirmation.
Plutôt que des tactiques de l’intérieur, violentes ou pacifiques, il s’agit de
stratégies de ségrégation et de démolition. Si l’égalité de participation doit
être recherchée dans la pratique, plutôt que du pragmatisme sous l’égide d’un
chef, c’est une question de débat et de rotation des tâches. Plus que
d’organisation, il s’agit de tissu social, d’espaces de vie où les relations
sociales à tous les niveaux peuvent être repensées; ou plutôt d’une
contre-société rebelle, avec ses propres habitudes coopératives et défensives
en marge de l’establishment. Et qui dit contre-société dit contre-culture, dans
la conception et le développement de laquelle l’esprit libertaire – à condition
qu’il se débarrasse du lest des modalités idéologiques ratées et des clichés à
la mode – a beaucoup à apporter.
Miguel Amorós,
publié sur le site Kaosenlared, le 9 février 2025. Les Amis de Bartleby, juin 2025 lesamisdebartleby.wordpress.com
[1] En espagnol, posibilismo:
orientation politique qui s’oppose au radicalisme, au fondamentalisme ou à l’extrémisme
en optant pour la négociation et le compromis avec les opposants politiques.
Possibilisme : philosophie du possible qui consiste à ouvrir un millier de
voies sans aller au bout d’aucune.