Subcomandante Marcos with Zapatistas Photo by Ricardo Trabulsi Chiapas, 1996 |
testo tratto da:
E vennero come il vento. Immagini e parole dal Chiapas in rivolta |
di | Boldrini Massimo, Albertani Claudio, Ranieri Paolo ed. Massari 1997 |
LA PRIMA RIVOLUZIONE DEL
SECOLO XXI
“Il mondo possiede già il
sogno di un tempo di cui deve ora possedere la coscienza per viverlo realmente”
(Guy Debord)
“Il Messico che ha fatto due o
tre rivoluzioni in un secolo non deve temere di farne un'altra: la prossima, se
ci sarà, avrà senza dubbio un carattere di gravità eccezionale, perché questa
volta dovrà risolvere problemi fondamentali”
(Antonin Artaud)
Fu una
rivoluzione messicana ad aprire un secolo di rivoluzioni quale è stato il
Novecento.
Contadini,
allevatori, banditi, meticci e indigeni, si ribellarono per salvaguardare il
proprio modo di vivere tradizionale, per affermare la propria libertà, per
mantenere le proprie antiche strutture sociali e comunitarie. Si ribellarono
per poter rimanere se stessi e, prima di essere ricacciati indietro, giunsero a
conquistare la capitale.
Invitato a
sedere sul seggio rimasto vuoto di Presidente del Messico chi li guidava si
rifiutò e fece ritorno al pueblo. Si chiamava Emiliano Zapata e ancora oggi, in
sua memoria, diamo a quei messicani di allora il nome di zapatisti.
Ora che il
secolo volge al tramonto, altri indigeni e meticci, braccianti e contadini,
artigiani e disoccupati, si sollevano per creare un modo nuovo di vivere, per
riaffermare la propria libertà, per ricostruire comunità e strutture sociali.
Si sollevano perchè ognuno possa essere se stesso.
Non hanno
ancora conquistato Città del Messico, ma vanno conquistando molti cuori in
tutto il mondo. Levano ancora alto il volto e il nome di Emiliano Zapata.
Sono gli
zapatisti del XXI secolo, il presente che mette radici nel passato. I motivi
rivoluzionari di un’epoca agonizzante che si incontrano con quelli dell’epoca a
venire.
Oltre
l'ammirazione, aldilà dello stupore, è venuta l'ora di conoscerli.
“La vita non può più essere
uno strisciare benedetto delle complici provvidenze dal solco di ciurma
ammazzata allo scheletro privo di spettro perchè da ogni solco, simile a una
moneta nuova, Zapata fa levare il raccolto per sempre maturo dei canti
diseredati”
(Benjamin Peret)
Il primo
gennaio del 1994, alcune migliaia di uomini e donne dal volto coperto, armati a
volte solo di fucili di legno, “arrivarono come il vento” in sette municipi del
Chiapas e nello stesso momento irruppero in un miliardo di televisori di più di
cento nazioni, appena dopo i valzer di Strauss del concerto di capodanno. Da
quel giorno qualcosa è cambiato nel mondo.
Raramente un
movimento rivoluzionario è apparso sulla scena della storia così impreveduto:
nessun servizio segreto dei tanti che pretendono di osservarci e di
interpretarci, era stato capace di immaginare che qualcosa di radicalmente
nuovo potesse nascere, all'indomani dell’annunciata fine della storia e delle
sue troppo frettolose esequie.
Raramente un
movimento rivoluzionario si è mostrato così acutamente consapevole, fin dal
primo istante, della necessità di comunicare, di farsi ascoltare e, più ancora,
di farsi comprendere.
Corrisponde
a tale obiettivo la creazione di un personaggio di straordinaria presa emotiva
come il Subcomandante Marcos.Questi - per suo conto uomo amabile e valoroso,
colto e sensibile - svolge un incarico essenziale: quella di interprete, di
traduttore, di ponte, di “interfaccia” fra le comunità ribelli e i mille
diversi piani della società nazionale ed internazionale.
Per una
precisa scelta, di cui ogni giorno di più ci è dato di comprendere la portata,
gli zapatisti di sé ci hanno proposto numerose e chiarissime definizioni “in
negativo”(non siamo un partito, non ci interessa costituire il nucleo
dell'ennesima internazionale, non intendiamo fondare alcuna ideologia) e
neanche un'affermazione perentoria, nessun “messaggio”.
Pure, nel
modo paradossale che in questi tre anni abbiamo imparato a conoscere, essi
hanno suggerito almeno due “chiavi di accesso” al loro segreto, il segreto di
alcune piccole comunità indie rimaste per secoli ai margini delle grandi
correnti della storia che d’un tratto invitano il mondo intero a reclamare
insieme a loro “democrazia, libertà, giustizia”.
Una prima
indicazione si ricava da una delle più note dichiarazioni di Marcos: “...chi
desidera conoscere il volto che sta sotto il passamontagna, semplicemente
prenda uno specchio e si guardi” (discorso del 23 febbraio 1994). Non si tratta
di un artificio letterario. Noi - sembra dirci il sup - non parliamo solo del
Chiapas, la nostra non è una guerra locale, ma un momento di una lotta più
vasta che può, che deve riguardare, che riguarda tutti.
L’altra
indicazione - che completa la prima e la precisa - ci arriva dall’intervento
dell'EZLN al Tavolo 1 dell'Incontro Intercontinentale (o, con un poco di
ironia, Intergalattico) per l’Umanità e contro il Neoliberismo (La Realidad,
Chiapas, 31 luglio 1996): “ognuno di noi porta con sé una borsa in cui ripone ciò
che ha. Quando le borse si rompono e ciò che ne esce si mette insieme, quello è
lo zapatismo”.
Zapatismo
siamo tutti noi che ci battiamo; noi che ci parliamo e ci ascoltiamo.
Zapatismo
siamo noi, oggi.
“Anzitutto, ecco a voi
Cristoforo Colombo, impegnato, appunto, nella scoperta dell'America. Il cielo,
come certamente potete vedere, è tutto coperto, ma il mare è calmo e sembra in
attesa. I marinai di Colombo corrono qua e là sul ponte urlando “Terra!”:
alcuni si abbracciano, altri si gettano ai suoi piedi, ma lui, calmo,
standosene appoggiato all’albero maestro, stende la mano innanzi a sé dicendo
con voce grave: “Ecco l'America!” Lontano, là, nella nebbia, dove si rompono le
onde, potete certamente notare quella striscia verde e marcata, e sopra di essa
un uomo nudo, coperto soltanto d'una foglia di fico. Quell’uomo è una
sentinella, piazzata lì dall'America. Non appena vede la grande nave, egli
grida nella sua lingua: “Chi è là?” e Colombo gli risponde: “Amici! Il mio nome
è Colombo”; “Che cosa cercate qua?” chiede l'abitante del Nuovo Mondo;
“Vogliamo solo scoprire” è la risposta. “E nient'altro?” dice l'indigeno che
saluta ponendo due dita sulla testa, e poi aggiunge: “Avvicinatevi pure, è da
tanto tempo che aspettiamo di essere scoperti!”
(Walter Benjamin)
Fin dal
principio, e con nitidezza sempre maggiore nel procedere della sua breve
storia, il neozapatismo si propone come qualcosa di coscientemente diverso (e
non solo differente o successivo) dalle guerriglie di cui l'America Latina ci
ha offerto negli scorsi decenni esempi molteplici e spesso oltremodo
significativi.
Radicalmente
disincantato rispetto alle correnti politiche fondate sull'affermazione di un
ideale, di una scienza o di un programma, lo zapatismo si connota come la prima
rivoluzione del millennio a venire sulla base di vari elementi: la critica dei
partiti tradizionali (compresi quelli di sinistra), il rifiuto delle
avanguardie, una nuova concezione del potere, l’apertura verso l'esterno -
altre esperienze, altri modi di vita, altre forme d'azione - e l’apporto dei
popoli indigeni.
Sono temi -
compreso quello degli indigeni - che vanno oltre il Chiapas, oltre il Messico
ed anche oltre le Americhe per investire la totalità del globo. Gli zapatisti
infatti si dirigono esplicitamente anche a tutti i “diversi”, a tutti coloro
(popoli o persone) che la civiltà occidentale colloca fuori o ai margini della
storia.
Uno dei
paradossi che ci giungono dal Chiapas è che siano proprio i maya, considerati
un popolo impermeabile alle influenze esterne, ad avviare il primo movimento di
importanza mondiale contro il neoliberismo e ad aprire in tal modo nuove
prospettive per il domani del mondo.
Le ragioni
del paradosso sono molteplici e trovano riscontro sia nelle correnti
sotterranee della storia locale - “siamo specialisti in resistenza” dichiarano
con fierezza i ribelli - che nelle specifiche vicende che sono all’origine
dell'EZLN.
Fu allora,
quando alcuni militanti giunsero in Chiapas dalla capitale messicana con
l'intenzione di impiantarvi un fuoco di guerriglia.
Era l’epoca
della vittoria Sandinista in Nicaragua e della guerra civile in Guatemala e
Salvador ed essi avvertivano l’influenza di quelle esperienze, così come quella
della rivoluzione cubana. Lo schema era semplice, le certezze totali. Come
“avanguardia”, loro compito era elaborare la “linea corretta” che le “masse”
avrebbe poi seguito con inevitabile entusiasmo.
Il contatto
con i maya del Chiapas produsse però qualcosa di molto diverso: gli
evangelizzatori - e non è la prima volta che succede laggiù - furono a loro
volta evangelizzati.
L'EZLN è
figlio di questa reciproca scoperta in cui a poco a poco l’elemento materiale,
i rapporti reali, la pratica quotidiana vennero a prevalere sull'elemento
dottrinale, le reciproche prevenzioni, i pregiudizi, le formule importate.
Il
superamento discende direttamente dalla scoperta che la prospettiva
rivoluzionaria è estranea a qualsiasi modello precostituito e si produce solo a
partire da un tessuto di relazioni collettive come liberazione in processo.
A loro volta
i maya divenuti zapatisti scoprirono che l'affermazione delle proprie
particolarità passa necessariamente per il riconoscimento di tutte le
particolarità, non unicamente etniche, ma sessuali, sociali, culturali, di
costume.
In un mondo
devastato dalle guerre civili, essi impugnano le armi non per esercitare la
violenza risentita e sterile dei perdenti, ma per essere ascoltati ed
ascoltarsi, per costruire insieme agli altri un mondo dove tutti si possa
essere uguali e tutti si possa essere diversi.
Con le armi
inusuali dell’ironia e della tenerezza, della radicalità e del paradosso essi,
come direbbe Luis Cardoza y Aragón, si battono “non con nostalgia del passato,
ma con nostalgia del futuro”.
In
prospettiva, ciò comporta il superamento di ogni etnicismo o localismo (così
come di ogni “indigenismo” e “indianismo”) e per i medesimi motivi,
l’affermazione limpida di valori di ordine universale, non più riconducibili
alla collera o all'antagonismo, ma portatori di una sintesi inclusiva. Una
sintesi non intesa come compromesso, punto medio fra contrapposte esigenze, ma
come apertura illimitata di libertà possibili.
“Leviamoci tutti in piedi,
mandiamo a chiamare tutti, che nessuno rimanga indietro”
(Popol Vuh)
Le radici
del futuro cui guarda la ribellione zapatista affondano in una struttura
millenaria, mille volte rinata dalle proprie ceneri: il pueblo, la comunità.
Sintesi tra le esperienze preispaniche e i liberi municipi di fonte europea, il
pueblo indio con i complessi meccanismi interni di livellamento della
ricchezza, le strutture civico religiose ed il sistema di rotazione delle
cariche è la leva impiegata dai neozapatisti per sollevare il macigno che grava
sui popoli del Chiapas.
Ciò che i
maya posseggono tuttavia, non è certo una mitica “comunità reale” ma la
pressante esperienza della sua necessità, laddove la realtà nelle metropoli è
all’opposto quella di un vuoto inafferrabile, in cui le merci e le immagini
paiono aver soppiantato l’esperienza umana.
Unica vera
risorsa dei popoli indigeni, la comunità e la cultura che essa esprime, non
emerge intatta dal fondo del passato, ma è costruita e seguita a costruirsi nel
vorticoso scontro con la realtà di tutti i giorni. Uno delle cause che stanno
all’origine della ribellione è proprio il processo di differenziazione interna
e dissoluzione delle comunità indigene storiche risultato dei complessi
processi di penetrazione del capitale nella regione de Los Altos.
Se
l’antropologia culturale ci ha propinato per decenni l’immagine delle comunità
indie come residui del passato, la ribellione del primo gennaio ci restituisce
un quadro molto più articolato in cui le strutture comunitarie non permangono
intatte, ma si disfanno, si rigenerano e si rinnovano in continuazione.
L'individuo
nasce nella comunità e - se lo desidera - in essa può vivere e morire. La
rettitudine si manifesta innanzitutto come capacità di agire restituendo e
preservando il significato originale del cosmo.
Proprio
l’intensità dei suoi postulati implica che la comunità scelga di darsi dei
limiti, che non sia nè voglia divenire una struttura totalitaria, impegnata a
coprire integralmente la superficie del mondo.
Essa ha un
proprio spazio e un proprio tempo, presuppone dei vuoti e riconosce a tutti il
diritto alla separazione, all'esilio e, nell’ultimo dei casi, alla fondazione
di nuove comunità. Se è vero, perciò, che si nasce nella comunità, è
altrettanto vero che in essa si permane per una scelta precisa e non per motivi
di razza.
Ciò è
lampante nel caso della giungla Lacandona, una regione di immigrazione dove,
fin dal principio, arrivano bianchi e meticci insieme a indigeni provenienti da
differenti etnie.
Nell’universo
multiforme e contraddittorio “del muschio e dell’orchidea” covano peculiari
identità collettive che danno vita a ciò che Antonio García de León chiama una
nuova civiltà popolare. É questo un immenso calderone dove gli emigranti -
braccianti e contadini senza terra - inseguono il sogno della Nuova
Gerusalemme, si scontrano con il potere dei latifondisti, danno vita a nuovi
rapporti sociali e sviluppano le esperienze di autogestione e democrazia
diretta che porteranno alla creazione dell’Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale.
“La politica tratta della
comunità e della reciprocità fra esseri differenti”
(Hannah Arendt)
La
separazione, la possibilità della rottura, è conseguenza dell'ostinata ricerca
del consenso, fondamento di ogni decisione e peculiare cardine della democrazia
zapatista.
Per ottenere
il consenso, i membri della comunità, uomini, donne, perfino bambini, si
confrontano, discutono e si battono infaticabilmente. Il consenso si costruisce
faticosamente quale espressione della vitalità comunitaria. La partecipazione
attiva è necessaria; non essendo, non potendo essere ammessa l’astensione, chi
persiste nel dissenso si autoesclude.
La rottura
sta a dimostrare che la comunità non è un dato di fatto, ma una tensione
permanente sottoposta a continua verifica e immersa nella storia e nelle
contraddizioni sociali.
E ciò che
può apparire agli occhi occidentali una perdita di tempo - le assemblee, le
interminabili discussioni su ogni dettaglio, le pressanti richieste di
“prendere posizione” - ci indica come il tempo della libertà e il tempo della
sottomissione siano incommensurabili e ci rammentano che “nelle questioni di
libertà, un errore di dettaglio è già una verità di stato” (Raoul Vaneigem).
Non per un
astratto e ideologico impulso di purezza, ma per la costante necessità di
ridefinire e qualificare il soggetto, quel “noi” che nella loro concezione si
erge come la vera libertà, una libertà che si realizza nella comunità e grazie
ad essa, in tutto dissimile dalla libertà come la intende la filosofia
occidentale.
Inseparabile
da questo impianto generale è la concezione dell'autorità come servizio:
l'espressione dei maya tojolabal “comandare obbedendo” - cui il movimento
zapatista ha dato notorietà universale - va compresa all'interno di una
prospettiva in cui i dirigenti hanno la funzione quasi notarile di verbalizzare
e mettere in pratica decisioni che appartengono unicamente alla comunità.
Nell’ambito di tale contesto materiale, questi principi acquistano un
significato opposto a quello del funesto “servire il popolo” in cui la subordinazione
è rivolta a un dover essere astratto e sacrificale.
B. Traven,
il rivoluzionario tedesco che visse in Chiapas negli anni trenta, descrive in
“Governo”, l’investitura del capo in un villaggio tzotzil de Los Altos. Quando,
al termine di una complicata cerimonia, il bastone di comando è infine
consegnato alla nuova autorità, viene portata una sedia. É una sedia bassa,
tessuta in fibra vegetale, con un buco al centro, dentro cui sono collocati dei
carboni ardenti. Il capo, abbassati i pantaloni, vi posa le natiche. Tra le
risate dei presenti, un funzionario si incarica di spiegare il significato del
rito: il fuoco deve rammentare al capo di non essere lì per riposarsi, bensì
per lavorare nell’interesse della comunità, cui dovrà rendere conto.
É grazie a questa
consapevolezza che il bisogno di costruire la comunità viene prima di tutto: a
tal fine è essenziale l'autenticità. La parola è sacra perchè in essa si
compromette tutta la persona: tramite essa si esprime la dignità degli uomini
“verdaderos” (traduzione della voce “tojol”) che significa autentici ed anche
portatori di verità.
La
profondità di un tale assunto può essere riscontrata perfino nelle strutture
linguistiche. Gli studiosi segnalano che il tojolabal è una lingua
intersoggetiva in cui il concetto di oggetto è assente: per il tojolabal tutti
siamo soggetti che interagiscono e non esistono quindi oggetti da dominare, nè
in natura, nè tra gli esseri umani.
La
dialettica soggetto-oggetto che fonda e costruisce il discorso occidentale è
qui assente. Pietre, stelle, piante, animali, tutto ciò che esiste possiede un
cuore, è vivo. La terra è la madre-terra e ad essa bisogna chiedere perdono
quando per coltivarla la si ferisce.
Animismo?
Superstizione? No. Semplicemente, quello maya - e di altre culture amerindie -
è un modo differente e pieno di rispetto di trattare il mondo. Noi diamo ai
fenomeni della natura spiegazioni unidirezionali che vorrebbero coglierne ed
esaurirne i significati. I popoli indigeni vivono con altri paradigmi, aprendo
per noi - senza che ciò implichi un “rifiuto” della scienza - la possibilità
della polivalenza. Essi ci rammentano il monito di Horkheimer: nel dominio
sulla natura sta inscritto il dominio dell’uomo sull’uomo.
“Siamo i figli di cinquecento
anni di lotte”
(Prima Dichiarazione della
Selva Lacandona)
“Il
movimento zapatista è un salto nel futuro che giunge dal passato” (Eduardo
Galeano).
Gli insorti
si rendono pienamente conto di dover andare ben oltre le comunità che li hanno
originati. La legge sulle donne - esempio quasi unico nella storia dei
movimenti rivoluzionari - e le pratica innovativa che vi è sottesa vanno in
questa direzione.
Il loro
universo culturale, le loro forme espressive, i loro metodi di lotta fanno
riferimento a concezioni che sembrerebbe facile liquidare come miti pittoreschi
o esotiche leggende: si tratta, viceversa, di riflessioni profonde e spesso di
portata universale sugli uomini, i loro rapporti, il loro destino.
A gettare un
ponte fra le comunità indie tradizionali e una più ampia prospettiva di
trasformazione storica, è un soggetto sociale per molti aspetti nuovo,
costituito dalla moltitudine di indigeni sradicati dalla marcia del capitalismo
e gettati nel cuore della selva in cerca di lavoro e di terra.
Essi hanno
dovuto (o voluto) confrontarsi con altre lingue ed altre etnie, hanno voluto (o
dovuto) inventare nuove specifiche forme comunitarie. Hanno compreso che per
rimanere se stessi dovevano diventare qualcos’altro: e che, per riuscire,
dovevano cambiare il mondo. Sono questi gli uomini e le donne che hanno creato
l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Nella
giungla Lacandona sedimentano contraddizioni antiche e moderne; il tempo
ciclico della comunità india tradizionale entra in collisione con il tempo
irreversibile della società contemporanea e crea le condizione del superamento
prospettato dalla comunità zapatista.
La capacità
degli insorti di comunicare senza mediazioni con chi si batte per la libertà
all'interno delle metropoli del capitalismo maturo, non è perciò un irripetibile
miracolo, nè un arcaismo culturale, ma il frutto di un preciso modo di
interrogarsi, di ascoltare, di operare.
La medesima
impostazione determina anche un’altra caratteristica degli zapatisti, vale a
dire la relativa marginalità in cui pongono le questioni attinenti a
produzione, distribuzione e consumo.
Ciò risale
in parte allo zapatismo storico. Nel suo principale documento programmatico, il
Plan de Ayala, Emiliano Zapata aveva rimesso ad ogni singolo pueblo la scelta
fra proprietà comunale, cooperativa e individuale.
Quell’impostazione
è stata ripresa dai maya del Chiapas per i quali il riprodursi della comunità è
parte del suo esistere complessivo e non un problema economico. Popolo fra i
più poveri della terra, essi conoscono i loro bisogni: lavorano come hanno
sempre lavorato (molto) e consumano ciò che hanno (poco).
Essi
apprezzano la nostra solidarietà, e la ricambiano: in un’occasione hanno
inviato 500 dollari di contributo alla lotta degli operai dell’Alfa Romeo di
Arese. Tuttavia, apprezzerebbero ancora di più il moltiplicarsi degli “ya
basta” nel mondo.
Lungi dal
contendere su modelli alternativi, sull’economia di guerra o sulle
collettivizzazioni forzate gli zapatisti ci hanno interpellato.
Dal Chiapas
sembra così tornare - come in un specchio - la critica radicale. Nel corso di
un’animata discussione (Incontro Intercontinentale, tavolo 1, Quale politica
abbiamo e di quale politica abbiamo bisogno. Aguascalientes di La Realidad, 31
luglio 1996), Gustavo Esteva e Jean Robert prospettarono la necessità di andare
oltre l’economia, triste scienza nata per amministrare la penuria e
giustificarne l'esistenza.
Il tipo di
rapporti che adesso chiamiamo “economici” non pervengono a dominare la totalità
della vita che a partire dai tempi moderni. “Nella misura in cui rimaniamo
sotto il dominio dell’economia - incalzò Harry Cleaver - rimaniamo all’interno
della logica del capitalismo. L’economia è la scienza del capitale. La nostra
lotta deve rompere il vincolo tra la vita e il capitale” (Tavolo 2, La
Questione Economica. Storie di orrore. Aguascalientes di Roberto Barrios, 2
agosto).
Più che di
un’economia alternativa, abbiamo bisogno di una maniera alternativa di
concepire i problemi relativi al benessere e le necessita sociali.
La
liberazione umana non è - come già sapevano i rivoluzionari del passato - una
questione politica, nè economica, ma sociale: essa non passa da una
qualsivoglia presa del potere o da una ridistribuzione della ricchezza, ma
dall'abolizione di tutto ciò che esiste separatamente dagli individui.
Afferma il
comandante David; “Per molti il potere è il palazzo nazionale: per noi il
palazzo nazionale è solo un edificio. Il potere è altrove”.
“Quale sarà il nostro
contributo alla felicità dei nostri compagni? Che si perda nel nostro cuore
tutto ciò che è solo per noi!”
(poema tojolabal)
“Delle
capacità individuali non vogliamo sapere nulla al di fuori dell’uso
rivoluzionario che se ne può fare, uso che acquista significato nella vita
quotidiana” (Raoul Vaneigem)
L’EZLN,
quindi, non è un'organizzazione che si sovrappone alle comunità indie, nè
qualcosa ad esse estraneo. E' lo strumento di cui i maya del Chiapas (o un buon
numero di essi) hanno scelto di dotarsi per difendere il proprio cammino, per
fare udire la propria parola.
Marcos,
massimo dirigente militare, è subcomandante non perchè egli sia subordinato
individualmente a comandanti come David, Tacho, Zebedeo o Ramona e tanto meno,
come adombrato da certuni, perchè non indigeno, ma perchè fra gli insorti è
subordinata la funzione militare a quella civile.
I principi
organizzativi che presiedono alla struttura militare zapatista sono
inevitabilmente gli stessi che le comunità adottano in ogni altra attività. Il
loro metodo è quello della radicalità intesa nel senso della ricerca
puntigliosa della radice di ciascuna questione.
Il risultato
cui tendono diviene quello di una straordinaria semplicità. Non la semplicità
di chi rimane in superficie, di chi pretende di banalizzare le questioni per
“dar modo a tutti di comprendere” ma, viceversa, la semplicità di chi -
percorrendo fino in fondo il cammino della consapevolezza - perviene là dove i
problemi sono ancora bambini.
E un poco
bambini appaiono gli zapatisti in tutta la loro vicenda, dalle grandi feste
colorate (che irresistibilmente richiamano alla mente Fourier), all'amore per
le parate e per i riti, alla gioia sincera di farsi conoscere e riconoscere,
alla curiosità e alla ritrosia nei confronti dei visitatori.
Confida un
anonimo militante chol: la ribellione zapatista è una specie di carnevale
prolungato, un rito ripetuto e mascherato che dura ormai da tre anni
(testimonianza raccolta da Antonio García de León).
Levandosi in
armi, i maya hanno rivendicato una vita vera e al tempo stesso iniziano a
viverla come un’irripetibile avventura.
Essi
ripetono a se stessi e ripetono al mondo: “è tornata la storia, Votan-Zapata è
di nuovo in mezzo a noi. E' venuta l'ora di festeggiare perchè abbiamo preso
infine possesso della nostra eredità”.
“Di fronte al disastro
dell'utopia capitalista, rinasce l'utopia dei popoli che hanno saputo
resistere”
(Douglas Bravo)
Gli
zapatisti vivono sul filo di un confronto mortale. Non sono soli. La loro è
l’ultima modalità di un vecchio conflitto, la sempre rinnovata lotta fra la
vita e il movimento autonomo del non-vivente, fra gli esseri umani e le merci,
fra l'umanità e il neoliberismo.
Il
neoliberismo - occorre dirlo - assume, specialmente nell'accezione che Marcos
ha adottato nei suoi testi, i connotati di un moderno Leviatano, metafora di
una realtà complessa, prodotto di quest'epoca contraddittoria.
Cos’è il
neoliberismo di cui parlano gli zapatisti? Non certo una corrente economica da
combattere in favore di un’altra. Il neoliberismo è, semplicemente, l’ultima metamorfosi
del capitale, quella che tutti - in Chiapas, in Europa o negli Stati Uniti -
soffriamo in prima persona. É il nemico comune che unifica i nostri cuori, la
fase storica in cui si afferma la dittatura dell’economia a scapito di ogni
altra dimensione umana.
É stato il
declino del ciclo di rivolte degli scorsi decenni a lasciare nuovamente
l'iniziativa a un capitalismo, reso ancor più arrogante dal disvelamento della
grande menzogna sovietica. La cortina di ferro è caduta solo per essere
sostituita da infinite palizzate
Il
capitalismo unisce solo per meglio dividere: è il mondo che separa tutti i
mondi.
La
globalizzazione dà impulso al vorticare demente delle merci e dei capitali in
caccia di sempre più improbabili profitti ed imprigiona gli esseri umani dietro
un reticolo di frontiere solo in parte visibili.
Esattamente
come Marx aveva previsto, il capitalismo riduce gli esseri umani ai limiti di
sussistenza, crea unicamente dissipazione, miseria e rovina.
La guerra -
calda, fredda, civile, latente, di bassa o alta intensità - che il nuovo ordine
imperiale doveva cancellare dal mondo, si radica ogni giorno di più in tutti i
continenti. I proletari di cui era stata frettolosamente proclamata
l'estinzione ritornano oggi come profughi, esclusi, prigionieri, sans papier.
Il
neoliberismo si presenta così come resa dei conti fra il capitalismo e la sua
inevitabile contraddizione, gli esseri umani. Se questo è il nome che i suoi
apologeti hanno voluto attribuire ad un periodo storico dai contorni ancora
confusi, l'EZLN, adottando a sua volta questa definizione, ha ottenuto al tempo
stesso di liberarsi dalle pastoie di una terminologia esausta e snervata dagli
abusi della Seconda, della Terza e della Quarta Internazionale e di proporre al
mondo un bersaglio preciso, di portata e validità planetaria.
“Se si dice la verità, si è
sicuri di essere scoperti, prima o poi”
(Oscar Wilde)
“Servire,
non servirsi; rappresentare, non sostituire; costruire, non distruggere;
obbedire, non comandare; proporre, non imporre; convincere, non vincere;
scendere, non salire” (Congresso Nazionale Indigeno, Città del Messico, 12
ottobre 1996)
L'arma
totale degli zapatisti, quella che ha garantito loro tre anni di vittorie
pressoché ininterrotte, è senza dubbio la parola.
Parola vera,
parola di verità, che viene dal fondo del tempo per parlare al mondo di oggi e
al mondo a venire.
Nel regno
universale della menzogna, nella società dello spettacolo in cui il vero è solo
un momento del falso, essi hanno liberato parole prigioniere: democrazia,
libertà, giustizia.
E,
incredibile a dirsi, hanno restituito al suo significato originario una parola
relegata nel tanfo lessicale della piccola borghesia perbenista: dignità. Dopo
gli zapatisti, la dignità non odora più di decoro formale, di aspirazione
meschina di sembrare ricchi. Oggi, quando parliamo di dignità pensiamo al
valore intrinseco della persona, a ciò che le proprio, alla nobiltà che può e
deve appartenere alla condizione umana.
A parlare
così è una voce che viene da lontano, attraverso millenni di parole ripetute
all’ombra della grande ceiba. Una voce che si alimenta della tradizione maya;
una voce che raccoglie la parola, “wok ta woK”, come dicono i tzeltal.
Una voce,
infine, che ha saputo dialettizzarsi con quella dei rivoluzionari di tutto il
mondo, anche grazie al personale contributo di Marcos.
Questi nasce
come oratore, come scrittore e come pensatore il primo gennaio del 1994. É il
megafono della rivoluzione in marcia a trasformare l'oscuro generale di un
esercito ignorato nello scrittore che abbiamo imparato a conoscere ed amare.
Il
linguaggio che tanta parte ha avuto nel successo internazionale degli zapatisti
non nasce tuttavia dal cervello del Sup, già armato e pronto alla battaglia,
alla maniera di Pallade Atena; nè d'altro canto costituisce una semplice
trasposizione di forme espressive indigene fissate nel tempo una volte per
tutte.
Esso non è
il frutto di una ricerca linguistica condotta a tavolino, bensì l'espressione
vivente di un’esperienza che riprende il filo conduttore di ribellioni antiche
alimentate dal ricordo di un’età dell’oro sbriciolata dalla conquista e di
nuovo triturata dagli attuali signori dell’economia.
Lo stile
zapatista sorge da quell’“universo di anime in pericolo” dove si ascoltano le
profezie di Chilam Balan, gli auspici dei cruzob yucatechi, il vangelo
capovolto dei ribelli di Cancuc, il mormorio delle cassette parlanti di San
Juan Chamula, il grido sordo degli impiccati ed il clamore dei rifugiati
guatemaltechi in fuga dal genocidio.
E si
scorgono segnali luminosi, indicazioni che riguardano la vita di noi tutti:
“anteponiamo le persone ai risultati”; “siamo soldati di un esercito che lotta
per cessare di esistere”; “il potere non è qualcosa da prendere, è una
relazione sociale da costruire”.
“Insomma dal Messico ci
aspettiamo una nuova concezione della rivoluzione e anche una nuova concezione
dell'essere umano che servirà a nutrire della sua vita magica l'ultima forma di
umanesimo”
(Antonin Artaud)
“Non si
tratta di rifondare ciò che non esiste più, ma di costruire ciò che non esiste
ancora, un nuovo mondo, un nuovo immaginario, un'altra forma di rapporti tra le
donne e gli uomini” (contributo di Radio Sherwood all’Incontro
Intercontinentale).
La
magistrale padronanza della parola costituisce per gli zapatisti il fondamento
di una condotta che pare avere perfettamente assimilato gli insegnamenti del
passato creando al tempo stesso un proprio inconfondibile stile.
“Lavorare inassemblea quando si è insieme, in rete quando si è separati”, motto del Foro
Indigeno Nazionale, riassume bene il metodo di azione che essi propongono.
Allo stesso
modo, gli Aguacalientes, le strutture costruite dai ribelli per ricevere i
visitatori nei territori da loro controllati e “scambiare” idee, progetti ed
emozioni sono il modello nuovo di agglomerato umano centrato anche fisicamente
sul luogo della parola comune, dell’incontro, del dialogo.
Di fronte
alla presa di possesso dell’ambiente naturale ed umano da parte del
capitalismo, gli Aguascalientes comportano l’invenzione di una nuova
urbanistica, l’umanizzazione cosciente e ludica dell’ambiente. Qui, secondo le
parole di Giulio Girardi, “i popoli indigeni progettano e costruiscono
autonomamente vasti spazi di riunione e di mobilitazione politica e culturale”.
Tutti sono
coinvolti nell’esperienza. Negli Aguascalientes, i bambini della comunità si
abituano a parlare con italiani e giapponesi, francesi ed olandesi; e hanno
abituato gente di ogni parte de mondo a parlare insieme con loro. Nessuno potrà
più farli tacere, farli tornare sotto la superficie della storia.
Nel Chiapas
insorto si sperimenta senza posa: i centri di salute, praticano con i pochi
mezzi a disposizione sia la medicina tradizionale che quella occidentale. I
criteri di gestione dell’ambiente mostrano una sensibilità antica mai disgiunta
da una consapevolezza specifica del nostro tempo. Una volta di più, le
questioni tecniche si rivelano in realtà questioni sociali.
A partire da
una scelta di “inclusione” (che implica il rifiuto di ogni settarismo) gli
zapatisti ci propongono di “costruire un mondo che contiene molti mondi”. Così,
la loro lotta contiene molte lotte, su mille piani che interagiscono fra loro,
e ammettono contemporaneamente la trattativa con il governo, il controllo in
armi del territorio, la minuziosa organizzazione di eventi internazionali
(“intergalattici”), la comunicazione multimediale.
Lotta
armata, lotta politica, lotta economica, lotta culturale sono tutti piani in
cui gli zapatisti reputano di mantenere l'iniziativa, di dettare sempre e
comunque il terreno del confronto.
“Queste parole vanno
sussurrate all'orecchio di coloro che non hanno padre e sono senza casa.
Bisogna nasconderle così come si nascondono i gioielli e le pietre preziose”
(profezia di Chilam Balam)
Nel corso
dei dieci anni che precedono la sua apparizione pubblica, l’EZLN tesse una
fitta trama di rapporti discreti, crea nuovi vincoli, altri ne dissolve.
Tutto
avviene nel silenzio della clandestinità.
A partire
dal primo gennaio 1994 i maya, maestri nell'arte di resistere, imparano l’arte
di comunicare con gli altri, di chiamare a raccolta persone radicalmente
diverse. Forse senza averlo voluto, hanno convertito il Chiapas nell’ancoraggio
di una grande rete che si va levando come una vela nel cielo della storia.
Una rete
che, con un pizzico di ironia, si è data il nome di Internazionale della
Speranza. Non una riedizione delle sconfitte del passato, ma un’esperienza che
si vuole radicalmente nuova e che attende il nostro contributo.
La storia
dell’EZLN dal momento della sua apparizione pubblica è punteggiata da una serie
ininterrotta di proposte ed occasioni di incontro che cominciano con il dialogo
nella Cattedrale di San Cristobal (febbraio 1994), proseguono con la
Convenzione Nazionale Democratica a Guadalupe Tepeyac (la prima Aguascalientes,
agosto 1994), passano per le diverse tappe dei dialoghi di pace a San Andres
Sakam’chen (giugno 1995-agosto 1996), la Consulta del 1995, il Foro Indigeno
(dicembre 1995-gennaio 1996), la creazione del Fronte Zapatista (febbraio
1996), l'Incontro Continentale (aprile 1996) e l’Intergalattico (luglio-agosto
1996), il Congresso Indigeno (ottobre 1996) e si proiettano nel futuro con la
Consulta Mondiale del 1996 e un nuovo Incontro Intercontinentale per il 1997,
questa volta da tenersi in Europa. Sono altrettanti appelli, richiami e inviti
a salire a bordo.
Le proposte
inizialmente orientate principalmente al Messico si sono progressivamente
allargate al mondo dove il neozapatismo riscuote successi crescenti.
Occorre
contemporaneamente prendere atto che, dopo le prime imponenti mobilitazioni, in
Messico la risposta è stata, a tutti gli effetti, insufficiente. Tanto i
movimenti democratici, come le diverse forze guerrigliere presenti nel paese,
per un motivo o per l'altro, non hanno ripreso che molto parzialmente le
possibilità aperte dall'apparizione dell’EZLN.
Perchè?
Rispondere non è facile e ci limiteremo qui a alcune osservazioni. Innanzitutto
le circostanze favorevoli al cambiamento rivoluzionario non durano mai a lungo.
L’occasione del 1994 non è stata colta ed il Messico è entrato in un’altra fase
dai contorni ancora incerti. Gli zapatisti stessi avvertono questa situazione
quando dichiarano: “Sappiamo che da soli non andremo molto lontano”.
Si potrebbe
anche rilevare che non sempre quanto di valido si è prodotto all’interno delle
situazioni da essi stessi create è stato poi ripreso dagli zapatisti. Non
sempre, forse anche per via delle difficoltà militari, l’EZLN è riuscito a
mantenersi all’altezza di quel dialogo includente la cui necessità proclama con
tanta ragione.
Ciò
spiegherebbe, fra l’altro, i ripetuti quanto fumosi appelli alla società
civile. É vero che nel linguaggio dei ribelli la società civile allude
all’emergere di nuovi soggetti, allo spazio costruito fuori dai partiti
tradizionali, all’urgenza di inventare nuove forme di pratica collettiva.
Tuttavia, di fronte alla scarsità di interlocutori reali, la “signora società
civile” rischia di somigliare sempre più ad un personaggio immaginario.
Inoltre,
mentre gli zapatisti cercano di costruire la pace nei loro territori, il resto
del paese, compreso il nord del Chiapas sembra precipitare verso una situazione
di violenza incontrollabile. Nelle regioni del conflitto prevale una calma tesa
però, nelle campagne del Guerrero, nella Huasteca, in Oaxaca, in Vera Cruz,
Puebla, Michoacán - tanto per citare solo i luoghi più caldi - regna la logica
della guerra sporca.
Se da San
Andres sono usciti degli accordi importanti per modificare la Costituzione in
senso favorevole ai popoli indigeni, non bisogna dimenticare che la storia del
Messico è punteggiata di “trionfi di carta”.
"Aguascalientes che fanno
nascere fiori nei deserti, machete di sogno che aprano il cammino nelle selve
metropolitane, una magia esplosiva per forzare la cassaforte del mondo”
(contributo del Consolato
Ribelle del Messico, Brescia, all'Incontro Intercontinentale)
“La
rivoluzione proletaria è questa critica della geografia umana attraverso la
quale gli individui e le comunità costruiscono i siti e gli avvenimenti
corrispondenti all’appropriazione non più solo del loro lavoro, ma della loro
storia totale” (Guy Debord).
Come nel
1968 in Francia e negli Stati Uniti, come nel 1972 in Italia, le elezioni
dell’agosto 1994 hanno visto, al di là dei brogli, la vittoria del partito di
stato, una deprimente ratificazione del totalitarismo del PRI (Partido
Revolucionario Institucional), il mostruoso Moloch politico che si mantiene il
potere da settant’anni.
La clamorosa
sconfitta della sinistra dimostra, una volta di più, che i risultati elettorali
esprimono leggi proprie, indipendenti e spesso in contrasto, con la vita dei
movimenti sociali.
Oggi, il
Messico rimane immerso in una crisi profonda da cui, a breve scadenza, non si
intravede l’uscita.
Da parte
loro gli zapatisti devono ancora costruire i propri interlocutori.
Interlocutori che, a partire dal modello della rete, non si limitino a
riecheggiare slogan preconfezionati ma, come nel telefono senza fili, sappiano
rimodellare il messaggio in arrivo, farne la base di una nuova e superiore
proposta, sappiano essere all'altezza di un gioco in cui tutti sono conduttori
e nessuno è comparsa.
Devono,
secondo le parole di Marcos “creare uno spazio di lotta politica degno affinché
i membri dell'EZLN possano continuare ad essere ribelli in un modo che non sia
quello della clandestinità', dei passamontagna e delle armi” (quotidiano “La
Jornada”, 26 novembre 1996).
Indipendentemente
dal corso degli avvenimenti, indipendentemente da ciò che sarà di loro, gli
zapatisti hanno già dato un contributo enorme alla reinvenzione di una pratica
sovversiva.
Dal primo
gennaio 1994, “siamo chiamati a scegliere tra due progetti di civiltà” (Giulio
Girardi, Tavolo 5, ‘In questo mondo ci sono molti mondi’, Aguascalientes di La
Garrucha, 30 luglio 1996); nulla potrà essere come prima.
Gli
indigeni, la faccia eternamente occultata del Messico, hanno mostrato una
secolare ed ininterrotta esperienza della democrazia diretta e dei suoi
strumenti che può divenire risorsa per il mondo intero.
Gli
zapatisti, dal canto loro, hanno inventato una nuova pratica in cui la
rivoluzione diviene un flusso ampio che, senza scendere a patti con nessun
potere separato, assicura a tutti la possibilità di partecipare, di rimettersi
in gioco, di ripartire in qualche modo da zero.
Chiarendo
nei fatti che la globalizzazione produce miseria e distruzione mentre allo
stesso tempo crea inedite possibilità di ascolto e comunicazione, essi hanno
svelato l’arcano del neoliberismo, anticipandone l’affossamento.
Nella
globalizzazione - essi ci dicono - gli qvvenimenti e le identità acquistano
nuove simultaneità, coniugano tempi storici differenti. La rivoluzione sociale,
frettolosamente scongiurata dai potenti della terra, vi ritorna come affermazione
ludica di ‘tempi indipendenti federati’, mondo che contiene tutti i mondi...
“Non è necessario conquistare
il mondo, basta che lo rifacciamo. Noi, oggi.”
(La Realidad, scritta murale)
La
rivoluzione da Internet di cui parlava il ministro degli esteri messicano, José
Angel Gurría, per tranquillizzare i mercati internazionali, minaccia di
oltrepassare i confini della realtà virtuale. Mentre scriviamo, molte persone
nel mondo si parlano anche grazie al “delirio di un manipolo di indios armati
di fucili di legno”.
L’avventura
è cominciata: e noi? Se vogliamo rinnovarci, procedere con loro alla ricerca di
un percorso per uscire davvero dal ventesimo secolo, dobbiamo interrogarci sul
segreto di quell’“innocenza che è capace di rinnovare ciò che è vecchio” (Mario
Lippolis). Dobbiamo riprendere l’esperienza zapatista laddove essa è pervenuta,
nell’invenzione di una nuova pratica sovversiva e della sua coerenza.
Un’invenzione
che non può che essere collettiva.
Si tratta di
lavorare insieme per elaborare alternative. Alternative non soltanto
economiche, bensì alternative di civiltà.
Se il
capitalismo ha fabbricato l’individuo solo per atomizzarlo, la comunità
ricostruita fuori e contro il dominio del capitale può diventare l’ambiente
della polivalenza, il luogo dell’incontro, della transizione, della ricerca.
Come ci
diceva Douglas Bravo, il vecchio guerrigliero venezuelano (La Realidad,
Chiapas, 1 agosto 1996): “Non si tratta di imitare modelli: non occorre mettersi
un passamontagna. Chi vive in una grande città europea può introdurre nelle
proprie lotte elementi “zapatisti”, elementi comunitari, di solidarietà, di
autogestione”.
Può,
aggiungiamo noi, instaurare la verità nel mondo, creando situazioni dove il
dialogo si armi per far vincere le proprie condizioni.