Colombia, la ‘Comuna 13′ a Medellin: dove la poesia è speranza
È una città
divisa a metà Medellin. A guardarla dall’alto, in cima all’ultima
stazione del Metro-Cable, le teleferica che congiunge il centro alle Comunas
arrampicate sulle colline, sembra una ferita, un lembo di pelle aperta, stretta
nella sua valle smilza, debordante sin in cima alle alture andine che la
stringono. Viva e dolorante. A guardarla di notte, invece, a me sembra Napoli
e al centro della vallata di Aburrà, dove le luci spariscono, mi viene da
immaginare un mare che non c’è.
È una città
divisa a metà Medellin, e anche il suo futuro lo è, tra quello che immaginano
le élite progressiste, tutto fatto di urbanistica e tecnologia
all’avanguardia e quello che invece vorrebbero le organizzazioni di base, meno
‘visibile’ magari, ma più sostanziale.
Comuna 13 è il centro e il simbolo di questa ferita che si
chiama Medellin. Ora ci sono delle modernissime scale mobili per giungere fin
là in cima, ma a Comuna 13, il luogo più violento di quella che è stata
la città più violenta del mondo, si continua a morire di soprusi e di indigenza.
E la pace è ancora lontana.
Comuna 13 è un junto de barrios (un insieme di ‘quartieri’) nella zona Nord
Occidentale della città. Ce ne sono tante di Comunas a Medellin, ma
Comuna 13 è una sola. È l’esempio più compiuto di quella che in Colombia
si chiama la ‘guerra nelle città’, gemella dell’altra, quella della montagna,
contro le Farc e i paramilitari fascisti.
Terra di
conquista per tutti, narcotrafficanti, Farc, bande paramilitari della destra
estrema, Comuna 13 vive da anni in guerra, una guerra sempre
dichiarata in nome di una supposta e comunque inattingibile ‘pacificazione’.
A pagare il
prezzo più alto sono sempre gli stessi: i civili, i bambini, le donne, i
vecchi. Centinaia e centinaia di morti innocenti. Hanno provato a
pacificarla sempre nello stesso modo disgustoso, con lo sgombero forzato
e con una serie di operazioni militari che sono servite solo ad aumentare
dolore e pena.
Il nuovo
millennio a Medellin è iniziato così: decine di morti innocenti per sloggiare
le Farc e consegnare la Comuna 13 alle bande paramilitari dei
fascisti capeggiati da Don Berna e ai loro
amici narcos.
Ci sono
centinaia di cadaveri interrati e dimenticati nella ‘escombrera’, la discarica
di terra e materiali edili che sta al colmo di una delle collinette di Comuna
13. Tutti lo sanno, ma ancora nessuno ha il permesso di scavarci, per
ritrovarli.
Stavolta, però,
i giovani della Comuna hanno detto basta. Hanno iniziato ad organizzarsi
a fare arte, cultura, contro-informazione, a provare a ridare una
speranza e un’identità a questa comunità, un’identità che rifiuti la violenza,
tutta, quelle delle bande e quella di una polizia troppo spesso simile e
complice. Si fa ottimo hip-hop a Comuna 13, si fa teatro, si dipinge, si
danza, si raccontano storie differenti.
È la prima
volta che la gente si autorganizza, che non ha più paura e questo fa paura a
chi per vivere mette paura agli altri. Alle bande armate, tanto quanto ai
poliziotti, questi ragazzi non piacciono affatto. Iniziano a temerli.
È da loro che
stiamo andando, da loro per leggere le nostre poesie a Comuna 13. Il Festival
di Medellin è anche questo, anzi è soprattutto questo.
Siamo in tre:
io, Outsposken, un rapper dello Zimbawe, e Hilario Chacin, un poeta boliviano
della Nación Wayuu.
Quando
arriviamo, la sala dove dovremmo esibirci è sbarrata: ufficialmente non c’è
disponibilità del personale a fare straordinari, ma in realtà ci dicono
che una banda armata (una Bacrim come dicono qua) ha chiesto soldi, molti soldi
per permettere che avvenga il reading.
Non se ne parla
nemmeno. Proprio là, due giorni prima, un’altra Bacrim ha assassinato a colpi di pistola un rapper di 14 anni. Si chiamava Camilo. Loro non ce lo dicono per non spaventarci, noi non ne parliamo per non
sembrare spaventati.
Così ci
sistemiamo fuori, davanti a un campetto di calcio, su un minuscolo
slargo tra due palazzi.
Un microfono
collegato a un altoparlante amplificato, una serie di barattoli di conserva
vuoti, dipinti alla meglio, issati in cima a bastoni e riempiti di cotone
inzuppato d’alcol per l’illuminazione: questo è il nostro teatro stasera.
Il nostro
pubblico, invece, è una miriade di bambini bellissimi, tenuti d’occhio
dalle mamme affacciate a finestre e balconi, una ventina di giovani delle
associazioni che si danno da fare per cambiare la situazione ‘dal basso’ e
qualche passante incuriosito.
Yuri Zambrano, un poeta messicano che sta con noi, nell’attesa dell’inizio, mette su uno
spettacolino per i bimbi, lì all’impronta, una roba tutta fatta di versi e di
smorfie, che ha grandissimo successo.
Inizia la
lettura. Tutto fila liscio fin quasi alla fine, poi, mentre il presentatore sta
annunciando che è il mio turno, si sentono alcuni colpi secchi e immediatamente
dopo le sirene chiocce di due moto della Policia che corrono su,
sempre più su,verso l’altra parte della collina.
Il presentatore
si interrompe, le mamme richiamano i bambini. Si sentono solo le sirene, che si
allontanano, poi ritornano sfrecciando: di su non si può, tentano altrove…
È un attimo.
Poi passa. Mi alzo e leggo, leggo come se fosse la cosa più importante del
mondo e poi legge Gustavo il mio traduttore che a Comuna 13 ci è nato. Legge in
spagnolo e sorride Gustavo, che è abituato: sia alla poesia che a Comuna 13.
Alla fine
applaudono tutti, noi poeti, i ragazzi, i bambini, i pochi curiosi che hanno
avuto voglia e coraggio abbastanza per fermarsi.
Sembra che non
sia accaduto nulla e invece, probabilmente, qualcosa è accaduto ed è
importante. Ci abbracciamo – uno per uno – con il nostro sparuto e testardo
pubblico.
Io non so se
davvero la poesia possa essere utile a cambiare il mondo, anzi sinceramente
penso di no, ma il sorriso di quei ragazzi, la loro gratitudine per il
fatto che eravamo arrivati sin là da loro a leggere le nostre inutili poesie,
il loro sogno di cambiare le cose con le parole, la musica, i segni, la
curiosità divertita di quei bambini e delle loro madri, mi instillano il dubbio
che forse è proprio così, che forse anche io e le mie poesie possiamo fare
qualcosa, marcare la differenza tra il buio e una parvenza luminosa di speranza.
Una speranza ‘concreta’. Ho in mente Ernst Bloch, ovviamente. Ma poi
smetto. Meglio guardare dove metto i piedi, tra buche e motorini che sfrecciano
veloci.
Stiamo andando
via, scortati da qualche ragazzo e un po’ di bambini, è buio e scendiamo verso
la strada dove infine si azzardano a passare anche i taxi. Sullo sfondo vedo la
‘escombrera’ e penso che chissà, magari un giorno qualcuno ci scaverà. O che
forse potremmo essere noi, noi poeti intendo, ad andarci a leggere, proprio lì,
e poi a iniziare a scavare, a scavare, a scavare, con le nostre mani, fino in
fondo, fino a un fondo così fondo che nemmeno si può immaginare. Ché, per
andare a fondo, cosa c’è di meglio della poesia?
Questa società moribonda aspetta
solo i poeti che decidano di farne il funerale aprendo le porte a un nuovo
mondo in attesa da troppo tempo