The Orient Express Takes Its Final Trip |
Ero riuscita a ramazzare ventimilalire lire e a portarmi a casa una Eko. Poi le urla di mio padre, l’indifferenza di mia madre, non volevo sfinirmi di liti, meglio andar via.
E sono qui, la stazione centrale mi stringe di suoni e odori. Antitesi al gotico, vuoto assoluto. Altro clima Cadorna, senti ancora le famiglie di inizio novecento che lasciano Milano per la comanza, leggera e raccolta da sembrar pulita.
Oppure mi fotte il vissuto, per me è sempre stata la porta su Milano, sulla libertà, sul mondo intero. Il passaggio obbligato all’avventura, per noi di provincia.
Trascino il mio zaino, rosso, profumato di nuovo, il treno è stipato all’inverosimile. La chitarra batte sulla coscia ritmando ad ogni passo la stanchezza, spero nel miracolo di una carrozza meno affollata, nulla. Tocca rassegnarsi, si viaggia davanti al cesso.
Mi aggrediscono lingue sconosciute, richiami di madri e bambini, gli uomini fumano, giocano a carte sputando semi nel bailamme di cibo e bagagli.
La processione dei ragazzini è finita, hanno visto tutti questa donna senza velo, che viaggia sola e fuma in pubblico. Elaborato e passati oltre. Sulla banchina si sgola chi vende panini e il treno non parte. Chissà da quale est arriva, inessenziale, conta solo il destino.
Dalla banchina si sporgono due occhi neri, mi scrutano stanchi di vagare. Scivolo dal viso, capelli crespi e giacca sfatta. Sì, siamo della stessa tribù, puoi smettere di chiederlo con gli occhi. Sale.
-Ciao, posso piazzarmi qui?-
-Certo, in due è più facile tenere la postazione.-
-Francesco, e tu?-
-Clara, vai a Parigi?-
-Sì, anche tu?-
Annuisco mentre si accoccola di fianco al suo zaino.
Chiudono, finalmente si parte, scorrono sporche pareti di cemento, ritmico il frastuono del treno ci avvolge e finisce Milano.
-La chitarra?-
-È mia, meglio che lo sai subito, non so suonare.-
-E perché te la porti in giro?-
-L’ho appena comprata, non potevo lasciarla a casa… non so se torno.-
-Nuova di pacca, Eko… buona, dai te la accordo. Passa qua.-
-Sai suonare! Che botta di culo!-
Scorre le dita sul legno, sornione, si raccoglie sullo strumento assaggiando i suoni, un rituale vibrato, un preludio di festa.
La coda alla ritirata si scompone, visibilmente curiosi di scoprire la colonna sonora del viaggio. Sussurrano frasi, sorridono e aspettano.
Sorprende anche me il blues che si apre improvviso, fluido nell’inseguirsi di note. Ci scopriamo rapiti nello stesso dondolio, lo stesso ritmare di mani sulle cosce.
La musica è strana, quasi più importante dei ricordi che evoca. Sarà lo stesso per gli altri? Discorsi di massimi sistemi che mi imbarazzano. Mi vedo, pontificare, snocciolando concetti e perdendo irrimediabilmente il senso del vissuto che accompagna.
La parola è così riduttiva, limitata per l’oceano delle sensazioni.
A volte basta un accordo e sono in altro luogo, in altro tempo, sola con me stessa, in uno spazio che non voglio condividere, che mi appartiene intero.
Ritorno al presente, al liquido e arabeggiante dialogo di Francesco col suo pubblico, che lo guida, canticchiando a mezza voce su un percorso che non gli appartiene.
-Ehi? Dove ti sei persa?-
-Scusa, pensavo. Sai che suoni bene? Anche questa cosa strana, ma cos’è?-
-Credo sia musica popolare turca, curda, qui è un casino… Quel ragazzo con cui cercavo di parlare credo sia curdo, se ho capito bene torna con la sorella.-
-Ti hanno preso in mezzo, maledirai me e la mia chitarra.-
Me la rido, era quello che avrei voluto e a Francesco non dispiace essere il centro del mondo. Sembra leggermi nel pensiero.
-La musica ti trasforma in un’attrazione irresistibile, non mi dispiace, anche se a volte rimani solo. Tutti si divertono e tu… suoni come un jukebox.-
-Puoi sempre smettere, no?-
-È difficile, sopratutto quando ti guardano così… come se fossi un dio, come se governassi il suono. Ti esalta. Sai, io non sono poi così bravo, ho imparato da solo, a orecchio, non ho mai avuto voglia di studiare musica.-
-Sei sempre in tempo-
-Non ho proprio voglia, non sarei mai abbastanza bravo perché ne valga la pena. Mi piace il casino, la festa.-
-E perché non ti sei portato la chitarra?-
Apre lo zaino e sfila un violino. Dio che scema! Era un archetto! Certo che appeso con un pentolino… è dura capire.
-Non ho la chitarra, di solito suono il violino.-
Trascinata a forza appare una ragazza minuta, pelle e ossa, le ridono gli occhi mentre cerca di guardare altrove. Il ragazzo abbozza due parole in francese.
-Si chiama Emek, la sorella Birdal e suona il sax… il sax? Mi sembra strano.-
-Hai capito quasi bene, è una specie di liuto: il saze.-
Si siedono per terra, tra sguardi e bisbigli.
-Credo voglia la chitarra, posso?- chiede Francesco.
-Certo, sono solo l’interprete.-
Birdal pizzica le corde, l’archetto risponde, si inseguono tra pause e riprese, poi si trovano, prorompono percussioni di mani e oggetti sulle paratie, una nenia densa, chilometri e chilometri di tristezza e amore ci avvolgono in questo altrove senza peso né storia.
Un reel mi riporta al presente, Francesco si è perso sulle strade d’Irlanda, il pubblico apprezza tra sventolio di fazzoletti e accenni di danza pacati dall’infimo spazio.
Birdal va da una zia, lascia in Kurdistan un villaggio distrutto, la persecuzione turca, vorrebbe imparare a scrivere, a leggere. È così lontana da me che vivo la scuola come una prigione, ha venduto il saze per pagarsi il passaggio.
Vorrei capire di più ma un pubblico inclemente la trascina nei suoni. Accennano note a mezza voce, le cerca, le raggiunge e dove pulsava sincopato il blues, un abisso di bassi, Birdal materializza suoni strascinati, vibrati, dolci come il miele. Intorno scorrono lampi di luce, di case sconosciute, di strade mai percorse. La notte ci avvolge di stanchezza, anche Francesco depone il violino e torniamo nel suono sordo e pesante del treno.
Ci sveglia brusco il vocio e l’agitazione dei passeggeri, il treno è fermo e si scaricano gli ultimi bagagli.
-Merda! Siamo arrivati!-
Mi guardo intorno, la chitarra è sparita.
-Cazzo! Lo sapevo, dovevo legarla da qualche parte.-
-Il violino c’è. Ci dormivo sopra, dura fregarlo.-
-Chi la trova più, a quest’ora saranno già usciti tutti dalla stazione.- ribatto sconsolata.
-Dai veloci, mi aspetta Pierre, lavora nelle carrozze ristorante, forse ci da una dritta.-
Arranchiamo insonnoliti sulla banchina, schivando uomini e bagagli, il caos è totale, Francesco ha visto il suo amico.
-Pierre, ehi? Sono qui!-
-Ciao, tutto bene? È la tua ragazza?-
Sento scivolare il suo sguardo sul corpo, spera in un no e si vede.
-Un’amica, Clara, abbiamo viaggiato insieme, le hanno fregato la chitarra. Credi si possa fare qualcosa?-
Pierre osserva il caotico mondo che ci circonda… e non serve altro.
-Certo, stupido sperarlo! Probabilmente è destino che non impari a suonare.-
Pierre mi guarda e sorride.
-Consolati, era l’ultima corsa verso Parigi del Direct- Orient Express, stanotte riparte per Istanbul e poi è finita. Potrai sempre raccontare che ti hanno rubato la chitarra sull’ultima corsa dell’ Orient Express. Non è da tutti.-
Mi strappa un sorriso. Io penso a Birdal, lo so, ha lei la mia chitarra. Sa suonare, io leggere e scrivere. Forse un giorno l’Orient tornerà a viaggiare e noi come di magia ci riincontreremo.
Io lei e la musica.
“Maggio millenovecentosettantasette” di Grazia Bomba
Premio Racconti nella Rete 2015