lunedì 14 dicembre 2020

Appunti di una riflessione in fieri In cerca urgente di una pratica

 



 

“Non è mai troppo tardi per far scaturire dal passato le fonti dell’avvenire”.

Jean Markale, La femme celte : mythe et sociologie, Payot, Paris 1972

 

Una prima affermazione assolutamente fondamentale che riguarda la nuova società che siamo ormai costretti a inventare se vogliamo salva la vita, è che essa non è mai esistita prima. Il che non significa che la storia non porti con sé da sempre le sensibilità, le intelligenze e le capacità necessarie per riuscire nell’intento che il crollo del vecchio mondo, ormai non più soltanto abbondantemente annunciato ma in corso, rende urgente e prioritario.

Sotto la pressione del presente (clima, virus, inquinamento, crisi economica, alienazione, reificazione e chi più ne ha più ne metta), si tratta anche, tuttavia, di ritrovare nel tempo trascorso i fili di Arianna indispensabili per uscire dal labirinto mortifero che ci imprigiona; non per tornare alle origini né per ritrovare un qualunque passato, ma per sviluppare in modo nuovo e diverso la dinamica orgastica che presiede al funzionamento vitale del vivente e dell’umano che ne fa parte.

Risalire alla funzione orgastica dell’organizzazione sociale, alle radici del politico, richiede già di capire questo stesso concetto[1] che potrebbe apparire per molti come un neologismo, mentre è una delle parole prigioniere dell’ideologia di un potere che ha sempre rimosso e falsato ogni discorso radicalmente critico; il sistema dominante ha sempre ostacolato ogni analisi che potesse servire alla coscienza individuale e sociale per emanciparsi dal ricatto costante del dominio imposto ai più da un sistema predatorio di grande efficacia, a vantaggio di pochi destinati a diventare sempre meno numerosi e sempre più ricchi.

Una parte importante della storia umana riguarda il tentativo degli oppressi di sottrarsi al sopruso sociale perpetrato dalle diverse oligarchie che hanno imperversato per millenni, imponendo un ricatto economico fondato su un debito immaginario inventato per addomesticare popoli interi d'individui sottomessi alle corvè più incredibili.

Di questa civiltà antiorgastica è questione e di nessun’altra. Una civiltà strutturalmente disumana che ha bollato come barbari e selvaggi tutti i costumi scaturiti dalla volontà di molti esseri umani di vivere umanamente. Una buona parte della specie umana si è mostrata, infatti, capace di tutto, dalla Comune di Parigi ad Auschwitz. Ecco perché uno dei problemi maggiori da affrontare sta nell’uscire dalla trappola pestifera della morale mercantile che, predicando a un’umanità economizzata l’inseguimento mitico del meglio contro il peggio, impone la schiavitù del bene e del male alienati ai suoi sudditi, tanto intimamente schiavi che si credono liberi[2].

La sola etica laica che permette di sottrarsi ai sensi di colpa “amorevolmente” coltivati da tutti i poteri gerarchici, è quella del piacere orgastico che presuppone la reciprocità e quindi la fraternità e la libertà necessarie per l’uguaglianza dei diversi diseguali – dinamica che non tende a guadagnarsi il paradiso in un cielo immaginario, ma a godere di una vita piena sulla terra.

Fino a oggi tutte le rivoluzioni sociali che hanno minacciato i poteri stabiliti sono sempre rimaste all’interno di un’evoluzione fondata sugli stessi principi di base che risalgono agli inizi della nostra presunta civiltà, inclusiva ormai di tutte le ramificazioni planetarie dell’umano[3].

Con la sua struttura caratteriale antiorgastica, la civiltà produttivista ha intinto le sue radici primitive nell’uso commerciale dei cereali che la rivoluzione agraria ha messo a disposizione dell’umanità, dando inizio a quella che è diventata una catastrofe ormai visibile: l’appropriazione produttivista del processo vitale naturale del mondo organico tramite l’agricoltura applicata al mondo vegetale da cui la vita animale in gran parte dipende, ha modificato strutturalmente i rapporti tra l’essere umano e la natura e tra gli umani tra loro.

Fruttificando naturalmente, le prime semenze cadute dalle mani di donne e uomini che si dedicavano alla raccolta e alla caccia per nutrirsi e sopravvivere, hanno probabilmente dato l’idea ai sapiens del pianeta, e presumibilmente alle donne in prima fila, di intervenire soggettivamente nel processo naturale favorendo la crescita delle piante utili al consumo organico necessario per godere della vita[4].

Se la scoperta e l’addomesticamento (abbastanza relativo) del fuoco aveva contribuito fondamentalmente a far scaturire l’umano dalla scimmia che era, la successiva invenzione/scoperta ben più tarda dell’agricoltura ha dato il via a una modifica antropologica molto più profonda di quel che gli ominidi potevano immaginare. La rottura di paradigma destinata, nei millenni, a sconvolgere addirittura gli equilibri biologici del pianeta, non è stata, però, introdotta dall’agricoltura di sostentamento, solidamente integrata nel processo biologico organico, ma dal produttivismo che ha fondato sul commercio il suo progetto di accumulazione di ricchezze e di dominio sul mondo.

Gli esseri umani organici hanno percepito con la propria intelligenza sensibile che coltivare la terra con accanimento egoista e a fini di lucro era una hubris; un’alterazione strutturale del loro rapporto orgastico con la vita e con la natura che la rende possibile. L’hanno sentito talmente forte che, per almeno quattro millenni (all’incirca dal decimo al quinto millennio prima della nostra era), i popoli raccoglitori, scopritori dell’attività agricola in diversi punti del globo, si sono ben guardati dal farne un fattore di civiltà com’è invece avvenuto in seguito.

Storicamente e certamente non a caso, il concetto di civiltà ha cominciato ad applicarsi all’inizio delle prime società produttiviste mesopotamiche (verso la fine del quinto millennio prima della nostra era) e ha accompagnato pedissequamente il processo di appropriazione privativa del reale da parte di minoranze gerarchiche capaci d’imporre il loro dominio su masse di individui spossessati della loro soggettività organica, resa schiava della supremazia sistematicamente imposta da pochi dominanti ai molti dominati.

Per operare il rovesciamento di prospettiva necessario a cambiare mondo nel tentativo di non sparire insieme con quello che sta crollando, si tratta dunque ora di risalire all’umanità precedente alla civiltà che ha distrutto le società organiche, non con l’intenzione di restaurare il primitivo, ma di uscirne per una strada completamente diversa da quella imboccata dalla società produttivista.

È, infatti, la rovina, ormai visibile a occhio nudo e a cuore ferito, del produttivismo e del suo ultimogenito – il capitalismo – che ci invita, per non dire ci obbliga, a un colpo di mondo di fronte al quale i colpi di Stato e gli imperialismi che hanno imperversato per decine di secoli appariranno come pallidi mutamenti sovrastrutturali di una continuità che il Leviatano produttivista ha orchestrato durante seimila anni della storia umana.

L’umanità primitiva era già, con tutta probabilità, multidimensionale, capace di tutto: dall’aiuto reciproco alla predazione, dalla solidarietà al cannibalismo. La scelta di fondo è sempre stata tra una società gerarchica che teorizza e pratica il predominio terrorizzando, sfruttando e manipolando le sue cavie oppure una società autogestita collettivamente da individui diseguali ma trattati con criteri ugualitari. È questa la linea spartiacque di tutte le avventure sociali della specie umana.

Lungi da ogni mitologia primitivista, è assolutamente credibile che la cultura organica dei primi gruppi dei nostri antenati umani cercasse già nella fraternità e nell’uguaglianza clanica una libertà costantemente in fieri. Essendo per di più l’umanità sparsa in quantità infinitesime su un pianeta immenso, la distanza tra i gruppi rendeva più agevole fondare il sociale sulla parte spontanea di amore orgastico reciproco, regolando con relativa facilità gli eventuali accessi di peste emozionale anticomunitaria e antiorganica che le contraddizioni del vivente possono comunque favorire.

Una buona porzione dell’animalità in via di umanizzazione tende spontaneamente a generalizzare e condividere al meglio ciò che è bene e piacevole per ciascuna, per ciascuno e per tutti gli esseri umani. Vasto programma in costante divenire che un’antitetica cultura del predominio fondato sulla forza e sulla predazione ha contestato con la rabbia e il cinismo della paura che si traduce in violenza, soprattutto quando il contatto tra stranieri ignoranti e superstiziosi, marcato dal timore inconscio dell’ignoto, incita alcuni a preventive risposte violente contro la vera o presunta aggressività altrui[5].

Oltre alle belve che nei tempi antichi costituivano un pericolo oggettivo e diffuso per la vita della specie, nulla ha mai garantito che dall’interno della stessa specie non potesse scaturire una violenza mortifera. La tendenza orgastica spontanea a condividere il piacere di vivere in tutte le sue manifestazioni (prima di tutto la funzione di nutrire il corpo con cibi prelibati e bevande dissetanti o inebrianti altrettanto che tramite l’energia poetica contenuta nella scarica orgastica delle proprie storie d’amore e di amicizia) ha certo dovuto da sempre confrontarsi con episodi di peste emozionale che le frustrazioni sessuali e sociali tendevano e tendono puntualmente ad aggravare. A causa di ciò, per sottrarsi al rischio di una tale pandemia emozionale, le comunità e le nazioni dei primi esseri umani organici si sono spesso organizzate in Assemblee e Consigli per dirimere collettivamente i problemi della comunità.

Questa struttura primaria di società organica si nutre di una cultura libertaria spontanea che abbastanza spesso in qualche specie di mammiferi sostiene e difende il diritto di tutti al piacere di vivere, organizzando pacificamente, come dono reciproco e dissipazione gioiosa di se stessi, il rapporto tra la specie e la natura, quello tra gli individui dello stesso gruppo di appartenenza e quello tra i diversi gruppi venuti in contatto tra loro. Questo tipo pacifico di società organica che rifiuta categoricamente il dominio di alcuni su altri e dell’uomo sulla natura, merita davvero il nome di civiltà umana: ogni auspicabile savoir faire, ogni creatività capace di arricchire il vissuto della specie e degli individui che ne fanno parte, sono presi in conto nel rispetto globale del vivente, incluso, implicitamente, il rispetto di quella biosfera che rende la vita possibile[6].

L’amore e il cibo erano e restano i due centri motori primari della qualità della vita umana, il cui attributo migliore consiste nel fare di ogni sublimazione possibile un’opera d’arte fruibile, condivisibile e rinnovabile con creatività. Tuttavia, fin dal principio, l’opzione gerarchica produttivista ha cercato di dominare la natura e con essa una parte sottomessa della sua stessa specie, spingendosi con il patriarcato fino al dominio di genere nei confronti delle donne. Dall’aggressività naturale, particolarmente sviluppata dal testosterone maschile impiegato male, ha dunque preso forza l’istinto a dominare e sottomettere che è la parte buia del desiderio di vivere e di godere.

Nel progetto produttivista, l’istinto tendente naturalmente a realizzare e usufruire del principio di piacere, agisce includendo l’altro e sottomettendolo, sia esso essere o cosa, individuo o natura. Trattandosi, però, di un processo sempre relativo – perché nessuno è mai completamente e definitivamente dominato né dominante – esso instaura uno stato di conflitto permanente che ha preso la forma di lotta di classe e di genere.

Ideologizzata nella formula dell’homo homini lupus che ha presieduto alla fase finale capitalistica della società produttivista, l’economia domestica che detta e regola, fin dal più intimo quotidiano, il comportamento organico di ogni essere vivente e quindi di ogni essere umano, si é trasformata in un’economia politica la cui teologia dirige il rapporto predatore/preda a tutto vantaggio del primo. Le sue elucubrazioni dogmatiche continuano la guerra sociale con altri mezzi, imponendo un’ideologia di dominio all’organicità orgastica di una vita libera, ridotta alla schiavitù del lavoro forzato rinominato salariato.

Con le rivoluzioni delle classi subalterne dell’Ancien Régime – prima la borghesia, appropriatasi della modernità produttivista confiscando le rivolte sociali del diciottesimo secolo, poi il proletariato, la cui coscienza di classe ha sognato per più di un secolo un’emancipazione internazionale – si é recuperata ideologicamente l’esigenza radicale di un ritorno emancipatore alla libertà, all’uguaglianza e alla fraternità delle società organiche. Il capitalismo diffuso liberal-borghese travestito da democrazia e il capitalismo di Stato concentrato, mascherato da socialismo, hanno restituito tragicamente la modernità alla continuità del produttivismo, passando dal calore torrido delle rivoluzioni a quello micidiale delle guerre mondiali, poi alla glaciazione nuclearizzata della guerra fredda. Decisamente, tutta la storia recente è toccata da una questione climatica!

La caduta subitanea e inattesa ma prevedibile dell’impero pseudo sovietico ha obbligato l’oligarchia finanziaria multinazionale a cercare spasmodicamente un nuovo ordine mondiale inesistente. Oggi, infatti, è il disordine capitalista a essere mondiale, mentre l’umanità è confinata tra una crisi sanitaria e una crisi economica strettamente collegate in un’unica crisi sociale globale della società produttivista e del capitalismo finanziario e computerizzato. Ecco l’inizio della fase terminale della sua malattia transumanista.

Dovuto più alla propagazione vincente dell’alienazione consumistica e della tecnocrazia che la dirige che alle sconfitte politiche, lo scacco storico della coscienza di classe sta facendo ora emergere una coscienza di specie che non può che aspirare a inventare una forma idonea al presente di quella società organica che il produttivismo ha bandito. I suoi spettacoli contrapposti hanno fallito entrambi: l’individualismo mercantile è amputato della ricchezza del noi altrettanto che il collettivismo stacanovista è totalitario di fronte allo spirito di libertà dell’io.

Una società organica rifiuta ogni amputazione e ogni totalitarismo, privilegiando sempre l’individuo sociale attraverso la discussione e la mediazione alla ricerca del consenso possibile. Se non si arriva al consenso ci si può pur sempre sviluppare in modo autonomo, rendendo così raro il rischio di rotture insanabili che possono conseguirne dando vita a nuove comunità separate ma non per questo nemiche.

Attraverso il superamento storico della coscienza di classe e l’apparizione già in atto di una nuova coscienza di specie, il processo emancipatore bloccato dal produttivismo potrà di nuovo innescarsi. Comincerà necessariamente con la riappropriazione rivoluzionaria della natura organica della vita da parte dei sopravvissuti di una specie oggi manifestamente impegnata a segare il ramo vitale a cui la sua stessa esistenza è appesa.

Chi ha un’idea migliore la mostri. Saranno tutte e tutti i benvenuti.

 

Sergio Ghirardi 8 dicembre 2020



[1] Ogni riferimento a Wilhelm Reich inventore ed esploratore della funzione dell’orgasmo, è lontano dall’essere puramente casuale in un mondo che ha rimosso le scoperte e l’intelligenza sensibile di questo commovente essere umano, sofferto e degno erede di Epicuro e di Giordano Bruno. Rinvio alla sua lettura.

[2] L’importanza mostruosa della religione dipende dal suo appropriarsi della spiritualità naturale facendone una superstizione che giustifica le diverse schiavitù terrene garantendo un oppiaceo aldilà promettente di paradisi artificiali inesistenti. L’ideologia laicista dell’economia politica ha fatto di meglio, arrivando a promettere un aldiquà altrettanto improbabile: il mito ideologico del comunismo autoritario per alcuni, la realtà illusoria dell’alienazione consumistica per molti altri.

[3] Pur modificando spesso le sembianze e le strutture superficiali del potere, le grandi rivoluzioni sociali della storia non hanno mai messo definitivamente in causa quel produttivismo che ha alienato le forme organiche della produttività riducendo la potente capacità umana nel forgiare utensili e nel creare beni di consumo – insieme alla circolazione di doni che ne consegue – a una volgare e mortifera competizione economicista.

[4] Ai primordi del Neolitico (settimo millennio prima della nostra era), ai margini del Mesolitico che l’ha preceduto, l’organizzazione socio-economica, vuoi politica, delle prime società agricole sembra essere stata elaborata dalle donne. L’archeologo Jacques Cauvin (1930-2001), specialista del Neolitico del Medio Oriente, ipotizza una continuità tra la raccolta nel Paleolitico che si suppone gestita dalle donne, e l’addomesticamento delle piante. Jacques Cauvin, Naissance des divinités, naissance de l’agriculture: la révolution des symboles au néolithique, Flammarion, « Champs », Paris 1998. Citato da Marylène Patou-Mathis in : L’homme préhistorique est aussi une femme, Allary Éditions, Paris 2020.

[5] La tragedia disumana attuale dei migranti in cerca di esilio sembra confermare sordidamente a posteriori questa ipotesi, probabilmente molto più rara e inconsueta allora di quanto lo sia oggi dopo un periodo interminabile di alienazione produttivista e di guerra sociale diffusa.

[6] I progressi del produttivismo (soprattutto per i dominanti) hanno a lungo banalizzato la sua artificialità dissimulando lo snaturamento crescente della vita organica da esso prodotto. È soltanto con l’antropocene e l’industrializzazione forsennata della produzione che la stessa biosfera è stata attaccata nei suoi equilibri basici, trasformando in pochi secoli la lotta di classe tra esseri umani in una lotta dell’uomo artificiale – homo economicus – contro la natura organica dell’umano.








Notes d’une réflexion in fieri

à la recherche urgente d’une pratique

 

« Il n’est jamais trop tard pour faire jaillir du passé les sources de l’avenir ».

Jean Markale, La femme celte : mythe et sociologie, Payot, Paris 1972

 

Une première affirmation absolument fondamentale qui concerne la nouvelle société que nous sommes désormais obligés d’inventer si on veut sauve la vie, est que celle-ci n’a jamais existé avant. Ce qui ne signifie pas que l’histoire ne porte pas en soi, depuis toujours, les sensibilités, les intelligences et les capacités nécessaires pour réussir dans le but que l’effondrement du vieux monde, désormais non pas uniquement abondement annoncé mais en cours, rend urgent et prioritaire.

Sous la pression du présent (climat, virus, pollution, crise économique, aliénation, réification et autres bagatelles) il est aussi question, toutefois, de retrouver dans le passé les fils d’Ariane nécessaires pour sortir du labyrinthe mortifère qui nous emprisonne ; non pas pour revenir aux origines, ni pour retrouver une antériorité quelconque, mais pour développer différemment et de façon nouvelle la dynamique orgastique qui préside au fonctionnement vital du vivant et de l’humain qui en fait partie.

Remonter à la fonction orgastique de l’organisation sociale, aux racines du politique, exige déjà de comprendre ce même concept[1] qui pourrait sembler à beaucoup un néologisme, alors qu’il est un des mots captifs de l’idéologie d’un pouvoir qui a toujours refoulé et falsifié tout discours radicalement critique ; la dominance a toujours entravé toute analyse pouvant servir à la conscience individuelle et sociale pour s’émanciper du chantage perpétuel imposé au plus grand nombre par un système prédateur très efficace, à l’avantage de quelques-uns destinés à devenir de moins en moins nombreux et de plus en plus riches.

Une partie importante de l’histoire de l’humanité concerne la tentative des opprimés de se soustraire à l’abus social perpétré par les oligarchies diverses qui ont sévi pendant des millénaires, imposant un chantage économique fondé sur une dette imaginaire inventée pour domestiquer des peuples entiers d’individus soumis aux corvées les plus incroyables.

Il est donc question de cette civilisation anti orgastique et d’aucune autre. Une civilisation structurellement inhumaine qui à marqué comme barbares et sauvages tous les mœurs jaillis de la volonté d’un grand nombre d’êtres humains de vivre humainement. Car une bonne partie de l’espèce humaine s’est montrée capable de tout, de la Commune de Paris à Auschwitz. Voilà pourquoi un des problemes majeurs auxquels on doit se confronter, concerne la sortie du piège pestiférant de la morale marchande qui, en prêchant à une humanité économisée la poursuite mythique du mieux contre le pire, impose l’esclavage du bien et du mal aliénés à ses sujets, tellement intimement esclaves qu’ils se croient libres[2].

La seule éthique laïque qui permet de se soustraire aux sentiments de culpabilité cultivés « avec amour » par tous les pouvoirs hiérarchiques, est celle du plaisir orgastique qui présuppose la réciprocité, donc la fraternité et la liberté nécessaires pour l’egalité des differents inégaux – dynamique qui n’a pas tendance à gagner le paradis dans un ciel imaginaire, mais à jouir d’une vie pleine sur terre.

Jusqu’à aujourd’hui toutes les révolutions sociales qui ont menacé les pouvoirs établis sont toujours restées à l’intérieur d’une évolution fondée sur les mêmes principes de base qui remontent au début de notre civilisation présumée, inclusive désormais de toutes les ramifications planétaires de l’humain[3].

Par sa structure caractérielle anti orgastique, la civilisation productiviste a puisé se racines primitives dans l’utilisation marchande des céréales que la révolution agraire a mis a la disposition de l’humanité. Ce fut le début d’une catastrophe devenue désormais visible : l’appropriation productiviste du processus vital naturel du monde organique par l’apprentissage de la cultivation agricole du monde végétal dont la vie animale dépend en grande partie, a modifié structurellement les relations entre les êtres humains et la nature et entre les humains les uns avec les autres.

En fructifiant naturellement, les premières semences tombées des mains des femmes et des hommes qui se dédiaient à la cueillette et à la chasse pour se nourrir et survivre, ont probablement donné aux sapiens de la planète, et vraisemblablement aux femmes en premières, l’idée d’intervenir de façon subjective dans le processus naturel en favorisant la croissance des plantes utiles à la consommation organique nécessaire à la jouissance de la vie[4].

Si la découverte et la domestication (assez relative) du feu avait contribué fondamentalement  à faire jaillir l’humain du singe qu’il était, l’invention/découverte bien postérieure de l’agriculture a donné naissance à une modification anthropologique beaucoup plus profonde de ce que les hominides pouvaient imaginer. La rupture de paradigme destinée, après des millénaires, à bouleverser clairement les équilibres biologiques de la planète, n’a pas été introduite, néanmoins, par l’agriculture de subsistance, solidement intégrée dans le processus biologique organique, mais par le productivisme qui a fondé sur le commerce son projet d’accumulation des richesses et de domination du monde.

Les êtres humains organiques ont perçu par leur propre intelligence sensible que cultiver la terre avec un acharnement égoïste et pour le profit était une hybris ; une altération structurelle de leur relation orgastique avec la vie et la nature qui la rend possible. Ils on ressenti cela si fort que pendant au moins quatre millénaires (environs du dixième au cinquième millénaire avant notre ère), les peuples de la cueillette, découvreurs de l’activité agricole en plusieurs lieux de la terre, ils évitèrent scrupuleusement d’en faire un facteur de civilisation comme c’est arrivé ensuite.

Historiquement et certainement pas par hasard, le concept de civilisation a commencé à s’appliquer au début des premières sociétés productivistes dans le croissant fertile mésopotamien (vers la fin du cinquième millénaire avant notre ère) et il a accompagné servilement le processus d’appropriation privative du réel par les minorités hiérarchiques capables d’imposer leur domination sur des masses d’individus dépossédés de leur subjectivité organique, réduite à l’esclavage par la suprématie systématiquement imposée par quelques dominants aux nombreux dominés.

Pour réaliser le renversement de perspective nécessaire à changer de monde afin de ne pas disparaitre avec celui qui est en train de s’effondrer, il est donc question, maintenant, de remonter à l’humanité d’avant la civilisation qui a détruit les sociétés organiques, non pas avec l’intention de restaurer le primitif mais pour en sortir par une voie totalement différente de celle prise par la société productiviste.

Car c’est la ruine, désormais visible à l’œil nu et à cœur blessé, du productivisme et de son dernier rejeton – le capitalisme – qui nous invite, pour ne pas dire nous oblige, à un coup de monde face auquel les coups d’Etat et les impérialismes qui ont sévi pendant plusieurs dizaines de siècles apparaitront comme des pâles mutations super structurelles d’une continuité que le Léviathan productiviste a orchestré pendant six mille années de l’histoire humaine.

L’humanité primitive était déjà, très probablement, multidimensionnelle, capable de tout : de l’entraide à la prédation, de la solidarité au cannibalisme. Le choix de fond a toujours été entre une société hiérarchique qui théorise et pratique la dominance terrorisant, exploitant et manipulant ses cobayes versus une société autogérée collectivement par des individus inégaux mais traités par des critères égalitaires. Voilà la ligne de partage des eaux de toutes les aventures sociales de l’espèce humaine.

Loin de toute mythologie primitiviste, il est absolument crédible que la culture organique des premiers groupes de nos ancêtres humains ait déjà cherché dans la fraternité et l’egalité clanique une liberté constamment en devenir. Puisque, en plus, l’humanité était dispersée en quantité infime sur une planète immense, la distanciation entre les groupes facilitait la fondation du social sur la partie spontanée d’amour orgastique réciproque, en régulant avec une relative facilité les poussées éventuelles de peste émotionnelle anti communautaire et anti organique que les contradictions du vivant peuvent toutefois favoriser.

Une bonne portion de l’animalité en voie d’humanisation tend spontanément à généraliser et partager mieux que possible ce qui est bon et agréable pour chacune, pour chacun et pour tous les êtres humains. Vaste programme en perpétuel devenir qu’une antithétique culture de la dominance fondée sur la force et la prédation a contesté avec la rage et le cynisme de la peur qui se traduit en violence, surtout quand le contact entre étrangers ignorants et superstitieux, marqué par la crainte inconsciente de l’inconnu, incite certains à des réponses préventives musclées contre la vraie ou présumée agressivité d’autrui[5].

Au-delà des fauves qui, dans les temps anciens, constituaient un danger objectif et diffus pour la vie de l’espèce, rien n’a jamais garanti que de l’intérieur même de l’espèce ne puisse jaillir une violence mortifère. La tendance orgastique spontanée au partage du plaisir de vivre dans toutes ses manifestations (avant tout la fonction de nourrir le corps avec des aliments délicieux et des boissons désaltérantes ou enivrantes ainsi que par l’énergie poétique contenue dans la décharge orgastique de ses propres histoires d’amour et d’amitié) a du certainement se confronter, depuis toujours, à des épisodes de peste émotionnelle que les frustrations sexuelles et sociales tendaient et tendent ponctuellement à aggraver. A cause de cela, pour se soustraire au risque d’une telle pandémie émotionnelle, les communautés et les nations des premiers êtres humains organiques se sont souvent organisées dans des Assemblées et des Conseils où résoudre collectivement les problemes de la communauté.

Cette structure primaire de société organique se nourrit d’une culture libertaire spontanée qui assez souvent chez certains mammifères soutient et protège le droit de tous au plaisir de vivre, en organisant pacifiquement, comme un don réciproque et une dépense joyeuse de soi même, la relation entre l’espèce et la nature, celle entre les individus d’un même groupe d’appartenance et celle entre les differents groupes entrés en contact les uns avec les autres. Ce type pacifique de société organique qui refuse catégoriquement la domination de certains sur d’autres et de l’homme sur la nature, mérite véritablement le nom de civilisation humaine : tout savoir-faire souhaitable, toute créativité capable d’enrichir le vécu de l’espèce et des individus qui en font partie, sont pris en compte dans le respect global du vivant, inclus, implicitement, le respect de la biosphère qui rend la vie possible[6].

L’amour et la nourriture étaient et restent les deux centres moteurs primaires de la qualité de la vie humaine dont l’aptitude meilleure consiste à faire de toute sublimation possible une œuvre d’art utilisable, partageable et renouvelable par la créativité. Néanmoins, depuis le début, l’option hiérarchique productiviste a cherché de dominer la nature et avec elle une partie soumise de sa propre espèce, en allant avec le patriarcat jusqu’à la domination de genre envers les femmes. L’instinct à dominer et soumettre qui est la partie sombre du désir de vivre et de jouir, a donc puisé sa force dans l’agressivité naturelle particulièrement développée par un mauvais emploi de la testostérone mâle.

Dans le projet productiviste, l’instinct qui tend naturellement à réaliser et jouir du principe du plaisir, procède en incluant l’autre et le soumettant, soit-il être ou chose, individu ou nature. Néanmoins, puisqu’il est toujours question d’un processus relatif – car personne n’est jamais complétement et définitivement dominé ou dominant – il instaure une conflictualité permanente qui a pris la forme de la lutte de classe et de genre.

Idéologisée par la formule de l’homo homini lupus qui a présidé à la phase finale capitaliste de la société productiviste, l’économie domestique qui dicte et règle dés le quotidien le plus intime, le comportement organique de tout être vivant et donc de chaque être humain, s’est transformée en une économie politique dont la théologie dirige la relation prédateur/proie à tout avantage du premier. Ses élucubrations dogmatiques continuent la guerre sociale par d’autres moyens, imposant une idéologie de domination à l’organicité orgastique d’une vie libre, réduite à l’esclavage du travail forcé renommé salariat.

Par les révolutions des classes subalternes de l’Ancien Régime – d’abord la bourgeoisie qui s’est appropriée de la modernité productiviste en confisquant les révoltes sociale du dix-huitième siècle, puis le prolétariat, dont la conscience de classe a rêvé pendant plus d’un siècle une émancipation internationale – on a récupéré idéologiquement l’exigence radicale d’un retour émancipateur à la liberté, à l’egalité et à la fraternité des sociétés organiques. Le capitalisme diffus libéral-bourgeois déguisé en démocratie et le capitalisme d’Etat concentré, couvert du masque socialiste, ont restitué tragiquement la modernité à la continuité du productivisme, passant de la chaleur torride des révolutions à celle mortelle des guerres mondiales, puis à la glaciation nucléarisée de la guerre froide. Décidemment toute l’histoire récente est touchée par une question climatique !

La chute soudaine et inattendue mais prévisible de l’empire pseudo soviétique a obligé l’oligarchie financière multinationale à chercher spasmodiquement un nouveau ordre mondial inexistant. Car aujourd’hui est le désordre capitaliste qui est mondial, alors que l’humanité est confinée entre une crise sanitaire et une crise économique étroitement liées dans une unique crise sociale globale de la société productiviste et du capitalisme financier et computerisé. Voici le début de la phase terminale de sa maladie transhumaniste.

Dû plutôt à la propagation gagnante de l’aliénation consumériste et de la technocratie qui la dirige qu’aux défaites politiques, l’échec historique de la conscience de classe est en train de faire émerger une conscience d’espèce qui ne peut qu’aspirer à inventer une forme adaptée au présent de la société organique que le productivisme a banni. Ses spectacles opposés ont failli tous les deux : l’individualisme marchand est amputé de la richesse du « nous » ainsi que le collectivisme stakhanoviste est totalitaire face à l’esprit de liberté du « je ».

Une société organique refuse toute amputation e tout totalitarisme en privilégiant toujours l’individu social par la discussion et la médiation à la recherche du consensus possible. Si on n’arrive pas au consensus on peut toujours se développer dans l’autonomie, réduisant à des cas rares le risque de ruptures irréparables qui peuvent s’en suivre en donnant vie à des nouvelles communautés séparées mais pas pour autant ennemies.

Par le dépassement historique de la conscience de classe et l’apparition déjà en cours d’une nouvelle conscience d’espèce, le processus émancipateur bloqué par le productivisme pourra se déclencher de nouveau. Il démarrera nécessairement avec la réappropriation révolutionnaire de la nature organique de la vie par des survivants d’une espèce aujourd’hui manifestement occupée à scier la branche vitale sur laquelle sa propre existence est assise.

Qui a une meilleure idée nous la montre. Elles ou ils seront les bienvenues.

 

 

Sergio Ghirardi, 8 décembre 2020

 



[1] Toute reference à Wilhelm Reich inventeur et explorateur de la fonction de l’orgasme, est loin d’être un hasard dans un monde qui a refoulé les découvertes et l’intelligence sensible de cet émouvant être humain, héritier aussi souffert que digne d’Epicure et de Giordano Bruno. Je renvoie à sa lecture.

[2] L’importance monstrueuse de la religion dépende de son appropriation de la spiritualité naturelle dont elle fait une superstition qui justifie les differents esclavages terrestres en garantissant un au-delà opiacé, prometteur de paradis artificiels inexistants. L’idéologie laïciste de l’économie politique a fait mieux, en arrivant à promettre un en deçà aussi improbable : le mythe idéologique du communisme autoritaire pour certains, la réalité illusoire de l’aliénation consumériste pour beaucoup d’autres.

[3] Tout en modifiant souvent l’apparence et les structures superficielles du pouvoir, les grandes révolutions sociales de l’histoire n’ont jamais mis définitivement en cause ce productivisme qui a aliéné les formes organiques de la productivité en réduisant la puissante capacité humaine à forger des outils et à créer des biens de consommation – avec la circulation de dons qui en découle – à une vulgaire et mortifère compétition économiste.

[4] Au début du Néolithique (septième millénaire avant notre ère), aux marges du Mésolithique qui l’a précédé, l’organisation socioéconomique, voire politique, des premières sociétés agricoles semble s’élaborer avec les femmes. Jacques Cauvin (1930-2001), archéologue spécialiste du Néolithique du Proche-Orient, propose l’hypothèse d’une continuité entre la cueillette dans le Paléolithique qu’on suppose gérée par les femmes et la domestication des plantes. Jacques Cauvin, Naissance des divinités, naissance de l’agriculture: la révolution des symboles au néolithique, Flammarion, « Champs », Paris 1998. Cité par Marylène Patou-Mathis in : L’homme préhistorique est aussi une femme, Allary Éditions, Paris 2020.

[5] L’inhumaine tragédie actuelle des migrants en quête d’exile semble confirmer sordidement à posteriori cette hypothèse, probablement beaucoup plus rare et inhabituelle alors qu’aujourd’hui, après une période interminable d’aliénation productiviste et d’une guerre sociale diffuse.

[6] Les progrès du productivisme (surtout pour les dominants) ont longuement banalisé son artificialité, dissimulant la dénaturation croissante de la vie organique qu’il produit. C’est avec l’antropocene et l’industrialisation forcenée de la production que même la biosphère a été agressée dans ses équilibres basiques, transformant en quelques siècles la lutte de classes entre êtres humains en une lutte de l’homme artificiel – homo economicus – contre la nature organique de l’humain.