Leggendo e rileggendo
Gimbutas[1] mi dico che non si può ridurla
a una banale pseudo scienziata mistica, seppur molto colta e intelligente.
Certamente, il termine Dea è ambiguo ed è giusto diffidarne perché sempre un
po’ troppo mistico è comunque ogni rapporto con la religione. Ateismo incluso.
Eppure, il termine religione ci dice chiaro il suo intento etimologico di
riunificazione del separato. In questo senso potrei dire che sono religioso
anch’io perché la riunione del separato è una necessità evidente ai miei occhi.
Ma di quale separazione parliamo?
La religione si riferisce
alla separazione tra corpo e spirito, ma la frattura umana intrinseca, per non
dire ontologica, è quella tra la vita e la morte. L’essere in vita presuppone
presto, se non subito, di sapere di dover morire. Ironizzando appena nel dirlo,
mi viene da notare che tutto il resto è sovrastruttura. Intendo dire che a
causa dell’esistenza della morte, la vita stessa è una sovrastruttura. Qualunque
cosa si faccia –
non dispiaccia ai transumanisti indaffarati a sognare di annoiarsi per
l’eternità nelle loro cattedrali tecnologiche virtuali, circondate da plastica assolutamente
reale, e a tutti i ridicoli credenti in un paradiso qualunque (compreso il comunismo
e pure La Coppa del Mondo di Calcio) – nessuno uscirà vivo dalla vita, davvero vissuta o no.
Interrompere almeno emozionalmente
questa frattura tra la vita e la morte, ricostituire l’unità tra queste due
condizioni, dando loro un senso e una spiegazione accettabile, è indispensabile
alla felicità relativa di una pur sempre troppo breve esistenza. Ogni essere
umano è personalmente confrontato con questo dilemma. Quest’aspetto della
“religione”, questa particolare riunificazione del separato, è di un
materialismo psicogeografico indubbio. Ebbene, la dimensione orgastica del
vivente è la sola eternità che lenisce ogni paura, rendendo immortali ogni volta
per qualche breve istante. La felicità non ha tempo né orari. È e basta.
Il problema si complica,
invece, perché l’esigenza di riunione del separato non si presenta mai nella
sua identità profonda. La paura intima diventa altra quando il metodo di
sopravvivenza collettiva che si sceglie o si subisce anziché l’aiuto reciproco,
anziché il principio di piacere condiviso che invita alla danza orgastica con
la vita, si dedica a esercitare la predazione, il dominio. È allora che il
principio di realtà finisce per inventare un istinto di morte che non esiste in
natura se non come esorcismo, come risposta impaurita alla paura che comprende
tutte le altre: quella di morire. Tendo a pensare che sia in questo pentolone
alchemico che nasce la religione da quella religiosità
naturale insita nella psicogeografia dell’umano; intendo la nascita di
quell’ideologia religiosa che inventa dei e tabù, inferni e paradisi, quella che
conosciamo tutti, purtroppo, volens nolens, da millenni e che ha occupato –
ideologicamente e militarmente – tutta la questione della riunione del
separato.
Insieme ai guerrieri (1)
e ai mercanti (2), il clero (3) è scaturito dalla strategia del potere. Questi
tre ruoli opportunisti rappresentano l’istituzionalizzazione autoritaria e lo
sviamento predatore di tre elementi fondamentali per la socialità della scimmia
in cerca della sua umanità: (1) sapersi difendere fisicamente, lottare,
combattere per vivere in una natura amorale, cioè stupenda e mostruosa,
godibile e pericolosa; (2) far circolare le cose, gli oggetti utili, favorire e
moltiplicare i rapporti di dono e di scambio di beni per migliorare la vita di
ciascuno e di tutti; (3) coagulare attorno a verità sempre relative (ma
stabilite in comune e condivise per poter funzionare collettivamente) dei
comportamenti sociali tesi a favorire l’armonia nel cosmo complesso del vivente,
evitando i conflitti o ricomponendo i rapporti in crisi. Sto ribadendo qui, consciamente,
l’aspetto interessante dell’unione del separato.
Purtroppo, la tendenza
predatrice primaria che convive con quell’impulso vitale che ci spinge all’amore
e all’amicizia (impulso vitale che invita a preferire la musica rispetto al
rumore, le prelibatezze culinarie anziché un’alimentazione in pillole, una
libera attività creativa anziché un lavoro forzato), non sa fare uso dell’arte
di vivere che per trasformarla in dominio: il fattore uno ha partorito polizie ed eserciti, il fattore due dei mercanti ossessionati dal
denaro; il fattore tre preti,
intellettuali, burocrati, politici – tutti ruoli per opportunisti mercenari o per
servitori volontari di una civiltà produttivista precipitata nella sua fase
terminale capitalista.
Una volta gerarchizzati i
rapporti sociali, la volontà poetica di unione del separato crolla. Il religo
spontaneo è recuperato gerarchicamente da un clero creditore e da credenti diventati
debitori per un senso di colpa coltivato. La religione si tinge di dominio, di potere
e con l’ausilio della merce e del denaro produce sudditanza, sottomissione, umiliazione,
vite perdute e morti premature. È proprio quello che i dominanti vogliono, ma si
trovano allora obbligati a darne una giustificazione affinché chi subisce continui
ad accettarlo o addirittura ne voglia di più. Il sapere, la forza, l’abilità si
trasformano dunque in dichiarazioni di guerra – emozionale, fisica, sociale, economica,
culturale. Le leggi, i doveri, i tabù, la morale si erigono allora come elementi
del sacro (ciò che si deve temere e a cui dunque si deve obbedire il più
ciecamente possibile).
Storicamente e falsamente,
s’intende per religione una qualunque costruzione ideologica – per quanto assurda,
mostruosa disumana, ridicola e macabra – di un superamento mistico, e quindi
immaginario, della dissociazione di ciò che è separato, riferendosi in
particolare, si sa, al corpo e allo spirito, individuali quanto collettivi.
Certo, questa separazione è davvero molto reale e pone un problema che le
religioni, peraltro, si guardano bene dal risolvere, anzi lo accentuano; perché
tutte senza eccezione, dissimulano dietro questo superamento illusorio l’angoscia
della morte per meglio trarre profitto, così, dalla sua rimozione.
Dallo sciamanismo ai
monoteismi, dal liberalismo al fascismo e al comunismo, la truffa religiosa
serve l’abuso suprematista di ogni potere con le sue bandiere e gerarchie svariate,
le sue diverse torture fisiche e mentali e un profondo disprezzo per l’umano. I
ricchi ricattano economicamente e socialmente i poveri, i forti opprimono i
deboli, i furbi ingannano gli ingenui, i sapienti trasformano il sapere in
dogmi di un sacro che autorizza a bruciare e sgozzare, e tutti gli altri in
ginocchio! L’invenzione degli dei è un superamento apparente, o peggio ancora
spettacolare, della frattura ontologica tra la vita e la morte che lacera
l’umanoide in divenire in ognuno. Una tale lacerazione è usata sistematicamente
per garantire in realtà il suprematismo predatore della bestia nel rapporto
sociale. Le confraternite di qualunque credenza, lo Stato e il Mercato si
suddividono i ruoli nella gestione della struttura sociale di una civiltà
produttivista che ha finora impedito agli ominidi di diventare umani.
Scaturita spontaneamente dalla
psiche individuale per rispondere collettivamente a un’esigenza intima,
emozionale, la religione si è trasformata storicamente in spazzatura mistica, metodo
provvisto di mezzi infiniti per giustificare un potere che manipola l’emozionale
abbracciando e attraversando il politico, il sociale, il vivente. Non a caso il
carattere perverso narcisista si moltiplica come mai prima d’ora. Perché il suo
vampirismo emozionale corrisponde perfettamente alla società dello spettacolo
integrato che sta distruggendo la struttura stessa della vita nel triste e
tragico crepuscolo della civiltà produttivista.
La religione che ha sempre
preteso di riunire il separato funziona in realtà, da tempi immemorabili, come
giustificazione e conferma ideologica della separazione. Non è mai la vita che
essa riunisce con la morte in una sinfonia orgastica del vivente, in un’orgia
di felicità: è la sopravvivenza gerarchizzata che essa giustifica inventando
un’unione fittizia tra un’esistenza miserabile e un paradiso celeste,
immaginario, in cui la separazione è superata mitologicamente al prezzo di una
vita ridotta a una sopravvivenza infelice. Per ogni religione e per i suoi
servitori volontari la vera vita è sempre post
mortem, dunque una vita di merda indirizza alla morte come a una nascita della
vita sognata. Ecco, in poche parole, come la radice primitiva dell’alienazione
collega la realtà arcaica alla moderna società dello spettacolo.
Sto cercando di
descrivere il perno cruciale nascosto di ogni misticismo per trovare la chiave
di un agnosticismo orgastico che tolga all’ateismo le parvenze di un’ultima
disperata religione aristocratica. Per questo, ai miei occhi, neppure gli
anarchici sfuggono alla trappola. Sono gli ultimi credenti dai nobili intenti
in un mondo che di nobile non ha più niente. La mia profonda avversione per
quel mostro di Sade non m’impedisce di esortare a suo modo tanti miei più cari
amici e amiche: holla, compagni anarchici,
ancora uno sforzo per diventare
rivoluzionari! Oppure, per farmi perdonare, ben sapendo che perdonano
raramente, parafrasando piuttosto Bakunin: L’acrazia
è troppo importante per lasciarla in mano agli anarchici. I quali, donne e
uomini, ci tengo a dirlo con tutta la tenerezza di cui sono capace, sono il più
delle volte esseri umani commoventi e sinceri, amanti della festa e ben migliori
di tutte le caricature dell’umano che bazzicano nello spettacolo sociale.
Le dee di Gimbutas, anche
se il termine è mal scelto, ambiguo per la storia in cui è immerso, non sono,
secondo me, dei banali elementi insignificanti di una religione. Possono
diventarlo nelle mani rese mistiche dalla paura di chiunque di noi, ma Gimbutas,
per la quale nutro stima e affetto, ne diffida abbastanza da rifiutare, per
esempio, ogni riferimento positivo al matriarcato. Il linguaggio della Dea merita
dunque di essere separato, distinto da ogni credenza – fosse pure femminista –
per restituirgli un posto nobile tra i metodi radicali d’introspezione del
passato, approccio archeomitologico simbolico di un progetto affettivo che abita
il presente di ciascuno, agli antipodi di quella mitoarcheologia denunciata a
torto dai suoi malintenzionati detrattori pestiferi.
La foto di chi si ama si
porta con sé nell’attesa di poterlo/a riabbracciare dal vivo. Le stesse foto
dei morti rinviano al ricordo – per quanto impossibile da praticare – di un
abbraccio sempre desiderato anche se divenuto irrealizzabile. A ciascuno di
scegliere se dedicarsi a questa nostalgia o archiviarla come morbosa perché
impossibile da soddisfare. Credo, per esperienza, che qualcuno di vivo, liberamente
abbandonato tra le nostre braccia affettuose sia la cura migliore di ogni
nostalgia. L’amante che amiamo e che ci ama incarna sempre la magica magia del
presente che ci permette di abbracciare contemporaneamente tutti quelli che
amiamo, anche quelle e quelli che non ci sono più, destino che un giorno o
l’altro toccherà a ciascuno di noi.
O almeno, questo è quanto
la mia unica religione mi dice.
Sergio Ghirardi Sauvageon
6 gennaio 2023
[1]
“Il
processo di indo europeizzazione è stato un processo di trasformazione
culturale, non fisica. Questo processo deve essere inteso come una vittoria
militare attraverso la quale venne imposto un nuovo sistema amministrativo, la
lingua e la religione ai gruppi indigeni”, in Marija Gimbutas, Bronze Age Cultures in Central and Eastern
Europe, pag. 309. Vedi anche: Marija Gimbutas, The Gods and Goddesses of
Old Europe, 7000 to 3500 BC: Myths, Legends and Cult Images, Thames and Hudson,
London 1974; M. Gimbutas, Il linguaggia della Dea, Venexia, Roma 2008 e Riane
Eisler, Il calice e la spada, Forum Edizioni, Udine 2011.
Erratismes poïétiques pour une
révolution copernicienne des consciences
En lisant et relisant Gimbutas[1], je me dis qu'elle ne
peut pas être réduite à une banale pseudo scientifique mystique, quoique très
cultivée et intelligente. Certes, le terme de Déesse est ambigu et il convient
de s'en méfier car, de toute façon, tout rapport à la religion est toujours un
peu trop mystique. Athéisme compris. Toutefois, le terme religion nous dit bien
son intention étymologique de réunifier ce qui est séparé. En ce sens je
pourrais dire que moi aussi je suis religieux car la réunion du séparé est une
nécessité évidente à mes yeux. Mais de quelle séparation parle-t-on ?
La religion se réfère à la séparation du corps et
de l’esprit, certes, et c’est déjà pas mal, mais la fracture humaine
intrinsèque, pour ne pas dire ontologique, est celle entre la vie et la mort.
Être vivant suppose bientôt, sinon immédiatement, de savoir qu'on va mourir. A
peine ironique en disant ça, je voudrais remarquer que tout le reste est une
superstructure. Je veux dire qu'en
raison de l'existence de la mort, la vie elle-même est une superstructure. Quoi
que vous fassiez – n’en déplaise aux transhumanistes affairés à rêver de s’ennuyer pour
l’éternité dans leurs cathédrales technologiques virtuelles entourées par du
plastique bien réel et à tous les croyants ridicules de n'importe quel paradis
(y compris le communisme et la Coupe du monde de football) – personne ne
sortira vivant de la vie, qu’il l’ait vécue ou pas.
Briser au moins émotionnellement ce fossé
entre la vie et la mort, reconstituer l’unité entre ces deux conditions, leur
donnant un sens et une explication acceptable, est essentiel au bonheur relatif
d'une existence toujours trop courte. Chaque être humain est personnellement
confronté à ce dilemme. Cet aspect de la "religion", cette particulière
réunification du séparé, relève d'un matérialisme psychogéographique
incontestable. Or la dimension orgastique du vivant est la seule éternité qui
apaise toute peur, nous rendant immortels pour quelques brefs instants à chaque
fois. Le bonheur n'a pas de temps ni d'horaire. Il est, et c’est tout.
Le problème se complique cependant, car le
besoin de réunification du séparé ne se présente jamais dans son identité
profonde. La peur intime devient autre chose lorsque la méthode de survie
collective que l'on choisit ou qu’on subit s’évertue d'exercer la prédation, la
domination au lieu de l'entraide, au lieu du principe de plaisir partagé qui
invite à une danse orgastique avec la vie. C'est alors que le principe de
réalité finit par inventer une pulsion de mort qui n'existe pas en nature que comme
un exorcisme, comme une réponse apeurée à la peur qui englobe toutes les
autres : celle de mourir. J'ai tendance à penser que c'est dans ce chaudron
alchimique que naît la religion d’une religiosité naturelle inhérente à la psychogéographie
de l'humain ; je parle là de la naissance de cette idéologie religieuse qui
invente des dieux et des tabous, des enfers et des paradis, celle que nous
connaissons tous, malheureusement, volens nolens, depuis des millénaires et qui
a occupé – idéologiquement et militairement – tout le questionnement concernant
la réunion du séparé.
Avec les guerriers (1) et les marchands (2)
le clergé (3) a jailli de la stratégie du pouvoir. Ces trois rôles
opportunistes représentent l'institutionnalisation autoritaire et le
detournement prédateur de trois éléments fondamentaux pour la socialité du singe
en quête de son humanité : (1) savoir se défendre physiquement, lutter, se
battre pour vivre dans une nature amorale, c'est-à-dire prodigieuse et
monstrueuse, agréable et dangereuse ; (2) faire circuler les choses, les
objets utiles, favoriser et multiplier les relations de don et d'échange de
biens pour améliorer la vie de chacun et de tous ; (3) coaguler autour de
vérités toujours relatives (mais établies en commun et partagées pour pouvoir fonctionner
collectivement) de comportements sociaux visant à favoriser l'harmonie dans le
cosmos complexe du vivant, en évitant les conflits ou recomposant les relations
en crise. Je réitère ici, consciemment, l'aspect intéressant de l'union du
séparé.
Malheureusement, la tendance prédatrice primaire
qui coexiste avec cet élan vital qui nous pousse vers l'amour et l'amitié (élan
vital qui nous invite à préférer la musique au bruit, une délice culinaire
plutôt que de la nourriture en pilules, une libre activité créative plutôt que
le travail forcé) ne sait se servir de l'art de vivre que pour le transformer
en domination : le facteur un a généré la police et les armées ; le
facteur deux des marchands obsédés par l’argent ; le facteur trois des prêtres,
des intellectuels, des bureaucrates, des politiciens – tous rôles pour opportunistes
mercenaires ou pour serviteurs volontaires d'une civilisation productiviste qui
a sombré dans sa phase terminale capitaliste.
Une fois les rapports sociaux hiérarchisés,
la volonté poétique d'union du séparé s’écroule. Le religo spontané est récupéré
hiérarchiquement par un clergé créancier et par des croyants devenus débiteurs
en raison d'un sentiment de culpabilité entretenu. La religion se teinte de
domination, de pouvoir, et avec l’aide de la marchandise et de l'argent, elle
produit sujétion, soumission, humiliation, vies perdues et morts prématurées.
C'est bien ce que veulent les dominants, mais ils se trouvent alors obligés de
donner une justification afin que ceux qui souffrent continuent à l’accepter ou
même en redemandent. Savoir, force, habileté se transforment donc en déclarations
de guerre – émotionnelle, physique, sociale, économique, culturelle. Les lois, les
devoirs, les tabous, les morales apparaissent alors comme des éléments du sacré
(ce qu'il faut craindre et donc y obéir le plus aveuglément possible).
Historiquement et faussement, on entend par
religion toute construction idéologique – peu importe si absurde, monstrueuse,
inhumaine, ridicule et macabre – d'un dépassement mystique, donc imaginaire, de
la désunion de ce qui est séparé, se référant, en particulier, on le sait, au
corps et à l'esprit autant individuels que collectifs. Certes, cette séparation
est vraiment bien réelle et pose un problème que les religions, d’ailleurs, se
gardent bien de résoudre, tout au contraire l’accentuent ; car toutes,
sans exception, cachent derrière ce dépassement illusoire l’angoisse de la mort
pour mieux profiter, ainsi, de son refoulement.
Du chamanisme aux monothéismes, du
libéralisme au fascisme et au communisme, la fraude religieuse sert l'abus suprématiste
de tout pouvoir avec ses bannières et ses hiérarchisations diverses, ses
différentes tortures physiques et mentales et un mépris profond de l'humain. Les
riches exercent le chantage économique et social sur les pauvres, les forts
oppriment les faibles, les rusés trompent les naïfs, les savants transforment
le savoir en dogmes d'un sacré qui autorise à brûler et à égorger, et tous les
autres à genoux ! L'invention des dieux est un dépassement apparent, ou
pire encore spectaculaire, de la fracture ontologique entre la vie et la mort
qui déchire l'humanoïde qui est en devenir en chacun. Une telle lacération sert
systématiquement à garantir en fait le suprématisme prédateur de la bête dans
le rapport social. Les confréries de toute confession, l'État et le Marché se
partagent les rôles dans la gestion de la structure sociale d'une civilisation
productiviste qui a jusqu'ici empêché les hominidés de devenir humains.
Jaillie spontanément du psychisme
individuel pour répondre collectivement à un besoin intime, émotionnel, la
religion s'est historiquement transformée en ordure mystique, une méthode pourvue
d’infinis moyens pour justifier un pouvoir qui manipule l'émotionnel qui
embrasse et traverse le politique, le social, le vivant. Ce n'est pas un hasard
si le caractère pervers narcissique se multiplie comme jamais auparavant. Parce
que son vampirisme émotionnel corresponde parfaitement à la société du
spectacle intégré qui détruit la structure même de la vie dans le triste et
tragique crépuscule de la civilisation productiviste.
La religion qui a toujours prétendu réunir
les séparés fonctionne en réalité, depuis des temps immémoriaux, comme
justification et confirmation idéologique de la séparation. Ce n'est jamais la
vie qu'elle réunit à la mort dans une symphonie orgastique du vivant, dans une
orgie de bonheur : c'est la survie hiérarchisée qu'elle justifie en
inventant une union fictive entre une existence misérable et un paradis céleste,
imaginaire, où la séparation est mythologiquement surmontée au prix d'une vie
réduite à une survie malheureuse. Pour chaque religion et pour ses serviteurs
volontaires, la vraie vie est toujours post mortem, donc une vie de merde mène
à la mort comme vers une naissance à la vraie vie. Voici, en peu de mots, comment
la racine primitive de l’aliénation unit la réalité archaïque à la moderne société
du spectacle.
J'essaie de décrire le pivot crucial caché
de tout mysticisme pour trouver la clé d'un agnosticisme orgastique qui
dépouille l'athéisme des semblants d'une dernière religion aristocratique
désespérée. Pour cette raison, à mes yeux, même les anarchistes n'échappent pas
au piège. Ils sont les derniers croyants aux nobles intentions dans un monde
qui de noble n'a plus rien. Ma profonde aversion pour le monstre qui est Sade,
ne m'empêche pas d'exhorter à sa manière nombre de mes plus chers amis et
amies : Holla, camarades anarchistes, encore un effort pour devenir des
révolutionnaires ! Ou, pour me rattraper, en sachant qu'ils ne pardonnent
pas souvent, en paraphrasant plutôt Bakounine : L'acratie est trop
importante pour la laisser entre les mains des anarchistes. Lesquels, femmes et
hommes, j'ai envie de le dire avec toute la tendresse dont je suis capable,
sont, le plus souvent, des êtres humains émouvants et sincères, fêtards et bien
meilleurs que toutes les caricatures humaines qui traînent dans le spectacle
social.
Les déesses de Gimbutas, même si le terme
est mal choisi, ambigu pour l’histoire dans laquelle il est plongé, ne sont
pas, à mon avis, des banales éléments anodins d'une religion. Elles peuvent le
devenir entre les mains, rendues mystiques par la peur, de n'importe lequel
d'entre nous, mais Gimbutas, à qui je dévoue estime et affection, se méfie
suffisamment de ça pour rejeter, par exemple, toute référence positive au
matriarcat. Le langage de la Déesse mérite donc d'être séparé, distinct de
toute croyance – fût-elle féministe – pour lui redonner une noble place parmi
les méthodes radicales d’introspection du passé, approche archéomytologique symbolique
d'un projet affectif qui habite le présent de chacun, aux antipodes d’une mytho archéologie dénoncée à tort
par les détracteurs malveillants de Gimbutas.
Vous avez avec vous la photo de celui ou
celle que vous aimez dans l’attente de pouvoir à nouveau l'embrasser vivant. Même
les photos de morts renvoient au souvenir – pourtant impossible à pratiquer –
d'une étreinte toujours désirée même si elle est devenue inaccessible. A chacun
de choisir de s'adonner à cette nostalgie ou de la classer comme morbide car
impossible à satisfaire. Je crois, par expérience, que quelqu'un de vivant, librement
abandonné(e) dans nos bras aimants, est le meilleur remède à toute nostalgie.
L'amant(e) qu'on aime et qui nous aime incarne toujours la magie magique du
présent qui nous permet d'embrasser en même temps tous ceux qu'on aime, même celles
et ceux qui ne sont plus là, destin qu’un jour ou l'autre ce sera celui de
chacun d'entre nous.
Ou, du moins, c'est ce que ma seule
religion me dit.
Sergio Ghirardi Sauvageon, 6 janvier 2023
[1] « Le processus d'indo-européanisation
était un processus de transformation culturelle et non physique. Ce processus
doit être compris comme une victoire militaire par laquelle un nouveau système
administratif, linguistique et religieux a été imposé aux groupes autochtones ».
– Marija
Gimbutas, Bronze Age Cultures in Central and Eastern Europe, page 309. Voir
aussi Marija Gimbutas, The Gods and Goddesses of Old Europe, 7000 to
3500 BC: Myths, Legends and Cult Images, Thames and Hudson, London 1974 ;
M. Gimbutas, Le Langage de la Déesse, éd. des Femmes,
Paris 2005 ; Riane
Eisler, Le Calice et l’Épée, R. Laffont, Paris 1989.