sabato 7 gennaio 2023

Erranze poietiche per una rivoluzione copernicana delle coscienze

 




Leggendo e rileggendo Gimbutas[1] mi dico che non si può ridurla a una banale pseudo scienziata mistica, seppur molto colta e intelligente. Certamente, il termine Dea è ambiguo ed è giusto diffidarne perché sempre un po’ troppo mistico è comunque ogni rapporto con la religione. Ateismo incluso. Eppure, il termine religione ci dice chiaro il suo intento etimologico di riunificazione del separato. In questo senso potrei dire che sono religioso anch’io perché la riunione del separato è una necessità evidente ai miei occhi. Ma di quale separazione parliamo?

La religione si riferisce alla separazione tra corpo e spirito, ma la frattura umana intrinseca, per non dire ontologica, è quella tra la vita e la morte. L’essere in vita presuppone presto, se non subito, di sapere di dover morire. Ironizzando appena nel dirlo, mi viene da notare che tutto il resto è sovrastruttura. Intendo dire che a causa dell’esistenza della morte, la vita stessa è una sovrastruttura. Qualunque cosa si faccia non dispiaccia ai transumanisti indaffarati a sognare di annoiarsi per l’eternità nelle loro cattedrali tecnologiche virtuali, circondate da plastica assolutamente reale, e a tutti i ridicoli credenti in un paradiso qualunque (compreso il comunismo e pure La Coppa del Mondo di Calcio) nessuno uscirà vivo dalla vita, davvero vissuta o no.

Interrompere almeno emozionalmente questa frattura tra la vita e la morte, ricostituire l’unità tra queste due condizioni, dando loro un senso e una spiegazione accettabile, è indispensabile alla felicità relativa di una pur sempre troppo breve esistenza. Ogni essere umano è personalmente confrontato con questo dilemma. Quest’aspetto della “religione”, questa particolare riunificazione del separato, è di un materialismo psicogeografico indubbio. Ebbene, la dimensione orgastica del vivente è la sola eternità che lenisce ogni paura, rendendo immortali ogni volta per qualche breve istante. La felicità non ha tempo né orari. È e basta.

Il problema si complica, invece, perché l’esigenza di riunione del separato non si presenta mai nella sua identità profonda. La paura intima diventa altra quando il metodo di sopravvivenza collettiva che si sceglie o si subisce anziché l’aiuto reciproco, anziché il principio di piacere condiviso che invita alla danza orgastica con la vita, si dedica a esercitare la predazione, il dominio. È allora che il principio di realtà finisce per inventare un istinto di morte che non esiste in natura se non come esorcismo, come risposta impaurita alla paura che comprende tutte le altre: quella di morire. Tendo a pensare che sia in questo pentolone alchemico che nasce la religione da quella religiosità naturale insita nella psicogeografia dell’umano; intendo la nascita di quell’ideologia religiosa che inventa dei e tabù, inferni e paradisi, quella che conosciamo tutti, purtroppo, volens nolens, da millenni e che ha occupato – ideologicamente e militarmente – tutta la questione della riunione del separato.

Insieme ai guerrieri (1) e ai mercanti (2), il clero (3) è scaturito dalla strategia del potere. Questi tre ruoli opportunisti rappresentano l’istituzionalizzazione autoritaria e lo sviamento predatore di tre elementi fondamentali per la socialità della scimmia in cerca della sua umanità: (1) sapersi difendere fisicamente, lottare, combattere per vivere in una natura amorale, cioè stupenda e mostruosa, godibile e pericolosa; (2) far circolare le cose, gli oggetti utili, favorire e moltiplicare i rapporti di dono e di scambio di beni per migliorare la vita di ciascuno e di tutti; (3) coagulare attorno a verità sempre relative (ma stabilite in comune e condivise per poter funzionare collettivamente) dei comportamenti sociali tesi a favorire l’armonia nel cosmo complesso del vivente, evitando i conflitti o ricomponendo i rapporti in crisi. Sto ribadendo qui, consciamente, l’aspetto interessante dell’unione del separato.

Purtroppo, la tendenza predatrice primaria che convive con quell’impulso vitale che ci spinge all’amore e all’amicizia (impulso vitale che invita a preferire la musica rispetto al rumore, le prelibatezze culinarie anziché un’alimentazione in pillole, una libera attività creativa anziché un lavoro forzato), non sa fare uso dell’arte di vivere che per trasformarla in dominio: il fattore uno ha partorito polizie ed eserciti, il fattore due dei mercanti ossessionati dal denaro; il fattore tre preti, intellettuali, burocrati, politici – tutti ruoli per opportunisti mercenari o per servitori volontari di una civiltà produttivista precipitata nella sua fase terminale capitalista.

Una volta gerarchizzati i rapporti sociali, la volontà poetica di unione del separato crolla. Il religo spontaneo è recuperato gerarchicamente da un clero creditore e da credenti diventati debitori per un senso di colpa coltivato. La religione si tinge di dominio, di potere e con l’ausilio della merce e del denaro produce sudditanza, sottomissione, umiliazione, vite perdute e morti premature. È proprio quello che i dominanti vogliono, ma si trovano allora obbligati a darne una giustificazione affinché chi subisce continui ad accettarlo o addirittura ne voglia di più. Il sapere, la forza, l’abilità si trasformano dunque in dichiarazioni di guerra emozionale, fisica, sociale, economica, culturale. Le leggi, i doveri, i tabù, la morale si erigono allora come elementi del sacro (ciò che si deve temere e a cui dunque si deve obbedire il più ciecamente possibile).

Storicamente e falsamente, s’intende per religione una qualunque costruzione ideologica – per quanto assurda, mostruosa disumana, ridicola e macabra – di un superamento mistico, e quindi immaginario, della dissociazione di ciò che è separato, riferendosi in particolare, si sa, al corpo e allo spirito, individuali quanto collettivi. Certo, questa separazione è davvero molto reale e pone un problema che le religioni, peraltro, si guardano bene dal risolvere, anzi lo accentuano; perché tutte senza eccezione, dissimulano dietro questo superamento illusorio l’angoscia della morte per meglio trarre profitto, così, dalla sua rimozione.

Dallo sciamanismo ai monoteismi, dal liberalismo al fascismo e al comunismo, la truffa religiosa serve l’abuso suprematista di ogni potere con le sue bandiere e gerarchie svariate, le sue diverse torture fisiche e mentali e un profondo disprezzo per l’umano. I ricchi ricattano economicamente e socialmente i poveri, i forti opprimono i deboli, i furbi ingannano gli ingenui, i sapienti trasformano il sapere in dogmi di un sacro che autorizza a bruciare e sgozzare, e tutti gli altri in ginocchio! L’invenzione degli dei è un superamento apparente, o peggio ancora spettacolare, della frattura ontologica tra la vita e la morte che lacera l’umanoide in divenire in ognuno. Una tale lacerazione è usata sistematicamente per garantire in realtà il suprematismo predatore della bestia nel rapporto sociale. Le confraternite di qualunque credenza, lo Stato e il Mercato si suddividono i ruoli nella gestione della struttura sociale di una civiltà produttivista che ha finora impedito agli ominidi di diventare umani.

Scaturita spontaneamente dalla psiche individuale per rispondere collettivamente a un’esigenza intima, emozionale, la religione si è trasformata storicamente in spazzatura mistica, metodo provvisto di mezzi infiniti per giustificare un potere che manipola l’emozionale abbracciando e attraversando il politico, il sociale, il vivente. Non a caso il carattere perverso narcisista si moltiplica come mai prima d’ora. Perché il suo vampirismo emozionale corrisponde perfettamente alla società dello spettacolo integrato che sta distruggendo la struttura stessa della vita nel triste e tragico crepuscolo della civiltà produttivista.

La religione che ha sempre preteso di riunire il separato funziona in realtà, da tempi immemorabili, come giustificazione e conferma ideologica della separazione. Non è mai la vita che essa riunisce con la morte in una sinfonia orgastica del vivente, in un’orgia di felicità: è la sopravvivenza gerarchizzata che essa giustifica inventando un’unione fittizia tra un’esistenza miserabile e un paradiso celeste, immaginario, in cui la separazione è superata mitologicamente al prezzo di una vita ridotta a una sopravvivenza infelice. Per ogni religione e per i suoi servitori volontari la vera vita è sempre post mortem, dunque una vita di merda indirizza alla morte come a una nascita della vita sognata. Ecco, in poche parole, come la radice primitiva dell’alienazione collega la realtà arcaica alla moderna società dello spettacolo.

Sto cercando di descrivere il perno cruciale nascosto di ogni misticismo per trovare la chiave di un agnosticismo orgastico che tolga all’ateismo le parvenze di un’ultima disperata religione aristocratica. Per questo, ai miei occhi, neppure gli anarchici sfuggono alla trappola. Sono gli ultimi credenti dai nobili intenti in un mondo che di nobile non ha più niente. La mia profonda avversione per quel mostro di Sade non m’impedisce di esortare a suo modo tanti miei più cari amici e amiche: holla, compagni anarchici, ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari! Oppure, per farmi perdonare, ben sapendo che perdonano raramente, parafrasando piuttosto Bakunin: L’acrazia è troppo importante per lasciarla in mano agli anarchici. I quali, donne e uomini, ci tengo a dirlo con tutta la tenerezza di cui sono capace, sono il più delle volte esseri umani commoventi e sinceri, amanti della festa e ben migliori di tutte le caricature dell’umano che bazzicano nello spettacolo sociale.

Le dee di Gimbutas, anche se il termine è mal scelto, ambiguo per la storia in cui è immerso, non sono, secondo me, dei banali elementi insignificanti di una religione. Possono diventarlo nelle mani rese mistiche dalla paura di chiunque di noi, ma Gimbutas, per la quale nutro stima e affetto, ne diffida abbastanza da rifiutare, per esempio, ogni riferimento positivo al matriarcato. Il linguaggio della Dea merita dunque di essere separato, distinto da ogni credenza – fosse pure femminista – per restituirgli un posto nobile tra i metodi radicali d’introspezione del passato, approccio archeomitologico simbolico di un progetto affettivo che abita il presente di ciascuno, agli antipodi di quella mitoarcheologia denunciata a torto dai suoi malintenzionati detrattori pestiferi.

La foto di chi si ama si porta con sé nell’attesa di poterlo/a riabbracciare dal vivo. Le stesse foto dei morti rinviano al ricordo – per quanto impossibile da praticare – di un abbraccio sempre desiderato anche se divenuto irrealizzabile. A ciascuno di scegliere se dedicarsi a questa nostalgia o archiviarla come morbosa perché impossibile da soddisfare. Credo, per esperienza, che qualcuno di vivo, liberamente abbandonato tra le nostre braccia affettuose sia la cura migliore di ogni nostalgia. L’amante che amiamo e che ci ama incarna sempre la magica magia del presente che ci permette di abbracciare contemporaneamente tutti quelli che amiamo, anche quelle e quelli che non ci sono più, destino che un giorno o l’altro toccherà a ciascuno di noi.

O almeno, questo è quanto la mia unica religione mi dice.

Sergio Ghirardi Sauvageon 6 gennaio 2023



[1] Il processo di indo europeizzazione è stato un processo di trasformazione culturale, non fisica. Questo processo deve essere inteso come una vittoria militare attraverso la quale venne imposto un nuovo sistema amministrativo, la lingua e la religione ai gruppi indigeni”, in Marija Gimbutas, Bronze Age Cultures in Central and Eastern Europe, pag. 309. Vedi anche: Marija Gimbutas, The Gods and Goddesses of Old Europe, 7000 to 3500 BC: Myths, Legends and Cult Images, Thames and Hudson, London 1974; M. Gimbutas, Il linguaggia della Dea, Venexia, Roma 2008 e Riane Eisler, Il calice e la spada, Forum Edizioni, Udine 2011.

Erratismes poïétiques pour une révolution copernicienne des consciences

En lisant et relisant Gimbutas[1], je me dis qu'elle ne peut pas être réduite à une banale pseudo scientifique mystique, quoique très cultivée et intelligente. Certes, le terme de Déesse est ambigu et il convient de s'en méfier car, de toute façon, tout rapport à la religion est toujours un peu trop mystique. Athéisme compris. Toutefois, le terme religion nous dit bien son intention étymologique de réunifier ce qui est séparé. En ce sens je pourrais dire que moi aussi je suis religieux car la réunion du séparé est une nécessité évidente à mes yeux. Mais de quelle séparation parle-t-on ?

La religion se réfère à la séparation du corps et de l’esprit, certes, et c’est déjà pas mal, mais la fracture humaine intrinsèque, pour ne pas dire ontologique, est celle entre la vie et la mort. Être vivant suppose bientôt, sinon immédiatement, de savoir qu'on va mourir. A peine ironique en disant ça, je voudrais remarquer que tout le reste est une superstructure.  Je veux dire qu'en raison de l'existence de la mort, la vie elle-même est une superstructure. Quoi que vous fassiez n’en déplaise aux transhumanistes affairés à rêver de s’ennuyer pour l’éternité dans leurs cathédrales technologiques virtuelles entourées par du plastique bien réel et à tous les croyants ridicules de n'importe quel paradis (y compris le communisme et la Coupe du monde de football) personne ne sortira vivant de la vie, qu’il l’ait vécue ou pas.

Briser au moins émotionnellement ce fossé entre la vie et la mort, reconstituer l’unité entre ces deux conditions, leur donnant un sens et une explication acceptable, est essentiel au bonheur relatif d'une existence toujours trop courte. Chaque être humain est personnellement confronté à ce dilemme. Cet aspect de la "religion", cette particulière réunification du séparé, relève d'un matérialisme psychogéographique incontestable. Or la dimension orgastique du vivant est la seule éternité qui apaise toute peur, nous rendant immortels pour quelques brefs instants à chaque fois. Le bonheur n'a pas de temps ni d'horaire. Il est, et c’est tout.

Le problème se complique cependant, car le besoin de réunification du séparé ne se présente jamais dans son identité profonde. La peur intime devient autre chose lorsque la méthode de survie collective que l'on choisit ou qu’on subit s’évertue d'exercer la prédation, la domination au lieu de l'entraide, au lieu du principe de plaisir partagé qui invite à une danse orgastique avec la vie. C'est alors que le principe de réalité finit par inventer une pulsion de mort qui n'existe pas en nature que comme un exorcisme, comme une réponse apeurée à la peur qui englobe toutes les autres : celle de mourir. J'ai tendance à penser que c'est dans ce chaudron alchimique que naît la religion d’une religiosité naturelle inhérente à la psychogéographie de l'humain ; je parle là de la naissance de cette idéologie religieuse qui invente des dieux et des tabous, des enfers et des paradis, celle que nous connaissons tous, malheureusement, volens nolens, depuis des millénaires et qui a occupé – idéologiquement et militairement – tout le questionnement concernant la réunion du séparé.

Avec les guerriers (1) et les marchands (2) le clergé (3) a jailli de la stratégie du pouvoir. Ces trois rôles opportunistes représentent l'institutionnalisation autoritaire et le detournement prédateur de trois éléments fondamentaux pour la socialité du singe en quête de son humanité : (1) savoir se défendre physiquement, lutter, se battre pour vivre dans une nature amorale, c'est-à-dire prodigieuse et monstrueuse, agréable et dangereuse ; (2) faire circuler les choses, les objets utiles, favoriser et multiplier les relations de don et d'échange de biens pour améliorer la vie de chacun et de tous ; (3) coaguler autour de vérités toujours relatives (mais établies en commun et partagées pour pouvoir fonctionner collectivement) de comportements sociaux visant à favoriser l'harmonie dans le cosmos complexe du vivant, en évitant les conflits ou recomposant les relations en crise. Je réitère ici, consciemment, l'aspect intéressant de l'union du séparé.

Malheureusement, la tendance prédatrice primaire qui coexiste avec cet élan vital qui nous pousse vers l'amour et l'amitié (élan vital qui nous invite à préférer la musique au bruit, une délice culinaire plutôt que de la nourriture en pilules, une libre activité créative plutôt que le travail forcé) ne sait se servir de l'art de vivre que pour le transformer en domination : le facteur un a généré la police et les armées ; le facteur deux des marchands obsédés par l’argent ; le facteur trois des prêtres, des intellectuels, des bureaucrates, des politiciens – tous rôles pour opportunistes mercenaires ou pour serviteurs volontaires d'une civilisation productiviste qui a sombré dans sa phase terminale capitaliste.

Une fois les rapports sociaux hiérarchisés, la volonté poétique d'union du séparé s’écroule. Le religo spontané est récupéré hiérarchiquement par un clergé créancier et par des croyants devenus débiteurs en raison d'un sentiment de culpabilité entretenu. La religion se teinte de domination, de pouvoir, et avec l’aide de la marchandise et de l'argent, elle produit sujétion, soumission, humiliation, vies perdues et morts prématurées. C'est bien ce que veulent les dominants, mais ils se trouvent alors obligés de donner une justification afin que ceux qui souffrent continuent à l’accepter ou même en redemandent. Savoir, force, habileté se transforment donc en déclarations de guerre – émotionnelle, physique, sociale, économique, culturelle. Les lois, les devoirs, les tabous, les morales apparaissent alors comme des éléments du sacré (ce qu'il faut craindre et donc y obéir le plus aveuglément possible).

Historiquement et faussement, on entend par religion toute construction idéologique – peu importe si absurde, monstrueuse, inhumaine, ridicule et macabre – d'un dépassement mystique, donc imaginaire, de la désunion de ce qui est séparé, se référant, en particulier, on le sait, au corps et à l'esprit autant individuels que collectifs. Certes, cette séparation est vraiment bien réelle et pose un problème que les religions, d’ailleurs, se gardent bien de résoudre, tout au contraire l’accentuent ; car toutes, sans exception, cachent derrière ce dépassement illusoire l’angoisse de la mort pour mieux profiter, ainsi, de son refoulement.

Du chamanisme aux monothéismes, du libéralisme au fascisme et au communisme, la fraude religieuse sert l'abus suprématiste de tout pouvoir avec ses bannières et ses hiérarchisations diverses, ses différentes tortures physiques et mentales et un mépris profond de l'humain. Les riches exercent le chantage économique et social sur les pauvres, les forts oppriment les faibles, les rusés trompent les naïfs, les savants transforment le savoir en dogmes d'un sacré qui autorise à brûler et à égorger, et tous les autres à genoux ! L'invention des dieux est un dépassement apparent, ou pire encore spectaculaire, de la fracture ontologique entre la vie et la mort qui déchire l'humanoïde qui est en devenir en chacun. Une telle lacération sert systématiquement à garantir en fait le suprématisme prédateur de la bête dans le rapport social. Les confréries de toute confession, l'État et le Marché se partagent les rôles dans la gestion de la structure sociale d'une civilisation productiviste qui a jusqu'ici empêché les hominidés de devenir humains.

Jaillie spontanément du psychisme individuel pour répondre collectivement à un besoin intime, émotionnel, la religion s'est historiquement transformée en ordure mystique, une méthode pourvue d’infinis moyens pour justifier un pouvoir qui manipule l'émotionnel qui embrasse et traverse le politique, le social, le vivant. Ce n'est pas un hasard si le caractère pervers narcissique se multiplie comme jamais auparavant. Parce que son vampirisme émotionnel corresponde parfaitement à la société du spectacle intégré qui détruit la structure même de la vie dans le triste et tragique crépuscule de la civilisation productiviste.

La religion qui a toujours prétendu réunir les séparés fonctionne en réalité, depuis des temps immémoriaux, comme justification et confirmation idéologique de la séparation. Ce n'est jamais la vie qu'elle réunit à la mort dans une symphonie orgastique du vivant, dans une orgie de bonheur : c'est la survie hiérarchisée qu'elle justifie en inventant une union fictive entre une existence misérable et un paradis céleste, imaginaire, où la séparation est mythologiquement surmontée au prix d'une vie réduite à une survie malheureuse. Pour chaque religion et pour ses serviteurs volontaires, la vraie vie est toujours post mortem, donc une vie de merde mène à la mort comme vers une naissance à la vraie vie. Voici, en peu de mots, comment la racine primitive de l’aliénation unit la réalité archaïque à la moderne société du spectacle.

J'essaie de décrire le pivot crucial caché de tout mysticisme pour trouver la clé d'un agnosticisme orgastique qui dépouille l'athéisme des semblants d'une dernière religion aristocratique désespérée. Pour cette raison, à mes yeux, même les anarchistes n'échappent pas au piège. Ils sont les derniers croyants aux nobles intentions dans un monde qui de noble n'a plus rien. Ma profonde aversion pour le monstre qui est Sade, ne m'empêche pas d'exhorter à sa manière nombre de mes plus chers amis et amies : Holla, camarades anarchistes, encore un effort pour devenir des révolutionnaires ! Ou, pour me rattraper, en sachant qu'ils ne pardonnent pas souvent, en paraphrasant plutôt Bakounine : L'acratie est trop importante pour la laisser entre les mains des anarchistes. Lesquels, femmes et hommes, j'ai envie de le dire avec toute la tendresse dont je suis capable, sont, le plus souvent, des êtres humains émouvants et sincères, fêtards et bien meilleurs que toutes les caricatures humaines qui traînent dans le spectacle social.

Les déesses de Gimbutas, même si le terme est mal choisi, ambigu pour l’histoire dans laquelle il est plongé, ne sont pas, à mon avis, des banales éléments anodins d'une religion. Elles peuvent le devenir entre les mains, rendues mystiques par la peur, de n'importe lequel d'entre nous, mais Gimbutas, à qui je dévoue estime et affection, se méfie suffisamment de ça pour rejeter, par exemple, toute référence positive au matriarcat. Le langage de la Déesse mérite donc d'être séparé, distinct de toute croyance – fût-elle féministe – pour lui redonner une noble place parmi les méthodes radicales d’introspection du passé, approche archéomytologique symbolique d'un projet affectif qui habite le présent de chacun, aux antipodes d’une mytho archéologie dénoncée à tort par les détracteurs malveillants de Gimbutas.

Vous avez avec vous la photo de celui ou celle que vous aimez dans l’attente de pouvoir à nouveau l'embrasser vivant. Même les photos de morts renvoient au souvenir – pourtant impossible à pratiquer – d'une étreinte toujours désirée même si elle est devenue inaccessible. A chacun de choisir de s'adonner à cette nostalgie ou de la classer comme morbide car impossible à satisfaire. Je crois, par expérience, que quelqu'un de vivant, librement abandonné(e) dans nos bras aimants, est le meilleur remède à toute nostalgie. L'amant(e) qu'on aime et qui nous aime incarne toujours la magie magique du présent qui nous permet d'embrasser en même temps tous ceux qu'on aime, même celles et ceux qui ne sont plus là, destin qu’un jour ou l'autre ce sera celui de chacun d'entre nous.

Ou, du moins, c'est ce que ma seule religion me dit.

 

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 6 janvier 2023

 



[1]  « Le processus d'indo-européanisation était un processus de transformation culturelle et non physique. Ce processus doit être compris comme une victoire militaire par laquelle un nouveau système administratif, linguistique et religieux a été imposé aux groupes autochtones ». – Marija Gimbutas, Bronze Age Cultures in Central and Eastern Europe, page 309. Voir aussi Marija Gimbutas, The Gods and Goddesses of Old Europe, 7000 to 3500 BC: Myths, Legends and Cult Images, Thames and Hudson, London 1974 ; M. Gimbutas, Le Langage de la Déesse, éd. des Femmes, Paris 2005 ; Riane Eisler, Le Calice et l’Épée, R. Laffont, Paris 1989.