Ho
appena ricevuto questa sintesi chiarificatrice della mutazione eco sociale in
corso e ve l’ho tradotta per piacere ed utilità. Sergio Ghirardi Sauvageon
A prima vista, non c'è nulla in comune tra gli zapatisti, le collettività
del Rojava e i gilets jaunes che hanno innescato in Francia, nel 2018, un
movimento insurrezionale la cui portata annuncia un radicale cambiamento di
società. Contesto storico, etnico, geografico, psicologia, tutto diverge tra
questi popoli in rivolta. Tutto, tranne l'esplosione di una volontà di vivere
determinata a spezzare il pugno di ferro della finanza mondiale e a non
soccombere più alla glaciazione del profitto.
L'improvvisa invasione delle strade e delle rotonde da parte di
una popolazione eterogenea, vestita con un giubbotto che l'automobilista era
obbligato a tenere a portata di mano, era partita con un assai futile pretesto,
l'aumento di una tassa sul carburante. Gli zapatisti avevano pianificato
attentamente la loro rivolta. I Gilets jaunes, dal canto loro, improvvisarono
in un misto di entusiasmo e disinvoltura un'occupazione dei luoghi a loro
familiari. Vi hanno dispiegato spontaneamente l'energia insospettata di un
"Ya basta", un "Y'en a marre" quasi evocatore di una rabbia
infantile.
Ci si aspettava una rivolta, è stata una rivoluzione!
Lo Stato francese era, come ovunque, abituato al letargo delle
folle, colonizzate dal consumismo. Non è stato il solo a vedervi solo un pugno
di facinorosi, di marginali deliranti, rustici acculturati che il manganello e
l'accecamento avrebbero richiamato all'Ordine. Il populismo di stampo fascista,
sempre in agguato per recuperare una rabbia cieca, pensava di poterli divorare.
Ne è rimasto soffocato al primo boccone.
La reazione più carica di conseguenze è stata il disprezzo che
ha versato su di loro la sinistra. Li avrebbe agghindati volentieri con la
vecchia sottana proletaria offrendo loro la propria tutela, che gli insorti e le
insorte hanno chiaramente rifiutato. Perché i Gilets jaunes avevano decretato fin dall'inizio che non avrebbero
accettato né un leader, né un delegato autoproclamato, né un apparato sindacale
e politico. L’essere umano era la loro priorità assoluta.
Nessuna insurrezione del passato ha mai espresso un simile
avvertimento. E comprensibile che abbia provocato il nervosismo di coloro il
cui potere burocratico sulle lotte operaie aveva talmente deteriorato la
coscienza proletaria che molte roccaforti tradizionalmente "rosse"
hanno iniziato a votare per l'estrema destra.
L'insurrezione popolare restituisce oggi il suo splendore alla
Francia dell'Illuminismo, che era stata oscurata dalla corruzione e dalla
stupefacente stupidità dei suoi dirigenti. Stiamo assistendo al disfacimento e
alla disgregazione degli apparati politici e sindacali che cercano di
recuperarla e di ostacolare il progresso della sua radicalità. Gli apparatchik
crollano sotto la pressione di una base, dove i militanti riconquistano la loro
autonomia.
Né il conservatorismo né il gauchismo sopravvivranno alla
debacle della manipolazione politica. Come il Movimento delle Occupazioni del
maggio 1968 ha avuto la pelle del partito cosiddetto comunista, che aveva
contribuito a schiacciarlo, così impareremo a fare a meno delle autorità
statali al soldo di un capitalismo finanziario che ci distrugge
autodistruggendosi.
La menzogna delle democrazie totalitarie non riesce a nascondere
la realtà di un'esistenza sempre più minacciata dall'impoverimento.
L'incompetenza dei governi oligarchici arriva a rivelare il punto critico in
cui si giocherà il nostro destino. Per quanto deplorevoli siano l'aumento dei
prezzi e la riduzione dei salari, ancor più insopportabile è la perdita della
gioia di vivere nella misura in cui la crescita del profitto inaridisce i corpi
e le coscienze, spingendo all'odio e al suicidio, diffondendo una noia peggiore
della morte.
Ogni settimana, da cinque anni in tutta la Francia, uomini e
donne hanno mostrato la loro presenza festosa al grido di “siamo qui” con
pacifica e incrollabile ostinazione. Questa potenza, che nessuna violenza
poliziesca può vincere, è tempo di rendersi conto che sta celebrando un
autentico ritorno alla vita. C'è in
questo un'allegria selvaggia che si cercherebbe invano nei cortei di protesta
posti sotto la gestione politica e sindacale. Si balla e si canta tra gli
zapatisti, in Rojava, tra i Gilets jaunes.
Non è il caso dei cortei dove il ripetersi di tristi slogan fa parte della
militanza militarizzata e dello spirito sacrificale.
Ogni volta che un'organizzazione esterna ha cercato di imporsi
su di noi, ci ha portato alla delusione e al fallimento. Nessuno ha dimenticato
come la dittatura del proletariato abbia ispirato una delle dittature più
feroci sui proletari. La radicalità si apprende meno nelle lezioni della storia
– per quanto feconde possano essere – che nel potenziale creativo che si rivela
a tutti nel sempre rinascente desiderio di libertà e d’amore.
Solo l'autorganizzazione
del popolo, dal popolo e per popolo può porre fine alla sfilza dei governi
che da secoli ci opprimono e ci massacrano per il nostro bene. Dal 1994, quel
che gli zapatisti chiamano non un modello
ma una sperimentazione dimostra il valore di una società senza altro potere
che il mandato revocabile attribuito dall'assemblea all'uno o all'altro dei
suoi membri. È una rivoluzione non esportabile ma "essa è là" ed è
l'orizzonte della vita che brilla sui territori dove tutto è chiamato a
reinventarsi.
Siamo ancora fermi a chiedere misure contro l'inquinamento a quelli
che sono obbligati a propagarlo perché solo la logica del profitto dà loro una
parvenza di esistenza. Gli zapatisti hanno rotto con lo Stato e hanno
ristabilito una salutare alleanza con la natura nutrice. La comunità, forte di
circa 400.000 persone, è, nonostante le incertezze, gli errori maldestri, i
resti di misticismo, quel che al mondo assomiglia di più a una società umana.
Non c'è tra loro, è bene saperlo, né polizia né prigione. Il delitto è un
errore da correggere, non una colpa da assumere. Dell'esercito, che nel 1994 ha
liberato le campagne dal giogo dei proprietari terrieri, è rimasto solo un
emblema dissuasivo, senza incidenza sul funzionamento delle assemblee.
L'importanza dell'insurrezione della vita quotidiana, di cui i Gilets jaunes sono solo un epifenomeno,
è che invita a un ritorno alla base. La Francia è oggi l'unico Paese in cui una
simpatica curiosità nei confronti di un pugno di utopisti e di chimerici
sognatori è sfociata nell'adesione di tutto un popolo a un movimento che non ha
più bisogno del giallo emblematico per far sentire le grida e i canti della
vita, della terra, dell'umano che si sveglia e rinasce. Ciò che inizialmente
era confinato a riunioni settimanali sulle rotonde, è ormai un incontro quotidiano,
dove la parola si libera e dove l'aiuto reciproco offre ai partecipanti la sua
forza di coesione.
La parola viva non è forse preferibile all'urna elettorale, che
troppo spesso è un'urna funeraria?
La nostra esistenza individuale e sociale è in preda a una lotta di prossimità. È dalle piccole
situazioni locali, dalle micro-società – borghi, quartieri, regioni – che
prende senso la lotta per la qualità della vita e contro le nocività. Separato
dal suo vissuto, il progetto di emancipazione umana arriverà solo a un'astrazione,
una falsificazione (l'abbiamo visto in Francia, dove la constatazione zapatista
che "un altro mondo è possibile" è diventata uno slogan
propagandistico del populismo gauchista).
Seguendo la rotta dell'umano, invece, sono pochi i problemi –
agricoltura, inquinamento, salute, scuola, trasporti, mafie burocratiche e
bancarie, artigianato, emigrazione, produzione di beni utili – che il
trattamento autogestionario non è in grado di affrontare con una pertinenza
che, ovviamente, non ci si deve attendere dalle lobby mondialiste destinate a gestirli.
Ciò che il movimento dei Gilet Gialli ha favorito fin
dall'inizio è stato un senso umano che
esclude il riflesso predatorio e segna il predominio del mutuo soccorso e
dell'autonomia individuale. Gli incendi che divampano in tutto il mondo –
dal Perù all'Iran – rivelano un fenomeno di cui stiamo appena iniziando a
prendere coscienza: il passaggio dalla civiltà mercantile a una civiltà umana.
Il futuro più probabile dell'emancipazione generalizzata sarà la
costituzione di micro-società in cui delle fazioni antagoniste proveranno ad
accordarsi. Alcuni, ancora invischiati nei resti d’ideologie autoritarie e
libertarie, affronteranno, su progetti concreti, i soggetti radicali preoccupati
di portare avanti la difficile ed entusiasmante armonizzazione del vivente. Anche
se questi sono solo sogni a occhi aperti, non se ne deve sottovalutare
l'energia potenziale. Essa non smetterà di diffondere i germi di
un'insurrezione della vita quotidiana, la cui primavera fiorisce in tutte le
stagioni.
Raoul Vaneigem
Les combattants de la liberté n’ont pas
besoin de se connaître pour se reconnaître
A première vue, il n’y a rien de commun
entre les zapatistes, les collectivités du Rojava et les gilets jaunes qui ont
suscité en France, en 2018, un mouvement insurrectionnel dont l’ampleur annonce
un changement radical de société. Contexte historique, ethnique, géographique,
psychologie, tout diverge entre ces peuples en rébellion. Tout, sauf
l’explosion d’une volonté de vivre résolue à briser la main de fer de la
finance mondiale et à ne plus succomber à la glaciation du profit.
Le brusque envahissement des rues et
des ronds-points par une population disparate, revêtue d’un gilet que
l’automobiliste devait garder à portée de la main, avait démarré sous un
prétexte assez futile, la hausse d’une taxe sur le carburant. Les zapatistes
avaient soigneusement programmé leur soulèvement. Les Gilets jaunes, eux,
improvisèrent dans un mélange d’enthousiasme et de désinvolture une occupation
des lieux qui leur étaient familiers. Ils y déployèrent spontanément l’énergie
insoupçonnée d’un « Ya basta », d’un « Y’en a marre » qui
évoquait presque une colère d’enfant.
On attendait une émeute, ce fut une
révolution !
L’État français était, comme partout,
accoutumé à la léthargie des foules, colonisées par le consumérisme. Il ne fut
pas le seul à ne voir là qu’une poignée de trublions, de marginaux délirants,
de rustauds acculturés que la matraque et l’éborgnement rappelleraient à
l’Ordre. Le populisme fascisant, toujours aux aguets d’une colère aveugle, crut
pouvoir les dévorer. Il s’en étouffa à la première bouchée.
La réaction la plus lourde de
conséquence fut le mépris dont les accabla la gauche. Elle les aurait
volontiers affublés de la vieille défroque prolétarienne en lui offrant sa
tutelle mais elle se heurta de la part des insurgées et des insurgés à une fin
de non-recevoir. Car les Gilets jaunes avaient décrété dès le départ qu’ils
n’accepteraient ni chef, ni délégué autoproclamé, ni appareil syndical et politique.
L’être humain était leur priorité absolue.
Aucune insurrection du passé n’avait
fait montre d’une telle mise en garde. On comprend qu’elle provoqua de
l’aigreur chez ceux dont l’emprise bureaucratique sur les luttes ouvrières
avait si bien mis à mal la conscience prolétarienne que nombre de fiefs
traditionnellement « rouges » commencèrent à voter pour l’extrême
droite.
Le soulèvement populaire rend
aujourd’hui son éclat à la France des Lumières, qu’avaient occultées la
corruption et la stupéfiante sottise de ses dirigeants. On assiste à
l’effilochage et à la débandade des appareils politiques et syndicaux qui
tentent de le récupérer et d’entraver les progrès de sa radicalité. Les
apparatchiks s’effondrent sous la pression d’une base où les militants
retrouvent leur autonomie.
Ni conservatisme ni gauchisme ne
survivront à la débâcle de la manipulation politique. De même que le Mouvement
des Occupations de mai 1968 a eu la peau du parti dit communiste, qui avait
contribué à l’écraser, de même allons-nous apprendre à nous passer d’instances
étatiques à la solde d’un capitalisme financier qui nous détruit en se
détruisant lui-même.
Le mensonge des démocraties
totalitaires échoue à masquer la réalité d’une existence de plus en plus
menacée par la paupérisation. L’incompétence des gouvernements oligarchiques en
vient à dévoiler le point de basculement où va se jouer notre destinée. Si
déplorables que soient l’augmentation des prix et la diminution des salaires,
plus insupportable encore est la déperdition de la joie de vivre à mesure que
les avancées du profit dessèchent les corps et les consciences, poussent à la
haine et au suicide, répandent un ennui pire que la mort.
Chaque semaine, depuis cinq ans dans la France
entière, des hommes et des femmes manifestent leur présence festive aux cris de
« on est là » avec une obstination paisible et inébranlable. Cette
puissance, dont aucune violence policière ne vient à bout, il serait temps de
s’aviser qu’elle célèbre un authentique retour à la vie. Il y a là une
allégresse échevelée que l’on chercherait en vain dans les cortèges
revendicatifs placés sous la férule politique et syndicale. On danse et on
chante chez les zapatistes, au Rojava, chez les gilets jaunes. Ce n’est pas le
cas des défilés où le beuglement de tristes slogans participe du militantisme
militarisé et de l’esprit sacrificiel.
Chaque fois qu’une organisation
extérieure a voulu s’imposer à nous, elle nous a menés à la déconvenue et à la
faillite. Nul n’a oublié comment la dictature du prolétariat en a inspiré une
des plus féroce à son encontre. La radicalité s’apprend moins dans les leçons
de l’histoire – si fructueuses qu’elles puissent être – que dans le potentiel créatif qui se révèle à
chacun dans le désir toujours renaissant de la liberté et de l’amour.
Il n’y a que l’auto-organisation du peuple pour et par le peuple qui puisse en finir avec la lignée des gouvernements qui
nous ont, à longueur de siècles, opprimés et massacrés pour notre bien. Depuis
1994, ce que les zapatistes appellent non un modèle mais une expérience
démontre le bien fondé d’une société sans autre pouvoir que le mandat révocable
attribué par l’assemblée à l’une ou l’autre de ses membres. C’est une
révolution non exportable mais « elle est là » et c’est l’horizon
de la vie qui rayonne sur les territoires où tout est appelé à se réinventer.
Nous en sommes encore à quémander des
mesures contre la pollution à ceux qui sont dans l’obligation de la propager
parce que seule la logique du profit leur prête un semblant d’existence. Les
zapatistes ont rompu avec l’État et ils ont renoué une salutaire alliance avec
la nature nourricière. La communauté, forte de quelque 400 000 personnes, est,
à travers les incertitudes, les maladresses, des restes d’ascétismes, ce qui
dans le monde s’approche le mieux d’une société humaine. Il n’y a chez eux, il
faut le savoir, ni police ni prison. Le délit est une erreur à corriger non une
culpabilité à assumer. De l’armée, qui, en 1994 a libéré les campagnes du joug
des propriétaires terriens, il n’est resté qu’un emblème de dissuasion, sans
incidence sur le fonctionnement des assemblées.
L’importance que revêt l’insurrection
de la vie quotidienne, dont les gilets jaunes ne sont qu’un épiphénomène, c’est
qu’elle convie à un retour à la base. La France est aujourd’hui le seul pays où
une sympathique curiosité à l’endroit d’une poignée d’utopistes et de rêveurs
chimériques a débouché sur l’adhésion de tout un peuple à un mouvement qui n’a
plus besoin du jaune emblématique pour faire entendre les cris et les chants de
la vie, de la terre, de l’humain qui se réveille et renaît. Ce qui se
cantonnait au début à des retrouvailles hebdomadaires de ronds-points est
désormais une rencontre quotidienne où la parole se libère et où l’entraide lui
offre sa force de cohésion.
La parole vivante n’est-elle pas
préférable à l’urne électorale, qui n’est que trop souvent une urne
funéraire ?
Notre existence individuelle et sociale
est en proie à un combat de proximité. C’est au départ de petites entités
locales, de microsociétés – villages, quartiers, régions – que prend son sens
la lutte pour la qualité de la vie et contre les nuisances. Coupé de son vécu,
le projet d’émancipation humaine n’atteindra qu’à une abstraction, à une
falsification (on l’a vu en France où le constat zapatiste « un autre
monde est possible » est devenu un slogan de propagande du populisme
gauchiste.)
En gardant le cap de l’humain, en
revanche, il est peu de problèmes – agriculture, pollution, santé, école,
transports, mafias bureaucratiques et bancaires, artisanat, migration,
production de biens utiles – que le traitement autogestionnaire ne soit en
mesure d’aborder avec une pertinence que, de toute évidence, il ne faut pas
attendre des lobbies mondialistes habilités à les gérer.
Ce qu’a privilégié dès le départ le
mouvement des Gilets jaunes, c’est un sens humain qui exclut le réflexe
prédateur et marque la prédominance de l’entraide et de l’autonomie
individuelle. Les embrasements qui flamboient dans le monde entier – du Pérou
à l’Iran – révèlent un phénomène dont nous commençons à peine à prendre
conscience : le passage de la civilisation marchande à une civilisation
humaine.
L’avenir le plus probable de
l’émancipation généralisée sera la constitution de microsociétés où
entreprendront de s’accorder des factions antagonistes. Certaines, encore
empêtrées dans les restes d’idéologies autoritaires et libertaires,
affronteront, sur des projets concrets, les radicaux soucieux de mener plus
avant la difficile et passionnante harmonisation du vivant. Même si ce ne sont
là que rêveries, n’en sous-estimez pas l’énergie potentielle. Elle ne cessera
d’essaimer les germes d’une insurrection de la vie quotidienne, dont le
printemps fleurit en toute saison.
Raoul Vaneigem