Con quale obiettivo hai scritto libri sulla guerra civile?
È stata un'idea che mi
è venuta da lontano. Durante gli ultimi anni della dittatura, chiunque presentiva
il crollo del regime franchista e, data la spinta di una giovane classe
operaia, la possibilità di cambiamenti rivoluzionari in Spagna era e sembrava
reale. Io credevo che riscattare il ricordo veridico della rivoluzione spagnola
fosse essenziale per un movimento libertario che emergeva a marce forzate
parallelamente alle lotte antifranchiste, allo scopo di influenzare davvero gli
eventi. La luce sul passato illumina il presente. Purtroppo allora non avevo i
mezzi per farlo e l'ho fatto più tardi, post festum, con il movimento operaio
già sconfitto, le sue truppe disperse e integrate, e con un ambiente libertario
emarginato e snaturato. L'efficacia del mio impegno per la verità storica è
stata notevolmente diminuita per quanto riguarda la presa di coscienza
rivoluzionaria e l'obiettivo si è ridotto a conservare la memoria di una
rivoluzione contro l'oblio e la falsificazione degli eredi del suo sgretolamento,
oggi felicemente riconciliati. Lo stesso serve a guidare o almeno a chiarire
l'azione nei tempi che corrono, perché chi ignora la storia nel suo lato tragico,
è condannato a ripeterla come farsa.
Perché indagare specificamente
su Durruti?
Si trattava di smantellare un mito ideologico creato
espressamente dalla burocrazia libertaria per giustificare la sua politica di
rassegnazione e, allo stesso modo, di restituire alla persona concreta la sua
vera identità anarchica e rivoluzionaria. I veri eroi della classe operaia, che
furono numerosi, sono rimasti anonimi ma Durruti fu l'eccezione. Forte della
sua leggenda, ha impersonato in vita l'eroe dei lavoratori, cioè la figura
capace di incarnare i propri ideali e di affrontare con determinazione il
proprio destino. Si è detto tante volte, e all'epoca si pensava così, che la
sua sepoltura ha significato il funerale della rivoluzione.
Chi furono gli Amici di
Durruti?
Furono una corrente rivoluzionaria nata tra i miliziani di Gelsa
e Velilla sull’Ebro - nel Fronte d'Aragona, settore di Saragozza - come
conseguenza del rifiuto della militarizzazione della colonna Durruti. Nelle
retrovie si oppose alle successive capitolazioni dei comitati dirigenti
dell'organizzazione confederale e specifica, svolgendo un ruolo di primo piano
nella rivolta del maggio 1937 e poi in clandestinità. Jaime Balius e Pablo Ruiz
ne sono stati i principali animatori. Perseguitati dalla polizia di Negrín e
non autorizzati dall'anarchismo ufficiale, che tentò in due occasioni di
espellerli, i membri del Raggruppamento rimasero nell’esilio francese fino
all'invasione tedesca.
Pellicer?
José Pellicer è stato uno dei rivoluzionari più perspicaci, più onesti
e meno conosciuti della guerra civile. Agitatore anarchico di prima fila e
combattente di spicco del sindacato unico della Costruzione, fu organizzatore
della Colonna di Ferro, l'avanguardia armata della rivoluzione proletaria e
contadina nella regione levantina. Ha anche promosso la comparsa del giornale
"Nosotros", organo dei gruppi anarchici di Valencia. La Colonna di
Ferro rappresentò fedelmente gli ideali di emancipazione del proletariato e fu la
più capace a resistere alla militarizzazione. Si oppose fermamente al
collaborazionismo della burocrazia organica che tanto demoralizzò le masse
lavoratrici, fino a diventare carne da macello di un esercito
"popolare" sotto il nome di 83a Brigata Mista. Lo stesso Pellicer,
particolarmente deluso dal vergognoso comportamento di capitolazione della FAI
levantina, si rifiutò di sostenerla, il che portò alla sua destituzione da capo
della brigata.
Maroto?
È il personaggio più carismatico dell'anarchismo andaluso,
membro del sindacato della Madera. Ha combattuto sul Fronte di Granada e per
gli intrighi e le persecuzioni di cui fu vittima per aver difeso la popolazione
profuga di Malaga, rappresenta l'integrità morale e la solidità di principi
tipiche dei militanti coerenti anche nelle condizioni più avverse. Lo stesso si
potrebbe dire di Pellicer, anch'egli rimasto molto tempo dietro le sbarre
repubblicane, poi ferocemente torturato dai carcerieri franchisti e fucilato.
Il libro sugli ácratas?
In Spagna c'è stato un 68 come in Francia iniziato con gli
studenti. La rivolta universitaria fu il detonatore della crisi del franchismo.
Gli ácratas
di Madrid furono il fenomeno che sconvolse il riformismo all'Università
Centrale e radicalizzò il movimento studentesco, portando alla paralisi dell'insegnamento
superiore. Gli incidenti successivi costrinsero il regime a dichiarare lo stato
di emergenza e a creare uno specifico servizio segreto d’informazione, il
SECED, modello per tutti quelli successivi. Poi, dal 1970, sarà la volta del
movimento operaio, al quale ho dedicato diversi lavori, ultimo dei quali il
libro intitolato "Proletariato selvaggio".
È rimasto qualcosa
dell'immaginazione al potere?
Ai più radicali non piaceva l'ambiguità dell'espressione e
preferivano parlare di "soppressione del potere". Certo, niente di
tutto questo è rimasto nell'università, né nelle fabbriche, che sono sempre
meno e sono automatizzate. Il ciclo aperto nel 1968 si è chiuso un anno dopo i
Patti di Moncloa del 1977, occasione degli ultimi scioperi assembleari. A
livello europeo, l'assalto immaginario al potere - o meglio il rifiuto di ogni
potere - si è concluso nel 1989 con il crollo del regime stalinista polacco e
la caduta del muro di Berlino.
Tuttavia, la povertà si
sta diffondendo, le condizioni di lavoro si deteriorano e la precarietà sta
aumentando a tutti i livelli. Tutto questo non implica una maggiore
polarizzazione sociale?
In effetti, le differenze economiche si sono ampliate e la
dipendenza dal lavoro è diventata generale ma data la totale penetrazione del
Capitale nella vita quotidiana, l'automazione del processo produttivo e la
moltiplicazione degli interessi privati nella massa oppressa, la situazione non
è sufficiente per creare un’identità di classe, una coscienza collettiva
unitaria o, in altre parole, un soggetto storico in lotta per la sua
emancipazione. È più vero il contrario, il declassamento dei proletari.
Attualmente, le questioni del lavoro e del potere d'acquisto non sono materiale
sufficiente per la formazione -reale e non puramente retorica- di una classe
operaia cosciente. I conflitti tra Capitale e Lavoro, o tra sopravvivenza
economica e vita senza imperativi consumistici, non rivelano un'incompatibilità
essenziale tra due realtà contrarie, ma tendono a risolversi -con l'aiuto della
tecnologia- nell'ambito del sistema capitalista. Sarebbe opportuno concentrarsi
maggiormente su altri problemi cruciali come l'esclusione sociale, la
digitalizzazione universale, il degrado dell'ambiente e il peggioramento delle
condizioni di vita biologica sul pianeta (la sopravvivenza della specie umana minacciata).
Perché le persone non
si ribellano allo stato delle cose?
Queste sono le conseguenze per le masse della colonizzazione
mentale del capitalismo: si vuole restare nel sistema, unicamente in condizioni
migliori e maggiore sicurezza, quindi con più Stato. Il declassamento lascia la
porta aperta alla paura, promossa con terribile efficacia dai media, e i
dominati finiscono per pretendere catene per tutti. La facilità con cui il
confinamento e la sottomissione incondizionata ai dettami dell'autorità sono
stati imposti durante la passata pseudo pandemia illustrano perfettamente le
conquiste dell'immaginario del dominio. Com’è avvenuto nelle grandi crisi del
passato, le masse declassate conservano la loro mentalità colonizzata pur
perdendo il loro status economico. Quindi, l'unica cosa che si può sperare è
che sostengano soluzioni autoritarie, applicabili da uno Stato parapoliziesco.
Costituendo la maggioranza sociale, forniscono la base necessaria per il
populismo neofascista, qualcosa da tenere in gran conto.
Che ruolo può giocare attualmente
il movimento anarchico?
Non sono ottimista al riguardo. Noto una grave discontinuità tra l'anarchismo di ieri e quello attuale. C'è un'evidente rottura con la tradizione anarchica, più strettamente legata alle lotte operaie e all'umanesimo integrale. La nuova generazione pateticamente arrogante, ha scelto d'ignorare la storia e di non costruire su di essa. L'anarchismo odierno, più tipico del ghetto giovanile che del mondo del lavoro, si considera "plurale". In effetti, oggi l'etichetta anarchica copre vari comportamenti antagonisti, dall'attivismo sfrenato al quietismo cristiano, passando per il riformismo sindacale, il nazionalismo e l'elettoralismo, anche se le questioni che iniziano a dominare ideologicamente sono quelle legate al benessere degli animali, alla dieta vegana, al sesso fluido o all'intersezionalità. Dal punto di vista postmoderno, la questione sociale si dissolve in un oceano d’identità, dove la trasgressione normativa sostituisce la lotta di classe. Penso che quello che oggi si definisce anarchismo sia per lo più un prodotto subalterno della decomposizione generale del capitalismo, legato al debole pensiero universitario e alla miseria intellettuale di certi settori impoveriti della classe media. Tuttavia, l'autentico rifiuto dello Stato, delle gerarchie e dei capi, la delega ridotta, la partecipazione collettiva attraverso comitati e assemblee, la necessità di distruggere per costruire, cioè la parte non sconfitta dell'anarchismo classico, per poco che penetri nel cuore delle lotte moderne, può contribuire in modo decisivo al chiarimento delle coscienze e alla sovversione meglio di qualsiasi ricetta militante.
Qual è l'oggetto del
tuo libro «Post Babilonia»?
M’interessava mostrare la configurazione dello spazio del
capitale, poiché è il terreno in cui si svolge la storia. In questo senso,
l'urbano - la conurbazione- è il luogo propizio per l'accumulazione di capitali.
La metropoli culmina nel processo di concentrazione demografica, predominio
della circolazione -dei flussi- e spreco di risorse, il che origina
trasformazioni regressive nel territorio: satellizzazione, speculazione,
rimodellamento turistico, industrializzazione agraria, estrattivismo,
svuotamento... Nel contesto contemporaneo, il conflitto tra Capitale e Natura,
tra agglomerazione urbana e territorio, tra consumo industriale e agricoltura
biologica, assume un'importanza mai vista. Il capitalismo verde è solo una fuga
in avanti nello sviluppo suicida. A mio avviso, la difesa del territorio, che è
d’altra parte la difesa della vita libera e della specie, costituisce l'asse su
cui si snoderanno le lotte sociali decisive.
Texto preparatorio para la
entrevista de Acraçia Nova blogspot Nafarroa, el 2 de febrero de
2023
¿Con qué objeto
escribiste libros sobre la guerra civil?
Era una idea que me venía
de lejos. Durante los años finales de la dictadura todo dios presentía el
derrumbe del régimen franquista, y, dado el empuje de una clase obrera joven,
la posibilidad de cambios revolucionarios en España era y parecía real. Creía
yo que el rescate de la memoria verídica de la revolución española era
fundamental para un movimiento libertario que surgía a marchas forzadas
paralelo a las luchas antifranquistas, si es que de verdad quería influir en
los acontecimientos. La luz sobre el pasado ilumina el presente.
Desgraciadamente no tuve medios para hacerlo entonces y lo hice más tarde, post
festum, ya derrotado el movimiento obrero, dispersos e integrados sus
efectivos, y con un medio libertario marginalizado y desnaturalizado. La
eficacia de mi compromiso con la verdad histórica quedó muy disminuida en lo
que a suscitar conciencia revolucionaria se refiere y el objetivo se redujo a
preservar el recuerdo de una revolución contra el olvido y la falsificación de
los herederos de su aplastamiento, hoy felizmente reconciliados. Igual sirve
para orientar o al menos esclarecer la acción en los tiempos que corren, pues
quien ignora la historia en su vertiente trágica está condenado a repetirla
como farsa.
¿Por qué precisamente
indagar sobre Durruti?
Se trataba de desmontar
un mito ideológico creado expresamente por la burocracia libertaria para
justificar su política de renuncias y, asimismo, de devolver a la persona
concreta su verdadera identidad anarquista y revolucionaria. Los verdaderos
héroes de la clase obrera, que fueron numerosos, permanecieron en el anonimato,
pero Durruti resultó la excepción. Respaldado por su leyenda, personificó en
vida al héroe de los trabajadores, es decir, a la figura capaz de encarnar sus
ideales y afrontar su destino con determinación. Se ha dicho muchas veces, y en
su momento se sintió así, que su entierro significó el funeral de la
revolución.
¿Quiénes fueron Los
Amigos de Durruti?
Fueron una corriente
revolucionaria originada entre los milicianos de Gelsa y Velilla de Ebro -en el
Frente de Aragón, sector zaragozano- como consecuencia del rechazo a la
militarización de la columna Durruti. En la retaguardia se opuso a las
sucesivas capitulaciones de los comités dirigentes de la organización
confederal y específica, desempeñando un papel principal en la revuelta de Mayo
del 37 y luego en la clandestinidad. Jaime Balius y Pablo Ruiz fueron sus
principales animadores. Perseguidos por la policía de Negrín y desautorizados
por el anarquismo oficial, que intentó expulsarles en dos ocasiones, los
miembros de la Agrupación aguantaron en el exilio francés hasta la invasión
alemana.
¿Pellicer?
José Pellicer fue uno de
los revolucionarios más perspicaces, más íntegros y menos conocidos de la
guerra civil. Agitador anarquista de primera fila y luchador destacado del
Sindicato Único de la Construcción, fue el organizador de la Columna de Hierro,
la vanguardia armada de la revolución proletaria y campesina en la región
levantina. Asimismo impulsó la aparición del diario «Nosotros», el órgano de
los grupos anarquistas de Valencia. La Columna de Hierro representó con
exactitud los ideales emancipadores del proletariado y fue la que con más
fuerza resistió la militarización. Se opuso con firmeza al colaboracionismo de
la burocracia orgánica que tanto desmoralizó a las masas trabajadoras, hasta
convertirse en carne de cañón de un ejército «popular» bajo la denominación de
83ª brigada mixta. El mismo Pellicer, decepcionado particularmente con la
vergonzosa conducta capituladora de la FAI levantina, se negó a prestarle
apoyo, lo que acarreó su destitución como jefe de la brigada.
¿Maroto?
Se trata del personaje
más carismático del anarquismo andaluz, militante del Sindicato de la Madera.
Combatió en el Frente de Granada y por las intrigas y persecuciones de las que
fue víctima al defender a la población malagueña refugiada representa la
entereza moral y solidez de principios propias de los militantes consecuentes
aun en las condiciones más adversas. Lo mismo podría decirse de Pellicer, que
también pasó una larga temporada entre rejas republicanas e igualmente fue
torturado con saña por los carceleros franquistas y fusilado.
¿El libro de los ácratas?
En España hubo un 68 como
en Francia y empezó con los estudiantes. La revuelta universitaria fue el
detonante de la crisis al franquismo. Los ácratas madrileños fueron el fenómeno
que desbarató el reformismo en la Universidad Central y radicalizó el
movimiento estudiantil, acarreando la parálisis de la enseñanza superior. Los
sucesivos incidentes obligaron al régimen a declarar el estado de excepción y
crear un servicio secreto de información específico, el SECED, modelo de todos
los posteriores. Luego, a partir de 1970, sería el turno del movimiento obrero,
al cual he dedicado varios trabajos, siendo el último el libro titulado
«Proletariado salvaje».
¿Queda algo de la
imaginación al poder?
A los más radicales no
les gustaba la ambigüedad de la expresión y preferían hablar de «supresión del
poder». Nada de eso queda ciertamente en la universidad, ni tampoco en las
fábricas, que cada vez hay menos y están automatizadas. El ciclo abierto en el
68 quedó cerrado un año después de los Pactos de la Moncloa del 77 momento de
las últimas huelgas asamblearias. A nivel europeo el asalto imaginativo al
poder -o mejor el rechazo de todo poder- concluyó en 1989 con el derrumbe del
régimen estalinista polaco y la caída del muro de Berlín.
Sin embargo la pobreza se
extiende, las condiciones de trabajo se degradan y la precariedad aumenta a
todos los niveles. ¿No implica todo ello una mayor polarización social?
En efecto, las
diferencias económicas se han agrandado y la dependencia laboral se ha
generalizado, pero dada la penetración total del Capital en la vida cotidiana,
la automatizacion del proceso productivo y la multiplicación de intereses
particulares en la masa oprimida, la situación no basta para crear una
identidad de clase, una conciencia colectiva unitaria, o dicho de otra manera,
un sujeto histórico que luche por su emancipación. Lo contrario, el
desclasamiento de los proletarios, es más cierto. En la actualidad, las
cuestiones laborales y el nivel adquisitivo no son material suficiente para la
formación -real y no puramente retórica- de una clase obrera consciente. Los
conflictos entre Capital y Trabajo, o entre supervivencia económica y vida sin
imperativos consumistas, no ponen en evidencia una incompatibilidad esencial
entre dos realidades contrarias, sino que tienden a resolverse -con ayuda de la
tecnología- en el marco del sistema capitalista. Convendría centrarse más en
otros problemas cruciales como la exclusión social, la digitalización
universal, la degradación del medio y el empeoramiento de las condiciones de
vida biológica en el planeta (la supervivencia amenazada de la especie humana).
¿Por qué la gente no se
rebela contra el estado de cosas?
Son las consecuencias en
las masas de la colonización mental del capitalismo: se quiere permanecer en el
sistema, sólo que en mejores condiciones y mayor seguridad, luego con más
Estado. El desclasamiento deja la puerta abierta al miedo, promovido con
temible eficacia por los medios de comunicación, y los dominados acaban
exigiendo cadenas para todos. La facilidad con que se impuso el confinamiento y
la sumisión incondicional a los dictados de la autoridad durante la pasada
seudopandemia ilustran perfectamente los logros del imaginario de la
dominación. Como sucedió en las grandes crisis del pasado, las masas
desclasadas conservan su mentalidad colonizada a pesar de perder su status
económico. Entonces, lo único que cabe esperar es que se pongan detrás de
soluciones autoritarias, aplicables desde un Estado parapolicial. Al constituir
la mayoría social, proporcionan la base
necesaria al populismo neofascista, algo a tener muy en cuenta.
¿Qué papel puede jugar el
movimiento anarquista en la actualidad?
No soy optimista en cuanto a eso. Constato una grave discontinuidad entre el anarquismo de antaño y el actual. Hay una ruptura evidente con la tradición anarquista, muy ligada esta a las luchas obreras y al humanismo integral. La nueva generación, patéticamente arrogante, escogió ignorar la historia y no construir sobre ella. El anarquismo de hoy, más propio del gueto juvenil que del mundo del trabajo, se considera «plural». Efectivamente, con la etiqueta anarquista hoy se cubren diversas conductas antagónicas, desde el activismo desaforado hasta el quietismo cristiano, pasando por el reformismo sindical, el nacionalismo y el electoralismo, aunque las cuestiones que empiezan a dominar ideológicamente son las relativas al bienestar animal, la alimentación vegana, el sexo fluido o la interseccionalidad. Desde la óptica posmoderna, la cuestión social queda disuelta en un océano de identidades, donde la transgresión normativa substituye a la lucha de clases. Pienso que lo que hoy se autodenomina anarquismo es mayoritariamente un producto subalterno de la descomposición general del capitalismo, relacionado con el pensamiento débil universitario y la miseria intelectual de determinados sectores empobrecidos de las clases medias. No obstante, el rechazo auténtico del Estado, de las jerarquías y de los dirigentes, la delegación mínima, la participación colectiva a través de comités y asambleas, la necesidad de destruir para construir, o sea, la parte no vencida del anarquismo clásico, a poco que penetre en el corazón de las luchas modernas, puede contribuir decisivamente al esclarecimiento de las conciencias y a la subversión mejor que cualquier receta militante.
¿Cuál es el objeto de tu
libro «Post Babilonia»?
Me interesaba mostrar la
configuración del espacio del capital, pues es el terreno donde acontece la
historia. En ese sentido lo urbano -la conurbación- es el lugar propicio a a la
acumulación de capitales. La metrópolis culmina el proceso de concentración
demográfica, predominio de la circulación -de los flujos- y despilfarro de
recursos, todo lo cual origina transformaciones regresivas en el territorio:
satelización, especulación, remodelación turística, industrialización agraria,
extractivismo, vaciado... En el contexto contemporáneo, el conflicto entre
Capital y Naturaleza, entre aglomeración urbana y territorio, entre consumo
industrial y agricultura biológica, alcanza una importancia jamás tenida. El
capitalismo verde solamente es una huida hacia adelante en el desarrollismo
suicida. A mi entender, la defensa del territorio, que por otra parte es la
defensa de la vida libre y de la especie, conforma el eje donde pivotarán las
luchas sociales decisivas.