lunedì 8 novembre 2010
Un grandissimo Odifreddi!
Il non senso della vita
Fare lezione è uno scambio a doppio senso, tra “professori” e “studenti”, perchè spesso i ruoli si invertono. La cosa è vera
letteralmente: ad esempio, è un luogo comune dell’accademia (sicuramente scientifica, e forse anche umanistica) che solo insegnando si arriva a padroneggiare veramente un argomento. Ma è vera soprattutto metaforicamente, perchè chi impartisce un insegnamento tecnico può (e
dovrebbe) riceverne in cambio uno umano.
E’ ciò che è successo a me due giorni fa, quando nell’ambito del Festival della Scienza di Genova sono andato al Carcere Marassi per un incontro con i detenuti. Anzitutto, mi sono trovato di fronte al problema di decidere cosa mai potevo raccontare loro, da scienziato in generale, e da matematico in particolare. In fondo, mi sono chiesto, che interesse potrebbe mai avere per il mondo della natura, chi è stato condannato a viverle lontano? O per il mondo delle astrazioni, chi è stato condannato a vivere recluso fra concretissime mura e dietro a concretissime sbarre?
Pensandoci, mi sono accorto che in fondo, però, la scienza ha una lunga storia di esperienze col carcere. Per sua natura, infatti, il pensiero scientifico ò “antisociale” e “rivoluzionario”. E poiché va contro le idee (pre)costituite, e tende a scardinare le visioni dominanti e i pregiudizi imperanti, finisce per generare una “reazione sociale” uguale e contraria.
Già nel terzo secolo prima della nostra era, quando Aristarco propose la teoria eliocentrica che poneva il Sole al centro del mondo, al posto della Terra, fu accusato di empietà dagli Stoici per aver minato le fondamenta della religione e dell’astrologia. La stessa sorte toccò, duemila anni dopo, a Bruno e Galileo, quand’essi si ritrovarono a riproporre la stessa teoria di Aristarco, riformulata da Copernico, finendo l’uno al rogo sulla pubblica piazza, e l’altro agli arresti domiciliari a vita.
Galileo impiegò gli anni della sua reclusione a scrivere il suo capolavoro scientifico, i Discorsi sopra due nuove scienze. E lo stesso fece Bertrand Russell, nei sei mesi di carcere che gli furono comminati nel 1918 per pacifismo, scrivendo il suo capolavoro divulgativo, l’Introduzione alla filosofia matematica.
L’esempio della scienza e degli scienziati può essere doppiamente confortante per i detenuti. Da un lato, un po’ banalmente, i libri scritti da Galileo e Russell mostrano come si possa utilmente impiegare il tempo della detenzione. Cosa che molti detenuti ovviamente sanno e fanno già benissimo. E me l’hanno dimostrato simbolicamente, regalandomi un paio di magliette concepite nel corso di grafica tessile che alcuni di loro stanno seguendo in carcere, e raccontandomi delle loro esperienze di studio sia superiore che universitario.
Dall’altro lato, le vicende di persecuzione scientifica mostrano, meno banalmente di quelle di persecuzione politica, che stare dentro o fuori dal carcere è solo una questione di rapporti di potere e di forza, che ha poco o nulla a che vedere non solo con l’etica e la giustizia, ma addirittura con la verità. Ad esempio, dopo la Rivoluzione Russa, coloro che non erano mai stati nelle carceri o al confino zaristi erano guardati con enorme sospetto dai bolscevichi. E coloro che erano stati nelle carceri o al confino sovietici, a partire dallo scienziato Sacharov, furono a loro volta guardati con grande rispetto dopo la caduta del comunismo.
La questione dei rapporti di forza è sicuramente più chiara a chi sta dentro il carcere, che a chi sta fuori. Noi tutti tendiamo infatti a dimenticare che non solo le prigioni, ma anche i manicomi e gli ospedali, non sono sempre esistiti, e appartengono a una fase ben precisa e recente dello sviluppo sociale. Basta leggere, al proposito, Sorvegliare e punire, Storia della follia nell’età classica e Nascita della clinica di Michel Foucault.
Lo sviluppo, però, non coincide necessariamente col progresso. E che a volte coincida con il regresso, lo dimostrano le cifre relative al
carcere: in Italia due terzi dei detenuti sono dentro per motivi di droga, e due quinti (e al Nord due terzi) sono extracomunitari. Il che obbliga a pensare che il sistema vada immediatamente riformato alla breve, e rimpiazzato alla lunga con una politica sociale che renda il detenuto e la detenzione non più necessari. O, almeno, che faccia uscire dalle carceri molti di coloro che oggi stanno dentro, e magari ci faccia entrare molti di coloro che oggi stanno fuori.