L’idiocrazia è dura a morire e i tifosi la portano sempre in processione.
Queste elezioni sono però un altro segno di un accenno di autonomia da parte di cittadini spettatori ridotti a votare nelle galere di un sistema corrotto che li prende in giro. Non basterà una croce per uscire dalla via crucis quotidiana, ma i cittadini spettatori non ne possono più di stare semplicemente a guardare la loro vita assente e confiscata dal fantomatico PIL.
La corruzione di destra è strutturale come il business, quella di sinistra è il prodotto di un lento e definitivo identificarsi della burocrazia politica sopravvissuta alla caduta del muro con l’economicismo trionfante.
Oltre il movimento 5 stelle (che è solo un sintomo ma può cominciare a contribuire alla cura della malattia in modo omeopatico perché non vuole essere un partito, con grande scandalo di tutti devoti della sottomissione ai leaders, di tutti i finanziatori involontari di carrieristi politici più o meno orribili ma tutti lontani decine di migliaia di euro dalla grandissima parte di chi li vota), è la democrazia spettacolare e perversa del capitalismo che è alle strette dovunque, dall’Africa all’Europa.
Oltre l’indignazione, affiora un desiderio di democrazia diretta che rischia forte di ricollegarsi ai migliori movimenti rivoluzionari e libertari del passato per cambiare il mondo e renderlo finalmente umano.
I commenti supini dei servitori volontari accompagnano soltanto il tramonto auspicabile della schiavitù salariata.
Nulla è acquisito, ma un’aria nuova circola sul pianeta, meno morbosa, meno nuclearizzata e finalmente più umana, anche se i mostri continueranno la loro folle corsa verso il nulla.
Comunque la si rigiri, finisce che siamo sempre noi, i civili occidentali, a decidere per gli altri.
Dopo aver scoperto i selvaggi, abbiamo passato secoli a sfruttarli, spolparli e snaturarli “civilizzandoli” di forza, tra schiavitù e consumismo.
Offrendo loro il dono velenoso delle nostre ataviche contraddizioni, ci siamo forgiati una coscienza falsa di un umanesimo autoreferenziale e intimamente reazionario. Attraverso il nostro complesso di superiorità, estremamente redditizio da un punto di vista economico, ma povero per solidarietà, affettività e potenza di godimento reciproco, abbiamo acculturato tutti i diversi gruppi etnici incontrati sulla nostra strada di conquistadores alle nostre patologie più schifose.
Siamo arrivati persino a coprire le parti intime di genti che non avevano la minima paura del loro corpo, talmente inpotenti a godere da non capire neppure che la nostra pudicizia non significava altro che la nostra patologica sessuofobia. Con la retorica di una morale ipocrita, abbiamo stigmatizzato l’innocenza come barbara, obbligandola alle sublimi vette perverse di un erotismo sadomaso di cui siamo i consumatori indefessi, tra sacrestie e sex-shop, Sofitel e letti di Putin.
Ora che tutto ciò emerge ormai come un’evidenza macabra, anziché far tesoro del ridicolo che accompagna le nostre tronfie sicurezze, scegliamo ancora spesso di rovesciare la pentola del manicheismo in un ottuso gioco di ruoli intellettuali. Decidiamo allora, con un dogmatismo speculare a quello dei missionari di un tempo, che si deve abbandonare ogni sorta di giudizio e ogni valutazione della situazione per non invadere la cultura altrui.
Dopo averla saccheggiata e destabilizzata nelle sue contraddizioni intime, abbandoniamo ora, frettolosamente e vigliaccamente, l’Africa al suo destino che abbiamo determinato. Dopo averli vestiti per meglio spogliarli, spogliamo ora, da moderni reazionari, il nostro spiritualismo coloniale di ogni resposabilità attuale.
Dalla tecnologia per tutti e dappertutto all’elogio mistico del primitivismo in quanto saggezza assoluta, in un modo o nell’altro, la paura del diverso non ci abbandona comunque mai: o è un diavolo da esorcizzare o un angelo etereo da adorare. Buoni o cattivi, gli altri restano pur sempre selvaggi.
In realtà l’uomo è da sempre capace di tutto, del meglio e del peggio, a tutte le latitudini. Dai primitivi ai civilizzati, l’umanità dell’uomo è una scommessa poetica incompiuta da affinare dialetticamente con un uso smodato di intelligenza sensibile.
In ogni cultura c’è sempre da prendere e da lasciare e la cernita va fatta da ognuno in piena responsabilità e libertà di intendere e di volere.
Facile a dirsi, purtroppo, poiché nei fatti, quella stessa carenza dialettica che aveva promulgato la nostra becera superbia di figli dell’unico dio, conferma, rovesciandone l’ordine dei fattori, l’autoritarismo della nostra stupida concezione del mondo. Signori e schiavisti al nord come al sud, ogni volta che si esclude l’ipotesi concreta di un’autonomia dei soggetti riguardo a quel che per loro è bene o male, utile o inutile, piacevole o spiacevole.
Vogliamo, infine, lasciare a coloro che ne sono coinvolti di decidere che aiuti vogliono e il grado di tecnologia da integrare o da rifiutare?
Anche sbagliare, autonomamente, è un diritto inalienabile di una laicità da difendere contro tutti gli oscurantismi.
L’evidenza storica dei nostri misfatti non ci dà il diritto di abbandonare la partita sparendo nel nulla; non più che di scegliere di continuare a vampirizzare il mondo con un’industrializzazione inquinante e nociva. La questione sociale e le soluzioni da scegliere sono ormai al contempo locali e planetarie.
Impariamo dai saggi tagliatori di teste dell’Amazzonia occidentale - i cosiddetti Jivaros, in realtà “Shuara” - che hanno smesso di ridurre le teste dei nemici in “tsanza” ma preservano preziosamente i loro curanderos tradizionali per curare le malattie dell’ambiente amazzonico mentre usufruiscono liberamente della medicina occidentale per le malattie da acculturazione.
Il rispetto autentico delle altre culture non può tradursi in un’apologia del diverso; non più che nella sua criminalizzazione colonialista.
La libertà di tutti comincia dallo scambio gratuito di diverse sensibilità, diverse opzioni individuali e sociali. Ognuno deve poter prendere dagli altri quel che sembra migliorare il senso della vita, lasciando quel che ne complica le realizzazioni.
I veri selvaggi sono quelli che - tecnologici o primitivisti - hanno bisogno di credere di avere capito tutto e cercano di imporre al mondo la loro fanatica ragione morbosa.
Siamo continuamente sollecitati a versare, anche via sms, un obolo per l’Africa nera, soprattutto per i bambini che non hanno scuole, che non possono usufruire di un’educazione come si deve, che muoiono di malattie da noi curabilissime, come il tifo, o scomparse da tempo come la malaria. Alcune aziende, per accattivarsi i possibili clienti, dichiarano che uno o due euro saranno destinati ad aiutare l’Africa. Quando questi soldi arrivano a destinazione, se vi arrivano, sono maneggiati da ong che, animate dalle migliori intenzioni, li utilizzano per certi progetti in loco.
A queste ‘anime belle’ voglio raccontare la storia di Nana Konadu Yadom, una Ashanti, antichissima tribù dell’Africa nera, regina di un piccolo villaggio, Besoro, immerso nella giungla subtropicale del Ghana. Quando è ancora principessa Nana parte per l’Italia perché vuole incontrare una suora di cui ha sentito parlare e l’ha affascinata. Al momento di partire è presa da qualche dubbio guardando i volti luminosi, gli occhi limpidi, sereni della sua gente e i mille bambini che scorrazzano allegramente. Ma parte. L’impulso alla conoscenza è più forte. Prima di raggiungere la suora, che dovrebbe stare, secondo vaghe indicazioni, in una città del Nord, si ferma in Sicilia dove, per vivere, si adatta a fare la colf. Quando raggiunge la città della suora, Schio, viene a sapere che è morta da cinquant’anni. Si ferma a Schio, sempre come domestica. Del nostro Paese non ha una percezione negativa, ne ammira le conquiste, anche se nota che tutti hanno sempre una tremenda fretta, vanno di corsa, sono ossessionati da uno strano strumento, l’orologio, tutte cose sconosciute a Besoro, anche perché a Besoro l’orologio non esiste, ci si regola con il levar del sole e quando l’ombra lambisce le radici di un certo baobab.
Nel frattempo a Besoro la regina morente, che è sua zia, l’ha nominata per la successione. Ma Nana rimane ancora un po’ in Italia. Diventa un caso: una regina che fa la sguattera! Finisce sui giornali. Per un pelo non la portano all’Isola dei Famosi. Dopo diciotto anni in Italia, Nana torna al suo villaggio, richiamata dal Consiglio degli Anziani perché adempia ai suoi doveri di regina. Ormai partecipe delle due culture Nana vuole portare qualche innovazione a Besoro, niente di grandioso: una piccola scuola, un piccolo ospedale. Costruito questo il medico, un nero pure lui, le fa notare che l’ospedale è inutile se non si costruisce anche un pozzo in modo che i bambini e gli adulti di Besoro non si abbeverino a un laghetto putrido dove si infettano. Comincia così una nota trafila da cui non si esce più. I bambini si ammalano di meno, ma Nana nota con sorpresa, che gli abitanti sono diventati tristi, non hanno più i volti luminosi, gli occhi limpidi, felici, mentre è comparsa una malattia mai vista a Besoro, l’ipertensione.
Il virus occidentale ha rotto equilibri ancestrali. Il primo a squagliarsela è il cacciatore Coio che torna nella foresta, poi altri, infine anche il tranquillo zio Ofa se ne va, mentre uno che lavora in ospedale le dice con una voce quasi infantile: “Io non posso vivere con l’orario”. L’esperimento è stato fallimentare.
Mi piace concludere questo apologo con le parole di Andrea Pasqualetto, il giornalista che ha raccolto il racconto della regina Nana Konadu Yadom per un libro che uscirà prossimamente da Marsilio: “Chi l’ha detto che l’Africa nera deve essere aiutata? Chi l’ha detto che servono scuole, ospedali, pozzi? Servono a chi? Agli africani o a noi?”.
“Quel che rimprovero all’uguaglianza non è di spingere gli uomini alla ricerca dei piaceri proibiti, ma di assorbirli interamente nella ricerca dei godimenti permessi. Si corre, così, il rischio di lasciare che si stabilisca nel mondo una specie di materialismo onesto che non corromperebbe le anime ma le rammollirebbe finendo per scaricare impercettibilmente tutte le loro motivazioni”.
Traduzione dal francese di Alexis de Tocqueville, La democrazia in America.
(De la démocratie en Amérique (1840), Œuvres, tome 2, Paris, Gallimard, La Pléiade, 1992, p.646.)
Come i suoi guitti più gettonati, costretti dallo specchio delle loro sordide brame a rifarsi quotidianamente il trucco mostruoso del loro apparire, la società spettacolare mercantile non smette di ritoccare ossessivamente il suo apparato propagandistico coi ferri di un lifting ideologico che non fa che accentuare la mostruosità del suo invecchiamento ormai appariscente e ripetuto nel quotidiano urlo di Munch dell’uomo e della natura.
Nel delirio generale, è confortante, però, avvertire, diffusa nell’aria impestata della società dello spettacolo, la voglia sempre più collettiva di ridare significato a una vita individuale e sociale ridotta a sopravvivenza e sottoposta da tempo a un ricatto economico vampiresco.
Ovunque, dei giovani di ogni età, allevati fin dal biberon a credere che il lavoro renda liberi, sembrano cominciare a risorgere spontaneamente dall’ipnosi che li obbligava a perseguire un salario e ad arricchirsi di cose inutili e nocive anziché tendere alla felicità.
Incitati a guadagnare denaro al prezzo della propria vita confiscata e costretti a elemosinare le briciole di una ricchezza soltanto virtuale, molti giovani denunciano ormai la truffa che il “Gota” capitalista chiama spudoratamente crisi.
Sempre di più si fa largo la coscienza che non manca per niente la ricchezza ma che è inesistente la sua giusta distribuzione.
Eppure il tabù fondatore dello schiavismo moderno continua a funzionare come un riflesso condizionato.
Invece di pretendere almeno un salario minimo garantito per tutti, in attesa di rovesciare un sistema produttivistico che produce ricchezza astratta e miseria reale, delle processioni macabre scendono ancora in strada chiedendo spasmodicamente “lavoro, lavoro, lavoro!”.
In questa contraddizione, l’impasse che per mezzo secolo ha fatto del proletariato un fantasma che non spaventa più i suoi sfruttatori si conferma, ma annuncia, al contempo, che i tempi della coscienza e della rivolta stanno per tornare.
Dietro alla bandiera sciolta al vento dell’indignazione e oltre la rivendicazione rabbiosa e ambigua del diritto al lavoro, affiorano, infatti, potenti, i desideri di costituire una società solidale in cui faccia piacere vivere.
Tra le rughe incartapecorite di uno spettacolo invecchiato malissimo e intento a raschiare i fondi del barile, si sta rifacendo vivo il soggetto sempre giovane di un proletariato spasmodicamente in cerca di una coscienza perduta. Ritrovarla e rinnovarla, questo è quanto manca per fare di questo sogno rimosso una realtà concreta.
Un rigetto della corruzione su cui si fonda tutta l’economia mercantile affiora come un distinguo radicale dalle vecchie opposizioni politiche invischiate nella gestione della società produttivistica.
Nel vecchio mondo che avanza sulle stampelle dello sfruttamento e dell’alienazione, ci si veste di Adidas o Nike per fingere un’autonomia soggettiva inesistente, mentre si copre la miseria impotente di corpi umiliati da falsi bisogni che non sono mai stati desideri autentici.
Lo stesso avviene per le idee, catalogate tramite differenze ideologiche accomunate dal rispetto sacrale degli stessi dogmi economicisti.
Le arcaiche differenze ideologiche sono diventate ininfluenti quanto la marca che distingue merci assolutamente interscambiabili per valore d’uso ma personalizzate e rese uniche dal feticismo che le rappresenta e ne giustifica il prezzo stabilito al di fuori di ogni concreta logica di utilità.
Il dogma del PIL supera gli opposti schieramenti di una democrazia spettacolare, unendoli in un unico progetto di valorizzazione economica, ma sarebbe a dir poco frettoloso concluderne che lo spettacolo di destra e quello di sinistra sono assolutamente identici.
Laddove tutto deve sembrare in perpetuo mutamento per mettere in scena la magia nera necessaria a far sì che niente cambi mai dell’essenziale, il ruolo di chi incarna l’autorità lugubre e immutabile di un’ingiustizia ineluttabile e severa e quello di chi vuole addolcirne gli spigoli per farla penetrare più agevolmente e più a fondo, non è affatto identico.
Come confondere chi, per interesse, stabilisce cinicamente la pena e mette in esecuzione la crudele condanna di una vita confiscata dall’economia, con i secondini premurosi che vigilano sui detenuti e si occupano, alternando paternalismo e fermezza, di rinchiudere alle spalle di coloro che non hanno da vendere che la loro forza lavoro la porta che li separa dalla libertà?
Il tribunale della Storia saprà distinguere tra aguzzini e kapò, tra proprietari dei mezzi di produzione e decisionisti, tra picchiatori e demagoghi, ma non mancherà di accomunarli in un pubblico ludibrio da destra a sinistra e viceversa.
“Che se ne vadano tutti” è l’auspicio che riunisce in un unico sentire tutti i diversi movimenti che stanno scuotendo l’albero avvizzito del capitalismo planetario.
Una tale sollevazione auspica un cambiamento radicale di prospettiva nel ridefinirsi della questione sociale e non dobbiamo permettere a nessuno di recuperare ideologicamente un tale grido di rabbia, d’insofferenza e di dolore.
La sinistra è parte integrante del corpo sociale malato della società produttivistica perché non denuncia affatto la truffa ormai visibile di antiche sofferenze rimesse sul mercato della sopravvivenza sotto l’apparenza di nuovi piaceri.
Orfani di un’insostenibile ideologia rivoluzionaria, i vecchi oppositori scrupolosi di un capitalismo senza scrupoli difendono l’essenziale di quello che pretendono criticare perché sono ridotti a sottoscrivere un umanesimo capitalista fondato sul pessimismo interessato che esclude ogni superamento possibile della società spettacolare mercantile.
Rivendicare il lavoro anziché la distribuzione giusta delle ricchezze disponibili, significa fare dello sfruttamento subito un diritto rivendicato.
Quel che sarebbe stato impensabile al tempo di un proletariato ricco di una coscienza di classe, è diventato banale al tempo dello spettacolo che fa di ogni pecora il proprio cane.
Tra economia statalista ed economia di mercato, gli indignati hanno assoluto interesse a scegliere un’economia solidale. Ricollegandosi agli “arrabbiati” di un recente passato, tocca loro un compito prezioso da svolgere: approfondire il tema della transizione per tradurre in pratica sociale la loro riaffiorante sensibilità; riappropriarsi dell’utopia senza ridurla a chimera astratta, esplorandone, invece, nel presente, le possibilità concrete.
Questa voglia di rivoluzione che ritorna sarà tributaria soltanto della volontà di vivere dei suoi nuovi soggetti, giovani di tutte le età, refrattari alla violenza che il vecchio mondo senza scrupoli rovescerà su di loro per impedirne l’emergenza.
La terza via dialettica riappare, infatti, pacificamente sul cammino della storia da farsi, ma non potrà cullarsi nell’illusione pacifista senza finire nella pace dei cimiteri. Il pacifismo dovrà imparare a inventare le sue strategie di attacco perché il nemico è pronto a tutto, come il lupo di fronte all’agnello che beve, ignaro, a valle del predatore, l’acqua del fiume.
Si dovrà essere vigilanti di fronte alle inevitabili provocazioni: quelle militari, certo, ma anche quelle ideologiche perpetrate da falsi compagni di strada. Bisognerà allontanarsi dalla violenza - senza subirla, ma denunciandola - e ridicolizzare le cadute dialettiche dei falsi oppositori mondani che criticano il vecchio mondo nell’intento di salvarlo.
Molti falsi critici dell’ideologia si propongono, infatti, senza ridere, di tradurre nell’ossimoro di un’ideologia raddoppiata la loro ambigua impotenza a liberarsi dell’ideologia. Per un Cohn Bendit che ha inventato in politica il “liberalismo libertario”, ecco un Michel Onfray fondare nelle brume astratte della filosofia il “capitalismo libertario”. Entrambi tendono, coscienti o no, a mimetizzare la loro resa al sistema dominante dietro un aggettivo accattivante.
Nell’universo mondano dei servitori volontari, si consuma lo sgretolamento dell’etimo stesso della libertà, nel susseguirsi dei misfatti del capitalismo, sdoganato con uno spruzzo di anarchia formale al fine di tenere meglio sotto controllo la libertà imprigionata degli individui reali.
Da filosofi separati che sono, finora gli ideologi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo per davvero e alla svelta, prima che sia troppo tardi.
Nessuna ideologia ci salverà dal crollo imminente del capitalismo ma solo l’alleanza ritrovata con una natura che sta declamando ad altissima voce i termini della contraddizione insormontabile della società produttivistica: non è possibile uno sfruttamento infinito di un mondo finito.
Non sarà dunque l’etica a salvare, eventualmente, la specie umana, ma il buon senso e il ritrovato uso dei sensi.
Quella voglia di felicità che ha abitato in filigrana tutti gli slanci rivoluzionari della specie umana sta tornando ad abitare, localmente e internazionalmente, i sogni concreti dell’eterna giovinezza di un’umanità senza età cui non resta che il meglio per opporsi in extremis al peggio che avanza minaccioso e oltraggioso.
Sergio Ghirardi
Qualche documento per la Storia a venire:
http://www.youtube.com/watch?v=Geg_6Xoy04s&feature=youtu.be
http://parallhlografos.wordpress.com/2011/05/26/25-%ce%bc%ce%ac%ce%b7-%ce%b4%ce%b9%ce%b1%ce%bc%ce%b1%cf%81%cf%84%cf%85%cf%81%ce%af%ce%b1-%ce%ba%ce%b1%ce%b9-%ce%bb%ce%b1%cf%8a%ce%ba%ce%ae-%cf%83%cf%85%ce%bd%ce%ad%ce%bb%ce%b5%cf%85%cf%83%ce%b7/
Lunedì tutte le televisioni del mondo, dalla Cnn alla Tv di Stato iraniana alle nostre, hanno dato come notizia di testa la morte del Mullah Omar avvenuta in uno scontro coi servizi segreti pachistani. Poiché ho pubblicato un mese fa un libro sul Mullah delle televisioni e delle radio (private, io non ho accesso alla Tv pubblica, sono un cittadino di serie Bwin) mi hanno chiesto un parere. Mi sono messo a ridere. È esattamente la sesta volta che si dà il Mullah Omar per morto, catturato, arrestato, ucciso, accoppato, ferito, in fin di vita. Anche la notizia di lunedì era una bufala. Non era necessario essere degli esperti per capirlo. Una fonte anonima aveva riferito ai servizi segreti afghani (buoni quelli) che i servizi segreti pachistani avevano intercettato Omar e lo avevano ucciso. I servizi afghani avevano rilanciato la notizia poi ripresa in tutto il mondo. C’erano però delle particolarità curiose.
Chi sosteneva che il Mullah era stato intercettato mentre da Quetta (Pakistan), dove gli sprovveduti credono ci sia la sua base, si stava dirigendo verso il Waziristan e chi verso il sud-ovest del Pakistan, cioè più o meno dalla parte opposta. Intanto la conferma ufficiale tardava ad arrivare. I servizi pachistani sostenevano che stavano prendendo tempo per fare delle verifiche sul corpo del Mullah Omar per un’identificazione certa. Ora, Omar è alto un metro e 98, ha un’orbita vuota perché ha perso un occhio in battaglia e quattro profonde ferite sul corpo. Non dovrebbe essere poi così difficile identificarlo. In serata si è arrivati al grottesco. I servizi segreti afghani facevano sapere che il Mullah non era né morto né ferito “ma da quattro giorni era scomparso dal suo rifugio”. Gli danno la caccia da dieci anni, se sapessero dov’è il rifugio lo avrebbero già preso da quel dì. La cosa più sensata l’ha detta il generale Hamid Gul, l’ex capo dei servizi segreti pachistani, che secondo le prime versioni sarebbe stato proprio quello che aveva intercettato e ucciso Omar: “Non ho avuto nessuno scontro col Mullah Omar. È un’assurdità. Non so perché stiano mettendo in circolazione queste voci. Sono semplicemente ridicole. Secondo i rapporti americani il 75 per cento dell’Afghanistan è in mano talebana. Hanno i loro sistemi amministrativi e giudiziari paralleli. Perché mai il Mullah Omar dovrebbe nascondersi in Pakistan? Non lo capisco proprio”.
Insomma è finito tutto nella solita bolla di sapone. Il Mullah Omar, come ha detto uno dei suoi portavoce, continua a guidare la guerriglia. Se fosse morto sarebbe stato un duro colpo. Per l’Occidente. E per gli Stati Uniti in particolare. Nell’insurrezione afghana contro gli occupanti, il nucleo dei Talebani “duri e puri” delle origini è ridotto all’osso. Molti sono morti in battaglia, alcuni sono stati fatti prigionieri. Alla guerriglia si sono aggiunti (oltre ai ‘giovani leoni’, ragazzi dai venti ai trent’anni che, a differenza di Omar e dei suoi compagni della prima ora, non hanno fatto l’esperienza del jihad contro i sovietici), i gruppi più svariati che hanno un obiettivo, più che ideologico, molto pratico: cacciare lo straniero. Solo una personalità fortissima col prestigio di cui gode Omar può tenere insieme questa variegata galassia. Ma questo vuol dire anche che il Mullah Omar è l’unico interlocutore possibile per quella exit strategy cui gli Stati Uniti pensano e lavorano da un paio di anni senza cavare un ragno dal buco proprio perché, finora, si sono rifiutati di trattare col capo dei Talebani su cui hanno messo una taglia di 25 milioni di dollari senza trovare nessuno che fosse disposto a tradirlo. Ma se Omar non ci fosse, se morisse, qualsiasi accordo non potrebbe essere che parziale, con frammenti della guerriglia, mentre gli altri continuerebbero a combattere e si sarebbe punto e a capo. Ma anche il Mullah Omar, oggi, ha interesse a trattare. Si è ripreso il 75 per cento del territorio, ma più in là non può andare. Le grandi città, Kabul, Herat, Mazar-i Sharif, restano fuori dalla portata della guerriglia per l’enorme disparità degli armamenti. Tanto è vero che quest’anno i Talebani hanno rinunciato alla consueta “offensiva di primavera” limitandosi a consolidare le proprie posizioni e a liberare, con un colpo magistrale, 500 loro militanti rinchiusi nella prigione di Kandahar.
La situazione è quindi di stallo. Per gli uni e per gli altri. Ma non può andare avanti all’infinito. Gli afghani hanno il tempo dalla loro, come sempre, gli Stati Uniti no, perché per quella “guerra che non si può vincere” spendono, in un momento di crisi economica, 40 miliardi di dollari l’anno e immobilizzano 130 mila soldati (più i 40 mila degli alleati) mentre i bubboni del terrorismo, con tutta evidenza, sono altrove. Trattare con il Mullah Omar? È possibile. Purché ci si convinca che non è, e non è mai stato, un terrorista, che non è un criminale, né un pazzo, né un cretino e, a parte certa sua cocciutaggine, un uomo con cui si può ragionare. Ma se si continua a considerarlo un sodale di Bin Laden, quale non è mai stato, tanto che quando nel 1998 il presidente Clinton gli propose di ucciderlo era d’accordo, se lo si bolla, come ha fatto la disinformatissima Tv di Stato italiana, come “genero di Bin Laden” (che ne abbia sposato una figlia è una, non innocente, fandonia occidentale), allora non si va da nessuna parte. E saranno gli afghani col tempo, con pazienza, come han fatto con gli inglesi nell’800 e con i sovietici 30 anni fa, a cacciare anche gli arroganti occidentali, senza nessuna exit strategy ma con una fuga a rotta di collo tipo Vietnam.
Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2011
Ghirardi Sergioscrive: il 26 maggio 2011
Fini (il Massimo) parte sempre con una presa di distanza critica apprezzabile dalle panzane che lo spettacolo dominante ci fa bere ma finisce poi per appoggiare la sua sensibilità su un affondo contro Sakineh o un peana sulla moderazione talibana. Il suo sguardo aperto oltre l’orizzonte asfittico della truffa ideologica degli esportatori di democrazia mercantile diventa strabico quando guarda oltre la sua prigione occidentale. Troppo spesso si attacca alla prima bambola gonfiabile di un qualche manicheismo reazionario esotico e il bene e il male restano divisi dal muro non dialettico di un atteggiamento da tifosi. Così gli rispondono stizziti i tifosi avversi ai quali rinvierà un altro strato di antiideologia che più ideologica non si può.
Urge uscire dall’ipnosi binaria. Smetterla di scegliere tra lo spettacolo A e quello B. La sensibilità che Fini si sforza di diffondere come critica delle vecchie forme di potere merita di essere affinata dall’uso di quel metodo dialettico senza il quale si finisce per coltivare caratterialmente il brodo di coltura di dogmatici fanatismi speculari. In Afghanistan ci sono stato in tempi non sospetti (o forse diversamente sospetti) e non credo il paese riducibile a uno sguardo meccanicista.
Certo io auspico l’autonomia di quel popolo nell’ambito della cultura che è la sua. Ciò implica però per chi non ne fa parte, la responsabilità di non fare nessuna concessione ideologica a nessun oscurantismo. Se noi siamo i figli sfigati del feticismo della merce, i monoteismi arcaici ne sono stati e ne sono ancora dovunque i precursori che, in situazioni specifiche, diventano i cavalli di ***** delle mostruosità a venire. Non si può cauzionare né la cosca di Bush e confraternite varie né i Mullah Omar e le ideologie politico-religiose che portano in sé effetti disastrosi per l’uomo e soprattutto per la donna.
Ognuno avanzi a suo modo, ma sosteniamo tutti insieme quella terza via laica e libertaria che prepara il superamento del capitalismo planetario.
Ghirardi Sergioaggiunge lo stesso:26 maggio
Trovo più kafkiano e preoccupante che divertente il fatto che il nome della città assediata e distrutta dagli Achei più di tremila anni fa (*****: Troia) venga oscurato nel mio commento sul Blog del Fatto per cattolico, ipocrita e probabilmente meccanico perbenismo. Vi rendete conto a quale tasso di alienazione siamo giunti?
Anziché “cavalli di Troia” avrei dovuto forse scrivere “i cavalli di donna dai facili costumi” o magari “di escort” per non venir fucilato dagli asterischi sessuofobici della sacrestia virtuale.
Dottoressa Caronti, quali sono le indicazioni di voto del Movimento 5 Stelle sui quesiti referendari ?
Il M5s ha collaborato e si adopererà ancora per la riuscita dei referendum: quindi, per il raggiungimento del quorum (la consultazione allargata e libera è alla base del nostro progetto politico e prevede l’abolizione del quorum), combattendo contro la coltre di silenzio con cui la cosiddetta classe dirigente vorrebbe seppellire la voce degli Italiani In questa occasione poi l’importanza di questa partecipazione non riguarda solo il nostro paese ma, senza paura di esagerare, tutto il Pianeta! La terribile catastrofe di Fukushima sembra quasi un “ultimatum alla terra” per richiamarci tutti alla realtà: abbiamo visto come un paese notoriamente sismico, l’unico che ha sperimentato due bombe atomiche sul proprio popolo, abbia trovato possibile e “conveniente” costruire 55 reattori. Ma non sono stati i comuni cittadini a deciderlo, hanno dovuto subire le decisioni di chi, non ritenendoli nemmeno degni di essere informati a fondo, ha seguito interessi opachi e oligarchici. La contraddizione enorme si unisce alla tragedia che ci minaccia per il nocciolo di Chernobyl che continua a fondersi da 25 anni sotto una protezione di calcestruzzo destinata a durare circa 30 anni. Che stanno quindi per scadere. E non parliamo del problema delle scorie mai risolto in nessun luogo del mondo. Quindi i nostri concittadini hanno in mano oggi il potere di cancellare la norma dissennata che ha stabilito il ritorno del nucleare ma soprattutto possono testimoniare a nome di tutti gli esseri viventi della Terra che il nucleare non lo vuole nessun popolo, nessuno che ami i propri figli, gli animali e la natura tutta. L’intervista precedente trattava il tema prima di Fukushima e già mi ero espressa totalmente contro le centrali, figuriamoci adesso! E rimane vero quanto detto allora, il nucleare è il frutto di investimenti segreti, legati alla produzione di armi, è necessariamente fuori dalla portata e dal controllo dei singoli cittadini e quindi nessuno potrà mai sapere per tempo i pericoli che sono ahinoi irrimediabili! Il M5s promuove la Democrazia Energetica: non una centrale che produca 1 milione di kw ma un milione di produttori che possono con sistemi poco costosi e molto più sicuri produrre un kw a testa! Per l’acqua pubblica: non c’è dubbio che dobbiamo evitare che diventi dominio del potere economico, l’acqua è vita e non merce, se lo diventasse, essendo un bene primario e irrinunciabile, può davvero creare problemi insostenibili alla collettività tutta, non solo ai poveri. Poi l’argomento di privatizzare la gestione (l’unico che viene opposto) si fonderebbe sulla maggior efficienza dei privati rispetto al pubblico: ma anche questa è una bugia bella e buona…. Abbiamo già veduto molte aziende private operare in modo irresponsabile e cinico fino all’estremo di non garantire più un servizio essenziale (mi riferisco a quando in California le aziende private hanno lasciato la regione più ricca del mondo senza energia elettrica per problemi di bilancio!) Sul tema del legittimo impedimento prima di tutto precisiamo che non è un diritto destinato a tutti i cittadini: questa norma esiste già, infatti, chiunque se ha un impegno può invocare un “legittimo impedimento” e chiedere il rinvio dell’udienza. Il referendum vuole cancellare la norma “speciale” voluta dal PDL per dare a Berlusconi e ai suoi avvocati la facoltà di rinviare indefinitamente i processi che lo riguardano. Hanno scritto il testo estendendo il trattamento speciale ai ministri per non rendere troppo personale questo provvedimento. L’idea che chi deve difendersi da accuse che prevedano molto tempo da dedicare alla causa, possa rimanere imperterrito ad occupare un ruolo così importante per il Paese è sintomatica di come l’Italia stia adagio adagio finendo fuori dal contesto dei paesi civili e moderni. Lo stesso Presidente del Consiglio fa di tutto per ridurre il prestigio del proprio ruolo istituzionale e nello stesso tempo vorrebbe trarne una sorta di impunità all’occorrenza. Detta in parole più semplici la domanda del referendum potrebbe essere: Vuoi che la legge sa uguale per tutti? E ovviamente la risposta è SI’ forte e chiaro FORTI E CHIARI DICIAMO QUATTRO VOLTE SI’
Qual è invece, se ritiene di renderlo pubblico, il suo orientamento su queste materie ?
Altroché se lo voglio rendere pubblico, anzi grazie di non far parte dei media che ci vogliono mettere a tacere! Quattro SI’ pesanti e importanti!
In queste ultime settimane l’esecutivo ha adottato alcuni provvedimenti che sospendono di fatto la decisione sulla produzione dell’energia nucleare. Ritiene che questa iniziativa sgonfi di significato il quesito sul programma nucleare del governo ?
La legge prevede che se i legislatori provvedono a modificare la legge oggetto di referendum abrogativo NEL SENSO RICHIESTO DAI PROMOTORI DEL REFERENDUM, la consultazione viene eliminata in quanto inutile. Però abbiamo visto che la norma non è stata affatto modificata nel senso voluto dai referendari ma è STATA SOLO SOSPESA, per di più con motivazioni palesemente opportunistiche: in pratica il governo ha ammesso di aver rinviato ad altro provvedimento SOLO per evitare di far esprimere i cittadini
I promotori dei referendum e le opposizioni politiche contestano la decisione del governo in quanto ritengono che il vero scopo sia quello di depotenziare la tensione elettorale, quella che porta la gente a votare anche sull’onda dell’emotività. Qual è la sua opinione ?
L’emotività, siamo giusti, davanti al pericolo dell’estinzione della vita sul Pianeta, non credo sia da cancellare e rimuovere. Gli esseri umani senza emozioni non sono neanche concepibili. Quindi il governo si mostra per ciò che è: un’entità cinica e distante dai sentimenti della gente ogni qual volta si sottraggano e un entusiastico sostegno di stampo populista
La Cassazione, dopo le recenti modifiche legislative, non si è ancora pronunciata sulla validità della domanda referendaria sul nucleare. Siamo in presenza di un esito referendario sub judice che potrebbe rendere vano l’esito del voto ?
Purtroppo temo di sì e spero che la Cassazione si esprima con molta rapidità. In ogni caso l’effetto più importante secondo me è che la gente venga coinvolta e partecipi con autorevolezza su temi così generali e importanti per tutti, che trovi la dignità e il coraggio per dire SI’ quando davvero serve. Comunque mi piace molto di promuovere l’idea di Celentano che se si dovessero davvero cancellare i referendum porteremo tutti lo stesso le schede per votare SI’ davanti ai seggi in tutta Italia!
Per quanto riguarda la gestione dei servizi pubblici locali i comitati pro referendum sostengono che vi siano beni e servizi non affidabili al libero mercato. Tra questi la salute, istruzione, sicurezza, acqua, ambiente … . Cosa ne pensa ?
Penso che alcuni beni e servizi siano dei veri monopoli naturali e non possano essere affidati ai privati se non con dei vincoli tassativi a salvaguardia del fatto che non possono “fallire” come per altre attività economiche, ci aggiunga anche trasporti e comunicazione se vuole. Non possiamo costruire molte autostrade che facciano lo stesso percorso “in concorrenza” come avviene nel commercio o in altri campi che non abbiano il crisma della indispensabilità per il bene pubblico. Senza cure, senza scuola, senza trasporti, acqua e in generale le risorse limitate per loro natura che abbiamo nell’ambiente, non è immaginabile la vita stessa. I Sioux dicevano “Solo quando l’ultimo fiume sarà prosciugato, quando l’ultimo albero sarà abbattuto, quando l’ultimo animale sarà ucciso, solo allora capirete che il denaro non si mangia.“ (Capo Toro Seduto dei Sioux Lakota)
E’ evidente che, sul piano squisitamente politico, la vera partita ruoti intorno al tema del “legittimo impedimento”. Le forze in campo hanno assunto lo schieramento consueto pro o contro la posizione del Presidente Berlusconi sull’accanimento giudiziario nei suoi confronti. Che idea si è fatta ?
Avevamo delle leggi che avrebbero impedito di eleggere in Parlamento un concessionario di reti televisive. Ci ricordiamo benissimo come ha giostrato le sue conoscenza in politica finché non ha preferito addirittura “scendere in campo” in prima persona, e proprio per evitare i guai giudiziari che lo pressavano. Poi si è inventato la favola per cui sarebbe stata la sinistra ad ordinare ai giudici di perseguitarlo, infine ha potuto imporre ai suoi peones di votare svariate leggi ad personam. E tutto senza mai apprezzare la contraddizione enorme: chi voglia comandare agli altri sulla base delle leggi che lui stesso produce, è il primo a dovervi sottostare, questo almeno, in democrazia. La Costituzione è lì apposta per stabilire quali siano i diversi organismi a presidio della divisione dei poteri al fine di non far mai prevalere un singolo potere sugli altri ma sempre la legge che deve rispecchiare appunto la “cornice istituzionale” condivisa da tutti. Infatti, se come ora, le Istituzioni smettono di essere rispettabili, smetteranno presto di essere rispettate e sarà molto difficile raggiungere qualsiasi obiettivo comune. Se la legge non è uguale per tutti significa che non tutti siamo chiamati a rispettarla, auguri!
In generale: qual è il suo giudizio sullo strumento del referendum ? Cosa rivedrebbe degli attuali meccanismi che ne regolano la realizzazione ?
L’istituto del referendum è appunto un metodo attraverso il quale è possibile abrogare leggi o parti di leggi che siano contrarie al volere del “popolo sovrano” Questa libertà di decidere che l’Assemblea Costituente ha voluto è un baluardo contro la prepotenza del potere allorché le leggi siano espressione di una oligarchia e non di un sentimento popolare diffuso. L’Italia ha avuto stagioni davvero importanti quando le lobbies cattoliche hanno reagito alle leggi per il divorzio e l’aborto ma hanno dovuto piegarsi alla volontà della stragrande maggioranza degli Italiani, che saranno anche cattolici, ma sono molto realistici. E anche sul nucleare l’Italia può vantarsi di essere un Paese all’avanguardia nel criterio di prudenza, nonostante le spinte irrazionali delle forze economiche pro-nucleare. Il voto contro il finanziamento pubblico ai partiti è stato bellamente aggirato con la nuova legge sui “rimborsi” elettorali; e tutto questo mette in evidenza quale abisso si sia creato tra governanti e governati. Oggi, dopo vari attacchi e boicottaggi tesi a vanificare questo strumento, noi chiediamo che sia eliminato il quorum affinché le minoranze informate e consapevoli possano esprimersi obbligando gli indifferenti e gli egoisti almeno a dire il loro NO, democraticamente. Vogliamo anche togliere il quorum alle leggi di iniziativa popolare e pure dei vincoli affinché il Parlamento non faccia come ha fatto con la nostra proposta di legge sottoscritta da 350.000 cittadini per l’eliminazione dei condannati dal Parlamento, il limite dei due mandati e la possibilità di nuovo di esprimere le preferenze. (http://www.beppegrillo.it/listeciviche/liste/milano/2011/04/lettera-al-prefetto-di-milano—parlamento-pulito.html)
Il suo appello per il voto
Italiani!!! Non perdete questo treno così importante Non facciamoci del male da soli. Il buon senso deve tornare a guidare le nostre scelte. Il nucleare è morte sicura, l’unico mistero è quando o dove ma sappiamo che un incidente succederà ancora, inevitabilmente. Il nucleare esclude controlli e trasparenza, alimenta l’economia militare, è una scelta irreversibile perché non si sa che fare delle scorie Una nuotata in acqua pulita e senza scorie nucleari ci ripagherà di un giorno in meno al mare. Quattro sì possono essere una diga contro l’interesse spietato, a favore della vita, della salute e della dignità di tutti. - L’acqua non è una merce. - Il nucleare è la morte per tutti (prima o poi). - Il nucleare non è necessario. - La legge va rispettata proprio dai più potenti o non vale nulla.
Ricevo e trasmetto perché senz’altro emozionante e a priori (non ho visto il film) parecchio interessante perché una radicalità siffatta spinge anche il maschio a confrontarsi con l’erotismo della libertà.
Sergio Ghirardi
Virginia Bolten (1870-1960) - al suo nome è legata la prima pubblicazione femminista sud-americana, "La voce della donna", pubblicata in clandestinità, in Argentina, tra il 1896 e il 1897 - mise a fuoco per la prima volta un punto di vista anarco-femminista sulla difesa dei diritti fondamentali delle donne e degli uomini.
Soprannominata la Luise Michel di Rosario, Virginia Bolten è uno di quei personaggi in anticipo sui tempi su cui la storia ufficiale cerca di imporre una coltre di silenzio. Il film "Ni Dios, ni patron, ni marido", realizzato nel 2009 da Laura Mañá, narra i fatti che portarono alla creazione del giornale anarco-femminista e parla di un gruppo di pionieri in lotta per il libero amore, la parità di diritti e la fine di tutte le dominazioni, mentre stava per spuntare il Ventesimo secolo. Il film racconta gli eventi che ebbero per protagonista un gruppo di operaie tessili, insieme all'anarchica Virginia Bolten e alla stella del canto lirico nazionale, Lucia Boldoni, che si unirono nel perseguimento di un comune obiettivo: la pubblicazione di un giornale fatto dalle donne per le donne che si rivolgeva a migliaia di lavoratrici che lottavano per la propria autonomia all'interno e all'esterno della casa. "La Voz de la Mujer", il primo giornale latino americano anarco-femminista, stampato in modo clandestino e diffuso quando la polizia e la scarsità di permessi di risorse lo permettevano; le 2000 copie di ciascuno dei nove numeri che vennero pubblicati vennero diffuse in fabbriche e laboratori conquistando lo spazio per la diffusione dei principi di libertà e di indipendenza, spostando il dibattito sul libero amore, sul matrimonio, sulla rivoluzione sociale, sull'abuso di potere, cercando di insegnare alle madri ad educare i propri figli nell'uguaglianza dei diritti.
Il film, in versione originale, può essere visto in streaming,
Da Madrid a Barcellona va in scena la rivolta generazionale. Giovani precari, disoccupati, studenti, ma anche pensionati hanno organizzato mobilitazioni in decine di città in vista delle amministrative del 22 maggio: "Non diamo indicazione né di voto né di astensione. E questo fa paura, siamo una rivoluzione etica.
Il cartello “Yes we camp” risalta ben evidenza nel centro della principale tenda dell’accampamento di Plaza Catalunya di Barcellona. Rispecchia perfettamente il movimento 15-M: pacifico, eterogeneo, spontaneo ma soprattutto determinato.
“Non lasceremo questa piazza – dice Guillermo, studente universitario – abbiamo ancora troppe cose da dire. Non ci raccontano da sempre che in Spagna c’è la libertà d’ espressione?” Stesso tenore a Madrid, dove alla Puerta del Sol migliaia di persone si sono date appuntamento nel corso della scorsa notte malgrado una pioggia incessante. Ai manifestanti non importa nemmeno sapere il verdetto della Giunta Elettorale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle occupazioni durante la campagna elettorale. “Non stiamo facendo politica – precisa Luz, disoccupata di Madrid – non diamo indicazione né di voto né di astensione. E questo fa paura, siamo una rivoluzione etica e i partiti sono disorientati dalla nostra limpidezza”.
Di fronte a mobilitazioni in decine di città, stonano intanto su media e per le strade spagnole gli slogan della campagna elettorale per le amministrative di domenica 22 maggio. E’ fino a questa data che i manifestanti vogliono proseguire gli accampamenti e rimanere visibili. Ma la sensazione è che questa rivolta non sparirà facilmente, soprattutto perché da mobilitazione partita dai giovani precari, disoccupati e studenti disillusi, si sta espandendo al resto della società civile. La svolta è avvenuta nelle ultime ore, quando al fianco di migliaia di ragazzi si sono uniti i cittadini di tutte le età, tra cui migliaia di pensionati. “Questi ragazzi hanno un compito gravoso: Noi abbiamo combattuto la dittatura – dice una signora catalana – il nostro nemico lo vedevamo e lo conoscevamo. Ora i giovani devono combattere un fantasma molto più pericoloso: la dittatura economica”. Sotto il sole di maggio i centri urbani spagnoli si sono trasformati in pochi giorni in luoghi di incontro e dibattito. A Barcellona, passando indistintamente dal castigliano al catalano, per ore giovani e pensionati si confrontano sui tagli compiuti sui servizi sociali: “Il PSOE sta togliendo l’ossigeno al sistema scolastico. Il famoso progetto Bologna è una clamorosa precarizzazione del sistema universitario a livello europeo” racconta uno studente a un sessantenne che ribatte: “E se parliamo della sanità? Sono in lista da 5 mesi per curare il ginocchio a mia moglie. Impossibile curarla privatamente con la pensione di 800 euro al mese”. Famiglie, anziani, giovani fanno la spola per portare caffè, coperte e pane fresco per sostenere le lunghe ore della notte.
Il movimento “Democracia Real Ya” si organizza ed esercita la pratica dell’autogoverno, con commissioni per garantire l’informazione ai cittadini e alla stampa, il rifornimento di cibo e acqua fino alle iniziative da prevedere per i giorni a venire.
Per sabato il movimento sta organizzando nella giornata di riflessione nuovi dibattiti , una necessità di fronte alle pressioni che arrivano dai media anche internazionali: “Ci chiedono quali proposte facciamo per cambiare il sistema – dice Pedro, dell’accampamento di Barcellona – pensiamo prima di tutto a che cos’è la democrazia. Sicuramente non è quella esercitata dai partiti e dai sindacati, che ovviamente non vogliamo in questo movimento”. Tra i capannelli si dibatte sulla riforma della legge elettorale, del finanziamento dei partiti e del divieto di proseguire la carriera ai politici imputati.
“Sono stanca di essere il futuro – dice una ventenne – io sono il presente”.
Il Fatto Quotidiano 20 maggio 2011
Cristina Artoni
Ghirardi Sergioscrive: il 21 maggio 2011:
C’è un’aria nuova sotto il cielo e il dialogo che scaturisce dai blog delinea sempre più nettamente la differenza tra la semplice intelligenza sensibile di quelli che hanno deciso di dire basta all’intollerabile e all’assurdo e l’ottusa tiritera lagnosa e reazionaria, menzognera e vigliacca di tutti quelli che non immaginano neppure un mondo diverso e continuano le loro litanie di schiavi che hanno paura della libertà.
I giovani di tutte le età che rivendicano il presente hanno una luce diversa dai vecchi incartapecoriti dall’umiliazione di non aver mai vissuto, sempre in bilico tra passato e futuro.
Se anche non riusciremo a rovesciare la prospettiva del mondo avremo avuto ancora una volta il piacere concreto di averci provato.