mercoledì 4 maggio 2011

Guerra e pace




«Ormai, dal momento che il mondo non deriva più che da se stesso, l’uomo non ha più bisogno di andare verso il mondo; un tale viaggio e una tale esperienza sono diventati superflui; così, dal momento che il superfluo finisce sempre per scomparire, entrambi diventano impossibili.»
Gunther Anders
«La disintegrazione della prassi e la falsa coscienza antidialettica che l’accompagna, ecco quel che finisce per imporsi in ogni momento della vita quotidiana quando questa è sottomessa allo spettacolo; il che va inteso come un’organizzazione sistematica del tracollo della nostra capacità di incontrarci attraverso “l’illusione dell’incontro”. In una società dove più nessuno può essere riconosciuto dagli altri, ogni individuo diventa incapace di riconoscere la realtà stessa. L’ideologia si trova prigioniera di se stessa; la separazione ha edificato il suo mondo.»
Guy Debord
La Libia ripropone un imbarazzante quesito ricorrente in un’infinità moltiplicabile di situazioni analoghe: da che parte stare?
Tutte le risposte che impazzano, anche quando si sforzano di non essere addirittura indecenti, mi sembrano, comunque, da tempo, sfasate e stonate. Magari le mie non lo saranno di meno, ma voglio provare ad essere almeno scandaloso perché osceno (nel senso etimologico primario di fuori dalla scena) nell’intento di frantumare il manicheismo beota a cui siamo incessantemente costretti in quanto cittadini di un mondo artificiale.
Un minimo di lealtà richiede di non svicolare astenendosi sui temi che scottano; confermo, però, con Anders e Debord, che ogni posizione di puro principio è falsata dalla realtà spettacolare nella quale si arrabattano le esistenze individuali.
Uno degli atteggiamenti caratteristici della specie umana è la solidarietà. Quando qualcuno è in pericolo viene spontaneo aiutarlo e ciò avviene ancora, incessantemente, persino nel ghetto di una società che ha fatto dell’egoismo ottuso e del calcolo economico il suo centro focale e l’unico valore fondante.
Così, quando un qualche orribile dittatore si avventa contro degli insorti per riportarli all’ordine su cui si fonda il suo impero, l’umanità di qualunque uomo degno di questo nome si schiera dalla parte di chi esercita il primo dei diritti umani: quello di rivoltarsi contro condizioni disumane e contro chi le impone.
Senza l’obbligo d’ingoiare enormi trattati di politica, di storia e di psicologia, i tratti caratteriali di un Gheddafi denunciano immediatamente sintomi preoccupanti per chiunque abbia ancora un minimo di sensibilità emotiva capace di distinguere i sentimenti d’amore e di odio che ogni volto esprime ben oltre il discorso con cui la maschera si addobba, ad Arcore come a Tripoli. Anche quando i suoi attuali esecutori gli baciavano la mano, l’anello e anche qualcosa di più, quest’orribile figura di tiranno, atemporale ma non certo unico nel folclore della moderna barbarie, lasciava facilmente trasparire, per chiunque non avesse interesse a ignorarlo, con quale facilità e assenza di ritegno avrebbe, sempre e comunque, rimosso di forza qualunque ostacolo si frapponesse tra il suo Io delirante e il dominio spettrale esercitato sui suoi malaugurati sudditi.
La sola scelta umana che verrebbe spontanea a chiunque non sia coinvolto nella mafiosità bipartisan che domina il mondo - l’eliminazione del tiranno - è, però, proprio quella che non possiamo esercitare perché le condizioni dell’umanità non sono date nello spettacolo. Intervengono schermi ideologici che mettono in secondo piano la solidarietà di base per privilegiare complotti e dietrologie degne di un Beria o di un McCarthy, rappresentanti emblematici di un manicheismo da guerra fredda sopravvissuto non solo ai suoi paranoici guru ma anche alla caduta del muro che ha cambiato la temperatura politica del mondo.
Nel tiepido torpore della democrazia spettacolare in cui si coltiva l’impotenza degli individui, emergono le letture più o meno arzigogolate di intellettuali beceri per ignoranza sensibile e di burocrati ottenebrati dal ruolo di contabili dell’orrore. Ognuno si sbraccia, sulla sua poltrona, alternativamente a favore di insorti o lealisti, riducendo comunque a un gioco virtuale la tragedia vissuta dai soggetti reali coinvolti in conflitti che raramente hanno scelto. Il gioco è fatto: si ignorano le vittime sacrificali della guerra economica nascosta ed efficiente per poi contarle freddamente come danni collaterali del business che arricchisce di denaro il mondo del denaro. La finanza gioisce nel buio dei caveaux delle banche, mentre un alito di morte si deposita come il risultato finale dell’assurda competitività produttivistica propugnata come faro di civiltà dagli avidi eunuchi del capitalismo.
Le vittime ben poco volontarie del conflitto economico combattuto dalle mafie multinazionali e dagli Stati canaglia che si dividono un mondo infestato dall’economia politica, sono assimilate semplicisticamente come un gioco di ruoli dall’astrazione sociologica in mano ai demagoghi. Come sugli spalti gremiti di spettatori di una partita di calcio, a seconda del tifo, gli uni devono morire e gli altri sono le vittime da difendere. In realtà le vittime sono nei due campi quanto i carnefici. La vera opposizione di classe tra sfruttati e sfruttatori, entrambi alienati, resta indecifrabile nella sua dialettica perché lo spettacolo la mimetizza nella mescolanza confusa tra dannati della terra e padroni delle ferriere coinvolti dalla sopravvivenza in un unico progetto nichilista che fa della società capitalistica la perversione finale della civiltà del lavoro. Ogni pecora è il proprio lupo e ogni lupo si veste dei panni dimessi di una democrazia fittizia, calata dall’alto come una maschera di ferro che permette di mangiarsi la pecora ancora viva senza vederne le smorfie.
Non si può dunque scegliere un campo senza essere disumani e idioti. Si può solo essere con coerenza contro la violenza senza mai giustificarne una di fronte all’altra. Per questo in ogni situazione di guerra solo chi è sotto le bombe, i mitra, i coltelli e gli stupri merita sovranità di parola e di scelta delle alleanze. Chiunque sia seduto in salotto col telecomando in mano o con un sito a disposizione, deve rassegnarsi ad accettare, senza discuterle, le scelte di chi si trova vittima sacrificale sul campo di battaglia. Abbia almeno il coraggio di riconoscere la propria impotenza e rimettersi, per quel che succede sul terreno, alla volontà dei belligeranti volenti e soprattutto nolenti.
Altro che rivendicare la sacra sovranità di un governo quando il dittatore in carica mitraglia i dissidenti pretestuando del fatto che gli alleati che volano in loro soccorso non sono che dei predatori travestiti da paladini. Era forse diversa la situazione nel 1942? Chi si è lamentato allora degli sbarchi a venire? E chi oserebbe oggi rimpiangere che Hitler sia stato sconfitto. Eppure i suoi vincitori sono gli attuali esportatori di democrazia spettacolare.
Altro che intervento umanitario quando gli esportatori di oclocrazia bombardano i civili dell’altro campo e l’uranio impoverito delle loro bombe allarga democraticamente l’area degli innocenti destinati al sacrificio. Esercitiamo, piuttosto, tutto il nostro acume strategico riscoprendo una dialettica da cui siamo esclusi. Solo così ha un senso denunciare i loschi interessi che muovono per esempio le potenze occidentali. Mostriamo la loro ipocrisia consumerista, mettiamo in luce l’uso sistematico di due pesi e due misure nella loro scelta di intervenire o lasciar correre, vuoi sostenere i dittatori con cui intrecciano loschi e lucrosi affari, ma non chiediamo ai libici in rivolta di morire eroicamente in silenzio per ostacolare il business petrolifero del capitalismo. I manichei più integralisti vanno fino a cancellare il soggetto della rivolta, riducendo tutto a un complotto totalmente prefabbricato e programmato. Sia pur per difetto, sono i massimi apologeti dell’onnipotenza spettacolare del potere dominante. Per costoro anche il maggio ’68 è stato soltanto un complotto della CIA o del KGB a seconda del ghetto ideologico di loro appartenenza. Siamo alla demenza senile che troppo spesso ha fatto i bei giorni dell’autoritarismo di destra e di sinistra quando queste differenze ideologiche contavano ancora qualcosa.
Il vantaggio orribile della (co)scienza astratta è che anche i morti diventano numeri e anziché seppellirli si possono conteggiare. Piangerli diventa allora un gesto simbolico che riduce la partecipazione a una condoglianza formale. In un tale contesto anche il più nobile pacifismo si riduce alla pace dei cimiteri. Non è difficile allora disquisire sulla sovranità del governo legittimo o su quella del nuovo governo di liberazione, scegliersi un puledro per la corsa ideologica e scommettere sulla sua vittoria, fumando un sigaro nel parterre, con l’aria mondana di Clausewitz in possesso della chiave dei destini del mondo e della strategia decisiva per la sua salvezza.
Mentre complottisti e anticomplottisti si scannano a parole, degli esseri in carne e ossa, subiscono il “complotto globale” del modo di produzione capitalistico autoproclamatosi creatore di una nuova natura artificiale. Tutti coloro che, avvolti nel cellophan dello spettacolo sociale, vengono spazzati via a forza di bombe e mitraglia non saranno salvati da nessuno se non da loro stessi e dal loro uso assolutamente autonomo delle alleanze occasionali e puntuali che si presentano come praticabili. Sappiano solo che non dovranno comunque la loro eventuale salvezza a nessuno se non al loro disperato coraggio e non dovranno essere riconoscenti che all’umanità condivisa dell’uomo. In nome della fratellanza reciproca, nessuno dovrà mai più essere considerato debitore di nessuno. Né i popoli né gli individui. Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi desideri prima che scadano in bisogni: questo recita il blasfemo ossimoro di un egoismo comunista.
Nessuno ci salverà se non ci salveremo da soli. Per questo la democrazia diretta e l’autogestione generalizzata della vita quotidiana si stagliano come l’ultima aspettativa per l’umanità dell’uomo, altrimenti destinata a marcire definitivamente tra scorie nucleari, pesticidi e inghippi di ogni genere: traffici delle scorie suddette, speculazioni immobiliari, OGM, vendite di armi in nome della pace, circolazione di droghe annichilenti e psicofarmaci umilianti per far sopportare l’insopportabile. Siamo all’ultimo stadio del capitalismo e all’ultimo crocevia della storia prima della definitiva discesa in inferno, mentre dall’altra parte dello Stige si staglia un mondo nuovo già psicogeograficamente intravvisto da secoli di rinascimento e di volontà di vivere.
La natura si sta incaricando, sorniona, di ritmare con la pedagogia delle catastrofi questa obsolescenza dell’uomo, ormai inarrestabile senza una rivoluzione sociale che rovesci le prospettive del mondo. La nostra ineffabile madre e matrigna fa, ogni tanto, tabula rasa con terremoti e tsunami, insegnandoci, imperterrita, a riflettere sui rischi del nostro delirio di potenza. A noi la forza di non restare ipnotizzati di fronte agli schermi in attesa di un martirio, nucleare o climatico, per esempio, attorno al quale danza l’incoscienza redditizia di scimmie snaturate che hanno trasformato la dose di pericolo insita nell’avventura di vivere in un destino probabile che si avvia angosciosamente a diventare ineluttabile.
Sergio Ghirardi