Comunque la si rigiri, finisce che siamo sempre noi, i civili occidentali, a decidere per gli altri.
Dopo aver scoperto i selvaggi, abbiamo passato secoli a sfruttarli, spolparli e snaturarli “civilizzandoli” di forza, tra schiavitù e consumismo.
Offrendo loro il dono velenoso delle nostre ataviche contraddizioni, ci siamo forgiati una coscienza falsa di un umanesimo autoreferenziale e intimamente reazionario. Attraverso il nostro complesso di superiorità, estremamente redditizio da un punto di vista economico, ma povero per solidarietà, affettività e potenza di godimento reciproco, abbiamo acculturato tutti i diversi gruppi etnici incontrati sulla nostra strada di conquistadores alle nostre patologie più schifose.
Siamo arrivati persino a coprire le parti intime di genti che non avevano la minima paura del loro corpo, talmente inpotenti a godere da non capire neppure che la nostra pudicizia non significava altro che la nostra patologica sessuofobia. Con la retorica di una morale ipocrita, abbiamo stigmatizzato l’innocenza come barbara, obbligandola alle sublimi vette perverse di un erotismo sadomaso di cui siamo i consumatori indefessi, tra sacrestie e sex-shop, Sofitel e letti di Putin.
Ora che tutto ciò emerge ormai come un’evidenza macabra, anziché far tesoro del ridicolo che accompagna le nostre tronfie sicurezze, scegliamo ancora spesso di rovesciare la pentola del manicheismo in un ottuso gioco di ruoli intellettuali. Decidiamo allora, con un dogmatismo speculare a quello dei missionari di un tempo, che si deve abbandonare ogni sorta di giudizio e ogni valutazione della situazione per non invadere la cultura altrui.
Dopo averla saccheggiata e destabilizzata nelle sue contraddizioni intime, abbandoniamo ora, frettolosamente e vigliaccamente, l’Africa al suo destino che abbiamo determinato. Dopo averli vestiti per meglio spogliarli, spogliamo ora, da moderni reazionari, il nostro spiritualismo coloniale di ogni resposabilità attuale.
Dalla tecnologia per tutti e dappertutto all’elogio mistico del primitivismo in quanto saggezza assoluta, in un modo o nell’altro, la paura del diverso non ci abbandona comunque mai: o è un diavolo da esorcizzare o un angelo etereo da adorare. Buoni o cattivi, gli altri restano pur sempre selvaggi.
In realtà l’uomo è da sempre capace di tutto, del meglio e del peggio, a tutte le latitudini. Dai primitivi ai civilizzati, l’umanità dell’uomo è una scommessa poetica incompiuta da affinare dialetticamente con un uso smodato di intelligenza sensibile.
In ogni cultura c’è sempre da prendere e da lasciare e la cernita va fatta da ognuno in piena responsabilità e libertà di intendere e di volere.
Facile a dirsi, purtroppo, poiché nei fatti, quella stessa carenza dialettica che aveva promulgato la nostra becera superbia di figli dell’unico dio, conferma, rovesciandone l’ordine dei fattori, l’autoritarismo della nostra stupida concezione del mondo. Signori e schiavisti al nord come al sud, ogni volta che si esclude l’ipotesi concreta di un’autonomia dei soggetti riguardo a quel che per loro è bene o male, utile o inutile, piacevole o spiacevole.
Vogliamo, infine, lasciare a coloro che ne sono coinvolti di decidere che aiuti vogliono e il grado di tecnologia da integrare o da rifiutare?
Anche sbagliare, autonomamente, è un diritto inalienabile di una laicità da difendere contro tutti gli oscurantismi.
L’evidenza storica dei nostri misfatti non ci dà il diritto di abbandonare la partita sparendo nel nulla; non più che di scegliere di continuare a vampirizzare il mondo con un’industrializzazione inquinante e nociva. La questione sociale e le soluzioni da scegliere sono ormai al contempo locali e planetarie.
Impariamo dai saggi tagliatori di teste dell’Amazzonia occidentale - i cosiddetti Jivaros, in realtà “Shuara” - che hanno smesso di ridurre le teste dei nemici in “tsanza” ma preservano preziosamente i loro curanderos tradizionali per curare le malattie dell’ambiente amazzonico mentre usufruiscono liberamente della medicina occidentale per le malattie da acculturazione.
Il rispetto autentico delle altre culture non può tradursi in un’apologia del diverso; non più che nella sua criminalizzazione colonialista.
La libertà di tutti comincia dallo scambio gratuito di diverse sensibilità, diverse opzioni individuali e sociali. Ognuno deve poter prendere dagli altri quel che sembra migliorare il senso della vita, lasciando quel che ne complica le realizzazioni.
I veri selvaggi sono quelli che - tecnologici o primitivisti - hanno bisogno di credere di avere capito tutto e cercano di imporre al mondo la loro fanatica ragione morbosa.
Sergio Ghirardi
In commento a: SE L’EUROPA HA IL MAL D’AFRICA
Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2011
Siamo continuamente sollecitati a versare, anche via sms, un obolo per l’Africa nera, soprattutto per i bambini che non hanno scuole, che non possono usufruire di un’educazione come si deve, che muoiono di malattie da noi curabilissime, come il tifo, o scomparse da tempo come la malaria. Alcune aziende, per accattivarsi i possibili clienti, dichiarano che uno o due euro saranno destinati ad aiutare l’Africa. Quando questi soldi arrivano a destinazione, se vi arrivano, sono maneggiati da ong che, animate dalle migliori intenzioni, li utilizzano per certi progetti in loco.
A queste ‘anime belle’ voglio raccontare la storia di Nana Konadu Yadom, una Ashanti, antichissima tribù dell’Africa nera, regina di un piccolo villaggio, Besoro, immerso nella giungla subtropicale del Ghana. Quando è ancora principessa Nana parte per l’Italia perché vuole incontrare una suora di cui ha sentito parlare e l’ha affascinata. Al momento di partire è presa da qualche dubbio guardando i volti luminosi, gli occhi limpidi, sereni della sua gente e i mille bambini che scorrazzano allegramente. Ma parte. L’impulso alla conoscenza è più forte. Prima di raggiungere la suora, che dovrebbe stare, secondo vaghe indicazioni, in una città del Nord, si ferma in Sicilia dove, per vivere, si adatta a fare la colf. Quando raggiunge la città della suora, Schio, viene a sapere che è morta da cinquant’anni. Si ferma a Schio, sempre come domestica. Del nostro Paese non ha una percezione negativa, ne ammira le conquiste, anche se nota che tutti hanno sempre una tremenda fretta, vanno di corsa, sono ossessionati da uno strano strumento, l’orologio, tutte cose sconosciute a Besoro, anche perché a Besoro l’orologio non esiste, ci si regola con il levar del sole e quando l’ombra lambisce le radici di un certo baobab.
Nel frattempo a Besoro la regina morente, che è sua zia, l’ha nominata per la successione. Ma Nana rimane ancora un po’ in Italia. Diventa un caso: una regina che fa la sguattera! Finisce sui giornali. Per un pelo non la portano all’Isola dei Famosi. Dopo diciotto anni in Italia, Nana torna al suo villaggio, richiamata dal Consiglio degli Anziani perché adempia ai suoi doveri di regina. Ormai partecipe delle due culture Nana vuole portare qualche innovazione a Besoro, niente di grandioso: una piccola scuola, un piccolo ospedale. Costruito questo il medico, un nero pure lui, le fa notare che l’ospedale è inutile se non si costruisce anche un pozzo in modo che i bambini e gli adulti di Besoro non si abbeverino a un laghetto putrido dove si infettano. Comincia così una nota trafila da cui non si esce più. I bambini si ammalano di meno, ma Nana nota con sorpresa, che gli abitanti sono diventati tristi, non hanno più i volti luminosi, gli occhi limpidi, felici, mentre è comparsa una malattia mai vista a Besoro, l’ipertensione.
Il virus occidentale ha rotto equilibri ancestrali. Il primo a squagliarsela è il cacciatore Coio che torna nella foresta, poi altri, infine anche il tranquillo zio Ofa se ne va, mentre uno che lavora in ospedale le dice con una voce quasi infantile: “Io non posso vivere con l’orario”. L’esperimento è stato fallimentare.
Mi piace concludere questo apologo con le parole di Andrea Pasqualetto, il giornalista che ha raccolto il racconto della regina Nana Konadu Yadom per un libro che uscirà prossimamente da Marsilio: “Chi l’ha detto che l’Africa nera deve essere aiutata? Chi l’ha detto che servono scuole, ospedali, pozzi? Servono a chi? Agli africani o a noi?”.