domenica 5 giugno 2011

PULIZIE DI PRIMAVERA


continuando il discorso del post "I fatti del nucleare"


Come al solito, fungo da traduttore e da diffusore di una controinformazione necessaria per rompere l’uovo tossico nel paniere della propaganda nuclearista. In vista del referendum, ma non solo, invito tutti a diffondere le evidenze che il delirio produttivista nasconde e falsifica.

Fino ad oggi i filosofi avevano interpretato il mondo. Oggi i “per un pugno di dollari” alla chicco testa di... si adoperano per distruggerlo. Noi, buoni, brutti e cattivi, glielo impediremo.

Sergio Ghirardi

L’ENERGIA NUCLEARE NON HA PIU’ PROSPETTIVE

Intervista a Mycle Schneider

Né il trauma di Fukushima né la decisione tedesca di abbandonare il nucleare hanno intaccato la risoluzione dei dirigenti francesi: per loro nessuno scampo al di fuori dell’atomo.

E se invece, anziché essere una necessità, la scelta del nucleare fosse un vicolo cieco?

Mycle Schneider, esperto nel dominio dell’energia, laureato del premio Nobel alternativo nel 1997, studia l’energia nucleare da più di trenta anni. Ci comunica in questa intervista il suo punto di vista.

Angela Merkel ha appena deciso che la Germania uscirà dal nucleare entro il 2022. E questo un tornante decisivo nella storia dell’energia?

Mycle Schneider.

Mycle Schneider.© (dr)

Si tratta di una decisione spettacolare. Questo governo era considerato come il più favorevole al nucleare nell’ambito della politica tedesca. Quel che avviene in Germania è una vera rottura storica, non una semplice peripezia da politicanti. La scelta di Angela Merkel si appoggia su un testo, Il Rapporto della Commissione etica per l’approvvigionamento energetico sicuro, che analizza la situazione energetica e propone un insieme di misure coerenti per rimpiazzare il nucleare.

Questo rapporto è stato richiesto dal governo e la commissione è presieduta da Klaus Töpfer, precedente ministro dell’ambiente che è stato pure direttore del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (PNUE, E sta per Environnement). La commissione Töpfer stima che per uscire dal nucleare in dieci anni non c’è problema e che sarebbe anzi auspicabile fare più presto!

Secondo il rapporto, s’impongono dei mutamenti sistemici profondi nella maniera di gestire l’energia. Töpfer difende l’interessante idea che l’uscita dal nucleare possa essere un “incentivo alla crescita”. La campagna per le elezioni legislative tedesche del 2013 potrebbe ruotare attorno alla questione: “ chi uscirà prima dal nucleare?”.

Alcuni pensano che la decisione tedesca sia uno specchietto per le allodole, poiché i tedeschi si rifaranno al nucleare francese per rimpiazzare quello che non useranno a casa loro. Insomma, l’uscita tedesca ritarderebbe un’eventuale uscita francese…

L’idea è divertente…ma falsa. Da anni la Francia è importatrice netta di elettricità dalla Germania. In altre parole, il bilancio di acquisti e vendite di elettricità tra i due paesi conclude che la Francia importa in energia più di quel che esporta in Germania. Nel 2010, la Francia ha importato 6,7 TWh (miliardi di kWh) netti dalla Germania, equivalenti alla produzione di una trancia nucleare! Solo che la Francia importa elettricità soprattutto in Inverno, quindi in provenienza dalle centrali a carbone tedesche. Il picco di consumo invernale in Francia è di 96 gigawatts, laddove è di 80 gigawatts in Germania, la cui popolazione conta 16 milioni di abitanti in più!

In Europa, gli scambi di energia si fanno sulla base del prezzo di mercato e non della capacità istallata. I primi studi mostrano che la Germania non dipenderà per nulla dalla corrente nucleare francese. In tal caso, per quale motivo, la decisione tedesca ritarderebbe un’uscita francese dal nucleare?

Eric Besson, ministro dell’industria, ha dichiarato a Libération che “Fukushima farà progredire la sicurezza nucleare” e che il Giappone non aveva “per niente l’intenzione di fermare quelle centrali”. La pagina dell’incidente è dunque voltata?

No, una tale visione non corrisponde alla realtà. Conosco assai bene il Giappone, dove mi sono recato 25 volte e penso che non si debba affatto sottovalutare il trauma di Fukushima. Quella specie di fede nella tecnologia e di fiducia quasi cieca nei decisionisti ha subito un duro colpo. E, soprattutto, la situazione non è affatto rientrata nell’ordine e continua ad aggravarsi di giorno in giorno.

Due mesi e mezzo dopo l’incidente, le fughe radioattive continuano, Tepco non ha ancora una strategia coerente per rendere sicure le centrali e le autorità sanitarie giapponesi non hanno ancora messo in atto un piano globale per proteggere le popolazioni! Non abbiamo alcuna informazione affidabile sullo stato esatto dei reattori e del loro combustibile, mentre niente è stato stabilizzato. In un comunicato del 25 maggio, la ditta ha indicato che in seguito alla domanda dell’Autorità di Sicurezza Nucleare Giapponese, avrebbe equipaggiato i lavoratori con dosimetri individuali…Il che significa che finora non ne hanno avuto a disposizione pur lavorando in zone altamente irradiate. Allucinante!

Peggio ancora, Tepco precisa che nell’attesa di equipaggiare tutti i lavoratori, ci si può basare su un unico dosimetro per ogni gruppo di tecnici con la riserva che la dose sia la stessa sull’insieme della zona d’intervento. Ora, chiunque abbia lavorato mezza giornata sotto l’effetto di raggi ionizzanti sa che le dosi ricevute possono variare di un fattore 10 o di più a qualche metro di distanza. Il che significa che i lavoratori non sono protetti, proprio come i liquidatori di Chernobyl. Due mesi dopo l’inizio dell’incidente, non si sta neppure applicando l’ABC della radioprotezione.

Circa la strategia per mettere i reattori in sicurezza, essa riposa su deduzioni tratte da dati molto frammentari. Si può star certi che c’è stata fusione del combustibile nei tre reattori, ma non si sa esattamente quale proporzione di combustibile è danneggiato o fuso. Tepco appoggia le sue analisi su simulazioni tratte da un numero insufficiente di dati, di misure reali che, per di più sono spesso falsate dal fatto che i rilevatori non funzionano più. Fanno del bricolage ed è la stessa cosa per la gestione delle scorie o dell’acqua contaminata.

Tepco e il governo giapponese non dovrebbero fare maggiormente ricorso all’aiuto internazionale?

Tenuto conto di quel che i giapponesi fanno da due mesi, si ha la dimostrazione che sono incapaci di risolvere il problema ed è chiaro che la comunità internazionale ha una grande responsabilità. Attualmente, gli Stati Uniti, la Francia e la Germania offrono la loro assistenza al Giappone ma si tratta, ogni volta, di un’assistenza bilaterale, basata su una relazione tra il Giappone e un partner, senza concertazione tra le potenze che intervengono.

Gli Stati Uniti hanno una relazione privilegiata con il Giappone, hanno dei droni e forse una maggior quantità d’informazioni che gli altri paesi, ma hanno anche i loro interessi specifici e in particolare delle basi militari limitrofe a Fukushima. La Francia ha i suoi interessi commerciali con Areva. E così via. Si lascia Tepco fare il suo bricolage con una serie di aiuti bilaterali, senza un’azione d’insieme concertata. Non può funzionare, e non capisco come le grandi potenze nucleari accettino una tale situazione. Bisognerebbe lanciare un’iniziativa del tipo “task force” internazionale associando i migliori esperti disponibili.


Che ne è della protezione delle popolazioni giapponesi e dell’ambiente al di fuori del sito di Fukushima?

Non va certo meglio. Fukushima è totalmente diversa da Chernobyl, nel senso che non c’è stato come in Ucraina, una grande esplosione seguita da un incendio durato dieci giorni che ha proiettato la nube a più di tremila metri di altezza. Sappiamo, oggi, che più della metà delle fughe radioattive di Chernobyl è ricaduta altrove che nelle tre repubbliche sovietiche (Ucraina, Bielorussia e Russia).

Al contrario, a Fukushima, si hanno delle fuoriuscite continue e l’essenziale delle ricadute tocca la regione intorno alla centrale. Il raggio in questione è dell’ordine di 100, 200 chilometri, non di migliaia. Si tratta di una buonissima notizia per gli altri paesi e di una terribile per il Giappone! All’ora attuale, non ci sono carte precise delle zone contaminate. La contaminazione non si fa in modo regolare, ma a macchie sul suolo che dipendono dalle condizioni meteorologiche. Per conoscere i punti pericolosi sono necessarie misurazioni numerosissime. Oggi, è impossibile comprare un contatore Geiger in Giappone! Anche in questo siamo nel bricolage.

Io sostengo, al mio livello, un progetto privato portato avanti da un americano stabilitosi in Giappone, che mira a installare una quarantina di laboratori di misura mobile. Bisognerebbe, però, creare anche dei laboratori fissi, utilizzando i siti che già esistono. Per esempio, le imprese di prodotti alimentari hanno dei laboratori che potrebbero essere equipaggiati di spettrometri per analizzare la radioattività. Ciò dovrebbe, tuttavia, essere organizzato in modo coerente a livello nazionale, il che non è oggi il caso. Quando si osservano i calcoli di dosi alle quali sono esposti gli abitanti in alcuni luoghi, per esempio, le scuole, c’è da avere paura. Il governo giapponese ha autorizzato una dose di 20 mSv per anno e per scolaro che corrisponde alla dose normale per i lavoratori del nucleare. Si è dunque moltiplicato per venti il rischio ammesso per i bambini! Non esiste alcuna vera strategia per ridurre il rischio al quale sono esposte le popolazioni. Se non s’interviene, ci saranno migliaia di tumori dovuti alle radiazioni, è evidente…

Lei pensa che la situazione degli abitanti della regione di Fukushima sia altrettanto grave di quella dei bielorussi dopo Chernobyl?

Penso che le conseguenze sanitarie potrebbero, col tempo, essere più gravi di quelle di Chernobyl perché pur se si confermasse che le fughe radioattive sono minori, esse si ripartirebbero su una superficie molto più ridotta, con una densità di popolazione molto superiore. Rischia di essere un’ecatombe.

Nonostante questa situazione drammatica, il Giappone non ha annunciato la sua intenzione di uscire dal nucleare…

Nei fatti ne prende la direzione. Ancora una volta, il trauma di Fukushima è considerevole, anche se non lo si avverte dall’esterno. Per di più il Giappone si trova in una situazione politica particolare: per la prima volta in mezzo secolo non è il partito liberal-democratico che è al potere ma il partito democratico giapponese. Ora, il PDJ non è mai stato un partito fortemente pro nucleare, molti suoi membri sono addirittura molto ostili al nucleare, più di quanto lo siano, per esempio, i socialisti francesi. Ci sono delle personalità ostili al nucleare con cariche importanti e non sono soltanto voci isolate.

Certo, la lobby nucleare giapponese è molto potente e il paese era sul punto di abbordare il tornante per diventare un esportatore di centrali. IL PDJ, però, non ha interesse a rivendicare questa eredità e ha, anzi, tutto l’interesse a prenderne le distanze. Il Primo Ministro Naoto Kan, criticatissimo per la sua gestione della crisi di Fukushima, può cercare una via d’uscita nella rottura con la politica dei suoi predecessori. In un paese dove perdere la faccia è il peggio che possa capitare a un responsabile politico, è tentante provare a scaricare sul PLD la responsabilità della crisi.

Kan è al punto più basso dei sondaggi e non ha niente da perdere nel rompere con il nucleare. In pratica ha cominciato a farlo: ha annunciato che non ci saranno nuove costruzioni di centrali e ha chiesto la chiusura del sito di Hamaoka che si trova, come Fukushima, in riva al mare. Hamaoka contiene cinque reattori, due erano stati definitivamente chiusi nel 2009 perché si era stimato che sarebbe stato troppo costoso metterli in conformità con le nuove norma antisismiche. Gli altri tre sono oggi fermi. E non si tratta di “vecchie pentole”, il reattore n.° 5 è nuovissimo, entrato in funzione nel 2005.

In totale sui 54 reattori nucleari in servizio in Giappone, circa la metà è oggi ferma. La probabilità di una rottura completa con la politica del passato è, a mio avviso, forte. Sia la situazione politica interna che il contesto internazionale la favoriscono.

Che ne è degli Stati Uniti, il paese che possiede il più gran numero di centrali nucleari in attività?

L’amministrazione Obama ha fatto una dichiarazione favorevole al rinnovamento delle istallazioni nucleari. In pratica, tuttavia, non è il governo che comanda le centrali ma le società produttrici di elettricità. E oggi, gli industriali dell’elettricità sono in ritirata. Il progetto principale, il South Texas Project, è stato appena abbandonato e con lui un investimento di 481 milioni di dollari!

Il solo reattore attualmente in costruzione negli Stati Uniti è quello di Watts Bar, nel Tennessee. Lanciato nel 1972, dovrebbe essere messo in funzione, se tutto va bene, l’anno prossimo. Se anche si mette davvero in azione, la sua costruzione sarà durata quarant’anni. John Rowe, presidente di Exelon, una delle principali ditte americane di elettricità, affermava, prima di Fukushima, che costruire nuovi reattori nucleari non aveva alcun senso dal punto di vista economico.

Il costo del nucleare di nuova concezione è più che raddoppiato tra il 2008 e il 2010 e aumenterà ancora a causa di Fukushima. Questa tecnologia non ha più prospettive e gli Stati Uniti non sono certamente il paese della rinascita nucleare. Soltanto la Cina e l’India costruiscono ancora centrali nucleari. La Cina, tuttavia, sviluppa altrettanto se non di più le energie rinnovabili. Ha consacrato loro 38 miliardi di euro nel 2010 e si colloca come leader mondiale del settore. Alla fine del 2010 le pale eoliche istallate in Cina accumulavano quattro volte e mezza la capacità nucleare.

Ma il nucleare non è una risposta alla minaccia climatica?

L’ultimo argomento commerciale del nucleare è che permette di ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Con la precisazione che per essere davvero interessante dal punto di vista del rischio climatico un’energia deve rispondere a un doppio criterio: essere a buon mercato e rapida nei tempi di funzionamento. Il nucleare è costosissimo e lento da installare.

Su quali altre energie puntare?

Su quelle rinnovabile, naturalmente! Ma anche e addirittura innanzitutto, sull’efficacia dei servizi energetici. Alcuni stati come la California sono all’avanguardia. Molto di più della Germania che ne sta prendendo la direzione ma dove, fino al 2007, l’eolico e il solare si limitavano a coprire gli aumenti di consumo. I tedeschi, tuttavia, sono molto ottimisti circa la riduzione del costo dell’elettricità fotovoltaica che potrebbe, da qui al 2015, raggiungere la “grid parity”, cioè il momento in cui non sarà più cara delle altre sorgenti di energia. In certe situazioni degli Stati Uniti è già il caso.

Tuttavia, il settore in cui gli Stati Uniti sono più avanti è quello dell’architettura delle reti elettriche. L’avvenire dell’elettricità, al di fuori della questione delle sorgenti di energia, è l’organizzazione delle reti. Il sistema attuale nel quale un numero limitato di produttori trasporta la corrente, la distribuisce e innaffia i consumatori è destinato a sparire a vantaggio di un nuovo paradigma nel quale i consumatori saranno anche i produttori. Domani ci saranno dei milioni di produttori poiché ogni focolare sarà equipaggiato di cellule fotovoltaiche o di micro pale eoliche oppure perché, semplicemente, il congelatore sarà un elemento della rete…

Come sarebbe?

Il vostro congelatore può essere equipaggiato di un microchip che lo mette fuori circuito durante l’ora o le due ore di picco dei consumi, senza che ciò comporti danni al suo funzionamento. È il principio degli smart grids, le reti intelligenti, nelle quali si può modulare i consumi di ogni focolare in modo da far scendere le curve di scambio, ridicendo, cioè, i picchi di consumo. Ugualmente, si può avere una lavatrice che non funziona in certi periodi orari. Una variante: beneficiare di un servizio che obbliga a rispettare questi periodi mentre, se ciò vi disturba pagate più caro senza tenerne conto.

L’elettricità permette di gestire questo genere di cose, di cambiare fornitore rapidamente, ecc. La marca americana Whirlpool ha annunciato che non produrrà più che degli apparecchi « smart grid compatibili » a partire dal 2015. L’unico elemento indispensabile per un tale funzionamento è l’istallazione di un contatore “intelligente”. In Europa, si sa fabbricare questo tipo di contatori ma non c’è ancora la regolamentazione che permette di utilizzarli… Negli Stati Uniti si fa molto presto.

In un commento pubblicato su Le Monde del 12 agosto 2010, Colette Lewiner, direttrice di Capgemini, affermava che la chiave di volta dell’evoluzione attuale del mercato dell’elettricità era la «trasformazione delle reti elettriche in reti intelligenti». Aggiungeva che se l’Europa non avesse preso in conto la questione, sarebbe stata rapidamente distanziata dagli Stati Uniti…

Siamo lontano dall’EPR francese o dai progetti di reattori nucleari di quarta generazione!

Osservo l’industria nucleare da 30 anni. Ha sempre avuto un atteggiamento ombelicale, quasi autistico, con sempre gli stessi interlocutori che si ritrovano nei colloqui, parlano tra di loro, e si gira in tondo. Quando Henry Proglio (uno dei guru del nucleare francese) afferma in un colloquio con Le Monde che le centrali nucleari hanno resistito bene al terremoto e che l’incidente non rimette in discussione il nucleare non assume un atteggiamento responsabile, vuol dire negare la realtà.

Viene voglia di chiedere ai nucleocrati francesi se leggono i giornali! È un fatto gravissimo, perché la quinta potenza economica mondiale è ancora agli anni settanta per quel che riguarda l’energia. Il nucleare è pesante, rigido centralizzato quando le parole d’ordine attuali sono leggerezza flessibilità e decentralizzazione. Si sta perdendo il treno. Obama ha dichiarato nel suo discorso sullo stato dell’unione del febbraio 2010 che la nazione che controllerà l’energia verde sarà la nazione del XXI secolo. La Francia è sulla cattiva strada.

Mi pare di estrema attualità chiedersi dove s’incamminerà l’Italia. Gli italiani hanno l’opportunità di rispondere senza ambiguità a questa questione epocale di vita o di morte.

Testo originale in francese :

Ni le traumatisme de Fukushima ni la décision allemande de sortir du nucléaire n'ont entamé la résolution des dirigeants français: pour eux, hors de l'atome, point de salut. Et si, loin d'être une nécessité, le choix nucléaire était une impasse? Mycle Schneider, consultant dans le domaine de l'énergie, lauréat du prix Nobel alternatif en 1997, étudie l'industrie nucléaire depuis trente ans. Il livre ici son point de vue.

Angela Merkel vient de décider que l'Allemagne sortira du nucléaire d'ici 2022. S'agit-il d'un tournant décisif dans l'histoire de l'énergie ?

C'est une décision spectaculaire. Ce gouvernement était considéré comme le plus pro-nucléaire possible dans le paysage politique allemand. Ce qui se passe en Allemagne est une véritable coupure historique, pas une simple péripétie politicienne. Le choix d'Angela Merkel s'appuie sur un texte, le rapport de la Commission éthique pour l'approvisionnement énergétique sûr, qui analyse la situation énergétique et propose un ensemble de mesures cohérentes pour remplacer le nucléaire.

Ce rapport a été demandé par le gouvernement, et la commission est présidée par Klaus Töpfer, ancien ministre de l'environnement, qui a aussi été directeur du Programme des Nations unies pour l'environnement (PNUE). La commission Töpfer estime que sortir du nucléaire en dix ans n'est pas un problème et qu'il serait même souhaitable d'aller encore plus vite !

Selon le rapport, des changements systémiques profonds s'imposent dans la manière de gérer l'énergie. Et défend l'idée intéressante que la sortie du nucléaire peut être un «booster de croissance». La campagne pour les élections législatives allemande de 2013 pourrait tourner autour de la question « qui sortira le plus vite du nucléaire? »

Certains estiment que la décision allemande est une sorte de trompe-l'œil, parce que les Allemands feront appel au nucléaire français pour remplacer celui qu'ils n'utiliseront pas chez eux. En somme, la sortie allemande retarderait une éventuelle sortie française...

L'idée est amusante... mais fausse. Depuis des années, la France est importatrice nette d'électricité d'Allemagne. Autrement dit, le bilan des achats et ventes d'électricité entre les deux pays aboutit à ce que la France importe plus d'Allemagne qu'elle n'exporte. En

2010, la France a importé 6,7 TWh (milliards de kWh) nets d'Allemagne, soit la production d'une tranche nucléaire ! Sauf que la France importe de l'électricité surtout en hiver, donc en provenance des centrales à charbon allemandes. La pointe de consommation hivernale en France est de 96 gigawatts, alors qu'elle est de 80 gigawatts en Allemagne, dont la population compte 16 millions d'habitants de plus !

Les échanges d'électricité en Europe se font sur la base du prix du marché et non pas de la capacité installée. Les premières études montrent que l'Allemagne ne dépendra certainement pas du courant nucléaire français. En quoi la décision allemande retarderait-elle, dans ce cas, une sortie du nucléaire française ?

Eric Besson, ministre de l'industrie, a déclaré à Libération que «Fukushima va faire progresser la sûreté nucléaire» et que le Japon n'avait «nullement l'intention d'arrêter ces centrales». La page de l'accident est-elle tournée ?

Non, une telle vision ne correspond pas à la réalité. Je connais assez bien le Japon, où je me suis rendu vingt-cinq fois, et je pense qu'il ne faut certainement pas sous-estimer le traumatisme de Fukushima. L'espèce de croyance en la technologie et de confiance presque aveugle dans les décideurs en a pris un coup. Et surtout, la situation n'est absolument pas réglée. Elle continue de s'aggraver jour après jour.

Deux mois et demi après l'accident, les rejets radioactifs continuent, Tepco n'a toujours pas de stratégie cohérente pour sécuriser la centrale et les autorités sanitaires japonaises n'ont pas mis en place un plan d'ensemble pour protéger les populations ! On n'a aucune information fiable sur l'état exact des réacteurs et de leur combustible, mais rien n'est stabilisé. Dans un communiqué du 25 mai, la firme a indiqué qu'à la demande de l'Autorité de sûreté nucléaire japonaise, elle allait équiper les travailleurs de dosimètres individuels... Ce qui veut dire qu'ils n'en avaient pas jusqu'ici, alors qu'ils travaillent dans des zones très fortement irradiées ! Hallucinant...

Pire, Tepco précise qu'en attendant d'avoir équipé tous les travailleurs, on peut se baser sur un seul dosimètre pour un groupe de techniciens sous réserve que la dose soit la même sur l'ensemble de la zone d'intervention. Or, quiconque a travaillé sous rayonnements ionisants une demi-journée sait que les doses reçues peuvent varier d'un facteur 10 ou plus à quelques mètres de distance. Ça veut dire que les travailleurs ne sont pas protégés, tout comme les liquidateurs de Tchernobyl. Deux mois après le début de l'accident, on n'est même pas en train d'appliquer le b.a-ba de la radioprotection.

Quant à la stratégie pour mettre les réacteurs dans un état sûr, elle repose sur des déductions tirées de données très fragmentaires. On peut être certain qu'il y a eu fusion du combustible dans trois réacteurs, mais on ne sait pas exactement quelle proportion du combustible est endommagée ou fondue. Tepco appuie ses analyses sur des scénarios tirés d'un nombre insuffisant de données, de mesure réelles, qui plus est souvent fausses parce que les capteurs ne marchent plus. C'est du bricolage... Et c'est la même chose pour la gestion des déchets, ou de l'eau contaminée.

Tepco et le gouvernement japonais ne devraient-ils pas faire davantage appel à l'aide internationale ?

Compte tenu de ce que les Japonais font depuis deux mois la démonstration qu'ils sont incapables de résoudre le problème, il est clair que la communauté internationale a une lourde responsabilité. Actuellement, les Etats-Unis, la France ou l'Allemagne apportent leur assistance au Japon, mais il s'agit à chaque fois d'une assistance bilatérale, basée sur une relation entre le Japon et un partenaire, sans concertation entre les puissances intervenantes.

Les Etats-Unis ont une relation privilégiée avec le Japon, ils ont des drones, ils ont peut-être plus d'informations que les autres pays, mais ils ont aussi leurs intérêts spécifiques et notamment des bases militaires proches de Fukushima. La France a ses intérêts commerciaux avec Areva. Et ainsi de suite. On laisse Tepco bricoler avec une série d'aides bilatérales, sans action d'ensemble concertée. Ça ne peut pas marcher. Et je ne comprends pas que les grandes puissances nucléaires acceptent cette situation. Il faudrait lancer une initiative de type task force internationale associant les meilleurs experts disponibles.

Qu'en est-il de la protection des populations japonaises, et de l'environnement en dehors du site de Fukushima ?

Cela ne va guère mieux. Fukushima est très différent de Tchernobyl en ce qu'il n'y a pas eu, comme en Ukraine, une très grande explosion suivie d'un feu de dix jours qui a projeté le panache à plus de 3000 mètres d'altitude. On sait aujourd'hui que plus de la moitié des rejets de Tchernobyl est retombée ailleurs que dans les trois républiques ex-soviétiques (Ukraine, Biélorussie et Russie).

Au contraire, à Fukushima, on a des rejets continus et l'essentiel des retombées affecte la région autour de la centrale. Le rayon concerné est de l'ordre de 100 ou 200 kilomètres, pas des milliers de kilomètres. C'est une très bonne nouvelle pour les autres pays et une très mauvaise pour le Japon ! Et à l'heure actuelle, on n'a pas de carte précise des zones contaminées. La contamination ne se fait pas de manière régulière, ce sont des taches au sol, qui dépendent des conditions météo, et pour connaître les points dangereux, il faut faire de très nombreuses mesures. Aujourd'hui, on ne peut plus acheter un compteur Geiger au Japon ! Là aussi, on est dans le bricolage.

A mon niveau, je soutiens un projet privé mené par un Américain établi au Japon, qui vise à installer une quarantaine de laboratoires de mesure mobiles. Mais il faudrait aussi créer des labos fixes, en utilisant les sites qui existent déjà. Par exemple, les entreprises de produits alimentaires ont des laboratoires que l'on pourrait équiper de spectromètres pour analyser la radioactivité. Mais cela devrait être organisé de manière cohérente à l'échelle du pays, ce qui n'est pas le cas aujourd'hui. Quand on regarde les calculs de doses auxquelles sont exposés les habitants dans certains lieux, par exemple les écoles, c'est affolant. Le gouvernement japonais a autorisé une dose de 20 mSv par an pour les écoliers, c'est la dose normale pour les travailleurs du nucléaire. On a multiplié par 20 le risque autorisé pour les enfants ! Il n'y a aucune véritable stratégie pour réduire le risque auquel sont exposées les populations. Si rien ne change, il y aura des milliers de cancers dus aux radiations, c'est évident...

Pensez-vous que la situation des habitants de la région de Fukushima soit aussi grave que celle des Biélorusses après Tchernobyl ?

Je pense que les conséquences sanitaires à terme pourraient être pires que celles de Tchernobyl parce que, même s'il se confirme que les rejets radioactifs sont moindres, ils se répartissent sur une surface beaucoup plus réduite, avec une densité de population très supérieure. Ça risque d'être une hécatombe.

Malgré cette situation dramatique, le Japon n'a pas annoncé son intention de sortir du nucléaire...

Dans les faits, il en prend la direction. Encore une fois, le traumatisme de Fukushima est considérable, même si l'on ne s'en rend pas compte de l'extérieur. De plus, le Japon se trouve dans une situation politique particulière : pour la première fois en un demi-siècle, ce n'est pas le Parti libéral démocrate qui est au pouvoir, mais le Parti démocrate japonais. Or, le PDJ n'a jamais été un parti très pro nucléaire, nombre de ses membres sont même très critiques vis-à-vis du nucléaire – plus que ne le sont les socialistes français, par exemple. Il y a des personnalités critiques vis-à-vis du nucléaire à des postes importants, ce ne sont pas seulement des voix isolées.

Certes, le lobby nucléaire japonais est très puissant, et le pays était en passe d'accomplir le virage consistant à devenir un exportateur de centrales. Mais le PDJ n'a pas à revendiquer cet héritage, il a même tout intérêt à s'en distancier. Le premier ministre Naoto Kan, très critiqué pour sa gestion de la crise de Fukushima, peut chercher une issue dans la rupture avec la politique de ses prédécesseurs. Dans un pays où perdre la face est le pire qui puisse arriver à un responsable politique, il est tentant d'essayer de s'en sortir en mettant sur le dos du PLD la responsabilité de la crise.

Kan est au plus bas dans les sondages, il n'a rien à perdre à rompre avec le nucléaire. Et c'est ce qu'il a commencé à faire, en pratique : il a annoncé qu'il n'y aurait pas de nouvelles centrales construites et il a demandé la fermeture du site de Hamaoka, qui se trouve comme Fukushima en bord de mer. Hamaoka possède cinq réacteurs, deux avaient été définitivement stoppés en 2009 parce qu'on avait estimé qu'il était trop coûteux de les mettre en conformité avec les nouvelles normes antisismiques. Les trois autres sont aujourd'hui arrêtés. Et il ne s'agit pas de «vieilles casseroles», le réacteur n°5 est tout neuf, il avait démarré en 2005.

Au total, sur les 54 réacteurs nucléaires en service au Japon, près de la moitié sont aujourd'hui à l'arrêt. La probabilité d'une rupture complète avec la politique du passé est à mon avis forte. Aussi bien la situation politique intérieure que le contexte international s'y prêtent.

Qu'en est-il des Etats-Unis, le pays qui possède le plus grand nombre de centrales nucléaires en activité ?

L'administration Obama a fait une déclaration favorable au renouvellement des installations nucléaires. Mais dans la pratique, ce n'est pas le gouvernement qui commande les centrales, ce sont les sociétés productrices d'électricité. Et aujourd'hui, les industriels de l'électricité sont en retrait. Le principal projet, le South Texas Project, vient d'être abandonné, et avec lui un investissement de 481 millions de dollars !

Le seul réacteur actuellement en construction aux Etats-Unis est celui de Watts Bar, au Tennessee, il a été lancé en 1972 et, si tout va bien, devrait être mis en service l'année prochaine. Même s'il démarre effectivement, sa construction aura pris quarante ans... John Rowe, président d'Exelon, l'une des principales firmes d'électricité américaines, affirmait avant Fukushima que construire de nouveaux réacteurs nucléaires n'avait économiquement aucun sens.

Le coût du nucléaire neuf a plus que doublé entre 2008 et 2010 et il va augmenter encore avec Fukushima. Cette technologie n'a plus de perspective. Et les Etats-Unis ne sont certainement pas le pays de la renaissance nucléaire. Il n'y a plus que la Chine et l'Inde qui construisent des centrales nucléaires. Et la Chine développe autant, sinon davantage, les énergies renouvelables. Elle leur a consacré 38 milliards d'euros en 2010, et se place en leader mondial. Fin 2010, les éoliennes installées en Chine cumulaient quatre fois et demie la capacité nucléaire.

Mais le nucléaire n'est-il pas une réponse à la menace climatique ?

Le dernier argument de vente du nucléaire est qu'il permet de réduire les émissions de gaz à effets de serre. A ceci près que pour être vraiment intéressante du point de vue du risque climatique, une énergie doit satisfaire à un double critère : être bon marché et rapide à mettre en œuvre. Le nucléaire est très cher et très lent à mettre en place.

Sur quelles autres énergies miser ?

1Les renouvelables, bien sûr ! Mais aussi et même avant tout, l'efficacité des services énergétiques. Certains Etats, comme la Californie, sont très en avance. Nettement plus que l'Allemagne, qui est en train de prendre le virage mais où, jusqu'en 2007, l'éolien et le solaire n'ont fait que couvrir l'augmentation de consommation. Cependant, les Allemands sont très optimistes quant à la baisse de coût de l'électricité photovoltaïque qui pourrait, d'ici 2015, atteindre la «grid parity», autrement dit le moment où elle ne sera pas plus chère que les autres sources d'énergie. Aux Etats-Unis on y est déjà dans certaines situations. Mais le domaine où les Etats-Unis sont le plus en pointe est celui de l'architecture des réseaux électriques. L'avenir de l'électricité, en dehors de la question des sources d'énergie, c'est l'organisation des réseaux. Le système actuel dans lequel un nombre limité de producteurs transporte le courant, le distribue et arrose les consommateurs, est appelé à disparaître. Au profit d'un nouveau paradigme dans lequel les consommateurs seront aussi producteurs. Demain, il y aura des millions de producteurs parce que chaque foyer sera équipé de cellules photovoltaïques ou d'éoliennes ou tout simplement parce que le congélateur sera un élément du réseau...

Comment cela ?

Votre congélateur peut être équipé d'une puce qui le met hors circuit pendant l'heure ou les deux heures de pointe de consommation, sans que cela affecte son fonctionnement. C'est le principe des smart grids, les réseaux intelligents, dans lequel on peut moduler les consommations de chaque foyer de manière à aplanir les courbes de charge, autrement dit à réduire les à-coups de consommation. De même, vous pouvez avoir une machine à laver qui ne fonctionne pas dans certains créneaux horaires. Variante : vous bénéficiez d'un service qui vous oblige à respecter ces créneaux, mais si cela vous ennuie, vous payez plus cher et vous faites ce que vous voulez.

L'électronique permet de gérer ce genre de choses, de changer de fournisseur en un délai rapide, etc. La marque américaine Whirlpool a annoncé qu'elle ne produirait plus que des appareils « smart grid compatibles » dès 2015. Tout ce que cela demande pour être utilisable, c'est l'installation d'un compteur « intelligent ». En Europe, on sait fabriquer ces compteurs, mais on n'a pas encore les réglementations qui permettent de les utiliser... Aux Etats-Unis, ça va très vite.

Dans un point de vue publié par Le Monde (12 août 2010), Colette Lewiner, directrice chez Capgemini, affirmait que la clé de voûte de l'évolution actuelle du marché de l'électricité était «la transformation des réseaux électriques en réseaux intelligents». Et que si l'Europe ne se saisissait pas de la question, elle serait rapidement distancée par les Etats-Unis...

On est loin de l'EPR français ou des projets de réacteurs nucléaires de quatrième génération !

J'observe l'industrie nucléaire depuis 30 ans. Elle a toujours eu une attitude nombriliste, presque autiste, toujours les mêmes interlocuteurs qui se retrouvent dans les colloques, ils se parlent entre eux, ça tourne en rond. Quand Henri Proglio affirme dans un entretien au Monde que les centrales japonaises ont bien résisté au séisme et que l'accident ne remet pas en cause le nucléaire, ce n'est pas responsable, c'est nier la réalité.

On a envie de demander aux nucléocrates français s'ils lisent les journaux ! C'est très grave parce que la cinquième économie mondiale en est encore aux années 1970 pour ce qui concerne l'énergie. Le nucléaire est lourd, rigide, centralisé alors que les maîtres mots actuels sont légèreté, flexibilité et décentralisation. On est en train de rater le train. Obama a déclaré dans son discours sur l'état de l'union en février 2010 que la nation qui maîtrisera l'énergie verte sera la nation du XXIe siècle. La France est mal partie...