Quando, già parecchio tempo fa, avevo brevemente ma
chiaramente denunciato su questo stesso blog il sopruso inaccettabile del
controllo e della censura di un certo tipo di commenti dei lettori sul Fatto Quotidiano con la scusa della
moderazione, qualche (sia pur rarissimo) acido benpensante frustrato vi aveva
colto, con scherno semplicistico e malsano freudismo da bar sport, un mio narcisismo
autoreferenziale.
Nemmeno mi sogno di rispondere oggi più di ieri a queste
miserabili analisi da camerieri volontari mentre trovo interessante, invece,
una riflessione sul tema della democrazia al quotidiano senza la quale, secondo
me, non c’è transizione possibile a nessuna democrazia reale tuttora
inesistente.
Trovo davvero sintomatico che proprio mentre da un lato
una lente d’ingrandimento gigante è posta sul caso Favia-Grillo-Casaleggio-M5S
come sintomo di una grave carenza di democrazia, dall’altro tutti i sinceri
democratici italiani che sembrano appassionarsi col bilancino al destino della
democrazia stellare a venire, non trovino nulla da eccepire sull’evidente
cernita non casuale dei commenti dell’unico giornale quotidiano italiano che, autogestito
in nome appunto di una democrazia che si pretende reale, non benefici del
bottino mafioso degli aiuti statali.
Certo, il caso Favia è stato portato nell’etere dai resti
ancora abbondanti del rumore televisivo e mediatico, mentre i commenti sui blog
del FQ, per quanto in crescente circolazione virtuale (e per questo mi ero
dedicato fino a ieri con un certo divertimento a parteciparvi) restano nel
microcosmo relativo della parola scarabocchiata, talvolta compulsiva, spesso condizionata
dalla leggerezza incosciente di chi spara certezze ideologiche credendo di
sapere e sempre inquinata dall’ossessiva manipolazione di troll volontari o a
pagamento.
Da qui la comoda falsa soluzione di una moderazione opaca
al punto da fare del moderatore un censore carico della sua idiozia o della sua
mala fede (e non so che cosa sia peggiore). Per la democrazia, meglio un troll
o un invasato di troppo da cancellare o ignorare che una sola tesi o un
discorso che, cancellato d’ufficio, non possa essere letto e preso in conto. La
democrazia è incompatibile con la censura.
Ora, se il M5S pretende di incarnare a livello politico
il movimento verso una democrazia reale, l’esistenza del Fatto Quotidiano ha rappresentato
il tentativo concreto di restituire alla libera soggettività d’individui
autonomi l’informazione pubblica su carta e un po’ anche su schermo virtuale,
sottraendola alle mafie giornalistiche che imperversano dappertutto nella
società dello spettacolo e in particolare in Italia, che di mafia s’intende da
tempi già anticamente sospetti. Di questo i Travaglio, i Gomez, i Padellaro e compagnia
si fanno continuamente vanto, di là dai loro distinguo di destra o di sinistra
nel tormentone manicheo che attanaglia come un’ambigua voluttà inestinguibile
il pensiero italico orfano del mistero buffo di Camillo e Peppone (perché,
anche se per una volta non è De André che l’ha detto, è vero che “…a ogni posta i monelli si uniscono ai comici…”).
I due movimenti[1] hanno
il comune obiettivo di una democrazia reale su due diversi piani strettamente
interconnessi della vita sociale: la politica e l’informazione.
Dove i perplessi del M5S hanno ragione, è che la
democrazia o è reale dappertutto o non esiste da nessuna parte. Dove hanno torto,
è nell’identificarla con le liturgie dubbie e perverse della democrazia
parlamentare e delle uguaglianze formali e rappresentative.
Una democrazia è diretta, cioè reale, quando
l’uguaglianza è carica e ricca di tutte le differenze. Uguaglianza non è
mangiar tutti lo stesso panino, seguire tutti una stessa idea, bere tutti lo
stesso intruglio, ma poter scegliere ognuno il panino, l’idea o l’intruglio che
si vuole, mentre tutti insieme si fa in modo che nessuno possa decidere nulla al
posto nostro. Finché si può avanzare insieme, bene. Poi le separazioni e le
esclusioni reciproche aiutano a restituire a ciascuno la sua libertà.
Fortunatamente, né Grillo né Casaleggio possono espellere Favia dalla lotta
politica, ma se a un certo momento Favia trova che nel movimento di Grillo non
c’è democrazia non ha che da realizzare la sua democrazia con tutti quelli che
ne condividono le idee. A Grillo resterà un logo che se sputtanato giustamente
sparirà nella spazzatura ideologica come MSI, DC e PCI, per non citare che i
massimi sistemi semisecolari del putridume politico nostrano. La proprietà di
un logo non priva gli altri della loro autonomia, mentre permette di eliminare
l’ambiguità di poter far credere che la celebrità (sic) di un Grillo, per
esempio, è ormai incarnata dai Favia o dai Tavolazzi. Lo spettacolo deve
finire!
La democrazia domanda di condividere una ricchezza prima
di tutte le altre: quella del tempo per decidere, per mettersi d’accordo, per
fare le cose insieme o separatamente con il solo obbligo reciproco di non
impedirsi gli uni con gli altri le libere scelte. Le sole scelte non
democratiche sono quelle che impediscono la libertà altrui, consapevoli che la
nostra libertà comincia dove comincia quella degli altri.
Siamo i figli confusi di un umanesimo borghese,
competitivo e sprezzante del diverso, che ci ha imbevuto dell’idea corta che la
libertà di ognuno finisca dove comincia quella altrui. Siamo i figli di una
libertà vigilata, incapace di orgasmi perché l’orgasmo è il momento preciso in
cui si sente l’abbraccio gioioso di due libertà che s’incontrano. Per questo i
momenti rivoluzionari sono sempre stati degli orgasmi della storia. Per questo
la fine precipitata della rivoluzione in Russia è stata indicata da un sintomo
inequivocabile già pochissimi anni dopo l’insurrezione di Ottobre. Il sogno è
stato soffocato nella culla, prima ancora che Lenin somatizzasse la sconfitta
incipiente con un tumore al cervello, fin da quando i rivoluzionari, fino ad
allora liberi di unirsi per amore e affinità, si sono visti imporre dal partito
e dal comitato centrale bolscevico il “matrimonio comunista”. Stalin stava
ancora acquattato a complottare nelle segrete stanze del Pcus, ma le fobie bolsceviche
ne preannunziavano già, inconsciamente, l’arrivo ineluttabile.
Chi è lo Stalin tra Favia e Casaleggio? Ai poster della società dello spettacolo
l’ardua sentenza.
Per tutti noi, cittadini del mondo, si tratta di far transitare
l’Italia, l’Europa e il pianeta fuori dalle secche di un totalitarismo
economicista nichilista e perverso rioccupando il mondo.
Per questo io non vedo un rischio reale per la democrazia
a venire nell’uso discriminatorio del simbolo o altre quisquilie nel momento in
cui si tratta di unire gli sforzi comuni per abbattere il mostro del
totalitarismo economico erettosi in democrazia rappresentativa spettacolare.
Solo chi vuole un leader e ragiona già come un suddito della
democrazia spettacolare (oclocrazia, per appoggiarsi sulla saggezza dei greci
antichi) può esigere da Grillo o da Casaleggio una prova di democraticismo.
Grillo e Casaleggio domani non saranno nessuno e se mai
oggi sognassero di contare più di uno saranno i primi a essere delusi quando la
democrazia si depositerà come governo. Se invece qualcuno, loro o chiunque
altro, potrà ristabilire un qualunque “matrimonio rivoluzionario” obbligato, la
democrazia sarà stata ancora una volta usata come alibi del potere, magari poi
fucilata e gettata nel fiume per dare l’esempio ai sudditi tremebondi.
Per questo oggi il M5S - con o senza l’uno o l’altro
nelle vesti ridicole del capo - non può essere che l’utensile per mescolare gli
ingredienti nel calderone in cui cuocere una nuova leccornia anziché la solita
minestra riscaldata dai nuovi capi che in nome della democrazia assicurano -
coscientemente o no - il sorgere di una nuova nomenklatura.
Lungi da un qualunque atto di fede per Grillo o
Casaleggio, temo di più per la democrazia le preoccupazioni democraticistiche
del militante Favia che, con aria sinceramente torturata, dice di aver dato
cinque anni della sua vita al movimento (ma chi glielo ha chiesto? Se ha
goduto, bene, se no che la smetta subito) e che insieme ad altri reduci della
politica spettacolare vuole affermare una democrazia formale nel movimento,
riducendolo già, di fatto, nella sua visione ristretta, a un partito che la
maschera mitica del movimento non riesce più a nascondere.
Perché o il movimento è reale e allora anche i Grillo e i
Casaleggio spariranno nella prassi delle libertà pratiche del partito storico
del proletariato che abolisce se stesso in ognuno e collettivamente, o il suo
oro poetico trasmuterà di nuovo nel piombo della politica spettacolare e di un
nuovo vergognoso partito formale che troverà facilmente i suoi capi e i suoi
adepti tra i servitori volontari che spuntano come funghi alle prime piogge
della restaurazione.
Allora, dal punto di vista dell’autogestione
generalizzata che è l’obiettivo finale di una democrazia reale, la sola
prospettiva rivoluzionaria sarà comunque la sua auto dissoluzione.
Cercando di commentare in questo senso, seppur con altre
parole, il tema in questione, mi sono trovato per l’ennesima volta rimosso il
commento che avevo per precauzione già inviato a questo blog veramente libero
come una tempesta brasiliana.
Ma è dunque scandaloso per il democraticissimo Fatto Quotidiano
pensare autonomamente la democrazia? Ma i pensatori faro di questa limpida
collettività autogestita, i D’Arcais o i Vattimo, non è che soffrano ancora di
quella sindrome dell’intellettuale organico che in fondo pensa sempre
all’egemonia come l’alibi per una democrazia ancora una volta spettacolare,
cioè fittizia, in cui la coscienza è portata dall’esterno dalle avanguardie
illuminate?
Ebbene una cosa è certa: lo spazio che il Fatto vende come
libero per procacciarsi i lettori, libero non è affatto.
Già una volta in questa mia battaglia per la libertà d’espressione
che è solo un fusibile, molto visibile, però, dei soprusi ben più micidiali che
rodono e corrodono la vita quotidiana di tutti, avevo subito e rovesciato il diktat
censorio dei moderatori del FQ con l’appoggio di Barbara Collevecchio che aveva
ripristinato nel suo blog del FQ un mio commento rimosso.
Come per caso (vedi idiozia o malafede del moderatore di
turno) si trattava di un commento sull’amore (per i curiosi, anch’esso
rintracciabile su barravento), tema che appena separato da sex shop e
romanticismi vari per essere collegato al politico, diventa un tabu eccellente
per tutte le fobie avanguardiste perché incarna l’essenza stessa di una libertà
a tutto campo.
La totalità vivente è il faro di ogni progetto di emancipazione.
Il fatto che un’analisi, controcorrente o sbagliata che
sia, ma non certamente insultante né provocatoria, sia rimossa, è un segno
grave dell’autoritarismo antidemocratico e della dittatura soffice del pensiero
dell’establishment (di destra e/o sinistra, poco importa) che domina il dialogo
sotto controllo nei rapporti quotidiani. Ciò è inaccettabile per un uomo libero
o che per questa libertà si batte, tanto più laddove si pretenda di agire in
nome dei fatti e della loro libera circolazione.
Il pensiero di un uomo, il mio o di chiunque altro, è
degno del rispetto che si deve a se stessi in nome di quella libertà che
comincia dove comincia quella altrui.
Come ho scritto in un ultimo commento al FQ, evidentemente
anch’esso rimosso, l’ultima reciprocità che ci accomuna è che non ci mancheremo
a vicenda, ma non posso non aggiungere qui, nell’intimità amichevole di
barravento, che il fonema FQ, in francese, assomiglia molto a faux cul che vuol dire ipocrita.
Sergio Ghirardi
[1] Mi permetto di chiamarli entrambi così perché l’uno si autodefinisce
esplicitamente movimento mentre l’altro - la crema del popolo viola
sopravvissuto al saccheggio dei trattati di botanica usati per trasformare in
alberi o piante i partiti fantasma di una sinistra in decomposizione - a
guardare bene, ha le sue radici nel movimento dei girotondi che per primo,
nelle nebbie della pretesa seconda repubblica del quasi ventennio berlusconiano
ha incarnato la regressione infantile e l’insofferenza impotente dei cittadini
cornuti e mazziati dalla complicità della banda bassotti del cavaliere senza
macchia (senza capelli) e senza paura (senza preservativo) con la cosca
burocratica di una sinistra postcomunista stalinocristiana incapace di dire
neanche per scherzo “qualcosa di sinistra” che non fosse uno spot pubblicitario
per il capitalismo di sinistra (il cooperativismo affarista).