Aggiungendovi soltanto la deduzione che ho usato per titolo, vi ho
tradotto il testo che segue, originariamente in inglese, perché mi è parso di
una chiarezza esemplare.
Sergio Ghirardi
Benvenuto l’Antropocene
Addio all’Olocene. È la fine di un mondo, quello nel quale abbiamo
vissuto durante gli ultimi 12.000 anni anche se nessun giornale d’America del
nord o d’Europa ha ancora pubblicato la sua necrologia scientifica.
Nello scorso mese di febbraio, mentre il cantiere del grattacielo
Burj Dubai, ben presto due volte più alto dell’Empire State Building, si
arricchiva di un centoquarantunesimo piano, la commissione stratigrafica della
Geological Society of London, aggiungeva da parte sua un nuovo piano all’edificio
degli strati geologici.
Fondata nel 1807, la London Society è la più antica società
competente consacrata alle scienze della Terra e la sua commissione agisce come
un’alta autorità in materia di definizione dei parametri dei tempi geologici.
Gli esperti in stratigrafia sezionano la storia della Terra preservata negli
strati sedimentari stabilendo una gerarchia di ere, periodi ed epoche, marcata
dai punti legati alle estinzioni di massa, alle differenziazioni di specie e ai
cambiamenti improvvisi nella chimica dell’atmosfera.
In geologia come in biologia o
in storia, la periodizzazione è un’arte controversa. La più acuta polemica in
seno alla scienza britannica del 19° secolo fu la «grande controversia del
devoniano» combattuta a proposito di interpretazioni concorrenti di rocce
gallesi familiari e di calcare rosso inglese. Più di recente, gli studiosi di stratigrafia
si sono battuti a proposito della maniera di notare stratigraficamente le
oscillazioni delle glaciazioni nel corso degli ultimi due milioni e
ottocentomila anni. Alcuni non hanno mai accettato che l’intervallo
interglaciale temperato più recente, l’olocene, fosse distinto come un’epoca a
parte intera per il solo fatto di comprendere tutta la storia delle civiltà.
Per conseguenza, gli scienziati
contemporanei di stratigrafia hanno fissato dei criteri particolarmente
rigorosi per la consacrazione di ogni nuova suddivisione geologica. Nonostante
il fatto che l’idea di «antropocene» - epoca definita dall’emergenza della
società urbana industriale come forza geologica - sia stata dibattuta da lunga
data, gli stratigrafi hanno finora rifiutato di ammettere le prove del suo
avvenimento. Questa posizione, però, è stata abbandonata almeno dalla London Society.
Alla domanda «Viviamo noi ora
nell’antropocene ?», i 21 membri della sua commissione hanno unanimemente
risposto SÌ. Essi invocano delle solide
prove per dire che l’epoca dell’olocene - intervallo interglaciale dal clima
particolarmente stabile che ha permesso l’evoluzione della civiltà agricola e
urbana - è finito e che la Terra
è entrata in «un intervallo stratigrafico senza precedenti comparabili nel corso
degli ultimi milioni di anni». Oltre all’accumulazione del gas a effetto serra,
gli studiosi di stratigrafia evocano la trasformazione umana dei paesaggi che «supera
ormai sensibilmente la produzione sedimentaria naturale», così come
l’inquietante acidificazione degli oceani e la distruzione implacabile del
vivente.
Questa nuova era, spiegano, è definita
simultaneamente dalla tendenza al riscaldamento (la cui analogia più vicina è
forse quella con la catastrofe conosciuta sotto il nome di massimo termico del
Paleocene Eocene di 56 milioni di anni fa) e dall’instabilità radicale degli
ambienti futuri che è possible attendersi. Con una prosa molto cupa, avvertono
che «la combinazione di estinzioni, migrazioni globali di specie e sostituzione
su grande scala della vegetazione naturale con monoculture agricole sta
producendo una tipologia biostratigrafica contemporanea distinta. Questi
effetti sono permanenti per il fatto che l’evoluzione futura avrà luogo a
partire da ceppi sopravvissuti (frequentemente rilocalizzati dall’uomo)».
L’evoluzione stessa, in altri termini, è stata costretta ad adottare una nuova
traiettoria.
Verso una «decarbonizzazione» spontanea
La consacrazione dell’antropocene da parte
della commissione coincide con la controversia scientifica crescente a
proposito del quarto rapporto di valutazione pubblicato l’anno scorso dal GIEC
(Gruppo di esperti governativi sull’evoluzione del clima). Il GIEC ha il
mandato di stabilire le basi scientifiche comuni per gli sforzi internazionali
d’attenuazione del riscaldamento climatico globale ma alcuni dei più eminenti
ricercatori e ricercatrici in questo settore contestano oggi gli scenari di
riferimento, considerandoli esageratamente ottimisti se non equivalenti alla
credenza in Babbo Natale.
Gli scenari attuali sono stati adottati dal
GIEC nel 2000 per modellizzare le emissioni globali sulla base di diverse
ipotesi riguardanti la crescita demografica oltre che lo sviluppo tecnico ed
economico. Alcuni degli scenari principali del GIEC sono ben conosciuti dai
decisionisti della politica e dai militanti impegnati sul tema del clima, ma
pochi tra gli estranei alla comunità di ricerca ne hanno davvero capito i
dettagli; in particolare la fiducia del GIEC nel fatto che una più grande
efficacia energetica sarebbe un sottoprodotto «automatico» dello sviluppo
economico futuro. In effetti tutti gli scenari, inclusa la variante del «business as usual»,
postulano una riduzione di almeno il 60% delle emissioni di carbonio
indipendentemente dalle misure volontarie.
Nei fatti, il GIEC punta tutto
- nel caso specifico il nostro pianeta - su una progressione non pianificata,
dettata dal mercato, in direzione di un’economia mondiale post carbonio, una
transizione che esige implicitamente che la ricchezza generata dal prezzo in
aumento dell’energia si ritrovi in fin dei conti investita in nuove tecnologie
ed energie rinnovabili (L’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) ha
recentemente stimato che si dovrebbero spendere 45 miliardi di dollari per
diminuire di metà le emissioni di gas a effetto serra di qui al 2050). Gli
accordi tipo Kioto e i mercati del carbonio sono dunque concepiti - quasi in
analogia con un meccanismo keinesiano «d’innesco della pompa» - per creare un
ponte tra la decarbonizzazione spontanea attesa e gli obiettivi di riduzione
delle emissioni richiesti da ciascuno degli scenarii. Opportunamente, ciò
reduce I costi di attenuazione del riscaldamento globale a livelli allineati al
politicamente possibile, almeno teoricamente, come l’espone il rapporto
britannico Stern del 2006 e altri rapporti analoghi.
L’estrazione di carbone conosce
in particolare una recrudescenza drammatica al punto che il diciannovesimo
secolo sta ossessionando il ventunesimo. Centinaia di migliaia di minatori
lavorano oggi in condizioni che avrebbero orripilato Charles Dickens, per
estrarre il minerale bruto che permette alla Cina d’inaugurare ogni settimana
due nuove centrali elettriche a carbone. Nel frattempo si prevede un aumento
del 55% del consumo totale del combustibile fossile per la prossima
generazione, con un raddoppio del volume delle esportazioni di petrolio.
Il programma delle Nazioni Unite
per lo sviluppo (PNUD) ha realizzato un suo studio sugli obiettivi energetici
«sostenibili» e avverte che ci vorrà «una riduzione del 50% delle emissioni di
gas a effetto serra su scala mondiale in rapporto al livello del 1990» per
evitare che l’umanità entri nella zona rossa di un imballamento del
riscaldamento climatico (abitualmente valutato nell’aumento di più di due gradi
nell’arco di un secolo). Tuttavia, l’Agenzia internazionale per l’energia
predice che, con tutta probabilità, queste emissioni aumenteranno, di fatto,
del 100% nel corso di questo periodo, con una densità di gas a effetto serra
sufficiente a farci oltrepassare parecchi punti critici.
Nello stesso momento in cui
l’aumento del prezzo dell’energia prepara l’estinzione dei SUV e attira un
maggior capitale-rischio verso le energie rinnovabili, si apre anche il vaso di
Pandora della produzione d’idrocarburi a partire dalle sabbie incatramate
canadesi e dal petrolio ultrapesante venezuelano. Ora, come ci avverte uno scienziato
britannico, la cosa meno auspicabile è l’apertura di nuove frontiere in materia
di capacità di produzione di idrocarburi che sotto l’etichetta ingannatrice
dell’«indipendenza energetica» aumentano la «capacità dell’umanità di accelerare
il riscaldamentro globale» e ritardano la transizione urgente verso «dei cicli
energetici senza carbone o a ciclo di carbone bloccato».
Un boom di fine del mondo
Quale fiducia possiamo avere
nella capacità dei mercati di indirizzare gli investimenti verso le nuove forme
d’energia o, per esempio, di passare dalla produzione di armi a un’agricoltura
durevole?
Siamo sottoposti a una
propaganda incessante, in particolare televisiva, sul modo in cui le
multinazionali come Chevron, Pfizer o Archer Daniel Midlands lavorano duro per
salvare il pianeta reinvestendo dei profitti in ricerche ed esplorazioni che ci
forniscono combustibili a bassa emissione di carbonio, nuovi vaccini e raccolte
più resistenti alla siccità.
Il boom recente dei
biocarburanti ha però dimostrato in maniera desolante, deviando 100 milioni di
tonnellate di grano dall’alimentazione umana essenzialmente verso i motori di
automobili americane, che i biocarburanti possono risultare un eufemismo per la
sovvenzione dei ricchi e la carestia dei poveri. Così come «il carbone pulito»,
tanto vigorosamente sostenuto dal senatore Barack Obama (che appoggia anche la
produzione di etanolo), è oggi un’immensa fumisteria, una campagna di lobbying
e di pubblicità a 40 milioni di dollari in favore di una tecnologia ipotetica
che Business Week ha giudicato essere
distante «decenni da una qualsiasi praticabilità commerciale».
Ci sono poi dei segni
inquietanti che indicano come le compagnie energetiche stiano facendo marcia indietro
sui loro impegni pubblici in materia di sviluppo di tecnologie alternative e di
cattura del carbonio. Il progetto pilota dell’amministrazione Bush in
proposito, FutureGen, è stato abbandonato quest’anno dopo che l’industria del
carbone ha rifiutato di pagare la sua parte del «partenariato pubblico/privato».
Ugualmente, la maggior parte dei progetti di «sequestro del carbonio» del
settore privato sono stati di recente annullati. Nel frattempo, in Gran
Bretagna, Shell si è appena ritirato dal più importante progetto mondiale di
generazione a base di eoliche, il London Array. Nonostante i livelli eroici di
sforzi… pubblicitari, le multinazionali dell’energia, così come le compagnie
farmaceutiche, preferiscono continuare a fare profitti immediati a danno del
bene comune, lasciando che le tasse anziché i profitti paghino per qualche
ricerca intrapresa, indispensabile da troppo tempo.
D’altro lato, il bottino ricavato
dai prezzi elevati dell’energia continua a riversarsi nei beni immobili, nei
grattacieli e nel capitale finanziario. Che ci troviamo o no al sommo del picco
di Hubbert - il picco del petrolio -, che la bolla dei prezzi del settore petrolifero
esploda o no, siamo comunque probabilmente i testimoni del più importante
trasferimento di ricchezze della storia moderna.
Un eminente oracolo di Wall Street,
il McKinsey Global Institute, predice che se il prezzo del barile del petrolio
resta al di sopra dei cento dollari - allorché sfiora oggi i 140 dollari - i
soli sei Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo incasseranno «dei
rientri cumulativi imprevisti di circa 9000 miliardi di dollari da qui al 2020».
Come negli anni settanta, l’Arabia saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui
PIL totale è quasi raddoppiato in tre anni, sono quasi sommersi di liquidità,
all’altezza di 2400 miliardi di dollari nelle banche e nei fondi
d’investimento, secondo una stima recente di The Economist.
Indipendentemente dalla
tendenza dei prezzi, l’Agenzia internazionale per l’energia predice che « una
quantità sempre maggiore di petrolio arriverà da un numero sempre più ristretto
di paesi, in primo luogo dai membri medio-orientali dell’OPEP».
Dubaï, che ha pochi introiti
petroliferi propri, è diventato il centro finanziario regionale per questo
vasto ammasso di ricchezze, con l’ambizione, a termine, di fare concorrenza a Wall
Street e alla City di Londra. Durante il primo choc petrolifero degli anni
settanta, una buona parte del surplus dell’OPEP è stato riciclato in acquisti
militari negl Stati Uniti e in Europa, oppure parcheggiato in banche straniere
per essere trasformato in prestiti «subprimes» che hanno devastato in seguito
l’America Latina. Dopo l’11 settembre, gli Stati del Golfo sono diventati molto
più prudenti sul fatto di affidare i loro averi a paesi come gli Stati Uniti
diretti da fanatici religiosi. Stavolta utilizzano dei «fondi sovrani» allo
scopo di trasformare le sabbie d’Arabia in città iperboliche, in paradisi
commerciali e in isole private per rockstar britanniche e gangster russi.
Due anni fa, allorché i prezzi
del petrolio erano a meno della metà del livello attuale, il Financial Times stimava che le nuove
costruzioni previste in Arabia saudita e negli Emirati superavano già un valore
di 1000 miliardi di dollari. Oggi questa cifra dev’essere più vicina ai 1500
miliardi di dollari, superiore di molto al livello totale annuale del commercio
mondiale di prodotti agricoli. La maggior parte delle Città-Stato del Golfo
costruiscono degli allucinanti centri urbani e tra loro Dubaï è la superstar
incontestata. In meno di dieci anni vi sono stati eretti più di 500 grattacieli
e vi si affittano oggi più di un quarto delle gru di alta altitudine esistenti al
mondo.
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Dubai Skyline |
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Questo turbo-boom del Golfo,
dove l’architetto vedette Rem Koolhaas pretende di star «riconfigurando il
mondo», ha portato i promotori di Dubaï a proclamare l’avvenimento di uno «stile
di vita supremo» rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yachts
di classe J. Non è dunque sorprendente che gli Emirati Arabi Uniti e i loro
vicini abbiano la più forte impronta ecologica pro capite del pianeta. Nel
frattempo, i proprietari legittimi della ricchezza petrolifera araba, le masse
ammucchiate nelle bidonville di Bagdad, del Cairo, di Amman e di Karthoum, non
ne approfittano per niente al di là di qualche impiego petrolifero e di scuole
coraniche sovvenzionate dai Sauditi. Mentre gli ospiti delle camere a 5000
dollari per notte del Burj Al-Arab, il celebre hotel di Dubaï a forma di
automobile, ne approfittano, le operaie e gli operai del Cairo partecipano a
sommosse contro il prezzo inabbordabile del pane.
Possono i mercati affrancare i
poveri?
Gli ottimisti in materia di
emissioni sorrideranno di queste immagini cupe ed evocheranno il miracolo a
venire di un commercio dei diritti d’emissione di carbonio. Dimenticano che la
possibilità di un tale mercato emerge, in effetti, come previsto, ma non potrà produrre
che dei miglioramenti infimi nel bilancio globale delle emissioni finché non ci
sarà un meccanismo reale per imporre una vera riduzione netta dell’uso dei
combustibili fossili.
Nelle discussioni correnti a
proposito del commercio dei diritti d’emissione si è sovente vittime
d’illusioni. Per esempio il ricco enclave petrolifero di Abu Dhabi (che come
Dubaï è uno dei partner degli Emirati Arabi Uniti) si vanta di aver piantato
più di 130 milioni di alberi, ognuno dei quali assolve al compito di assorbire
del CO2 nell’atmosfera. Questa foresta artificiale nel deserto, però, consuma
anche per la sua irrigazione enormi quantità d’acqua, prodotte o riciclate
grazie a costose fabbriche di dissalamento d’acqua di mare. Questi alberi
permettono dunque, forse, allo sceicco Ahmed ben Zayed di coprirsi di
un’aureola al momento di conferenze internazionali, ma la realtà cruda è che
sono solo una semplice cosmesi ad alto consumo energetico, come molti degli effetti
prodotti dal preteso «capitalismo verde».
Già che ci siamo, poniamo noi
la questione: e se l’acquisto e la vendita di diritti d’inquinamento e di
crediti al carbonio non riducesse il termostato? Che cosa motiverebbe dunque
governi e industrie globalizzate a ingaggiare una crociata per ridurre le
emissioni tramite regolamenti e tasse?
La diplomazia climatica stile
Kioto presuppone che tutti gli attori principali, una volta accettata la
scienza dei rapporti del GIEC, scopriranno un interesse comune nel controllare
il derapage dell’effetto serra. Tuttavia, il riscaldamento climatico non è la
guerra dei mondi, dove gli invasori marziani mirano all’annichilimento
dell’umanità tutta intera. La mutazione climatica, al contrario, produrrà, per
cominciare, degli effetti drammaticamente ineguali su regioni diverse e classi
sociali. Rinforzerà le diseguaglianze e i conflitti geopolitici anziché
diminuirli.
Come ha sottolineato il
rapporto del PNUD dell’anno scorso, il riscaldamento globale è innanzitutto una
minaccia per i poveri e per le generazioni future, «due settori poco provvisti
di peso politico». Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone un
accesso rivoluzionario al potere da parte loro (scenario non preso neppure in
considerazione dal GIEC), oppure una trasmutazione della difesa dei loro
interessi particolari da parte dei paesi e delle classi più ricche attraverso
una «solidarietà» illuminata senza precedenti nella storia. Nella prospettiva
di attori razionali, quest’ultima ipotesi non può sembrare realista se non nel
caso che i gruppi privilegiati non avessero altra via d’uscita preferibile, che
un’opinione publica internazionalista potesse condurre la politica nei paesi
chiave e che l’attenuazione delle emissioni di gas a effetto serra potesse essere
ottenuta senza sacrifici maggiori per il livello di vita dello strato superiore
dei paesi del Nord. Tutte ipotesi altamente improbabili…
E se le turbolenze ambientali e
sociali crescenti, anziché galvanizzare un’innovazione e una cooperazione
internazionale eroiche conducessero semplicemente l’élite verso dei tentativi
ancora più frenetici di staccarsi dal resto dell’umanità? In un tale scenario
inesplorato, l’attenuazione globale dell’effetto serra sarebbe tacitamente
abbandonata (come in parte già lo è stata) a vantaggio d’investimenti
accelerati in vista di un adattamento selettivo profittevole per i passeggeri
di prima classe del nostro pianeta. Parliamo qui della possibilità di creare
dietro dei muri delle oasi verdi, piccole isole privatizzate di benessere su un
pianeta altrove sinistrato.
Certo, ci sarebbero ancora e
sempre dei trattati, dei crediti d’emissione, dei soccorsi urgenti contro le
carestie, tutto un circo umanitario e forse la conversione integrale di qualche
città o di qualche piccolo Stato europeo alle energie alternative. Tuttavia, il
passaggio a modi di vita a tasso basso o zero di emissioni avrebbe un costo
difficilmente immaginabile. (In Gran Bretagna ci vogliono oggi 20.000 dollari
in più per costruire un solo eco-focolare di livello 6 a emissione zero di carbonio,
in rapporto a una casa standard nella stessa regione).
Il che diventerà forse ancor
più inimmaginabile intorno al 2030, quando gli impatti convergenti del
cambiamento climatico, del picco petrolifero, del picco dell’acqua e di un
miliardo e mezzo in più di abitanti del pianeta cominceranno a strangolare
seriamente la crescita.
Il debito ecologico del Nord
La vera questione è di sapere
se i paesi ricchi mobilizzeranno mai la volontà politica e le risorse
economiche necessarie per raggiungere gli obiettivi del GIEC, o per aiutare i
paesi più poveri ad adattarsi alla quota di riscaldamento inevitabile già
innescato e che ci viene dalla lenta circolazione degli oceani del mondo.
Per essere più incisivi: rinunceranno
gli elettorati dei paesi ricchi ai loro pregiudizi e ai «muri», alle frontiere
dei loro Stati per ammettere i rifugiati degli epicentri predestinati della
siccità e della desertificazione come il Maghreb, il Messico, l’Etiopia e il
Pakistan? Saranno d’accordo gli Stati Uniti - i più avari nel montante pro
capite di aiuto internazionale - a tassarsi per aiutare il reinserimento di
milioni di persone che saranno probabilmente scacciati dall’inondazione di
megadelta densamente popolati come il Bangladesh?
Gli ottimisti del mercato
evocheranno allora, ancora una volta, i programmi di compensazione delle
emissioni di carbonio come il Clean Development Mechanism, da cui s’attendono
che conduca a un flusso di capitale verde in direzione del Terzo Mondo.
Tuttavia, la gran parte del cosiddetto Terzo Mondo preferirebbe che il Primo
Mondo riconoscesse il disastro ambientale da lui creato e assumesse la
responsabilità della decontaminazione. A ragione, il Terzo Mondo protesta
contro il fatto che, all’epoca dell’antropocene, il carico più pesante
dell’aggiustamento incomba su quelli che hanno contribuito di meno alle
emissioni di carbonio e hanno approfittato meno di 200 anni
d’industrializzazione.
In uno studio chiarificante
recentemente pubblicato negli annali dell’Accademia nazionale delle scienze
(USA), una squadra di ricercatori ha tentato di calcolare il costo ambientale
della globalizzazione economica a partire dal 1961, esprimendolo in termini di
deforestazione, di cambiamento climatico, di mancato rispetto delle quote di
pesca, di distruzione dello strato di ozono, di conversione delle mangrovie e
di espansione agricola. Dopo aver preso in conto degli aggiustamenti per
ripercuotere i carichi dei costi relativi, sono arrivati alla conclusione che i
paesi ricchi, a causa delle loro attività, avevano generato il 42% delle
degradazioni ambientali del mondo non assumendone che il 3% dei costi.
I radicali del Sud metteranno
anche in luce, a giusto titolo, un altro debito. Da trent’anni le città dei
paesi in via di sviluppo sono cresciute a vista d’occhio senza investimenti
equivalenti nei servizi d’infrastruttura, nell’alloggio o nella salute publica.
In gran parte ciò è il risultato di debiti stranieri contratti da dittatori, di
pagamenti forzati dettati dall’FMI e di settori pubblici annientati dai
programmi di «aggiustamento strutturale» della Banca mondiale.
Questo deficit globale di
opportunità e di giustizia sociale è riflesso dal fatto che più di un miliardo
di persone, secondo le cifre dell’ONU relative all’alloggio, vive oggi in
tuguri mentre si prevede il raddoppio del loro numero di qui al 2030. Un numero
equivalente se non maggiore cerca la sussistenza nel settore cosiddetto informale
(un eufemismo del Primo Mondo per indicare la disoccupazione di massa). Nel
frattempo, la semplice inerzia demografica farà crescere la popolazione urbana
mondiale di 3 miliardi d’individui nel corso dei prossimi 40 anni (il 90% dei
quali in città povere) e assolutamente nessuno ha la minima idea di come un
pianeta di bidonville e di tuguri, in crisi energetica e alimentare crescente,
s’accontenterà della semplice sopravvivenza biologica, meno ancora delle
aspirazioni inevitabili alla dignità e alla felicità elementari.
Se tutto ciò sembra
indebitamente apocalittico, considerate che la maggior parte dei modelli
climatologici anticipano degli impatti che rinforzeranno singolarmente la
presente geografia delle diseguaglianze. Uno dei pionieri dell’analisi
dell’economia del riscaldamento climatico, William R. Cline, ha pubblicato di
recente uno studio, paese per paese, sugli effetti probabili del cambiamento
climatico sull’agricoltura degli ultimi decenni del secolo in corso. Anche
nelle simulazioni più ottimiste, i sistemi agricoli del Pakistan (con una
riduzione del 20% della sua produzione) e del Nord-Est dell’India (con una
riduzione del 30%) saranno probabilmente devastati, così come quelli di una
buona parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura del Sahel, del Sud dell’Africa,
dei Caraibi e del Messico. 29 paesi in via di sviluppo perderanno il 20% o più
della loro produzione agricola attuale a causa del riscaldamento climatico,
mentre le agricolture dei paesi già ricchi del Nord conosceranno probabilmente
un’espansione media dell’8%.
Alla luce di tali studi,
l’attuale concorrenza implacabile tra i mercati dell’energia e degli alimenti,
amplificata dalla speculazione internazionale sulle materie prime e sulla terra
agricola, non è che una modesta prefigurazione del caos che potrebbe presto
essere generato in modo esponenziale dalla convergenza dell’esaurimento delle
risorse, delle disuguaglianze senza rimedio e dal cambiamento climatico. Il
vero pericolo è che la stessa solidarietà umana, come il piano di ghiaccio
dell’Ovest dell’Antartico, si fratturi improvvisamente, sbriciolandosi in mille
pezzi.
Mike Davis