sabato 27 ottobre 2012

PERCHÈ UNA DECRESCITA PIACEVOLE NELL’ABBANDONO DEL CAPITALISMO È IL SOLO PROGRESSO POSSIBILE





Aggiungendovi soltanto la deduzione che ho usato per titolo, vi ho tradotto il testo che segue, originariamente in inglese, perché mi è parso di una chiarezza esemplare.

Sergio Ghirardi



Benvenuto l’Antropocene

Addio all’Olocene. È la fine di un mondo, quello nel quale abbiamo vissuto durante gli ultimi 12.000 anni anche se nessun giornale d’America del nord o d’Europa ha ancora pubblicato la sua necrologia scientifica.
Nello scorso mese di febbraio, mentre il cantiere del grattacielo Burj Dubai, ben presto due volte più alto dell’Empire State Building, si arricchiva di un centoquarantunesimo piano, la commissione stratigrafica della Geological Society of London, aggiungeva da parte sua un nuovo piano all’edificio degli strati geologici.
Fondata nel 1807, la London Society è la più antica società competente consacrata alle scienze della Terra e la sua commissione agisce come un’alta autorità in materia di definizione dei parametri dei tempi geologici. Gli esperti in stratigrafia sezionano la storia della Terra preservata negli strati sedimentari stabilendo una gerarchia di ere, periodi ed epoche, marcata dai punti legati alle estinzioni di massa, alle differenziazioni di specie e ai cambiamenti improvvisi nella chimica dell’atmosfera.
In geologia come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte controversa. La più acuta polemica in seno alla scienza britannica del 19° secolo fu la «grande controversia del devoniano» combattuta a proposito di interpretazioni concorrenti di rocce gallesi familiari e di calcare rosso inglese. Più di recente, gli studiosi di stratigrafia si sono battuti a proposito della maniera di notare stratigraficamente le oscillazioni delle glaciazioni nel corso degli ultimi due milioni e ottocentomila anni. Alcuni non hanno mai accettato che l’intervallo interglaciale temperato più recente, l’olocene, fosse distinto come un’epoca a parte intera per il solo fatto di comprendere tutta la storia delle civiltà.
Per conseguenza, gli scienziati contemporanei di stratigrafia hanno fissato dei criteri particolarmente rigorosi per la consacrazione di ogni nuova suddivisione geologica. Nonostante il fatto che l’idea di «antropocene» - epoca definita dall’emergenza della società urbana industriale come forza geologica - sia stata dibattuta da lunga data, gli stratigrafi hanno finora rifiutato di ammettere le prove del suo avvenimento. Questa posizione, però, è stata abbandonata almeno dalla London Society.
Alla domanda «Viviamo noi ora nell’antropocene ?», i 21 membri della sua commissione hanno unanimemente risposto SÌ. Essi invocano delle solide prove per dire che l’epoca dell’olocene - intervallo interglaciale dal clima particolarmente stabile che ha permesso l’evoluzione della civiltà agricola e urbana - è finito e che la Terra è entrata in «un intervallo stratigrafico senza precedenti comparabili nel corso degli ultimi milioni di anni». Oltre all’accumulazione del gas a effetto serra, gli studiosi di stratigrafia evocano la trasformazione umana dei paesaggi che «supera ormai sensibilmente la produzione sedimentaria naturale», così come l’inquietante acidificazione degli oceani e la distruzione implacabile del vivente.
Questa nuova era, spiegano, è definita simultaneamente dalla tendenza al riscaldamento (la cui analogia più vicina è forse quella con la catastrofe conosciuta sotto il nome di massimo termico del Paleocene Eocene di 56 milioni di anni fa) e dall’instabilità radicale degli ambienti futuri che è possible attendersi. Con una prosa molto cupa, avvertono che «la combinazione di estinzioni, migrazioni globali di specie e sostituzione su grande scala della vegetazione naturale con monoculture agricole sta producendo una tipologia biostratigrafica contemporanea distinta. Questi effetti sono permanenti per il fatto che l’evoluzione futura avrà luogo a partire da ceppi sopravvissuti (frequentemente rilocalizzati dall’uomo)». L’evoluzione stessa, in altri termini, è stata costretta ad adottare una nuova traiettoria.

Verso una «decarbonizzazione» spontanea
La consacrazione dell’antropocene da parte della commissione coincide con la controversia scientifica crescente a proposito del quarto rapporto di valutazione pubblicato l’anno scorso dal GIEC (Gruppo di esperti governativi sull’evoluzione del clima). Il GIEC ha il mandato di stabilire le basi scientifiche comuni per gli sforzi internazionali d’attenuazione del riscaldamento climatico globale ma alcuni dei più eminenti ricercatori e ricercatrici in questo settore contestano oggi gli scenari di riferimento, considerandoli esageratamente ottimisti se non equivalenti alla credenza in Babbo Natale.
Gli scenari attuali sono stati adottati dal GIEC nel 2000 per modellizzare le emissioni globali sulla base di diverse ipotesi riguardanti la crescita demografica oltre che lo sviluppo tecnico ed economico. Alcuni degli scenari principali del GIEC sono ben conosciuti dai decisionisti della politica e dai militanti impegnati sul tema del clima, ma pochi tra gli estranei alla comunità di ricerca ne hanno davvero capito i dettagli; in particolare la fiducia del GIEC nel fatto che una più grande efficacia energetica sarebbe un sottoprodotto «automatico» dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, inclusa la variante del «business as usual», postulano una riduzione di almeno il 60% delle emissioni di carbonio indipendentemente dalle misure volontarie.
Nei fatti, il GIEC punta tutto - nel caso specifico il nostro pianeta - su una progressione non pianificata, dettata dal mercato, in direzione di un’economia mondiale post carbonio, una transizione che esige implicitamente che la ricchezza generata dal prezzo in aumento dell’energia si ritrovi in fin dei conti investita in nuove tecnologie ed energie rinnovabili (L’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) ha recentemente stimato che si dovrebbero spendere 45 miliardi di dollari per diminuire di metà le emissioni di gas a effetto serra di qui al 2050). Gli accordi tipo Kioto e i mercati del carbonio sono dunque concepiti - quasi in analogia con un meccanismo keinesiano «d’innesco della pompa» - per creare un ponte tra la decarbonizzazione spontanea attesa e gli obiettivi di riduzione delle emissioni richiesti da ciascuno degli scenarii. Opportunamente, ciò reduce I costi di attenuazione del riscaldamento globale a livelli allineati al politicamente possibile, almeno teoricamente, come l’espone il rapporto britannico Stern del 2006 e altri rapporti analoghi.
L’estrazione di carbone conosce in particolare una recrudescenza drammatica al punto che il diciannovesimo secolo sta ossessionando il ventunesimo. Centinaia di migliaia di minatori lavorano oggi in condizioni che avrebbero orripilato Charles Dickens, per estrarre il minerale bruto che permette alla Cina d’inaugurare ogni settimana due nuove centrali elettriche a carbone. Nel frattempo si prevede un aumento del 55% del consumo totale del combustibile fossile per la prossima generazione, con un raddoppio del volume delle esportazioni di petrolio.
Il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (PNUD) ha realizzato un suo studio sugli obiettivi energetici «sostenibili» e avverte che ci vorrà «una riduzione del 50% delle emissioni di gas a effetto serra su scala mondiale in rapporto al livello del 1990» per evitare che l’umanità entri nella zona rossa di un imballamento del riscaldamento climatico (abitualmente valutato nell’aumento di più di due gradi nell’arco di un secolo). Tuttavia, l’Agenzia internazionale per l’energia predice che, con tutta probabilità, queste emissioni aumenteranno, di fatto, del 100% nel corso di questo periodo, con una densità di gas a effetto serra sufficiente a farci oltrepassare parecchi punti critici.
Nello stesso momento in cui l’aumento del prezzo dell’energia prepara l’estinzione dei SUV e attira un maggior capitale-rischio verso le energie rinnovabili, si apre anche il vaso di Pandora della produzione d’idrocarburi a partire dalle sabbie incatramate canadesi e dal petrolio ultrapesante venezuelano. Ora, come ci avverte uno scienziato britannico, la cosa meno auspicabile è l’apertura di nuove frontiere in materia di capacità di produzione di idrocarburi che sotto l’etichetta ingannatrice dell’«indipendenza energetica» aumentano la «capacità dell’umanità di accelerare il riscaldamentro globale» e ritardano la transizione urgente verso «dei cicli energetici senza carbone o a ciclo di carbone bloccato».

Un boom di fine del mondo
Quale fiducia possiamo avere nella capacità dei mercati di indirizzare gli investimenti verso le nuove forme d’energia o, per esempio, di passare dalla produzione di armi a un’agricoltura durevole?
Siamo sottoposti a una propaganda incessante, in particolare televisiva, sul modo in cui le multinazionali come Chevron, Pfizer o Archer Daniel Midlands lavorano duro per salvare il pianeta reinvestendo dei profitti in ricerche ed esplorazioni che ci forniscono combustibili a bassa emissione di carbonio, nuovi vaccini e raccolte più resistenti alla siccità.
Il boom recente dei biocarburanti ha però dimostrato in maniera desolante, deviando 100 milioni di tonnellate di grano dall’alimentazione umana essenzialmente verso i motori di automobili americane, che i biocarburanti possono risultare un eufemismo per la sovvenzione dei ricchi e la carestia dei poveri. Così come «il carbone pulito», tanto vigorosamente sostenuto dal senatore Barack Obama (che appoggia anche la produzione di etanolo), è oggi un’immensa fumisteria, una campagna di lobbying e di pubblicità a 40 milioni di dollari in favore di una tecnologia ipotetica che Business Week ha giudicato essere distante «decenni da una qualsiasi praticabilità commerciale».
Ci sono poi dei segni inquietanti che indicano come le compagnie energetiche stiano facendo marcia indietro sui loro impegni pubblici in materia di sviluppo di tecnologie alternative e di cattura del carbonio. Il progetto pilota dell’amministrazione Bush in proposito, FutureGen, è stato abbandonato quest’anno dopo che l’industria del carbone ha rifiutato di pagare la sua parte del «partenariato pubblico/privato». Ugualmente, la maggior parte dei progetti di «sequestro del carbonio» del settore privato sono stati di recente annullati. Nel frattempo, in Gran Bretagna, Shell si è appena ritirato dal più importante progetto mondiale di generazione a base di eoliche, il London Array. Nonostante i livelli eroici di sforzi… pubblicitari, le multinazionali dell’energia, così come le compagnie farmaceutiche, preferiscono continuare a fare profitti immediati a danno del bene comune, lasciando che le tasse anziché i profitti paghino per qualche ricerca intrapresa, indispensabile da troppo tempo.
D’altro lato, il bottino ricavato dai prezzi elevati dell’energia continua a riversarsi nei beni immobili, nei grattacieli e nel capitale finanziario. Che ci troviamo o no al sommo del picco di Hubbert - il picco del petrolio -, che la bolla dei prezzi del settore petrolifero esploda o no, siamo comunque probabilmente i testimoni del più importante trasferimento di ricchezze della storia moderna.
Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, predice che se il prezzo del barile del petrolio resta al di sopra dei cento dollari - allorché sfiora oggi i 140 dollari - i soli sei Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo incasseranno «dei rientri cumulativi imprevisti di circa 9000 miliardi di dollari da qui al 2020». Come negli anni settanta, l’Arabia saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui PIL totale è quasi raddoppiato in tre anni, sono quasi sommersi di liquidità, all’altezza di 2400 miliardi di dollari nelle banche e nei fondi d’investimento, secondo una stima recente di The Economist.
Indipendentemente dalla tendenza dei prezzi, l’Agenzia internazionale per l’energia predice che « una quantità sempre maggiore di petrolio arriverà da un numero sempre più ristretto di paesi, in primo luogo dai membri medio-orientali dell’OPEP».
Dubaï, che ha pochi introiti petroliferi propri, è diventato il centro finanziario regionale per questo vasto ammasso di ricchezze, con l’ambizione, a termine, di fare concorrenza a Wall Street e alla City di Londra. Durante il primo choc petrolifero degli anni settanta, una buona parte del surplus dell’OPEP è stato riciclato in acquisti militari negl Stati Uniti e in Europa, oppure parcheggiato in banche straniere per essere trasformato in prestiti «subprimes» che hanno devastato in seguito l’America Latina. Dopo l’11 settembre, gli Stati del Golfo sono diventati molto più prudenti sul fatto di affidare i loro averi a paesi come gli Stati Uniti diretti da fanatici religiosi. Stavolta utilizzano dei «fondi sovrani» allo scopo di trasformare le sabbie d’Arabia in città iperboliche, in paradisi commerciali e in isole private per rockstar britanniche e gangster russi.
Due anni fa, allorché i prezzi del petrolio erano a meno della metà del livello attuale, il Financial Times stimava che le nuove costruzioni previste in Arabia saudita e negli Emirati superavano già un valore di 1000 miliardi di dollari. Oggi questa cifra dev’essere più vicina ai 1500 miliardi di dollari, superiore di molto al livello totale annuale del commercio mondiale di prodotti agricoli. La maggior parte delle Città-Stato del Golfo costruiscono degli allucinanti centri urbani e tra loro Dubaï è la superstar incontestata. In meno di dieci anni vi sono stati eretti più di 500 grattacieli e vi si affittano oggi più di un quarto delle gru di alta altitudine esistenti al mondo.
Dubai Skyline

Questo turbo-boom del Golfo, dove l’architetto vedette Rem Koolhaas pretende di star «riconfigurando il mondo», ha portato i promotori di Dubaï a proclamare l’avvenimento di uno «stile di vita supremo» rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yachts di classe J. Non è dunque sorprendente che gli Emirati Arabi Uniti e i loro vicini abbiano la più forte impronta ecologica pro capite del pianeta. Nel frattempo, i proprietari legittimi della ricchezza petrolifera araba, le masse ammucchiate nelle bidonville di Bagdad, del Cairo, di Amman e di Karthoum, non ne approfittano per niente al di là di qualche impiego petrolifero e di scuole coraniche sovvenzionate dai Sauditi. Mentre gli ospiti delle camere a 5000 dollari per notte del Burj Al-Arab, il celebre hotel di Dubaï a forma di automobile, ne approfittano, le operaie e gli operai del Cairo partecipano a sommosse contro il prezzo inabbordabile del pane.

Possono i mercati affrancare i poveri?
Gli ottimisti in materia di emissioni sorrideranno di queste immagini cupe ed evocheranno il miracolo a venire di un commercio dei diritti d’emissione di carbonio. Dimenticano che la possibilità di un tale mercato emerge, in effetti, come previsto, ma non potrà produrre che dei miglioramenti infimi nel bilancio globale delle emissioni finché non ci sarà un meccanismo reale per imporre una vera riduzione netta dell’uso dei combustibili fossili.
Nelle discussioni correnti a proposito del commercio dei diritti d’emissione si è sovente vittime d’illusioni. Per esempio il ricco enclave petrolifero di Abu Dhabi (che come Dubaï è uno dei partner degli Emirati Arabi Uniti) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi, ognuno dei quali assolve al compito di assorbire del CO2 nell’atmosfera. Questa foresta artificiale nel deserto, però, consuma anche per la sua irrigazione enormi quantità d’acqua, prodotte o riciclate grazie a costose fabbriche di dissalamento d’acqua di mare. Questi alberi permettono dunque, forse, allo sceicco Ahmed ben Zayed di coprirsi di un’aureola al momento di conferenze internazionali, ma la realtà cruda è che sono solo una semplice cosmesi ad alto consumo energetico, come molti degli effetti prodotti dal preteso «capitalismo verde».
Già che ci siamo, poniamo noi la questione: e se l’acquisto e la vendita di diritti d’inquinamento e di crediti al carbonio non riducesse il termostato? Che cosa motiverebbe dunque governi e industrie globalizzate a ingaggiare una crociata per ridurre le emissioni tramite regolamenti e tasse?

La diplomazia climatica stile Kioto presuppone che tutti gli attori principali, una volta accettata la scienza dei rapporti del GIEC, scopriranno un interesse comune nel controllare il derapage dell’effetto serra. Tuttavia, il riscaldamento climatico non è la guerra dei mondi, dove gli invasori marziani mirano all’annichilimento dell’umanità tutta intera. La mutazione climatica, al contrario, produrrà, per cominciare, degli effetti drammaticamente ineguali su regioni diverse e classi sociali. Rinforzerà le diseguaglianze e i conflitti geopolitici anziché diminuirli.
Come ha sottolineato il rapporto del PNUD dell’anno scorso, il riscaldamento globale è innanzitutto una minaccia per i poveri e per le generazioni future, «due settori poco provvisti di peso politico». Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone un accesso rivoluzionario al potere da parte loro (scenario non preso neppure in considerazione dal GIEC), oppure una trasmutazione della difesa dei loro interessi particolari da parte dei paesi e delle classi più ricche attraverso una «solidarietà» illuminata senza precedenti nella storia. Nella prospettiva di attori razionali, quest’ultima ipotesi non può sembrare realista se non nel caso che i gruppi privilegiati non avessero altra via d’uscita preferibile, che un’opinione publica internazionalista potesse condurre la politica nei paesi chiave e che l’attenuazione delle emissioni di gas a effetto serra potesse essere ottenuta senza sacrifici maggiori per il livello di vita dello strato superiore dei paesi del Nord. Tutte ipotesi altamente improbabili…
E se le turbolenze ambientali e sociali crescenti, anziché galvanizzare un’innovazione e una cooperazione internazionale eroiche conducessero semplicemente l’élite verso dei tentativi ancora più frenetici di staccarsi dal resto dell’umanità? In un tale scenario inesplorato, l’attenuazione globale dell’effetto serra sarebbe tacitamente abbandonata (come in parte già lo è stata) a vantaggio d’investimenti accelerati in vista di un adattamento selettivo profittevole per i passeggeri di prima classe del nostro pianeta. Parliamo qui della possibilità di creare dietro dei muri delle oasi verdi, piccole isole privatizzate di benessere su un pianeta altrove sinistrato.
Certo, ci sarebbero ancora e sempre dei trattati, dei crediti d’emissione, dei soccorsi urgenti contro le carestie, tutto un circo umanitario e forse la conversione integrale di qualche città o di qualche piccolo Stato europeo alle energie alternative. Tuttavia, il passaggio a modi di vita a tasso basso o zero di emissioni avrebbe un costo difficilmente immaginabile. (In Gran Bretagna ci vogliono oggi 20.000 dollari in più per costruire un solo eco-focolare di livello 6 a emissione zero di carbonio, in rapporto a una casa standard nella stessa regione).
Il che diventerà forse ancor più inimmaginabile intorno al 2030, quando gli impatti convergenti del cambiamento climatico, del picco petrolifero, del picco dell’acqua e di un miliardo e mezzo in più di abitanti del pianeta cominceranno a strangolare seriamente la crescita.

Il debito ecologico del Nord
La vera questione è di sapere se i paesi ricchi mobilizzeranno mai la volontà politica e le risorse economiche necessarie per raggiungere gli obiettivi del GIEC, o per aiutare i paesi più poveri ad adattarsi alla quota di riscaldamento inevitabile già innescato e che ci viene dalla lenta circolazione degli oceani del mondo.
Per essere più incisivi: rinunceranno gli elettorati dei paesi ricchi ai loro pregiudizi e ai «muri», alle frontiere dei loro Stati per ammettere i rifugiati degli epicentri predestinati della siccità e della desertificazione come il Maghreb, il Messico, l’Etiopia e il Pakistan? Saranno d’accordo gli Stati Uniti - i più avari nel montante pro capite di aiuto internazionale - a tassarsi per aiutare il reinserimento di milioni di persone che saranno probabilmente scacciati dall’inondazione di megadelta densamente popolati come il Bangladesh?
Gli ottimisti del mercato evocheranno allora, ancora una volta, i programmi di compensazione delle emissioni di carbonio come il Clean Development Mechanism, da cui s’attendono che conduca a un flusso di capitale verde in direzione del Terzo Mondo. Tuttavia, la gran parte del cosiddetto Terzo Mondo preferirebbe che il Primo Mondo riconoscesse il disastro ambientale da lui creato e assumesse la responsabilità della decontaminazione. A ragione, il Terzo Mondo protesta contro il fatto che, all’epoca dell’antropocene, il carico più pesante dell’aggiustamento incomba su quelli che hanno contribuito di meno alle emissioni di carbonio e hanno approfittato meno di 200 anni d’industrializzazione.
In uno studio chiarificante recentemente pubblicato negli annali dell’Accademia nazionale delle scienze (USA), una squadra di ricercatori ha tentato di calcolare il costo ambientale della globalizzazione economica a partire dal 1961, esprimendolo in termini di deforestazione, di cambiamento climatico, di mancato rispetto delle quote di pesca, di distruzione dello strato di ozono, di conversione delle mangrovie e di espansione agricola. Dopo aver preso in conto degli aggiustamenti per ripercuotere i carichi dei costi relativi, sono arrivati alla conclusione che i paesi ricchi, a causa delle loro attività, avevano generato il 42% delle degradazioni ambientali del mondo non assumendone che il 3% dei costi.
I radicali del Sud metteranno anche in luce, a giusto titolo, un altro debito. Da trent’anni le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute a vista d’occhio senza investimenti equivalenti nei servizi d’infrastruttura, nell’alloggio o nella salute publica. In gran parte ciò è il risultato di debiti stranieri contratti da dittatori, di pagamenti forzati dettati dall’FMI e di settori pubblici annientati dai programmi di «aggiustamento strutturale» della Banca mondiale.
Questo deficit globale di opportunità e di giustizia sociale è riflesso dal fatto che più di un miliardo di persone, secondo le cifre dell’ONU relative all’alloggio, vive oggi in tuguri mentre si prevede il raddoppio del loro numero di qui al 2030. Un numero equivalente se non maggiore cerca la sussistenza nel settore cosiddetto informale (un eufemismo del Primo Mondo per indicare la disoccupazione di massa). Nel frattempo, la semplice inerzia demografica farà crescere la popolazione urbana mondiale di 3 miliardi d’individui nel corso dei prossimi 40 anni (il 90% dei quali in città povere) e assolutamente nessuno ha la minima idea di come un pianeta di bidonville e di tuguri, in crisi energetica e alimentare crescente, s’accontenterà della semplice sopravvivenza biologica, meno ancora delle aspirazioni inevitabili alla dignità e alla felicità elementari.

Se tutto ciò sembra indebitamente apocalittico, considerate che la maggior parte dei modelli climatologici anticipano degli impatti che rinforzeranno singolarmente la presente geografia delle diseguaglianze. Uno dei pionieri dell’analisi dell’economia del riscaldamento climatico, William R. Cline, ha pubblicato di recente uno studio, paese per paese, sugli effetti probabili del cambiamento climatico sull’agricoltura degli ultimi decenni del secolo in corso. Anche nelle simulazioni più ottimiste, i sistemi agricoli del Pakistan (con una riduzione del 20% della sua produzione) e del Nord-Est dell’India (con una riduzione del 30%) saranno probabilmente devastati, così come quelli di una buona parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura del Sahel, del Sud dell’Africa, dei Caraibi e del Messico. 29 paesi in via di sviluppo perderanno il 20% o più della loro produzione agricola attuale a causa del riscaldamento climatico, mentre le agricolture dei paesi già ricchi del Nord conosceranno probabilmente un’espansione media dell’8%.


Alla luce di tali studi, l’attuale concorrenza implacabile tra i mercati dell’energia e degli alimenti, amplificata dalla speculazione internazionale sulle materie prime e sulla terra agricola, non è che una modesta prefigurazione del caos che potrebbe presto essere generato in modo esponenziale dalla convergenza dell’esaurimento delle risorse, delle disuguaglianze senza rimedio e dal cambiamento climatico. Il vero pericolo è che la stessa solidarietà umana, come il piano di ghiaccio dell’Ovest dell’Antartico, si fratturi improvvisamente, sbriciolandosi in mille pezzi.
Mike Davis
Source : revue www.solidarités.ch (traducteur en français, Pierre Vanek)