Nei falansteri Fourier sognava dei dibattiti intorno alle preparazioni alimentari |
Lettera
ai compagni del MOC *
(che potrebbe
interessare anche la resistenza in Italia)
* IL MOC è in Francia il Movimento degli Obiettori
di Crescita.
Cari compagni del MOC,
Ho appena ricevuto il libro collettivo
sull’ANTIPRODUTTIVISMO (L’Antiproductivisme,
un defi pour la gauche?, Parangon, Lyon 2013) al quale ho partecipato.
Condividiamo, dunque, con tutta
evidenza, dei punti comuni essenziali nella lotta per l’emancipazione. Di
questo infatti si tratta e non di riformare la società dominante, ancor meno di
continuare nel progresso diventato ormai il progresso dell’orrore.
A questo fine, tuttavia, mi sembrano
importanti da rilevare le differenze ben più che le identità. Provo a farlo
qui, con l’auspicio di poter approfondire insieme i punti reciprocamente
riconosciuti come cruciali.
Io sono un figlio dell’antifascismo.
Mio padre - l’ho già raccontato altrove - mi ha cullato con i canti partigiani
che furono la colonna sonora della sua giovinezza di antifascista militante
(quando in Italia essere antifascisti significava rischiare la pelle e non un
punto a favore in un curriculum vitae),
poi quella dei miei primi biberon. Ho dunque, da sempre “fischiato con il vento e con la tempesta che faceva marciare i
partigiani verso il sole dell’avvenire, nonostante le scarpe rotte”.
Come dunque essere antifascisti senza
essere di sinistra? In Italia è stato possibile (e pure in Francia, come ho
potuto verificare attraverso dialoghi appassionati e gentilmente conflittuali
con il nonno francese di mio figlio, vecchio capo della resistenza gaullista in
Normandia) ma non è stato il caso di mio padre e di conseguenza nemmeno il mio.
Fortunatamente, la coscienza radicale
del maggio ’68 è arrivata a rendere un po’ più complesso e lungimirante il
posizionamento politico dei compagni che hanno corso abbastanza - all’epoca, ma
anche in seguito - per lasciare il nemico (burocrati di sinistra e liberali di
destra, poi burocrati-liberali sempre più corrotti di ogni bordo) lontano
dietro di loro.
Perché “la sinistra” concepita concettualmente
dalla rivoluzione borghese del 1789, porta in sé da sempre un’enorme ambiguità
di cui Jean-Claude Michéa, nonostante il suo moralismo socialista per me
insufficiente e ingannevole, ci dà, nei suoi scritti, un quadro abbastanza
chiarificante.
Direi, dunque, come un’autocritica,
che l’antifascismo al quale sono sempre affezionato (senza mai dimenticare,
però, l’antica frase dialetticamente provocatrice del comunista Bordiga: “L’antifascismo è il peggior prodotto del
fascismo”) è tutto quel che mi resta di un’appartenenza che ha dimostrato
per un secolo che l’emancipazione meritava di meglio che un’ideologia
largamente opportunista: “la sinistra”.
Il mio antifascismo supera le
discriminazioni politiche senza dimenticarle, ma anche senza riconoscere loro
le differenze radicali di cui si ammantano.
Resto vigilante, tengo in linea di
mira tutte le manifestazioni della peste emozionale di cui il fascismo politico
è una spazzatura redditizia per il capitalismo. E lo sottolineo soprattutto
oggi, quando il rumore degli stivali del militarismo, il razzismo, la
xenofobia, la violenza e l’assassinio ideologico al quotidiano tornano alla
luce in una società dello spettacolo messa in scena come una mostruosa
pacificazione fallita del ghetto produttivistico planetario.
Semmai il capitalismo lo vorrà, la
sinistra socialdemocratica rischia di recitare il ruolo di un Chamberlain
risuscitato, ma il rischio concreto di una regressione mortifera non fa che
accentuare l’urgenza di una radicalità senza ambiguità né estremismi.
Oggi, gli obiettori di crescita sono a
un bivio (un po’ come il M5s in Italia,
ndt): o essi integrano il cambio di rotta radicale che attende dal ’68 la sua
realizzazione storica o regrediscono come l’ennesimo partito zombi verso la
gestione della miseria politica legata al parlamentarismo. Tipo ecologisti o
rifondatori nostalgici dell’ideologia comunista, per non fare nomi.
Questo nodo gordiano tra servitù
volontaria, riformista o estremista che sia, e superamento radicale del
capitalismo da parte di una secessione pacifica, è perfettamente chiaro agli
strateghi del potere che veicolano, tramite i media, un bizzarro amalgama
perverso, mischiando sempre l’aggettivo radicale a ogni sorta di estremismo
imbecille.
Così come non può esserci decrescita
senza una critica radicale del capitalismo, non può esistere emancipazione
senza un’emancipazione dai ritardi, dagli errori e dai tradimenti storici del
movimento sociale rivoluzionario da parte delle sue pretese avanguardie.
Mi sono ritrovato, nel libro sull’Antiproduttivismo
che s’interroga su una sfida per la sinistra, a poche pagine di distanza da
Jean-Luc Mélenchon, figura carismatica del Front
de Gauche francese, che ho recentemente inteso parlare del Tibet come un
austriaco del XIX secolo avrebbe potuto parlare del Lombardo-veneto.
La modernità cinese piuttosto che
l’oscurantismo dei Lama tibetani (oscurantismo storicamente verificabile, in
effetti, ma molto antico, poiché oggi la loro religione senza dio sembra molto
meno fanatica delle mostruose imposture monoteiste delle nostre contrade)
risuona come un alibi equivalente alla giustificazione - figlia di una moda
stalinista ante litteram - del
diritto coloniale austriaco su Milano e Venezia a causa dell’oscurantismo della
chiesa Apostolica e Romana, erede dell’inquisizione.
Se questa è la sinistra, noi dove
siamo? Basta dunque non essere di destra? Pongo la questione alla quale la
storia non mancherà di rispondere.
Tocca
agli obiettori di crescita provare di essere di sinistra o non è piuttosto la
gente di sinistra - la sinistra di base, senza potere politico, onesta,
umanista e in buona fede - che deve diventare partigiana della decrescita
economica liberandosi della sua arteriosclerosi burocratica e produttivistica?
Questo superamento dell’ideologia -
giustificazione opportunista dell’esistente sempre stupidamente binaria nelle
sue conclusioni pragmatiche - potrebbe arricchire il movimento sociale con la
radicalità dimenticata di una coscienza di classe (quella di Marx, Goerter,
Pannekoek, Rosa Luxembourg, estranei alla volontà di potenza dei tristi epigoni
marxisti-leninisti, bolscevichi che hanno virato al fascismo rosso), ricordando
agli obiettori di crescita, in caso di oblio, che il progetto di emancipazione
passa per la decrescita, certo, ma non è nemmeno sfiorato dall’idea di ridursi
a essa, giacché il suo obiettivo è la felicità e l’abbondanza condivisa,
giocando, con intelligenza e sensibilità, tra sobrietà puntuale ed eccessi
gioiosi.
Perché - da una filiazione all’altra,
ma stavolta per libera scelta - noi vogliamo essere i figli di Fourier e non di
uno statalismo rinnovato che nasconda dietro la semplicità volontaria un’ultima
forma di servitù autogestita.
Con sincera amicizia,
Sergio Ghirardi
juin192013
Je
viens de recevoir le livre collectif sur l’Antiproductivisme auquel
j’ai participé.
On partage donc, en toute évidence, des points communs essentiels
dans la lutte pour l’émancipation. Car il est question de cela, non pas de
reformer la société dominante, encore moins de poursuivre le progrès devenu
désormais le progrès de l’horreur.
Dans ce but, toutefois, ce sont les
différences au-delà des identités qui me semblent importantes à remarquer. Et
je le fais ici, dans l’espoir de pouvoir creuser ensemble les points
réciproquement reconnus comme cruciaux.
Je suis
un fils de l’antifascisme. Mon père – je l’ai déjà raconté ailleurs – m’a bercé
des chants partisans qui furent la musique de sa jeunesse d’antifasciste
militant (quand, en Italie, être antifasciste voulait dire risquer sa peau et
non pas un bon point dans un curriculum vitae) puis celle de mes premiers biberons.
J’ai donc, depuis toujours, « sifflé avec le vent et la
tempête qui faisait marcher les résistants vers le soleil de l’avenir, malgré
leurs chaussures drôlement abîmés » (Fischia
il vento –siffle le vent –
c’est une autre Bella Ciao, beaucoup
moins connue en France).
Comment être donc antifascistes et ne pas être de gauche ? En
Italie, cela fut possible (et en France aussi, comme j’ai bien pu le vérifier
par des longs dialogues passionnés et gentiment conflictuels avec le grand père
français de mon fils, ancien chef résistant gaulliste en Normandie), mais ce ne
fut pas le cas de mon père ni le mien ensuite.
Heureusement, la conscience radicale de mai ‘68 est venue rendre
un peu plus complexe et clairvoyant le positionnement politique des camarades
qui ont assez couru – à l’époque, mais ensuite aussi – pour laisser l’ennemi
(bureaucrates de gauche et libéraux de droite, puis bureaucrates-libéraux de
tous bords et de plus en plus corrompus) loin derrière eux.
Car « la gauche », engendrée comme concept par la
révolution bourgeoise, porte en soi, depuis toujours, une énorme ambiguïté dont
J.-C. Michea, malgré son moralisme socialiste pour moi insuffisant et trompeur,
nous donne dans ses œuvres un assez éclairant tableau.
Je dirais
donc, en guise d’autocritique, que l’antifascisme auquel je suis toujours
attaché (sans jamais oublier, néanmoins, l’ancienne phrase dialectiquement
provocatrice du communiste Amadeo Bordiga : « l’antifascisme est le pire produit du fascisme »)
est tout ce qui me reste d’une appartenance qui a montré, pendant un siècle,
que l’émancipation méritait mieux qu’une idéologie largement opportuniste :
« la gauche ».
Mon antifascisme dépasse les clivages politiques sans les oublier,
mais sans leur reconnaître non plus les différences radicales dont ils
s’affublent.
Je reste vigilant, je tiens en ligne de mire toutes les
manifestations de la peste émotionnelle dont le fascisme politique est une
poubelle rentable pour le capitalisme. Je le souligne surtout aujourd’hui,
quand les bruits des bottes, le racisme, la xénophobie, la violence et le
meurtre idéologique au quotidien reviennent à la surface d’une société du
spectacle mise en scène comme une monstrueuse pacification ratée du ghetto
productiviste planétaire.
Si le capitalisme le veut, la gauche social-démocrate risque de
jouer le rôle d’un Chamberlain d’aujourd’hui, mais le risque concret d’une régression
meurtrière ne fait qu’accentuer les urgences d’une radicalité sans ambiguïté ni
extrémismes.
Aujourd’hui les décroissants sont à un carrefour : ou ils
intègrent le changement de cap radical que depuis ’68 attend sa réalisation
historique, ou ils régressent comme l’énième parti zombi dans la gestion de la
misère politique liée au parlementarisme. Genre EELV ou PC, déguisé en tenue
mimétique en Front de Gauche, pour ne pas les nommer.
Ce noeud
gordien entre servitude volontaire (réformiste ou extrémiste qu’elle soit) et
dépassement radical du capitalisme par une sécession pacifique, est bien clair
aux stratèges du pouvoir qui, par le biais des medias, dans un drôle d’amalgame
pervers, ajoutent systématiquement l’adjectif « radical »
à toutes sortes d’extrémismes débiles.
Comme il ne peut pas y avoir décroissance sans critique radicale
du capitalisme, il n’y a pas, non plus, émancipation sans émancipation des
retards, des erreurs et des trahisons historiques du mouvement social par ses
avant-gardes prétendues.
Je me retrouve, dans le livre qui s’interroge sur un défi pour la
gauche, à quelques pages d’un article de Mélenchon que j’ai récemment entendu
parler du Tibet comme un autrichien du dix-neuvième siècle aurait pu parler de
l’Italie de 1848.
La modernité
chinoise plutôt que l’obscurantisme des Lamas tibétains (celui-ci est vrai d’un
point de vue historique, mais très ancien néanmoins, car, aujourd’hui, leur
religion sans dieu semble bien moins fanatique que les monstrueuses impostures
monothéistes de chez nous) est un alibi équivalent à la justification, par une
mode stalinienne ante litteram, du droit colonial autrichien sur Milan
et Venise à cause de l’obscurantisme de l’église catholique Romaine, héritière
de l’Inquisition.
Si c’est ça la gauche, où sommes nous ? Est-il donc suffisant
de ne pas être de droite ? Je pose la question à laquelle l’histoire ne
manquera de répondre.
Est-ce
aux décroissants de prouver qu’ils sont de gauche ou plutôt les gens de
gauche – la gauche de base, sans pouvoir politique, honnête, humaniste et de
bonne foi – qui doivent devenir décroissants en se libérant de leur
artériosclérose bureaucratique et productiviste ?
Ce dépassement de l’idéologie – justification opportuniste de
l’existant toujours bêtement binaire dans ses conclusions pragmatiques –
pourrait enrichir le mouvement social de la radicalité oubliée d’une conscience
de classe (celle de Marx, de Goerter, Pannekoek, Rosa Luxembourg, étrangers à
la volonté de puissance des tristes épigones marxistes-léninistes, bolcheviques
qui ont viré au fascisme rouge) en rappelant aux décroissants, en cas d’oubli,
que le projet d’émancipation passe par la décroissance, bien sur, mais il se
MOC de se réduire à elle car son but est le bonheur et l’abondance partagée,
jonglant, avec intelligence et sensibilité, entre sobriété ponctuelle et excès
joyeux.
Car – d’une filiation à une autre, mais celle-ci librement choisie
– nous voulons être les fils de Fourier et non pas d’un étatisme renouvelé qui
cacherait derrière la simplicité volontaire une dernière forme de servitude
autogérée.
Avec amitié sincère, Sergio Ghirardi