mercoledì 10 luglio 2013

Chers camarades du MOC - Lettera ai compagni del MOC (Movimento degli Obiettori di Crescita)


Nei falansteri Fourier sognava dei dibattiti intorno alle preparazioni alimentari


Lettera ai compagni del MOC *
(che potrebbe interessare anche la resistenza in Italia)

* IL MOC è in Francia il Movimento degli Obiettori di Crescita.

Cari compagni del MOC,

Ho appena ricevuto il libro collettivo sull’ANTIPRODUTTIVISMO (L’Antiproductivisme, un defi pour la gauche?, Parangon, Lyon 2013) al quale ho partecipato.
Condividiamo, dunque, con tutta evidenza, dei punti comuni essenziali nella lotta per l’emancipazione. Di questo infatti si tratta e non di riformare la società dominante, ancor meno di continuare nel progresso diventato ormai il progresso dell’orrore.
A questo fine, tuttavia, mi sembrano importanti da rilevare le differenze ben più che le identità. Provo a farlo qui, con l’auspicio di poter approfondire insieme i punti reciprocamente riconosciuti come cruciali.
Io sono un figlio dell’antifascismo. Mio padre - l’ho già raccontato altrove - mi ha cullato con i canti partigiani che furono la colonna sonora della sua giovinezza di antifascista militante (quando in Italia essere antifascisti significava rischiare la pelle e non un punto a favore in un curriculum vitae), poi quella dei miei primi biberon. Ho dunque, da sempre “fischiato con il vento e con la tempesta che faceva marciare i partigiani verso il sole dell’avvenire, nonostante le scarpe rotte”.

Come dunque essere antifascisti senza essere di sinistra? In Italia è stato possibile (e pure in Francia, come ho potuto verificare attraverso dialoghi appassionati e gentilmente conflittuali con il nonno francese di mio figlio, vecchio capo della resistenza gaullista in Normandia) ma non è stato il caso di mio padre e di conseguenza nemmeno il mio.
Fortunatamente, la coscienza radicale del maggio ’68 è arrivata a rendere un po’ più complesso e lungimirante il posizionamento politico dei compagni che hanno corso abbastanza - all’epoca, ma anche in seguito - per lasciare il nemico (burocrati di sinistra e liberali di destra, poi burocrati-liberali sempre più corrotti di ogni bordo) lontano dietro di loro.
Perché “la sinistra” concepita concettualmente dalla rivoluzione borghese del 1789, porta in sé da sempre un’enorme ambiguità di cui Jean-Claude Michéa, nonostante il suo moralismo socialista per me insufficiente e ingannevole, ci dà, nei suoi scritti, un quadro abbastanza chiarificante.
Direi, dunque, come un’autocritica, che l’antifascismo al quale sono sempre affezionato (senza mai dimenticare, però, l’antica frase dialetticamente provocatrice del comunista Bordiga: “L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo”) è tutto quel che mi resta di un’appartenenza che ha dimostrato per un secolo che l’emancipazione meritava di meglio che un’ideologia largamente opportunista: “la sinistra”.
Il mio antifascismo supera le discriminazioni politiche senza dimenticarle, ma anche senza riconoscere loro le differenze radicali di cui si ammantano.
Resto vigilante, tengo in linea di mira tutte le manifestazioni della peste emozionale di cui il fascismo politico è una spazzatura redditizia per il capitalismo. E lo sottolineo soprattutto oggi, quando il rumore degli stivali del militarismo, il razzismo, la xenofobia, la violenza e l’assassinio ideologico al quotidiano tornano alla luce in una società dello spettacolo messa in scena come una mostruosa pacificazione fallita del ghetto produttivistico planetario.

Semmai il capitalismo lo vorrà, la sinistra socialdemocratica rischia di recitare il ruolo di un Chamberlain risuscitato, ma il rischio concreto di una regressione mortifera non fa che accentuare l’urgenza di una radicalità senza ambiguità né estremismi.
Oggi, gli obiettori di crescita sono a un bivio (un po’ come il M5s in Italia, ndt): o essi integrano il cambio di rotta radicale che attende dal ’68 la sua realizzazione storica o regrediscono come l’ennesimo partito zombi verso la gestione della miseria politica legata al parlamentarismo. Tipo ecologisti o rifondatori nostalgici dell’ideologia comunista, per non fare nomi.
Questo nodo gordiano tra servitù volontaria, riformista o estremista che sia, e superamento radicale del capitalismo da parte di una secessione pacifica, è perfettamente chiaro agli strateghi del potere che veicolano, tramite i media, un bizzarro amalgama perverso, mischiando sempre l’aggettivo radicale a ogni sorta di estremismo imbecille.

Così come non può esserci decrescita senza una critica radicale del capitalismo, non può esistere emancipazione senza un’emancipazione dai ritardi, dagli errori e dai tradimenti storici del movimento sociale rivoluzionario da parte delle sue pretese avanguardie.
Mi sono ritrovato, nel libro sull’Antiproduttivismo che s’interroga su una sfida per la sinistra, a poche pagine di distanza da Jean-Luc Mélenchon, figura carismatica del Front de Gauche francese, che ho recentemente inteso parlare del Tibet come un austriaco del XIX secolo avrebbe potuto parlare del Lombardo-veneto.
La modernità cinese piuttosto che l’oscurantismo dei Lama tibetani (oscurantismo storicamente verificabile, in effetti, ma molto antico, poiché oggi la loro religione senza dio sembra molto meno fanatica delle mostruose imposture monoteiste delle nostre contrade) risuona come un alibi equivalente alla giustificazione - figlia di una moda stalinista ante litteram - del diritto coloniale austriaco su Milano e Venezia a causa dell’oscurantismo della chiesa Apostolica e Romana, erede dell’inquisizione.

Se questa è la sinistra, noi dove siamo? Basta dunque non essere di destra? Pongo la questione alla quale la storia non mancherà di rispondere.

Tocca agli obiettori di crescita provare di essere di sinistra o non è piuttosto la gente di sinistra - la sinistra di base, senza potere politico, onesta, umanista e in buona fede - che deve diventare partigiana della decrescita economica liberandosi della sua arteriosclerosi burocratica e produttivistica?
Questo superamento dell’ideologia - giustificazione opportunista dell’esistente sempre stupidamente binaria nelle sue conclusioni pragmatiche - potrebbe arricchire il movimento sociale con la radicalità dimenticata di una coscienza di classe (quella di Marx, Goerter, Pannekoek, Rosa Luxembourg, estranei alla volontà di potenza dei tristi epigoni marxisti-leninisti, bolscevichi che hanno virato al fascismo rosso), ricordando agli obiettori di crescita, in caso di oblio, che il progetto di emancipazione passa per la decrescita, certo, ma non è nemmeno sfiorato dall’idea di ridursi a essa, giacché il suo obiettivo è la felicità e l’abbondanza condivisa, giocando, con intelligenza e sensibilità, tra sobrietà puntuale ed eccessi gioiosi.
Perché - da una filiazione all’altra, ma stavolta per libera scelta - noi vogliamo essere i figli di Fourier e non di uno statalismo rinnovato che nasconda dietro la semplicità volontaria un’ultima forma di servitù autogestita.

Con sincera amicizia,

Sergio Ghirardi



juin192013

Je viens de recevoir le livre collectif sur l’Antiproductivisme auquel j’ai participé.
On partage donc, en toute évidence, des points communs essentiels dans la lutte pour l’émancipation. Car il est question de cela, non pas de reformer la société dominante, encore moins de poursuivre le progrès devenu désormais le progrès de l’horreur.
Dans ce but, toutefois, ce sont les différences au-delà des identités qui me semblent importantes à remarquer. Et je le fais ici, dans l’espoir de pouvoir creuser ensemble les points réciproquement reconnus comme cruciaux.
Je suis un fils de l’antifascisme. Mon père – je l’ai déjà raconté ailleurs – m’a bercé des chants partisans qui furent la musique de sa jeunesse d’antifasciste militant (quand, en Italie, être antifasciste voulait dire risquer sa peau et non pas un bon point dans un curriculum vitae) puis celle de mes premiers biberons. J’ai donc, depuis toujours, « sifflé avec le vent et la tempête qui faisait marcher les résistants vers le soleil de l’avenir, malgré leurs chaussures drôlement abîmés » (Fischia il vento siffle le vent – c’est une autre Bella Ciao,  beaucoup moins connue en France).

Comment être donc antifascistes et ne pas être de gauche ? En Italie, cela fut possible (et en France aussi, comme j’ai bien pu le vérifier par des longs dialogues passionnés et gentiment conflictuels avec le grand père français de mon fils, ancien chef résistant gaulliste en Normandie), mais ce ne fut pas le cas de mon père ni le mien ensuite.
Heureusement, la conscience radicale de mai ‘68 est venue rendre un peu plus complexe et clairvoyant le positionnement politique des camarades qui ont assez couru – à l’époque, mais ensuite aussi – pour laisser l’ennemi (bureaucrates de gauche et libéraux de droite, puis bureaucrates-libéraux de tous bords et de plus en plus corrompus) loin derrière eux.
Car « la gauche », engendrée comme concept par la révolution bourgeoise, porte en soi, depuis toujours, une énorme ambiguïté dont J.-C. Michea, malgré son moralisme socialiste pour moi insuffisant et trompeur, nous donne dans ses œuvres un assez éclairant tableau.
Je dirais donc, en guise d’autocritique, que l’antifascisme auquel je suis toujours attaché (sans jamais oublier, néanmoins, l’ancienne phrase dialectiquement provocatrice du communiste Amadeo Bordiga : « l’antifascisme est le pire produit du fascisme ») est tout ce qui me reste d’une appartenance qui a montré, pendant un siècle, que l’émancipation méritait mieux qu’une idéologie largement  opportuniste : « la gauche ».
Mon antifascisme dépasse les clivages politiques sans les oublier, mais sans leur reconnaître non plus les différences radicales dont ils s’affublent.
Je reste vigilant, je tiens en ligne de mire toutes les manifestations de la peste émotionnelle dont le fascisme politique est une poubelle rentable pour le capitalisme. Je le souligne surtout aujourd’hui, quand les bruits des bottes, le racisme, la xénophobie, la violence et le meurtre idéologique au quotidien reviennent à la surface d’une société du spectacle mise en scène comme une monstrueuse pacification ratée du ghetto productiviste planétaire.
Si le capitalisme le veut, la gauche social-démocrate risque de jouer le rôle d’un Chamberlain d’aujourd’hui, mais le risque concret d’une régression meurtrière ne fait qu’accentuer les urgences d’une radicalité sans ambiguïté ni extrémismes.
Aujourd’hui les décroissants sont à un carrefour : ou ils intègrent le changement de cap radical que depuis ’68 attend sa réalisation historique, ou ils régressent comme l’énième parti zombi dans la gestion de la misère politique liée au parlementarisme. Genre EELV ou PC, déguisé en tenue mimétique en Front de Gauche, pour ne pas les nommer.
Ce noeud gordien entre servitude volontaire (réformiste ou extrémiste qu’elle soit) et dépassement radical du capitalisme par une sécession pacifique, est bien clair aux stratèges du pouvoir qui, par le biais des medias, dans un drôle d’amalgame pervers, ajoutent systématiquement l’adjectif « radical » à toutes sortes d’extrémismes débiles.
Comme il ne peut pas y avoir décroissance sans critique radicale du capitalisme, il n’y a pas, non plus, émancipation sans émancipation des retards, des erreurs et des trahisons historiques du mouvement social par ses avant-gardes prétendues.
Je me retrouve, dans le livre qui s’interroge sur un défi pour la gauche, à quelques pages d’un article de Mélenchon que j’ai récemment entendu parler du Tibet comme un autrichien du dix-neuvième siècle aurait pu parler de l’Italie de 1848.
La modernité chinoise plutôt que l’obscurantisme des Lamas tibétains (celui-ci est vrai d’un point de vue historique, mais très ancien néanmoins, car, aujourd’hui, leur religion sans dieu semble bien moins fanatique que les monstrueuses impostures monothéistes de chez nous) est un alibi équivalent à la justification, par une mode stalinienne ante litteram, du droit colonial autrichien sur Milan et Venise à cause de l’obscurantisme de l’église catholique Romaine, héritière de l’Inquisition.
Si c’est ça la gauche, où sommes nous ? Est-il donc suffisant de ne pas être de droite ? Je pose la question à laquelle l’histoire ne manquera de répondre.
Est-ce aux décroissants de prouver qu’ils sont de gauche ou  plutôt les gens de gauche – la gauche de base, sans pouvoir politique, honnête, humaniste et de bonne foi – qui doivent devenir décroissants en se libérant de leur artériosclérose bureaucratique et productiviste ?
Ce dépassement de l’idéologie – justification opportuniste de l’existant toujours bêtement binaire dans ses conclusions pragmatiques – pourrait enrichir le mouvement social de la radicalité oubliée d’une conscience de classe (celle de Marx, de Goerter, Pannekoek, Rosa Luxembourg, étrangers à la volonté de puissance des tristes épigones marxistes-léninistes, bolcheviques qui ont viré au fascisme rouge) en rappelant aux décroissants, en cas d’oubli, que le projet d’émancipation passe par la décroissance, bien sur, mais il se MOC de se réduire à elle car son but est le bonheur et l’abondance partagée, jonglant, avec intelligence et sensibilité, entre sobriété ponctuelle et excès joyeux.
Car – d’une filiation à une autre, mais celle-ci librement choisie – nous voulons être les fils de Fourier et non pas d’un étatisme renouvelé qui cacherait derrière la simplicité volontaire une dernière forme de servitude autogérée.

                                                                                              Avec amitié sincère, Sergio Ghirardi