Dea Madre (Sardegna, 3500 a.c) |
In
quest’estate di incontri e dibattiti più o meno riusciti ho seguito in
particolare quello aperto in Francia all’interno del Movimento degli Obiettori
di Crescita (MOC) che discutendo sull’opportunità o meno di un controllo delle
nascite ha formulato più in generale, quasi in filigrana, la questione politica
di una gestione della società includente o escludente uno Stato, per quanto
altro nelle intenzioni, capace di realizzare l’ipotesi della decrescita, sia
essa demografica e/o economica.
Sono
brevemente intervenuto con questa lettera che vi ho tradotto qui sotto in
italiano. Il suo interesse mi pare provenire dal sempiterno e imbarazzante conflitto
sul ruolo delle avanguardie e della coscienza portata dall’esterno tanto cara
alla sinistra marxista-leninista e mai definitivamente sepolta da troppi
militanti.
Non
ci vuol molto per finire a chiedersi il classico che fare. Come determinare le
sorti di una società avviata all’autodistruzione e alla distruzione dell’umano senza
ricreare le situazioni da cui ci si vorrebbe emancipare?
L’alternativa
tra la presa del potere e il suo superamento mi sembra più che mai d’attualità in
un momento in cui il dominio autonomizzato del sistema dominante, mafioso e
produttivistico, è sempre più diffuso dappertutto ma in forme che non sono mai
state così miserabili, decadenti e nichiliste.
Sergio Ghirardi
A proposito di demografia, democrazia e
demagogia
Trovo
rassicurante che le avanguardie discutano sui problemi importanti mostrando i
limiti e gli arcaismi di quelli che pretendono guardare avanti prima degli
altri.
Bisognerà
ammettere le nostre confusioni per uscire dai binari obbligati di un fare
politica troppo a lungo vicino al business del potere, dell’autovalorizzazione,
dello statuto - sia esso autoproclamato o no – di conduttori d’uomini (e di
donne,di bambini e della natura, of
course).
Bisognerà
forse partire da quel famoso passo di lato così difficile da fare anche quando
ci si pretende libertari.
Di
lato non c’è presa di potere accettabile né narcisismo della coscienza che
possa arrogarsi il diritto (se non il dovere) di dirigere gli altri verso la
felicità programmata, fosse pure decrescente.
Di
lato c’è una prospettiva di organizzazione orizzontale tutta da reinventare, un
progetto di felicità costantemente in costruzione di situazioni che uniscano
l’individuo e il locale al globale e all’aspirazione alla totalità che fa degli
animali sperduti che siamo dei possibili esseri umani, dei creatori, dei
gaudenti emancipati dal feticismo dell’avere e dallo spettacolo del sembrare.
Nella
Lettera aperta ai sopravvissuti
(Nautilus, Torino 2007) notavo che Fourier sognava di un’umanità che crescesse
fino a due miliardi d’individui (non erano allora che 1 miliardo e 300.000) per
realizzare la sua utopia di armonia sociale.
Nello
stesso tempo e all’opposto di un tale ottimismo rivoluzionario, quel vecchio
fascista di Malthus non aveva torto, dal suo punto di vista di pastore
anglicano e per di più economista, di porre la questione del numero. Aveva,
invece totalmente torto a proporre la soluzione autoritaria che tutti i
fascismi, rossi o neri, ripropongono da allora ciclicamente all’ordine del
giorno.
C’è
sempre un’urgenza da far uscire dal cappello del reale per giustificare
l’orribile necessità di una dittatuta illuminata, emancipatrice delle masse
soggiacenti e beote. Che si tratti del numero, della produzione di beni o della
morale, c’è sempre qualche prete la cui voluttà egoista si eccita a programmare
la felicità altrui.
Non
ho alcuna simpatia per le masse, ma ancora meno per i cowboys perché so che non
si diventa mai dei liberi soggetti quando si ha dietro il culo dei maestri. Si diventa ineluttabimente degli schiavi al servizio di una qualche classe
dominante, qualunque sia il clero che offizia: la borghesia affarista del 1789
o la burocrazia statalista del 1917. A chi tocca al prossimo giro?
Io
vi ascolto con la stessa passione con cui voi scrivete e non ho la pretesa di
dar soluzioni con queste mie riflessioni. Voglio soltanto proporre un altro approccio
globale alla questione sociale, con una sensibilità gilanica[1] che
rimetta la decrescita al suo posto - centrale, certamente, nel contesto di un
XXI secolo balbuziente, ma lontana dal rappresentare di per se stessa un
progetto di società - in una dinamica d’emncipazione che mira nientedimeno che
all’armonia relativa di una società festiva, unico sogno ( che comprende tutti
i sogni) capace di smuovere l’essere umano verso la sua umanità possibile.
La
questione demografica, la decrescita, il rifiuto dell’addomesticamento devono
ritrovare il legame radicale con quel progetto globale del buen vivir che l’umanità insegue da sempre spontaneamente, al fine
di attualizzarlo prendendo in conto le caratteristiche della nostra epoca e le
sue tragiche specificità.
Tuttavia,
nessun ricatto fondato sull’urgenza potrà far avanzare più rapidamente il
processo rivoluzionario. Al contrario, lo consegnerà fatalmente al recupero
controrivoluzionario dei nuovi dominanti.
Bisogna
avere il coraggio di preparare il terreno anche se l’onda delo tsunami
capitalista avanza, distruggendo tutto sul suo passaggio.
La
demagogia intrinsecamente legata a ogni presa di potere è il nostro più
terribile nemico interiore, il nostro cavallo di Troia che maschera l’ideologia
in coscienza di classe.
Bisogna
liberarsi RADICALMENTE del pensiero religioso falsamente laico di ogni
avanguardia politica per innescare subito l’azione avanguardista di esploratori
reali di un nuovo mondo possibile. Molti individui sparsi sul pianeta hanno già
cominciato; a noi di allargare sempre di più il buco nel muro che ci separa da
un futuro diverso unendo (da Notre Dame des Lande alla Val di Susa, passando
per la resistenza nella Calcide greca e per la prima di tutte queste
resistenze: gli zapatisti del Chiapas) quest’ultima internazionale informale di
esseri umani refrattari a ogni dio e a ogni signore, a tutti gli sfruttamenti
degli umani, del vivente e della natura.
Agire
locale e pensare globale ci preserva anche dalla tentazione di avere un’unica
soluzione per tutte le situazioni mentre ogni situazione merita la risposta
creativa particolare dei liberi soggetti che la costruiscono e l’abitano.
Nessun
Comitato Centrale, dunque, ma una circolazione delle differenze e della
comunicazione per un aiuto reciproco senza tentennamenti nella lotta necessaria
per l’abrogazione della società produttivistica e del suo modo di produzione
nichilista: il capitalismo.
Ecco,
a parer mio, un primo frutto dimenticato di una democrazia da rifondare.
Con amicizia Sergio Ghirardi
[1]
L’antropologia materialista resta ancora oggi ampiamente da scoprire e da
sviluppare visto che gli scritti più importanti di Marx sul tema (vedi i Grundrisse) hanno visto la luce soltanto
nel 1953 in
tedesco, poi in francese e italiano nel 1968 !
Durante gli anni ’30, sulla
base delle ricerche etnologiche di B. Malinowski, W. Reich aveva esplorato la
questione della comunità umana originaria (L’irruzione
della morale sessuale coercitiva, Sugar Milano 1972) poi in anni più
recenti, l’ipotesi affascinante di una civiltà gilanica (dove le donne erano
libere e i due generi amici) ha portato qualche conferma alle tesi materialiste
di W. Reich. L’eco di una società preistorica pacifica e armoniosa è stata
rinforzata dalle ricerche archeologiche di M. Gimbutas e di R. Eisler (dalla
quale deriva il termine gilanico),
poi dagli studi di J. DeMeo sulle origini e la diffusione del patrismo in
Saharasia.
Il cantiere è dunque, più
che mai, apertissimo e ci riguarda davvero tutti.