venerdì 16 agosto 2013

FERRAGOSTO


Dea Madre (Sardegna, 3500 a.c)

 
In quest’estate di incontri e dibattiti più o meno riusciti ho seguito in particolare quello aperto in Francia all’interno del Movimento degli Obiettori di Crescita (MOC) che discutendo sull’opportunità o meno di un controllo delle nascite ha formulato più in generale, quasi in filigrana, la questione politica di una gestione della società includente o escludente uno Stato, per quanto altro nelle intenzioni, capace di realizzare l’ipotesi della decrescita, sia essa demografica e/o economica.
Sono brevemente intervenuto con questa lettera che vi ho tradotto qui sotto in italiano. Il suo interesse mi pare provenire dal sempiterno e imbarazzante conflitto sul ruolo delle avanguardie e della coscienza portata dall’esterno tanto cara alla sinistra marxista-leninista e mai definitivamente sepolta da troppi militanti.
Non ci vuol molto per finire a chiedersi il classico che fare. Come determinare le sorti di una società avviata all’autodistruzione e alla distruzione dell’umano senza ricreare le situazioni da cui ci si vorrebbe emancipare?
L’alternativa tra la presa del potere e il suo superamento mi sembra più che mai d’attualità in un momento in cui il dominio autonomizzato del sistema dominante, mafioso e produttivistico, è sempre più diffuso dappertutto ma in forme che non sono mai state così miserabili, decadenti e nichiliste.

Sergio Ghirardi


A proposito di demografia, democrazia e demagogia

Trovo rassicurante che le avanguardie discutano sui problemi importanti mostrando i limiti e gli arcaismi di quelli che pretendono guardare avanti prima degli altri.
Bisognerà ammettere le nostre confusioni per uscire dai binari obbligati di un fare politica troppo a lungo vicino al business del potere, dell’autovalorizzazione, dello statuto - sia esso autoproclamato o no – di conduttori d’uomini (e di donne,di bambini e della natura, of course).
Bisognerà forse partire da quel famoso passo di lato così difficile da fare anche quando ci si pretende libertari.
Di lato non c’è presa di potere accettabile né narcisismo della coscienza che possa arrogarsi il diritto (se non il dovere) di dirigere gli altri verso la felicità programmata, fosse pure decrescente.
Di lato c’è una prospettiva di organizzazione orizzontale tutta da reinventare, un progetto di felicità costantemente in costruzione di situazioni che uniscano l’individuo e il locale al globale e all’aspirazione alla totalità che fa degli animali sperduti che siamo dei possibili esseri umani, dei creatori, dei gaudenti emancipati dal feticismo dell’avere e dallo spettacolo del sembrare.
Nella Lettera aperta ai sopravvissuti (Nautilus, Torino 2007) notavo che Fourier sognava di un’umanità che crescesse fino a due miliardi d’individui (non erano allora che 1 miliardo e 300.000) per realizzare la sua utopia di armonia sociale.
Nello stesso tempo e all’opposto di un tale ottimismo rivoluzionario, quel vecchio fascista di Malthus non aveva torto, dal suo punto di vista di pastore anglicano e per di più economista, di porre la questione del numero. Aveva, invece totalmente torto a proporre la soluzione autoritaria che tutti i fascismi, rossi o neri, ripropongono da allora ciclicamente all’ordine del giorno.
C’è sempre un’urgenza da far uscire dal cappello del reale per giustificare l’orribile necessità di una dittatuta illuminata, emancipatrice delle masse soggiacenti e beote. Che si tratti del numero, della produzione di beni o della morale, c’è sempre qualche prete la cui voluttà egoista si eccita a programmare la felicità altrui.
Non ho alcuna simpatia per le masse, ma ancora meno per i cowboys perché so che non si diventa mai dei liberi soggetti quando si ha dietro il culo dei maestri. Si diventa ineluttabimente degli schiavi al servizio di una qualche classe dominante, qualunque sia il clero che offizia: la borghesia affarista del 1789 o la burocrazia statalista del 1917. A chi tocca al prossimo giro?
Io vi ascolto con la stessa passione con cui voi scrivete e non ho la pretesa di dar soluzioni con queste mie riflessioni. Voglio soltanto proporre un altro approccio globale alla questione sociale, con una sensibilità gilanica[1] che rimetta la decrescita al suo posto - centrale, certamente, nel contesto di un XXI secolo balbuziente, ma lontana dal rappresentare di per se stessa un progetto di società - in una dinamica d’emncipazione che mira nientedimeno che all’armonia relativa di una società festiva, unico sogno ( che comprende tutti i sogni) capace di smuovere l’essere umano verso la sua umanità possibile.
La questione demografica, la decrescita, il rifiuto dell’addomesticamento devono ritrovare il legame radicale con quel progetto globale del buen vivir che l’umanità insegue da sempre spontaneamente, al fine di attualizzarlo prendendo in conto le caratteristiche della nostra epoca e le sue tragiche specificità.
Tuttavia, nessun ricatto fondato sull’urgenza potrà far avanzare più rapidamente il processo rivoluzionario. Al contrario, lo consegnerà fatalmente al recupero controrivoluzionario dei nuovi dominanti.
Bisogna avere il coraggio di preparare il terreno anche se l’onda delo tsunami capitalista avanza, distruggendo tutto sul suo passaggio.
La demagogia intrinsecamente legata a ogni presa di potere è il nostro più terribile nemico interiore, il nostro cavallo di Troia che maschera l’ideologia in coscienza di classe.
Bisogna liberarsi RADICALMENTE del pensiero religioso falsamente laico di ogni avanguardia politica per innescare subito l’azione avanguardista di esploratori reali di un nuovo mondo possibile. Molti individui sparsi sul pianeta hanno già cominciato; a noi di allargare sempre di più il buco nel muro che ci separa da un futuro diverso unendo (da Notre Dame des Lande alla Val di Susa, passando per la resistenza nella Calcide greca e per la prima di tutte queste resistenze: gli zapatisti del Chiapas) quest’ultima internazionale informale di esseri umani refrattari a ogni dio e a ogni signore, a tutti gli sfruttamenti degli umani, del vivente e della natura.
Agire locale e pensare globale ci preserva anche dalla tentazione di avere un’unica soluzione per tutte le situazioni mentre ogni situazione merita la risposta creativa particolare dei liberi soggetti che la costruiscono e l’abitano.
Nessun Comitato Centrale, dunque, ma una circolazione delle differenze e della comunicazione per un aiuto reciproco senza tentennamenti nella lotta necessaria per l’abrogazione della società produttivistica e del suo modo di produzione nichilista: il capitalismo.
Ecco, a parer mio, un primo frutto dimenticato di una democrazia da rifondare.

Con amicizia   Sergio Ghirardi



[1] L’antropologia materialista resta ancora oggi ampiamente da scoprire e da sviluppare visto che gli scritti più importanti di Marx sul tema (vedi i Grundrisse) hanno visto la luce soltanto nel 1953 in tedesco, poi in francese e italiano nel 1968 !
Durante gli anni ’30, sulla base delle ricerche etnologiche di B. Malinowski, W. Reich aveva esplorato la questione della comunità umana originaria (L’irruzione della morale sessuale coercitiva, Sugar Milano 1972) poi in anni più recenti, l’ipotesi affascinante di una civiltà gilanica (dove le donne erano libere e i due generi amici) ha portato qualche conferma alle tesi materialiste di W. Reich. L’eco di una società preistorica pacifica e armoniosa è stata rinforzata dalle ricerche archeologiche di M. Gimbutas e di R. Eisler (dalla quale deriva il termine gilanico), poi dagli studi di J. DeMeo sulle origini e la diffusione del patrismo in Saharasia.
Il cantiere è dunque, più che mai, apertissimo e ci riguarda davvero tutti.