Istambul 2013 |
Non sapendo quel che Straram abbia
eventualmente risposto alla lettera di Debord dell’agosto ‘60 (vedi nota in
fondo al testo), provo brevemente a farlo io, a un mezzo secolo di distanza dalla
stesura dei Preliminari e mezz’oretta
dopo aver finito di tradurvi ex novo quell’antico documento.
Il testo che segue, redatto da Daniel
Blanchard e G. Debord al momento di una frequentazione intensa da parte del
situazionista del gruppo Socialisme ou
barbarie (di cui Blanchard/Canjuers faceva allora parte), parla ancora
all’attualità della questione sociale al di là di qualche ruga ideologica
dovuta piuttosto ai resti di schemi culturali politicamente superati che alla
stratificazione successiva del processo di alienazione della società.
Nell’essenziale, quel che i due
compagni d’avventura comune (rapidamente finita, del resto, negli anni seguenti
il testo in questione) evocavano allora come una nuova pista, è oggi
un’evidenza che lo spettacolo non riesce più a nascondere allorché l’auto costruzione
di un altro mondo possibile non è più un’utopia ma una necessità concreta e
urgente cui molti s’industriano sia pur confusamente ai quattro angoli di un
pianeta corroso dall’inquinamento e di una società globale in preda
all’implosione.
Certo, il concetto d’avanguardia è
ormai totalmente recuperato dallo spettacolo, ai tempi della sua versione integrata
comprensiva di tutti i miasmi ideologici, dal liberalismo al totalitarismo.
Certo, il movimento operaio storico non
è più espressione della soggettività agente ai bordi di una rivoluzione sociale
in fieri che riguarda ormai l’umano soffocato dal produttivismo e sfiora tutte
le lande di un capitalismo mondializzato. Un movimento che oscilla tra
indignazione, occupazione del mondo e deriva psicogeografica pressoché
inconscia è ancora troppo confuso per sapere dove affondare il bisturi della
storia, tra vomiti religiosi e singulti di laica radicalità.
Eppure, rileggendo oggi questi
preliminari, sento più che mai un’attualità che mi ha spinto a sollecitarne la
lettura nel contesto attuale.
In un’Italia putrefatta dei cadaveri
della politica separata che continuano a occupare la scena di uno spettacolo
morboso, la luce di un testo di esseri vivi e desideranti in una vita reale e
senza spaventapasseri ideologici, affiora come una forza capace di spazzar via le
rovine che si accumulano.
La decomposizione percettibile del
capitalismo nichilista invita ormai la gente comune ancora viva ad abbandonare
il Titanic e a passare all’autocostruzione. Così l’essenza radicale di questo
discorso di un altro secolo valica i confini del tempo e si proietta nel nostro
presente. Per che farne? Tutta la questione sta lì: come passare da NOTAV a
SIVALDISUSA.
Sergio Ghirardi
PRELIMINARI PER UNA DEFINIZIONE
DELL’UNITÀ DEL PROGRAMMA RIVOLUZIONARIO
I. Il
capitalismo società senza cultura
1.
Si può definire la cultura come l’insieme dei momenti attraverso i quali
una società si pensa e si mostra a se stessa scegliendo, dunque, tutti gli
aspetti dell’impiego del suo plusvalore disponibile, cioè l’organizzazione di
tutto quel che supera le necessità immediate della sua riproduzione.
Tutte le forme di società capitalista
appaiono oggi, in ultima analisi, fondate sulla divisione stabile - sulla scala
delle masse - e generalizzata tra i dirigenti e gli esecutori. Trasposta sul
piano della cultura, questa caratterizzazione significa la separazione tra il «capire» e il «fare», l’incapacità
di organizzare a un qualunque fine (sulla base dello sfruttamento permanente)
il movimento in costante accelerazione del dominio della natura.
In effetti, per la classe capitalista,
dominare la produzione vuol dire obbligatoriamente monopolizzare la
comprensione dell’attività produttrice, del lavoro. Per riuscirci, il lavoro è
da un lato sempre più parcellizzato, reso cioè incomprensibile a chi lo esegue;
d’altro lato è ricostituito come unità da un organo specializzato.
Quest’organo, tuttavia, è anch’esso subordinato alla direzione propriamente
detta che è la sola detentrice, da un punto di vista teorico, della
comprensione d’insieme poiché è questa che impone il suo significato alla
produzione sotto forma di obiettivi generali. Tuttavia questa comprensione e
questi obiettivi sono a loro volta invasi dall’arbitrario poiché sono separati
dalla pratica e anche da ogni conoscenza realistica che nessuno ha interesse a
trasmettere.
L’attività sociale globale è così
scissa in tre livelli: l’atelier, l’ufficio, la direzione. La cultura nel senso
della comprensione attiva e pratica della società, è ugualmente scissa in
questi tre momenti. L’unità non è ricostituita, infatti, che per mezzo di una
trasgressione costante degli uomini fuori della sfera in cui li rinchiude
l’organigramma sociale, in modo, dunque, clandestino e parcellare.
2.
Il meccanismo di costituzione della cultura si riduce dunque a una
reificazione delle attività umane che assicura la fissazione del vivente e la
sua trasmissione sul modello della trasmissione delle merci, la quale si sforza
di garantire un dominio del passato sul futuro.
Un tale funzionamento culturale entra
in contraddizione con l’imperativo costante del capitalismo che consiste
nell’ottenere il consenso degli uomini e nel sollecitarne in ogni istante
l’attività creatrice nel quadro ristretto in cui li imprigiona. L’ordine capitalistico,
insomma, non vive se non a condizione di proiettare incessantemente dinanzi a
sé un nuovo passato. Ciò è particolarmente verificabile nel settore
specificamente culturale, la cui pubblicità periodica è tutta fondata sul
lancio di false novità.
3.
Il lavoro tende così a ridursi alla mera esecuzione, diventando dunque
assurdo. Man mano che la tecnica prosegue la sua evoluzione, essa si diluisce, il
lavoro si semplifica e la sua assurdità aumenta.
Quest’assurdità si estende, però, agli
uffici e ai laboratori: le determinazioni finali delle loro attività si trovano
fuori, nella sfera politica della direzione complessiva della società.
D’altra parte, mentre l’attività
d’ufficio e di laboratorio è integrata al funzionamento complessivo del
capitalismo, l’imperativo di un recupero di quest’attività gli impone
d’introdurre la divisione capitalistica del lavoro, cioè la parcellizzazione e
la gerarchizzazione. Il problema logico della sintesi scientifica entra allora
in collisione con il problema sociale della centralizzazione. Contrariamente
alle apparenze, il risultato di queste trasformazioni è un’incultura
generalizzata a tutti i livelli della conoscenza: la sintesi scientifica non si
fa più, la scienza non comprende più se stessa. La scienza non è più per gli
uomini attuali una chiarificazione vera e attiva del loro rapporto con il
mondo; essa ha distrutto le antiche rappresentazioni senza essere capace di
fornirne di nuove. Il mondo diventa allora illeggibile come unità; solo degli
specialisti detengono qualche frammento di razionalità ma si confessano
incapaci di trasmetterselo.
4.
Questo stato di fatto genera un certo numero di conflitti. Esiste un
conflitto tra la tecnica, la logica propria dello sviluppo dei processi
materiali (e in larga misura anche la logica propria dello sviluppo delle
scienze) da una parte e dall’altra la tecnologia che è un’applicazione
rigorosamente selezionata dalle necessità di sfruttamento dei lavoratori per
sconfiggerne le resistenze. Esiste un conflitto tra gli imperativi capitalisti
e i bisogni elementari degli uomini. Così la contraddizione tra le attuali
pratiche nucleari e un gusto di vivere ancora assai generalmente diffuso trova
un’eco fin nelle proteste moralizzatrici di certi fisici. Le modificazioni che
ormai l’uomo può operare sulla propria natura (dalla chirurgia estetica alle
mutazioni genetiche guidate) esigono anche una società auto controllata e
l’abolizione di tutti i dirigenti specializzati.
Ovunque, l’enormità delle nuove
possibilità pone l’alternativa pressante: soluzione rivoluzionaria o barbarie
da fantascienza. Il compromesso rappresentato dalla società attuale non può
vivere che grazie a uno statu quo che
gli sfugge da tutte le parti, incessantemente.
5.
L’insieme della cultura attuale può essere qualificata di alienata nel
senso che ogni attività, ogni istante di vita, ogni idea, ogni comportamento
non hanno senso che fuori di sé, in un altrove che non essendo più il cielo è
ancora più inquietante da localizzare: un’utopia, nel senso stretto della
parola, domina, infatti, la vita del mondo moderno.
6. Poiché il capitalismo, dall’atelier
al laboratorio, ha svuotato l’attività produttrice di ogni senso intrinseco, si
è sforzato di porre il senso della vita negli svaghi, orientando, a partire di
là, l’attività produttrice. Poiché per la morale prevalente la produzione è
l’inferno, la vera vita sarebbe il consumo, l’uso dei beni.
Questi beni, però, non sono nella
maggior parte di nessuna utilità se non per soddisfare qualche bisogno privato
reso ipertrofico per soddisfare le esigenze del mercato. Il consumo capitalista
impone un movimento di riduzione dei desideri attraverso la regolarità della
soddisfazione di bisogni artificiali che restano bisogni, senza essere mai
stati desideri; i desideri autentici sono, infatti, costretti a restare allo
stadio della non realizzazione (oppure compensati sotto forma di spettacoli).
Moralmente e psicologicamente, il consumatore è in realtà consumato dal
mercato. Poi e soprattutto, questi beni non hanno un uso sociale poiché
l’orizzonte sociale è interamente chiuso dalla fabbrica; fuori dalla fabbrica
tutto è arredato in deserto (la città dormitorio, l’autostrada, il parcheggio…)
Il luogo del consumo è il deserto.
Tuttavia, la società costituita nella
fabbrica domina assolutamente questo deserto. Il vero uso dei beni è
semplicemente di facciata sociale poiché tutti i segni di prestigio e di
differenziazione comprati diventano nello stesso tempo obbligatori per tutti
come tendenza fatale della merce industriale. La fabbrica si ripete negli
svaghi sul modo dei segni con un margine, tuttavia, di trasposizione possibile,
sufficiente a permettere di compensare qualche frustrazione. Il mondo del
consumo è in realtà quello della messa in spettacolo di tutti per tutti, come
dire quello della divisione, dell’estraneità e della non partecipazione tra
tutti. La sfera direttiva è il regista severo di questo spettacolo, composto
automaticamente e poveramente in funzione d’imperativi esteriori alla società,
significati tramite valori assurdi (gli stessi direttori, in quanto uomini vivi
possono essere considerati come vittime di questo regista robot).
7.
Al di fuori del lavoro, lo spettacolo è il modo dominante di messa in
rapporto degli uomini tra loro. È solo attraverso lo spettacolo che gli uomini acquisiscono
una conoscenza - falsificata - di certi aspetti d’insieme della vita sociale,
dagli exploit scientifici o tecnici fino ai tipi di comportamento regnanti,
passando per gli incontri tra i Grandi. Il rapporto tra autori e spettatori non
è altro che una trasposizione del rapporto fondamentale tra dirigenti ed
esecutori. Risponde perfettamente ai bisogni di una cultura reificata e
alienata: il rapporto stabilito all’occasione dello spettacolo è di per sé il
portatore irriducibile dell’ordine capitalista. L’ambiguità di ogni arte
rivoluzionaria è dunque nel fatto che il carattere rivoluzionario di uno
spettacolo è sempre avvolto da quel che c’è di reazionario in ogni spettacolo.
Per questo il perfezionamento della
società capitalista significa, in buona parte, il perfezionamento del
meccanismo della messa in scena. Meccanismo complesso, evidentemente, poiché
deve essere prima di tutto il difensore dell’ordine capitalista, evitando anche,
però, di apparire al pubblico come il delirio del capitalismo; deve riguardare
il pubblico integrandosi degli elementi di rappresentazione che corrispondono -
per frammenti - alla razionalità sociale. Deve sviare i desideri di cui
l’ordine dominante vieta la soddisfazione. Il moderno turismo di massa, per
esempio, fa vedere città o paesaggi non per soddisfare il desiderio autentico
di vivere in un tale ambiente (umano e geografico) ma dandolo come puro
spettacolo rapido di superficie (per finalmente permettere di far mostra del
souvenir di questi spettacoli, come valorizzazione sociale). Lo strip-tease è
la forma più netta dell’erotismo degradato in semplice spettacolo.
8.
L’evoluzione e la conservazione dell’arte sono state comandate da queste
linee di forza. A un polo, l’arte è puramente e semplicemente recuperata dal
capitalismo come mezzo di condizionamento della popolazione. All’altro polo,
essa beneficia della grazia capitalistica di una perpetua concessione
privilegiata: quella dell’attività creatrice pura, alibi per l’alienazione di
tutte le altre attività (il che è infatti il più caro degli orpelli sociali).
Nello stesso tempo, però, la sfera riservata all’attività creatrice libera è la
sola dove ci si ponga praticamente, in tutta la sua portata, la questione
dell’impiego profondo della vita, la questione della comunicazione. Qui si
fondano, nell’arte, gli antagonismi tra partigiani e avversari delle ragioni di
vivere ufficialmente dettate. Al non senso e alla separazione stabiliti
corrisponde la crisi generale dei mezzi artistici tradizionali, crisi che è
legata all’esperienza o alla rivendicazione di sperimentare altri usi della
vita. Gli artisti rivoluzionari sono quelli che chiamano all’intervento e che
sono essi stessi intervenuti nello spettacolo per confonderlo e distruggerlo.
II.
La politica rivoluzionaria e la cultura
1.
Il movimento rivoluzionario non può essere niente di meno che la lotta
del proletariato per il dominio effettivo e la trasformazione deliberata di
tutti gli aspetti della vita sociale; innanzitutto per la gestione della produzione
e la direzione del lavoro da parte dei lavoratori che decidano direttamente di
tutto. Un tale cambiamento implica, immediatamente, la trasformazione radicale
della natura del lavoro e la costituzione di una nuova tecnologia tendente ad
assicurare il dominio dei lavoratori sulle macchine.
Si tratta di un vero rovesciamento di
segno del lavoro che porterà a un buon numero di conseguenze, la cui principale
è senza dubbio lo spostamento del centro d’interesse della vita dagli svaghi
passivi fino a un’attività produttiva di nuovo tipo. Il che non significa che
dall’oggi al domani tutte le attività produttive diventeranno di per sé
appassionanti. Tuttavia, operare per renderle appassionanti, attraverso una
riconversione generale e permanente dei fini altrettanto che dei mezzi del
lavoro industriale, sarà in ogni caso la passione minima di una società libera.
Tutte le attività tenderanno a fondere
in un corso unico, ma infinitamente diversificato, l’esistenza fino allora
separata tra gli svaghi e il lavoro. La produzione e il consumo si annulleranno
nell’uso creativo dei beni della società.
2.
Un tale programma non propone agli esseri umani alcun’altra ragione di
vivere che l’auto costruzione della loro propria vita. Ciò presuppone non solo
che gli uomini siano obiettivamente liberati dai bisogni reali (fame, ecc.), ma
soprattutto che comincino a proiettare di fronte a loro dei desideri - anziché
le compensazioni attuali -; che rifiutino tutte le condotte dettate da altri
per reinventare sempre la loro realizzazione unica; che non considerino più la
vita come il mantenimento di un certo equilibrio, ma pretendano un
arricchimento senza limite dei loro atti.
3.
La base di tali rivendicazioni non è oggi un’utopia qualunque. È
innanzitutto la lotta del proletariato, a tutti i livelli; insieme a tutte le
forme di rifiuto esplicito o d’indifferenza profonda che deve combattere in
permanenza, con tutti i mezzi, l’instabile società dominante. È anche la
lezione dello scacco essenziale di tutti i tentativi di cambiamento meno
radicali. Infine è l’esigenza che affiora in certi comportamenti estremi della
gioventù (il cui addomesticamento risulta meno efficace) e di qualche ambiente
artistico, ora.
Questa base, però, contiene anche
l’utopia come invenzione e sperimentazione di soluzioni ai problemi attuali
senza preoccuparsi di sapere se le condizioni della loro realizzazione siano
immediatamente date (bisogna notare che la scienza moderna fa già un uso
centrale di questa sperimentazione utopica). Quest’utopia momentanea, storica,
è legittima; ed è necessaria poiché è in essa che s’innesca la proiezione di
desideri senza la quale la vita libera sarebbe vuota di contenuto. Essa è
inseparabile dalla necessità di dissolvere la presente ideologia della vita
quotidiana, dunque i legami dell’oppressione quotidiana, affinché la classe
rivoluzionaria scopra, con uno sguardo disincantato, gli usi esistenti e le
libertà possibili.
La pratica dell’utopia non può
tuttavia avere senso che strettamente collegata alla pratica della lotta
rivoluzionaria. La quale, a sua volta, non può fare a meno di una tale utopia
per pena di sterilità. I ricercatori di una cultura sperimentale non possono
sperare di realizzarla senza il trionfo del movimento rivoluzionario, che non
potrà egli stesso instaurare delle autentiche condizioni rivoluzionarie senza
riprendere gli sforzi dell’avanguardia culturale per la critica della vita
quotidiana e la sua ricostruzione libera.
4.
La politica rivoluzionaria ha dunque per contenuto la totalità dei
problemi della società. Essa ha come forma una pratica sperimentale della vita
libera attraverso la lotta organizzata contro l’ordine capitalista. Il
movimento rivoluzionario deve così diventare esso stesso un movimento
sperimentale. Fin da ora, là dove esiste, deve sviluppare e risolvere il più
profondamente possibile i problemi di una micro società rivoluzionaria. Questa
politica completa culmina nel momento dell’azione rivoluzionaria, quando le
masse intervengono bruscamente per fare la storia e scoprono anche la loro
azione come esperienza diretta e come festa. Esse intraprendono allora una
costruzione cosciente e collettiva della vita quotidiana che un giorno più
niente potrà fermare.
P. Canjuers (Daniel Blanchard),
G. E. Debord, il 20 luglio 1960*[*]
[*] “Che cosa
pensi della piattaforma stabilita da me e Canjuers come base di discussione tra
l’IS e certe minoranze marxiste del movimento operaio?” G. Debord, Lettera
a Patrick Straram, 25 agosto 1960.
“ Il 20 luglio è stato pubblicato in Francia un documento redatto da P.
Canjuers e G. Debord sul capitalismo e la cultura. Si tratta di una piattaforma
di discussione nell’IS in vista di un suo collegamento con alcuni militanti
rivoluzionari del movimento operaio.”
Informazioni situazioniste, in Internazionale Situazionista n°5, pag.
11, dicembre 1960, Nautilus Torino 1994.