“ma sé mati a sbarar col canon, non vedé
che xe gente?”
(sentita sul fronte austro-russo nella
prima guerra mondiale)
“ una volta, tanto tempo fa, abbiamo
provato anche noi a fare una guerra ma poi c’è scappato il morto e abbiamo
lasciato perdere”
( un componente del popolo Nuer – Sudan
nel racconto di Edward Evans Pritchard)
Le grandi guerre mondiali, che erano state spacciate
ai fanti nelle trincee e alle popolazioni sotto i bombardamenti, come “le
guerre che avrebbero posto fine alla guerra”, oggi, trascorsi un numero
sufficiente di anni per trarre dei rendiconti, ci rivelano, in sostanza, di
avere posto fine alla pace.
Ogni anno nascono nuovi conflitti nei cinque
continenti; questa, se vogliamo, non sarebbe propriamente una novità.
La novità consiste nel fatto che nessuno di questi
conflitti termina più per sfociare in un nuovo pacifico equilibrio: a questo ci
hanno condotto la vittoria delle Nazioni Unite nella Seconda guerra mondiale
con il suo corollario, la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, stabilita
con esplicite intenzioni simboliche nel centro del commercio mondiale (il World
Trade Center) a New York.
Le guerre, da malattia acuta di un sistema, si sono
convertite nella sua malattia cronica, nella sua epidemia. Ma anche nella fonte
ultima della sua sopravvivenza. Nessuno vince definitivamente, nessuno
definitivamente è sconfitto. Tutto senza posa si ricrea mentre tutti si
uccidono senza posa, con tutte le armi che riescono a produrre, a comprare, a
raccogliere.
Ecco, appunto: le armi.
Che i mercanti d’armi fomentino i conflitti è cosa
nota, e che, in certo qual modo, esiste da sempre: si chiama “creazione del
bisogno”, un’attività cui ogni imprenditore si dedica, se tiene al successo dei
propri commerci.
Il punto è che la crescita verticale della produzione
industriale viene a scontrarsi in questi ultimi decenni con la limitata capacità
di assorbimento delle merci da parte dei mercati.
Il commercio più redditizio, l’unico commercio al
riparo dalle crisi, diviene dunque, quello in cui l’acquisto non è demandato al
singolo consumatore finale, ogni giorno più difficile da sedurre, ma è
competenza riservata a pochi soggetti, posti al vertice di governi. Costoro
sono meravigliosamente sensibili agli argomenti dei piazzisti della guerra per
diverse, ben comprensibili ragioni: perché sono pochi e corromperli anche con
somme ingenti, costa pur tuttavia poco; perché sempre più spesso si sono
arrampicati fino a quelle responsabilità precisamente con il fine di
arricchire, sia personalmente sia come esponenti di cordate politico-mafiose e
militari di cui sono gli emissari; perché è insita nel loro ruolo politico la
necessità di “agire” militarmente o perlomeno di organizzare la
prevenzione contro questo o quel pericolo.
Infatti, la giustificazione prima
dell’ingiustificabile, l’esistenza cioè di stati nazionali armati gli uni
contro gli altri, viene argomentata da sempre con l’esistenza minacciosa di
nemici potenti ed aggressivi, le nazioni vicine un tempo, il misterioso ed
indefinibile “terrorismo internazionale” oggi.
Spesso si parla di missioni umanitarie, ricercando
alleati fra i rappresentanti politici che si oppongono ai governi in carica (magari
condotti e mantenuti al potere dalle stesse industrie che forniscono i ribelli)
fomentando anch’essi scontri armati tra fazioni rivali, modellate sotto il
travestimento rivoluzionario come vere e proprie organizzazioni mafiose.
Ma anche a livello dei traffici illegali le armi hanno
un canale privilegiato e i traffici scorrono indisturbati accanto alla morte
per fame e per sete dei rifugiati, di coloro che con la guerra perdono uno
spazio da coltivare e da abitare, dove far crescere i propri bambini cercando
di sottrarli al destino che li vuole soldati e assassini già in tenera età.
Un intero continente come l’Africa sta pagando da
secoli l’ingordigia dei mercanti di morte.
I campi profughi sono sempre più numerosi e sempre
meno visibili, da lì non si sfugge se non per finire magari dopo percorsi
letali nel deserto e sulle carrette del mare in qualche altro “centro di
accoglienza” che meglio sarebbe definire campo di concentramento.
Le guerre quindi svolgono una duplice funzione di
sostegno dei mercati (non solo quello delle armi): da un lato mostrano la
consistenza delle minacce con cui si giustificano gli sprechi deliranti legati
all’apparato bellico; dall’altro consumano armi vecchie ed ammortizzate,
creando spazio per armi nuove da acquistare e testare sui civili inermi, alla
faccia delle convenzioni internazionali che nessuno stato ha interesse a far
rispettare. E tutti gli organismi internazionali sono organizzazioni di stati,
nelle quali gli esseri umani concreti non hanno per definizione alcuna voce in
capitolo.
Armi da cui tutti hanno da guadagnare: i produttori
che le producono, i politici che le acquistano, gli operai che le fabbricano, i
sindacalisti che li difendono, i mercenari specialisti che le utilizzano, i
giornalisti che le descrivono, i preti, gli imam, i rabbini che le benedicono.
Sovente perfino i pacifisti e i volontari che le contrastano.
Nella recentissima crisi finanziaria in Grecia mentre
si chiedeva il massimo sacrificio alla popolazione tutta, si manteneva
l’impegno degli acquisti di armi dalla Germania per cifre che potrebbero
sfamare molte persone per anni. Né si può escludere che questa fosse
precisamente una delle condizioni perché il prestito tedesco fosse erogato: che
le commesse all’industria germanica, cioè, fossero onorate.
Talmente immenso è l’indotto del commercio delle armi,
che si può per certi aspetti guardare l’intera produzione mondiale, e l’intera
politica mondiale, come un unico sistema di supporto all’industria della
guerra.
Una parola vale la pena di spendere per mostrare come
anche la corsa al nucleare per la produzione di energia sia sovvenzionata e possa
esistere solo grazie agli investimenti militari dei paesi che la producono. Il
cosiddetto “nucleare di pace” è sempre stato e sempre sarà un settore in
perdita, integralmente antieconomico: il suo UNICO fine è sempre stato quello
di ammortizzare parte degli sprechi miliardari del “nucleare di guerra”, di
assorbirne le scorie, di giustificarne gli investimenti.
Tutto il sistema che ruota intorno alle spese militari
è opaco, protetto da segreto di stato e impossibile da verificare per i
cittadini, che non conoscono più nemmeno quali formazioni private agiscano a
fini di guerra e in “loro nome” nelle varie disgraziate guerre del mondo. E
questa opacità è il migliore rifugio per i malfattori installati in tutte le
cancellerie del pianeta, intenti a combattersi gli uni contro gli altri, per
meglio e più capillarmente spolpare il mondo intero, l’intera umanità.
Porre la questione delle armi
e del loro commercio perciò significa già ripensare l’intero sistema politico
ed economico nel quale siamo imprigionati
filmato della serata incontro con Carlo Tombola membro di TransArmsEurope e di Opal
martedì 15 giugno 2010 promosso dal MeetUp dei Grilli milanesi: