Il Fatto quotidiano
ha lanciato in questi giorni una serie di articoli sul tema di chi resta e di
chi parte. Si tratta di una tematica che merita di essere sottratta ai vari
sciovinismi e competizioni tra frustrati e ignoranti.
Gli articoli che hanno
proposto il tema non suscitano, a mio avviso, un interesse particolare mentre i
molti commenti in proposito sono uno spaccato eloquente del provincialismo e
dell’atavica esterofilia opportunista di molti italiani (Franza o Spagna purché se magna).
Credo che nessun
cambiamento sociale sarà possibile senza sottrarsi anche al manicheismo
imbecille che oppone becere regressioni nazionalistiche o regionalistiche al
falso internazionalismo mercantile di un’Europa del business e delle banche.
Per questo ho provato a inserire i seguenti commenti stonati, come una nota
blues, nel coacervo di un dibattito etero diretto (si potrebbe dire
dall’estero) dai valori della civiltà del lavoro spettacolare - mercantile
dalla quale mi preservo come dalla peste meglio che posso.
Immagino male cosa
faccia un italiano all'estero perché ho anche difficoltà a immaginare un
italiano all'estero. Eppure quando ho abitato un decennio a Parigi, tanti anni
fa, mi divertivo a riconoscere gli italiani da lontano dalle scarpe e non
sbagliavo quasi mai.
Secondo la sociologia
della civiltà del lavoro, sono un italiano all'estero anch'io. In realtà mi
sono sempre sentito estero a ogni nazionalismo e apprezzo soltanto le radici
affettive, culturali e culinarie della mia nazione d'origine. Ci torno spesso.
Da 40 anni a questa parte non sono mai stato più di tre mesi senza passare da
Genova. Ci sto bene qualche giorno, poi comincio a sentire la muffa. Muffa
clericale e provincialismo da tifosi di calcio che non sopporto e non
sopportavo neppure quando da studente universitario riuscivo a vivere coi
quattro soldi che ricevevo in cambio dell'aver messo sul mercato la mia voglia
e capacità da dilettante assoluto di giocare con il pallone.
Come diceva mio padre
anche prima di Gaber: io non mi sento italiano ma lo sono ogni volta che ne ho
voglia. Cioè soprattutto all'estero, quando lo sciovinismo becero di altri
stupidi nazionalismi da schiavi e da frustrati fa sentire il suo fascismo
caratteriale. Per lo stesso motivo, quando sono in Italia, mi sento fortemente
francese mentre in realtà come ogni uomo libero sono sempre cittadino di un
mondo che, se non ci diamo una mossa a livello internazionale, sta per sparire
come la specie umana.
Ho abbandonato da
anni Parigi perché come tutte le megalopoli è diventata un asfittico
supermercato per turisti del business e business del turismo. Eppure ci passo
ogni due o tre mesi muovendomi dalla campagna dove ho messo le mie nomadi
radici, ma mi capita di rado di incontrare italiani. Adoro la cucina thai e
laotiana e conosco i posti giusti.
A me interessano
piuttosto gli esseri umani che al posto della nazionalità hanno un cuore nomade
e un'intelligenza internazionalista. Ne ho incontrati sempre dappertutto,
mescolati a quei turisti che sono trattati dovunque altrettanto male che a casa
loro. Ne ho incontrati in Asia, in Sudamerica e a Camogli. Una volta ho
incontrato a Katmandu un genovese (come me) che non avevo mai visto in piazza
De Ferrari e dintorni e che ho incontrato di nuovo, per caso, una seconda e
ultima volta, a Quito. Il mondo è
piccolo.